Il 19 ottobre 1593 giunge a Leida un viaggiatore partito da Francoforte. E' lì per creare l'orto botanico di quella recentissima Università (fondata appena 18 anni prima). Con lui viaggiano molte piante rare, tra cui una collezione di preziosi bulbi. Quel viaggiatore è Carolus Clusius, uno dei botanici più importanti del Rinascimento. E da quei bulbi nascerà, letteralmente, l'industria olandese dei tulipani. Clusius chierico vagante della botanica Già anziano, almeno secondo gli standard dell'epoca, quando si trasferì in Olanda Clusius aveva alle spalle una vita alquanto movimentata. Fiammingo francofono, in gioventù aveva abbracciato il protestantesimo e, dopo aver abbandonato gli studi giuridici su consiglio di Melantone, era andato a studiare medicina prima a Montpellier, poi a Parigi. A segnarlo furono soprattutto i tre anni (1551-1554) trascorsi a Montpellier, dove divenne segretario di Rondelet, che aiutò nella redazione dell'Histoire naturelle des poissons. Clusius partecipò a entusiasmanti esplorazioni botaniche in Linguadoca e in Provenza, apprese le tecniche per tenere un erbario, affinò le sue capacità di osservare, distinguere e descrivere le particolarità di ciascuna specie. Non conseguì la laurea e non divenne medico: fu un naturalista, che studiava piante (e animali) non per le loro proprietà medicinali, ma di per se stesse. Nel decennio successivo visse prevalentemente nelle Fiandre; grazie all'esperienza editoriale acquisita come collaboratore di Rondelet e alla grande predisposizione per le lingue - giunse a padroneggiarne otto o nove - incominciò a collaborare con lo stampatore Christophe Plantin; il suo primo lavoro fu una traduzione dell'erbario (Cruydeboeck) di Rembert Dodoens dal fiammingo in francese (Histoire des plantes, 1557). Nel 1564-1565, come precettore di Jacobus Fugger, figlio del celebre finanziere Anton, visitò la Spagna e il Portogallo, ne esplorò la flora e strinse duraturi contatti con eminenti studiosi iberici. Visitando Lisbona e Siviglia, le porte d'ingresso delle piante provenienti dalle colonie, Clusius incontrò l'oggetto privilegiato dei suoi studi: la flora esotica. Frutto di quel viaggio furono tre traduzioni dei lavori di Garcia de Orta, Nicolas Monardes e Cristobal de Acosta sulle piante medicinali e aromatiche americane e asiatiche; e la sua prima opera originale, Rariorum aliquot stirpium per Hispanias observatarum ("Su alcune piante rare osservate in Spagna", 1476), in cui descrisse circa 200 nuove specie, sia iberiche sia esotiche. L'opera, oltre che per essere la prima dedicata alla flora spagnola, si segnala per la precisione e la completezza delle descrizioni (che guadagnarono all'autore l'appellativo di "principe dei descrittori") e l'accuratezza delle illustrazioni xilografiche. Tulipani, amore a prima vista In appendice a quell'opera compare anche la descrizione di una pianta che non ha nulla a che fare con la flora iberica: un tulipano. L'incontro fatale avvenne a Malines (o Mechelen), la città fiamminga dove Clusius visse più o meno stabilmente tra il 1567 e il 1573. Nel 1562 un mercante di Anversa, di cui non ci è stato tramandato il nome, insieme a un carico di tessuti ricevette da un fornitore turco un dono inatteso; un pacco di bulbi. Pensando fossero un tipo di cipolle, ne mangiò una parte, e piantò il resto nell'orto (o, secondo una versione più romantica, li buttò nella compostiera). La primavera successiva produssero insoliti fiori gialli e rossi; il mercante li mostrò a Joris Rye, un mercante di Malines, che possedeva un giardino pieno di piante rare e corrispondeva con molti botanici. Neppure Rye li conosceva, ma, con il permesso dell'amico, trapiantò i bulbi nel suo giardino e ne scrisse ai suoi corrispondenti, tra cui anche il nostro Clusius. Il quale, a meno che ne avesse già visti in Spagna - cosa non documentata, ma non impossibile - deve aver visto in fioritura quella che sarebbe diventata la "sua" pianta nella primavera del 1567, nel giardino di Rye a Malines. Fu amore a prima vista: incominciò a ricercarne i bulbi e i semi, a coltivarli, a moltiplicarli, a studiarli. Nel maggio 1573, una nuova svolta: la fama che Clusius si era acquistato con le sue pubblicazioni e con la torrenziale corrispondenza con i botanici e i botanofili di mezza Europa (nel corso della sua vita, creò un'immensa rete di corrispondenti, circa 300 persone, cui si calcola abbia scritto non meno di 4000 lettere; ce ne sono rimaste circa 1300) convinse l'imperatore Massimiliano II a chiamarlo a Vienna per creare un orto botanico sul modello di quelli italiani. Dopo una vita di gavetta, in cui a malincuore aveva dovuto barcamenarsi tra lavori editoriali, impieghi occasionali e il soccorso degli amici, era anche una promozione sociale, con una posizione a corte e un generoso compenso di 500 fiorini all'anno. All'epoca Vienna era il crocevia tra l'Europa e l'Impero ottomano, un nemico minaccioso ma anche un partner commerciale con il quale la corte imperiale intratteneva costanti rapporti diplomatici; i turchi erano celebri per i loro giardini (e i tulipani erano i fiori che apprezzavano più di ogni altro). Uno dei principali fornitori di Clusius divenne l'ambasciatore imperiale a Istanbul, da cui ricevette regolari invii di piante e di bulbi. Inoltre il botanico si legò di amicizia con Ogier Ghislain de Busbecq, il quale, prima di lasciare Vienna, gli donò la sua collezione di piante rare, tra cui una grande quantità di semi e bulbi di tulipano. Da Vienna a Leida Ma le vicissitudini del nostro botanico viaggiatore non erano finite. Nel 1576 l'imperatore Massimiliano II morì all'improvviso; il suo successore, il fervente cattolico Rodolfo II, fece trasformare il giardino di Clusius in un maneggio, trasferì la corte a Praga e incominciò ad allontanare i protestanti da ogni incarico. Nonostante ciò, Clusius si trattenne a Vienna per un decennio, realizzando molte spedizioni botaniche nella Bassa Austria, nelle Alpi austriache, nel Burgerland e in Pannonia, grazie al sostegno del principe ungherese Boldizsàr Batthyàni. Il frutto di queste spedizioni furono due libri: Rariorum aliquot stirpium per Pannoniam, Austriam, & vicinas quasdam provincias observatarum historia (1583) e Stirpium Nomenclator Pannonicum (1584), di nuovo opere pionieristiche che descrivevano per la prima volta la flora austriaca e ungherese. Nel 1588, preoccupato per il clima di ostilità contro i protestanti e amareggiato dai ripetuti furti di piante rare dal suo giardino privato (commissionati da nobili personaggi, contro i quali Clusius era del tutto impotente), si trasferì a Francoforte, dove poteva godere della protezione di un nuovo mecenate, Guglielmo IV di Assia. Naturalmente, portò con sé le amate piante, e gli amatissimi bulbi. I quali, ovviamente, viaggiarono con lui fino a Leida, quando nel 1593, a sessantasei anni, Clusius si trasferì ancora una volta, pronto a iniziare una nuova vita. Nel giro di pochi anni, anche grazie alla collaborazione di Dirk Cluyt, giardiniere e farmacista, la competenza di Clusius e la sua estesa rete di corrispondenti permisero di creare un giardino piccolo (un rettangolo di 35 per 40 metri), ma ricco di più di 1000 specie; non era solo un orto dei semplici, ma anche un giardino di acclimatazione delle piante esotiche. Dopo la penisola iberica, le Fiandre e la corte viennese, ancora una volta Clusius si trovava nel posto giusto per alimentare la sua passione di studioso, collezionista e coltivatore di queste piante: oltre alle centinaia di corrispondenti sparsi per l'Europa, a fornire nuovi esemplari per le aiuole dell'Hortus erano ora anche i capitani delle navi della VOC (la Compagnia Olandese delle Indie Orientali). E ogni primavera, le magnifiche fioriture di tulipani (Clusius giunse a coltivarne, descriverne e catalogarne 34 varietà) attiravano folle di visitatori; molti gli chiedevano bulbi dei più belli, dei più strani (quelli con screziature o fiamme). Ma per il vecchio botanico erano oggetti di studio e, per cavarsi d'impiccio, chiedeva in cambio somme astronomiche; non si trattava di avarizia: si era sempre dimostrato generoso delle sue piante con corrispondenti e amici (secondo alcuni calcoli, avrebbe inviato loro non meno di un migliaio di bulbi di tulipani, contribuendo più di ogni altro a diffonderli in Europa). Con le sue ricerche, cercava tra l'altro la soluzione a un mistero: perché un bulbo che un anno aveva petali monocromi, l'anno successivo presentava fiamme o rotture in un altro colore? Egli fu il primo a capire che dietro a quelle "rotture" che tanto appassionavano i collezionisti c'era qualcosa che non andava; notò che i bulbi delle piante affette dal "mal della striscia" erano più piccoli e decisamente più deboli di quelli sani. Solo intorno al 1930 si sarebbe dimostrato che si tratta effettivamente di una malattia, provocata dal cosiddetto virus del mosaico del tulipano. Esattamente come era successo a Vienna, per aggirare la riluttanza di Clusius a separarsi dai suoi bulbi, gli appassionati si rivolsero ai ladri. Due volte nell'estate del 1596 e di nuovo nella primavera del 1598, essi penetrarono nel suo giardino privato e portarono via ingenti quantità di bulbi (almeno cento nel corso di una sola incursione). Amareggiato, Clusius decise di rinunciare a coltivarli e di distribuire quanto rimaneva tra i suoi amici. Inoltre si facevano sentire l'età e le numerose infermità, che negli ultimi anni della sua vita lo costrinsero a una quasi totale immobilità. Rimaneva vivace e attiva la sua mente, che gli permise di aggiungere due capolavori alla sua opera: Rariorum plantarum historia (1601) e Exoticorum libri decem (1605), ancora una volta dedicate alle piante esotiche e rare che aveva ricercato, coltivato e studiato per tutta la vita, di cui si troverà una sintesi nella sezione biografie. Intanto, per serendipity, i furti ebbero un risultato positivo: i preziosi bulbi sottratti a Clusius si diffusero in tutto il paese e, incrociandosi con varietà meno pregiate, divennero i progenitori delle varietà e degli ibridi che hanno fatto dell'Olanda il paese dei tulipani. Clusia, un abbraccio soffocante Diverse piante rendono omaggio a questo grandissimo botanico. In primo luogo, com'è giusto, Tulipa clusiana, una bella specie di tulipano che egli per primo descrisse e contribuì a diffondere. Ma anche Primula clusiana e Gentiana clusii che ci ricordano che Clusius fu un pioniere dell'esplorazione botanica delle Alpi e fu tra i primi a coltivare piante alpine nel giardino di Vienna. E naturalmente, il genere Clusia, che gli fu inizialmente dedicato da Charles Plumier, per essere poi confermato da Linneo. Questo genere, che dà il nome alla famiglia Clusiaceae (nota anche come Guttifereae) sarebbe sicuramente piaciuto al destinatario per la sua singolarità. In primo luogo è caratterizzato da una grande varietà di forme e di habitat: neotropicale, ovvero presente solamente nella fascia calda dell'America centrale e meridionale, comprende alberi, arbusti e liane, che possono vivere in pianura come in montagna, nelle aree costiere sabbiose o rocciose, nelle savane, nelle foreste a galleria. Alcune sono semiepifite: iniziano la loro vita come epifite, germogliando su alberi o su altre epifite a molti metri dal suolo, quindi sviluppano lunghe radici che giungono fino a terra; a questo punto si trasformano in grandi arbusti che possono anche strangolare e uccidere l'albero ospite. Alcune Clusiae sono tra i pochi alberi ad aver sviluppato una fotosintesi CAM (metabolismo acido delle crassulacee), di solito presente in specie succulente erbacee: tipiche di zone molto aride, di giorno chiudono gli stomi delle foglie per evitare un'eccessiva traspirazione; di notte, li aprono per permettere la fissazione del carbonio. Sebbene si tratti in genere di specie di grandi dimensioni, alcune Clusiae sono coltivate anche nelle nostre case come piante d'appartamento. La più comune è C. major (più nota come C. rosea), che in vaso si presenta come un attraente alberello con foglie ovoidali lucide e coriacee e i vistosi fiori semidoppi che possono ricordare quelli delle camelie. Altre informazioni sulle straordinarie caratteristiche ecologiche di questo genere nella scheda. C'e anche Clusiella Nel 1860 Planchon e Triana pubblicano un'epifita da poco scoperta nelle foreste d'altura di Grenada; le foglie e l'aspetto generale assomigliano al mirto o a certe Apocynaceae, ma diverse caratteristiche dei fiori femminili (né i fiori maschili né i frutti erano noti) spingono i due botanici a collocarla tra le Clusiaceae, e a denominarla Clusiella elegans: assomiglia infatti a una Clusia in miniatura. Nacque così un secondo genere dedicato a Clusio. Per circa un secolo C. elegans rimase l'unica specie del genere, finché intorno al 1950 vi furono incluse una specie prima assegnata a Astrotheca, quindi a Clusia, e cinque nuove specie. Al momento Clusiella è un genere di 8 specie, e non appartiene più alle Clusiaceae, ma alle Calophyllaceae (precedentemente tribù Calophylleae delle Clusiaceae). Sono perenni semi epifite che vivono nelle foreste tropicali di montagna dell'America centrale e del Sud America settentrionale, dal Costa Rica al Brasile settentrionale. Poiché vivono sulla sommità degli alberi, sono difficili da raccogliere e da studiare. Sono arbusti rampicanti o ricadenti, dioci, che secernono un lattice di colore chiaro. Specie nella pagina inferiore, le foglie presentano pori resiniferi e anche i fiori, con cinque piccoli sepali imbricati e cinque petali convessi di dimensioni maggiori, producono resine. C. elegans è abbastanza diffusa nella Cordigliera occidentale della Columbia; con tralci lunghi fino a due metri, si arrampica sulle chiome di alberi o si mescola ad altri arbusti, talvolta con portamento ricadente. Ha delicati fiori bianchi, talvolta delicatamente soffusi di rosa. Qualche approfondimento nella scheda.
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Il nome di Aldrovandi è di quelli che tutti hanno sentito nominare, ma pochi conoscono in modo diretto. L'immensa opera di colui che per quarant'anni a Bologna tenne la prima cattedra di storia naturale, più che nelle pochissime opere a stampa, in cui l'erudizione e le notizie più diverse soffocano i pochi risultati scientifici originali, trovò espressione essenzialmente nel "Teatro della natura", il più antico museo di storia naturale. Ma se la sua Syntaxis plantarum fosse stata pubblicata, forse la storia della botanica sarebbe in parte diversa. A ricordarlo una carnivora acquatica, diffusa in tutto il mondo, ma a rischio di estinzione. Il grande "Teatro" di un naturalista enciclopedico Bologna, 1549. Un gruppo di cittadini bolognesi incappa in un'accusa di eresia; tra di loro il nobile e colto Ulisse Aldrovandi, che si affretta ad abiurare. Ciò nonostante, è inviato a Roma dove è costretto a trattenersi in attesa del processo. Per passare il tempo, incomincia a interessarsi di archeologia ma soprattutto fa amicizia con un medico francese, Guillaume Rondelet, che si trova a Roma al seguito del cardinale di Tournon. Rondolet, padre fondatore dell'ittiologia, trascina il nuovo amico nelle sue scorribande nel mercato ittico; travolto dal suo entusiasmo, Aldrovandi (che fino ad allora aveva studiato diritto, matematica, logica, filosofia, ma anche medicina) incomincia ad appassionarsi di scienze naturali. Liberato da ogni sospetto d'eresia, quando finalmente rientra a Bologna, decide di completare gli studi medici e di approfondire la zoologia, la mineralogia, la botanica. Una decisione che sarà rafforzata l'anno successivo da un secondo incontro: quello con il grande Luca Ghini che nell'estate del 1551 trascorreva le vacanze a Bologna. Nasce così la vocazione di scienziato universale di Ulisse Aldrovandi, uno dei più illustri studiosi della natura del Cinquecento italiano. Presso l'ateneo bolognese fu lettore di logica dal 1554, insegnante di botanica medica dal 1556, e dal 1561, per quasi quarant'anni (fino al 1600) titolare della prima cattedra di scienze naturali (lectura philosophiae naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus). Si noti che, diversamente da quanto avveniva in quegli anni negli altri atenei, non era una cattedra di "materia medica", cioè di botanica applicata alla medicina, ma proprio l'insegnamento a tutto tondo delle scienze naturali. Un'altra novità si aggiunse almeno dal 1567, quando Aldrovandi prese a far seguire le lezioni accademiche da esercitazioni pratiche, basate sull'osservazione diretta di esemplari naturalistici ("mostrando realmente le cose, doppo il legger che haveva trattato nella lettione"). Nacque così il più antico museo di storia naturale: nel corso di un cinquantennio, Aldrovandi raccolse nella sua stessa casa un'imponente collezione di naturalia; proprio per il focus sul mondo naturale e gli intenti didattici, era ben diversa dai gabinetti principeschi e delle Wunderkammer che nascevano proprio in quegli anni. Con orgoglio, Aldrovandi ci informa che nel 1595 la sua collezione comprendeva 18.000 esemplari, tra cui 7000 piante essiccate "agglutinate" (cioè incollate) in quindici volumi, animali, minerali, pietre, 66 cassettiere con 4500 cassetti contenenti semi, frutti, gomme, fossili, oggetti esotici. Nella coscienza dell'importanza didattica dell'immagine, ma anche per colmare i "buchi" della collezione (un microcosmo che mirava a riprodurre, nel modo più completo possibile, il macrocosmo), Aldrovandi volle aggiungere 3000 splendidi acquarelli, raccolti in 17 volumi, e 5000 matrici xilografiche conservate in 14 armadi. Le matrici, realizzate con estrema accuratezza da artisti dotati, avrebbero dovuto andare a illustrare un'immensa Historia naturalis, che lo studioso bolognese continuò a scrivere per tutta la vita ma che, come vedremo meglio, pubblicò in ben piccola parte. Tutto questo, insieme ai volumi della ricca biblioteca e i suoi stessi manoscritti, andava a formare un mirabile "Teatro della natura" che divenne ben presto, oltre che uno strumento didattico, un'attrazione che richiamavano visitatori da tutta Europa: nel corso della vita dello scienziato, come risulta dal registro dei visitatori, furono più di 1500, sempre accolti con disponibilità e calore, secondo la testimonianza dell'olandese Hugo Blotius, bibliotecario imperiale, che la visitò ammirato nel 1572. Frutto di cinquant'anni di fatiche e di grandi spese (in una lettera al fratello, il naturalista dichiara di avervi investito tutto il proprio patrimonio), il "Teatro della natura" venne realizzato in primo luogo con una mirata attività di raccolta diretta. Fin dagli anni degli studi, Aldrovandi organizzò numerose spedizioni naturalistiche; le più celebri sono l'escursione dell'estate 1554, che, insieme a Calzolari e Anguillara, lo portò sulle pendici del monte Baldo, ancora oggi noto come "giardino d'Europa" per la grande varietà di vegetazione; e la grande spedizione del 1557, quando insieme ai suoi allievi percorse un ampio giro che, a partire dalle valli ravennati, lo portò fino ai monti Sibillini, quindi sulla via del ritorno lungo l'appennino marchigiano e romagnolo. Secondo Anna Pavord, questo viaggio segnò una tappa nella storia della botanica, perché fu la prima escursione naturalistica appositamente organizzata allo scopo di esplorare sistematicamente la flora di un'area specifica. Altri esemplari furono donati da sponsor e corrispondenti, in particolare i membri di quella stupefacente rete di studiosi che nel Rinascimento collegava tra loro i naturalisti europei e, nonostante le guerre e le infinite difficoltà di viaggi che avvenivano ancora a cavallo, in carrozza, ma spessissimo a piedi, produceva un incessante scambio di libri, semi, piante essiccate, minerali e... idee. Diverse piante esotiche erano coltivate nell'Orto botanico della stessa università di Bologna, che venne creato dal senato bolognese nel 1568 (quarto dopo Pisa, Padova e Firenze) su istanza di Aldrovandi che ne fu il curatore fino alla morte. Altre notizie sulla vita del grande studioso nella sezione biografie. L'eredità botanica di Aldrovandi In questo blog abbiamo incontrato già molti esempi di opere importanti e innovative che, mai pubblicate, rimasero manoscritte a coprirsi di polvere negli scaffali di una biblioteca. La sorte delle opere di Aldrovandi fu, forse, ancora peggiore. Nella sua vita scrisse moltissimo; le sue opere manoscritte ammontano a più di 300, per un totale di oltre 160 volumi. Solo 14 furono pubblicate. Genio universale e enciclopedico, Aldrovandi scrisse di molti argomenti, anche non attinenti alle scienze naturali (la sua prima opera a stampa, dedicata alla statuaria romana, è uno dei primi esempi della rinascita dell'interesse per l'archeologia); molte opere sono compilazioni antiquarie, che lasciano largo spazio alle favole e al gusto del meraviglioso; moltissimi sono cataloghi di vario tipo. Si tratta per lo più di lavori preparatori alla progettata Storia naturale, che avrebbe dovuto toccare tutti gli aspetti della natura. Come possiamo evincere dalle tre parti direttamente pubblicate dall'autore o dalla sua vedova (i volumi sugli uccelli, gli insetti e gli altri animali "senza sangue"), similmente alla quasi contemporanea Historia animalium di Gessner (che fu tra i corrispondenti del bolognese), essa si collocava a cavallo tra passato e futuro; da una parte c'è l'enciclopedismo, il tributo alla cultura antica, il gusto antiquario, che li infarciscono di citazioni e informazioni tratte in modo apparentemente acritico dagli autori del passato; dall'altra la ricerca diretta sulla natura che si traduce in preziose osservazioni sull'anatomia e la fisiologia di ciascun animale. Fu questa commistione di naturalismo e gusto antiquario che fece giudicare severamente Aldrovandi da Buffon, secondo il quale, sfrondandola di tutte le informazioni inutili e estranee, la sua opera si sarebbe potuta utilmente ridurre a un decimo. In effetti vi si riconosce una concezione della conoscenza diversa da quella del Settecento illuminista o dei nostri giorni: l'opera di un Aldrovandi o di un Gessner è espressione dell'ideale rinascimentale della copia, parola latina che indica l'abbondanza, la ricchezza, espressa iconograficamente dall'immagine della cornucopia. L'obiettivo dello studioso rinascimentale è quello di presentare, nel modo più esaustivo possibile, ogni possibile informazione sul proprio soggetto, quindi tutto ciò che è stato scritto, tutto ciò che si crede comunemente, oltre a tutto ciò che si è osservato con i propri occhi. Ecco perché ai dati naturalistici direttamente osservati e osservabili si affiancano in modo così massiccio informazioni culturali di ogni genere, comprese le favole e il meraviglioso. Già segnata da questa concezione, che sarebbe stata ben presto superata da Galileo e dalla sua scuola, la fama futura di Aldrovandi fu ancor più danneggiata dalla pubblicazione postuma di alcune opere in forma largamente alterata. E' il caso dell'unico lavoro edito dedicato al mondo vegetale, Dendrologia, pubblicato nel 1667 da Ovidio Montalbani, uno scrittore particolarmente incline al fantastico. E' a un'opera come questa (e alla celebre Monstruorum historia, pubblicata nel 1642) se allo scienziato bolognese è toccato di passare alla storia, oltre che come un pedante collezionista di citazioni antiquarie, come un credulone acriticamente convinto della reale esistenza di draghi, basilischi, sciapodi, cinocefali e sirene. Inedita rimase invece la maggiore opera botanica di Aldrovandi (che, consapevole del suo valore, ne raccomandò inutilmente la pubblicazione nel testamento), la Syntaxis plantarum. E' un manoscritto in due volumi, per un totale di più di 1000 carte, collocabile tra il 1561 e il 1600, che consiste in una raccolta di 1700 tavole sinottiche, in cui le piante vengono descritte, catalogate e confrontate tra loro in tabelle collegate a disegni. Ciascuna tavola è strutturata in base a un criterio di classificazione o "chiave" in ordine gerarchico, stabilendo classi, generi e specie, allo scopo di individuare categorie comuni alle "diciotto mila specie diverse" osservate da Aldrovandi. Molte tavole sono dedicate agli organi principali delle piante, per esempio i frutti, i semi, le radici, il fusto; quelle più complesse riguardano i fiori, con chiavi come il numero, il colore, le differenze esterne degli stami e delle antere. Altre si basano su caratteristiche fisiologiche, come il tempo della fioritura, sulla base del quale viene anche compilato un calendario mensile; le tavole in cui le piante vengono divise in base alla stazione in cui vivono e alla distribuzione geografica fanno di Aldrovandi un antesignano della fitogeografia. Come Cesalpino, un altro discepolo di Ghini, Aldrovandi giunge così a proporre un proprio sistema di classificazione. Egli divide le piante in "perfette" e "imperfette" e individua 17 gruppi, a partire dagli alberi per giungere agli "imperfecti" (piante senza semi, cioè in gran parte funghi), usando sei chiavi principali: natali loco, vivendo conditione, partium habitu, quantitate, discriminibus, naturae dotis, ovvero l'habitat, la forma biologica, l'aspetto delle parti, la quantità delle parti stesse, i caratteri distintivi, le doti di natura. Per singole categorie, egli porta esempi concrete di species. Alcuni studiosi lo ritengono l'antesignano anche del sistema binomiale: in effetti, nel suo erbario e nelle tavole acquarellate molte piante sono contrassegnate da un nome basato su genere e specie; del resto, Gaspard Bauhin, che per primo doveva divulgare questa innovazione, era stato uno dei suoi allievi. Infatti, anche se non furono mai pubblicate, le tavole sinottiche di Aldrovandi nacquero come strumento didattico utilizzato nelle sue seguitissime lezioni; per questa via hanno influenzato il successivo progresso della botanica grazie ai numerosi allievi che furono educati a quel metodo. Accanto a questo lascito immateriale, alla sua morte Aldrovadi lasciò quello concretissimo del suo Teatro; legò infatti per testamento il suo intero patrimonio scientifico, ovvero i manoscritti, la biblioteca e il museo, al Senato bolognese, a condizione che fosse conservato integro; che gli inediti fossero pubblicati; che l'accesso fosse libero a tutti. Il grande museo divenne così di proprietà della città e dell'Università e per tutto il Settecento continuò ad esserne una delle principali attrazioni. Nell'Ottocento varie collezioni furono smembrate tra diversi istituti universitari, finché nel 1907 l'insieme fu almeno in parte ricostruito in una sala di Palazzo Poggi. Perduti molti reperti più deperibili, rimangono scheletri, animali impagliati, fossili, minerali. Il preziosissimo erbario (ne sono rimasti quasi 5000 fogli), uno dei più antichi che ci sia pervenuto, è invece costodito presso l'Orto botanico: benché le piante non siano disposte secondo un criterio riconoscibile e le note si limitino al solo nome, senza indicazione del raccoglitore e del luogo di raccolta, è ragguardevole per l'antichità (fu iniziato probabilmente nel 1551), la vastità, la cura del montaggio. Sono invece custodite presso la Biblioteca Universitaria le tavole acquarellate; quanto alle matrici xilografiche, poche ci sono giunte: molte di esse andarono a alimentare le stufe durante la Seconda guerra mondiale. Grazie a un grande progetto dell'Università di Bologna, l'intero erbario (consultabile qui), tutte le opere a stampa e gli acquarelli sono stati digitalizzati e sono raggiungibili attraverso questo bellissimo sito, davvero un mirabile "Teatro della natura" virtuale. Androvanda, una pianta in pericolo Nel 1734, Gaetano Lorenzo Monti, botanico bolognese, presentò una memoria in cui, richiamandosi all'abitudine introdotta da Linneo di onorare gli studiosi più illustri con il nome di una pianta, deplorava che egli avesse dimenticato il grande Aldrovandi. Propose così di nominare Aldrovandia una pianta palustre (la pubblicazione avverrà solo qualche anno dopo in De Aldrovandia novo herbae palustris genere, 1747). Questa specie era già nota ed era stata descritta nel 1696 dal botanico inglese Plukenet, con il nome di Lenticula palustris. Linneo tenne conto dell'appunto di Monti e nel 1753 ne ufficializzò la denominazione, ribattezzando la pianta Aldrovanda vesiculosa (commise forse un piccolo errore ortografico). A. vesiculosa è l'unico rappresentante del suo genere (anche se altre specie forse sono esistite in passato); è un membro della famiglia Droseraceae, da cui differisce in quanto acquatica, ma come le cugine è carnivora; per diversi aspetti ricorda la più nota Dionaea, tanto che Darwin la definì "una Dionaea d'acqua in miniatura". E' un'erbacea priva di radici, che fluttua sulla superficie dell'acqua; le foglie, distribuite regolarmente lungo il fusto in piccoli verticilli a forma di ruota idraulica (da cui il nome inglese water wheel) e sorrette da piccioli con sacche d'aria che aiutano il galleggiamento, hanno lamina reniforme, che si chiude in due valve, dentellate sui bordi. Quando una preda si avvicina, si chiudono rapidamente, intrappolandola. La loro velocità di reazione (10-20 millisecondi) è considerata la maggiore del regno vegetale. La pianta vive in tutti i continenti, escluse le Americhe, ma è diventata sempre più rara a causa della restrizione dell'ambiente naturale e dell'inquinamento delle acque stagnanti ma pulite che predilige, ricche di anidride carbonica e povere di fosforo e di azoto. Se all'inizio del '900 era presente in 379 stazioni naturali note, nel corso del secolo queste si sono drammaticamente ridotte a sole 50, due terzi delle quali concentrate in un'area tra Polonia e Ucraina. In Italia un tempo doveva essere diffusa in un vasto areale; ne sono state recensite 17 stazioni, ma tutte si sono estinte nel corso dell'ultimo secolo: l'ultimo avvistamento, relativo al lago di Sibolla presso Lucca, risale al 1985. In vari paesi, sono in atto azioni per la tutela e la reintroduzione di questa rara specie; in Italia un progetto pilota ha preso avvio nelle regioni Piemonte e Lombardia; esemplari, provenienti dalla Svizzera, sono attualmente coltivati in due orti botanici: il Giardino botanico Rea di Trana, in provincia di Torino, e l'Orto botanico dell'Università di Pavia. Qualche approfondimento nella scheda. Per volontà di un papa umanista e grazie alla traduzione di un rifugiato greco in fuga di fronte all'avanzata turca, le opere botaniche di Teofrasto escono dall'oblio. Al benemerito - anche se a volta fantasioso - traduttore, Teodoro Gaza, verrà più tardi (forse) dedicato un tesoro vegetale: la prorompente Gazania. Una traduzione libera, ma meritoria Condividendo il destino di Omero e Platone, nell'Occidente medievale Teofrasto fu completamente dimenticato. I più informati sapevano che si era occupato anche di botanica, e qualcuno pensava avesse scritto De Plantis, un trattatello comunemente attribuito a Aristotele (oggi si ritiene sia stato scritto da un altro peripatetico molto più tardo, Nicola di Damasco, vissuto nel I sec. a. C.). La situazione iniziò a cambiare nel Quattrocento, quando gli umanisti riscoprirono la cultura greca. Nel 1423 Giovanni Aurispa, che fu anche tra i primi a insegnare il greco, ritornò da un viaggio a Costantinopoli con 238 volumi di testi greci. Tra di essi c'era anche un manoscritto con De historia plantarum e De causis plantarum di Teofrasto. A metà secolo, una copia del manoscritto si trovava nella biblioteca papale. Sul soglio pontifico sedeva un papa umanista, Niccolò V, che creò una vasta raccolta di codici di autori classici (ne contava 1200 al momento della sua morte), primo nucleo della futura Biblioteca apostolica vaticana. Poiché all'epoca lo studio del greco era appena agli inizi, il papa varò un vasto programma di traduzioni incaricando numerosi studiosi di tradurre integralmente dal greco in latino significative opere greche, sia pagane sia cristiane. In questo contesto, nel 1449 alla corte pontificia approdò Teodoro Gaza, un sapiente greco che oggi definiremmo un rifugiato. Nativo di Salonicco, nel 1440 era giunto in Italia per sfuggire all'avanzata turca (com'è noto, la caduta di Costantinopoli avverrà qualche anno dopo, nel 1453). Di lingua madre greca, aveva appreso il latino e aveva anche una certa cultura scientifica, avendo seguito studi di medicina presso lo Studio ferrarese. Autore fra l'altro di una grammatica greca, era un umanista molto noto e apprezzato. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Teodoro si presentava come il candidato ideale per tradurre le opere scientifiche di Aristotele e della sua scuola. Il papa gli affidò dunque sia la traduzione delle due opere botaniche di Teofrasto, sia di quelle zoologiche di Aristotele (De historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium). Un lavoro molto complesso che impegnò il greco per almeno cinque anni e si protrasse anche dopo al morte di Niccolò V. Un aneddoto, probabilmente apocrifo, vuole che, insoddisfatto del misero pagamento ricevuto dal successore Callisto III, abbia gettato platealmente il compenso ricevuto nel Tevere. Il grande lavoro di traduzione iniziò proprio con le opere di Teofrasto: prima De historia plantarum (che risulta terminata all'inizio del 1451), quindi De causis plantarum. Delle difficoltà incontrate da Teodoro ci informa la lettera dedicataria premessa alla splendida edizione manoscritta approntata per il pontefice. In primo luogo, lo stile di Teofrasto è difficile di per sé: le sue opere non erano state pensate per la pubblicazione, erano piuttosto materiali di lavoro, continuamente rivisti, di cui il filosofo si serviva per i suoi corsi; ne risulta uno stile sintetico e ellittico. In secondo luogo, il manoscritto di cui servì Teodoro (l'unico di cui disponesse) era pesantemente corrotto. In terzo luogo, egli non era un esperto di piante e sia la terminologia botanica sia l'identificazione delle specie descritte ponevano molti problemi. Per risolverli, Teodoro studiò attentamente la Naturalis historia di Plinio, che a sua volta dipendeva in parte dalle opere di Teofrasto e ne attinse la terminologia, la chiave per l'identificazione delle specie, le informazioni per interpretare i passi corrotti o colmare le lacune. Dunque la sua traduzione, all'epoca molto ammirata anche per l'eleganza formale, è molto libera e in molti passi errata. In ogni caso, fu decisiva per rimettere in circolazione Teofrasto. Nel 1483 uscì la prima edizione a stampa della traduzione di Gaza, seguita tra il 1495 e il 1498 dalla prima edizione a stampa dell'originale greco, nell'ambito della grande edizione delle opere di Aristotele per i tipi di Aldo Manuzio. Teofrasto ritornava a circolare, nel momento più opportuno per fecondare la rinascita della botanica. Gazania, un tesoro vegetale Nel 1791 Joseph Gaertner, nella sua importante De Fructibus et Seminibus Plantarum (una delle prime opere in cui nello studio delle piante è stato usato estesamente il microscopio) riclassificò una specie sudafricana già nota a Linneo come Gorteria rigens, creando il nuovo genere Gazania. Poiché l'autore non lasciò spiegazioni, sull'etimologia del nome ci sono due scuole di pensiero: secondo alcuni deriva dal sostantivo greco gaza, che significa "tesoro reale"; secondo la maggioranza degli studiosi, è un omaggio al nostro Teodoro Gaza; Gaertner fu un grande tassonomista e un pioniere degli incroci e della genetica, ed è credibile che apprezzasse colui che riportò in auge Teofrasto. Ovviamente, mi schiero con la seconda ipotesi, che permette al blog di ospitare la bellissima Gazania, forse (insieme a Gerbera) il più noto tra i numerosi generi di margherite sudafricane. L'altra possibile etimologia ha lasciato però traccia nella lingua inglese, in cui la Gazania è chiamata anche treasure flower, probabilmente in riferimento all'esplosiva e prorompente fioritura di molte specie e forse anche ai caldi e brillanti colori. Gazania raggruppa erbacee annuali e perenni originarie dell'Africa australe, in particolare del Sud Africa; il numero delle specie è altamente incerto perché (la cosa non sarebbe piaciuta a Teodoro Gaza, ma avrebbe sommamente divertito Teofrasto) alcune specie sono così variabili da aver mandato in tilt generazioni e generazioni di tassonomisti. Chi fosse interessato a scoprire perché, troverà un approfondimento nella scheda. E' certo invece che, soprattutto sotto forma dei numerosissimi ibridi, è una delle più popolari piante da giardino, celebre per la facilità di coltivazione, la resistenza alla siccità, la prolungata fioritura. La gamma dei colori offerti è ricchissima: giallo, bronzo, arancio, rosa, salmone, rosso aranciato, bianco, talvolta con strisce e macchie di colore contrastante. Nessuna esigenza se non il sole; come il girasole, sono eliotropiche (il capolino si orienta seguendo il corso del sole) e i fiori si chiudono nelle giornate nuvolose e dopo il tramonto. Il medico, filosofo e botanico rinascimentale Andrea Cesalpino è il primo a tentare una classificazione delle piante. Anche se a noi può sembrare bizzarra, è perfettamente coerente con la logica aristotelica e con le conoscenze del tempo, tanto che il suo De plantis è considerato il libro più importante della botanica prima di Linneo. A ricordarlo Caesalpina, un genere che per ironia è un vero rebus tassonomico. Strumenti per organizzare il caos Nel Cinquecento, l'afflusso sempre crescente di piante dall'Oriente e soprattutto delle Americhe aveva scompigliato le file della botanica: ormai essa assomigliava a un campo di battaglia in cui i soldati non sapevano più in quale ruolo dovevano combattere, tanto che qualcuno finiva nel posto sbagliato. L'immagine non è mia: si deve a Andrea Cesalpino, colui che per primo cercò di portare ordine in questo caos. Fin dal vecchio Dioscoride, due erano stati criteri seguiti per organizzare le piante negli Herbaria, i libri di botanica: il più comune era l'ordine alfabetico (in genere sulla base dei nomi greci, come in Mattioli e Fuchs); più raramente, le piante potevano essere raggruppate sulla base di criteri empirici privi di ogni rigore, per lo più connessi alle proprietà terapeutiche vere o presunte. Analogamente i vegetali erano disposti nelle aiuole dei nascenti orti botanici: ancora nel Seicento, in quello di Montpellier le troveremo schierate in ordine alfabetico, con tanto di etichetta con il nome greco. Cesalpino decise di seguire una strada del tutto innovativa: classificare le piante sulla base delle loro caratteristiche intrinseche. Lo fece armato di due strumenti interpretativi non sempre in accordo tra loro: la logica aristotelica e l'osservazione diretta del mondo vegetale, che aveva appreso dal maestro, il grande Luca Ghini. Da Aristotele - e dal suo allievo Teofrasto, l'unico che nell'antichità avesse già tentato questa strada - trasse il metodo, i procedimenti logici e molti concetti fondamentali: per classificare i componenti di un insieme, bisogna procedere per somiglianze e differenze, e per farlo in modo corretto occorre distinguere tra somiglianze sostanziali e accidentali (sono i concetti aristotelici di "sostanza" e "accidente"). Quali sono le proprietà sostanziali di una pianta? Quelle che permettono alla pianta di essere pianta, ovvero di esplicare le proprie funzioni vitali. Poiché le piante sono vive, esse sono dotate di ciò che Aristotele chiamava "anima vegetativa": il principio che governa ogni essere vivente e fa sì che si nutra, cresca, si riproduca. Per Cesalpino, due sono le funzioni essenziali delle piante: il nutrimento e la riproduzione; dunque, saranno gli organi che presiedono a queste funzioni a fornire i criteri di classificazione. La pianta attraverso le radici assorbe il nutrimento, che attraverso il fusto (in base a qualcosa di analogo alla circolazione del sangue, di cui come medico Cesalpino fu uno dei primi brillanti studiosi) giunge agli organi riproduttivi che grazie ad esso potranno esplicare la funzione più importante di ogni essere vivente: riprodursi. Poiché, come tutti i suoi contemporanei, Cesalpino ignorava del tutto la riproduzione sessuale delle piante, ne consegue che gli organi da osservare saranno non tanto i fiori, quanto i frutti e i semi. Degli altri organi della pianta (come le radici e le foglie) si terrà sì conto, ma solo per le classificazioni più minute, in particolare per distinguere specie affini. Saranno invece meri accidenti, da scartare come criteri di classificazione, non solo il gusto, l'odore, il colore (che variano in base al luogo in cui cresce la pianta, o addirittura tra piante selvatiche e coltivate), ma anche gli usi che ne fa l'uomo, comprese le proprietà farmaceutiche, che per secoli erano state il criterio di classificazione fondamentale. Ma prima di procedere alla classificazione, bisogna definire gli enti da classificare. Ancora una volta Cesalpino ricorre ad Aristotele, da cui riprende i concetti di specie (il singolo oggetto) e genere (il raggruppamento di oggetti che condividono caratteristiche simili). Mentre non usa ancora la parola genere nel significato attuale (i suoi generi sono gruppi molto più vaghi, che piuttosto corrispondono a famiglie o gruppi anche più ampi), egli fu il primo a definire la specie nel significato moderno, fornendo anche un criterio di verifica sperimentale: appartengono alla stessa specie piante che si assomigliano nella totalità delle loro parti (al di là delle piccole differenze accidentali) e queste caratteristiche rimangono invariate nelle piante nate dai semi. Il sistema di Cesalpino Come si sarà notato, il ragionamento di Cesalpino è totalmente deduttivo; procede cioè dall'alto verso il basso, dal generale al particolare (all'opposto del metodo induttivo, che procede dall'osservazione di casi particolari per giungere a conclusioni generali). Ciò significa anche che la sua classificazione ingabbia il mutevole mondo vegetale in una serie di categorie del tutto artificiali, che raramente corrispondono alla realtà (è stato notato che, tra i suoi gruppi, l'unico ad avere una corrispondenza con la realtà, confermato dalle ricerche successive, è quello delle Ombrellifere). Ma questo non annulla il valore pionieristico della sua opera: anche la classificazione di Linneo è del tutto artificiale; bisognerà attendere l'Ottocento perché le conoscenze dei botanici siano sufficienti per procedere a una credibile classificazione naturale. D'altra parte, misuriamo la strada intercorsa tra i due nel fatto che Cesalpino credeva che la sua classificazione fosse naturale e corrispondesse all'ordine dato da Dio all'Universo, mentre Linneo era ben consapevole dell'artificiosità della propria. Torniamo a Cesalpino, che espose i propri criteri di classificazione nei primi due libri del suo capolavoro botanico, De plantis, in sedici volumi (1583), cui segue la trattazione di 1500 specie, organizzate per gruppi sistematici. Il procedimento di Cesalpino segue la logica binaria (fu anche il primo a fornire delle chiavi di classificazione basate sull'opposizione dicotomica). In primo luogo i vegetali sono divisi in due grandi categorie, basate sull'organo che trasporta il nutrimento dalle radici ai frutti: piante legnose (questa categoria raggruppa gli alberi e gli arbusti); piante non legnose (questa categoria raggruppa i suffrutici e le erbacee). All'interno di ciascuno dei raggruppamenti principali, Cesalpino distingue poi cinque sottocategorie, in base al rapporto tra frutto e seme: frutto con un solo seme; semi ripartiti in due loculi; semi ripartiti in tre loculi; semi ripartiti in quatto loculi; semi ripartiti in più di quattro loculi. Ciascuna sottocategoria può a sua volta suddividersi in raggruppamenti minori, in base all'osservazione di caratteristiche particolari dei frutti e talvolta anche dei fiori (Cesalpino fu tra i primi a osservare la posizione dell'ovario, al di sopra o al di sotto degli altri organi fiorali); in totale, i gruppi sono 32, comprendendone anche uno riservato alle piante senza semi, in cui Cesalpino inserisce funghi, muschi e alghe. Ancora una volta mescolando intuizioni moderne e i limiti della scienza del suo tempo, egli era convinto che gli appartenenti a questo gruppo si riproducessero per generazione spontanea. Non diede invece alcuna importanza alle foglie (per la scoperta della fotosintesi bisogna attendere la fine del Settecento), cui attribuiva una semplice funzione di protezione dei frutti e dei semi. Il capolavoro di Cesalpino non ottenne il successo che meritava. Anche se un certo interesse per una classificazione sistematica delle piante si ritrova in alcuni sui contemporanei, la strada maestra percorsa dalla botanica del Rinascimento fu quella dei commenti a Dioscoride e degli erbari, destinati a medici e farmacisti, visto che la botanica continuava ad essere ancella della medicina. Oltre a questa situazione oggettiva, contribuì il fatto che il libro era stato stampato senza illustrazioni (erano state preparate le xilografie, ma, lo sponsor, il granduca di Toscana Cosimo era morto prima della pubblicazione e il figlio Francesco era meno disponibile a sostenere l'impresa); inoltre il linguaggio filosofico di Cesalpino risulta spesso oscuro e ostico. Esercitò tuttavia un notevole influsso su coloro che dopo di lui ne ripresero la strada (Caspar Bauhin, Ray, Pitton de Tournefort e lo stesso Linneo, che considerava Cesalpino il primo di tutti i botanici e annotò fittamente la sua copia di De Plantis). A Cesalpino (che nonostante la profonda cultura filosofica non era uno studioso libresco e aveva una notevole famigliarità con le piante) si deve anche uno dei primi e più importanti erbari, quello che approntò tra il 1555 e il 1563 per il cardinale Tornabuoni, il primo in cui le piante sono organizzate secondo criteri sistematici. Nella biografia altre notizie su questo importantissimo studioso. Il rebus di Caesalpinia E' davvero ironico che al pioniere della classificazione delle piante sia stato dedicato uno dei generi dalla storia tassonomica più travagliata. La creazione del genere Caesalpinia (che riprende la grafia latina del cognome Caesalpinus) si deve a Plumier e fu ufficializzata da Linneo nel 1753. Da allora si sono sussesseguite le dispute sui confini e la consistenza di questo genere, che nel corso di 250 anni si allargato e ristretto come una fisarmonica, tanto che alcune specie nel frattempo hanno cambiato nome più di trenta volte. Il gruppo Caesalpinia (una designazione informale proposta nel 1981 da Polhill e Vidal, per comprendere tutte le varie specie affini ora incluse, ora escluse dal genere) comprende alberi, arbusti, rampicanti e qualche erbacea della famiglia Fabaceae (ma si è anche proposto di inserirlo in una famiglia a sé, Caesalpinaceae) presenti nella zona tropicale di tutti i continenti. E' anzi proprio questa estensione, insieme alla difficoltà di individuare caratteristiche morfologiche distintive, ad aver determinato questo rebus. Nel senso più ampio, il genere è arrivato a comprendere fino 250 specie. Nell'ultimo trentennio, gli studi basati sempre di più sulla ricostruzione della storia evolutiva (filogenesi) attraverso le analisi del DNA, hanno ristretto sempre di più queste cifre. Il primo studio che va in questa direzione è proprio quello di Polhill e Vidal, i quali, nell'ambito di una revisione della tribù Caesalpineae, assegnarono al gruppo informale Caesalpinia 140 specie, distribuite in 16 generi. Vari studi che si sono susseguiti tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, hanno via via ristretto i confini del genere, fino a giungere alla drastica riduzione dello studio più recente (Gagnon et alii), che, partendo dall'esame dell'84% delle specie, giunge a conclusioni ben supportate e estremamente convincenti: il gruppo viene spezzettato in 26 generi certi e un ventisettesimo probabile; a Cesalpinia in senso stretto rimangono solo nove specie, tutte americane. E c'è anche una piccola rivincita di Cesalpino, che volle classificare le piante sulla base dei frutti: Gagnon e soci affermano infatti: "A livello di genere, i frutti sono altamente variabili e molto più utili dei fiori a fini tassonomici. Molti dei generi che abbiamo determinato qui possono essere differenziati basandosi sulle caratteristiche dei frutti". Tra le specie più note del vecchio genere Caesalpinia, probabilmente l'unica a conservare il suo nome è Caesalpinia pulcherrima, un arbusto originario delle Antille con spettacolari fioriture dal caldo colore aranciato. Diventa invece Erythrostemon gilliesii (= C. gilliesii), uno splendido arbusto coltivato anche da noi che molti si ostinano a chiamara Poinciana (un genere obsoleto che, diversamente da altri, non è stato resuscitato dall'équipe di Gagnon). Il pernambuco o pau brasil, l'albero che ha dato il proprio nome al Brasile, viene assegnato a un proprio genere monospecifico con il nome Paubrasilia echinata. Un'altra pianta tintoria abbastanza nota, C. spinosa, diventa Tara spinosa. Qualche notizia in più su Caesalpinia (o su quanto ne rimane) nella scheda. Fonte: E, Gagnon, A. Bruneau, C. E. Hughes, L. Paganucci de Queiroz, G. P. Lewis, A new generic system for the pantropical Caesalpinia group (Leguminosae), PhytoKeys 71: 1-160 (12 Oct 2016), http://phytokeys.pensoft.net/articles.php?id=9203 Nella Ferrara del Cinquecento, grazie al favore del suo duca, Antonio Brasavola impianta un orto botanico e mette alla prova le conoscenze farmaceutiche di antichi e moderni usando il metodo sperimentale. Diventa un medico così dotto da guadagnarsi un soprannome onorifico dal re di Francia e la fiducia delle maggiori teste coronate del tempo. A onorare i suoi meriti botanici, la splendida e fragrante Brassavola. Brasavola, il nuovo Antonio Musa Sebbene più recente e meno famoso degli atenei di Padova o della vicina Bologna, nel Rinascimento anche lo Studio ferrarese, ovvero l'Università di Ferrara, fu un centro di prim'ordine, caratterizzato da grande libertà e apertura culturale, capace di attirare molti studenti stranieri (basti ricordare Niccolò Copernico, che qui si laureò nel 1503). A conferirgli risonanza europea nel campo della medicina e della botanica, fu un personaggio poliedrico che a Ferrara nacque, si formò e insegnò per molti anni: Antonio Brasavola (o Brassavola). Filosofo, precoce commentatore dell'Isagoge di Porfirio (un importante testo del III secolo a.C., su cui si basava l'insegnamento della logica medievale), a soli 19 anni si laureò in filosofia e medicina. Entrato al servizio del duca Ercole II, lo accompagnò in Francia dove il giovane medico ferrarese (al momento aveva 28 anni) ebbe modo di dimostrare le sue conoscenze enciclopediche e la sua abilità dialettica in tre giorni di discussione de quodlibet scibile (ovvero su qualsiasi argomento, a scelta del pubblico) di fronte ai dottori della Sorbona; ammirato, il re Francesco I gli conferì la croce di San Michele e lo ribattezzò Antonio Musa, vedendo in lui la reincarnazione del celebre medico dell'imperatore Augusto (se ne parla in questo post). Il soprannome rimase e dal quel momento il nostro fu per sempre Antonio Musa Brasavola. Contro una scienza medica e botanica tutta libresca (come ancora troviamo anche nella grande opera di Mattioli) egli sente l'esigenza di sottoporre a verifica le reali proprietà dei semplici citati nelle opere degli antichi. Nel 1536 crea l'Orto botanico ("ingens viridarium") del Belvedere, su un isolotto messogli a disposizione dal duca, che viene sistematicamente arricchito con piante esotiche provenienti dalla Grecia e dall'Asia minore - l'area nativa dei semplici descritti da Dioscoride. Fu una delle prime istituzioni del genere, che precede di nove anni Padova: ma mentre l'orto padovano può vantarsi di essere l'orto botanico universitario più antico del mondo, essendo sopravvissuto nei secoli, quello ferrarese andò perduto con le vicissitudini del ducato estense del secondo Cinquecento; l'attuale orto botanico di Ferrara sorge in tutt'altro luogo e risale al XVIII secolo. Grazie ai numerosi viaggi che compie con il duca, Brasavola mette anche insieme uno dei più notevoli erbari del tempo; anche la pratica dell'ortus siccus, ovvero l'idea di sostituire gli erbari figurati con raccolte di piante essiccate, era ai suoi esordi, grazie a Luca Ghini e ai suoi allievi. Il medico farrese sperimenta sistematicamente l'efficacia dei semplici sia sui cani sia su detenuti messi a sua disposizione del duca; i risultati del suo lavoro pionieristico sono esposti nella sua opera maggiore, Examen omnium simplicium medicamentorum, "Esame di tutti i semplici d'uso medico"; si tratta sia di un catalogo di tutte le piante, i semi, i frutti (nonché, secondo il dettato di Dioscoride, delle pietre, terre e metalli con proprietà medicamentose) in uso nelle farmacie di Ferrara, sia una discussione delle loro reali proprietà medicinali, basate sull'osservazione diretta. Come molti suoi contemporanei, Brasavola si preoccupa della corretta identificazione delle piante citate dagli antichi; ad esempio osserva che il cedro descritto da Teofrasto e Plinio è tutt'altra cosa di quello che cresce in Liguria e in Campania, quindi non ha senso attribuire al secondo le proprietà del primo. Ma va molto più in là: è perfettamente consapevole dell'inadeguatezza delle conoscenza degli antichi: “E’ certo che neppure la centesima parte delle erbe è stata descritta dagli antichi ma ogni giorno impariamo a conoscerne di nuove”. Le conoscenze mediche dei classici, oltre ad essere spesso inficiate da fraintendimenti e cattive traduzioni, erano limitate e infarcite di errori; né si può respingere ciò che gli antichi non conoscevano e l'esperienza dimostra efficace: "Noi non vogliamo imitare coloro che rifiutano l'uso del decotto di guaiaco perché gli antichi non ne hanno parlato". Con parole quasi identiche a quelle celebri di Leonardo ("l'esperienza è madre di ogni certezza") Brasavola sottolinea la funzione insostituibile dell'esperienza, "signora di tutte le cose", sia nella ricerca di nuove specie vegetali sia nella verifica delle loro proprietà medicinali. Dottissimo in molti campi, medico appassionato e celeberrimo, conteso da sovrani e pontefici (fra i suoi pazienti illustri si annoverano, oltre ai duchi d'Este Alfonso I e Ercole II, Francesco I di Francia, l'imperatore Carlo V, Enrico VIII d'Inghilterra, il papa Paolo III), era così dedito anche al più umile dei malati da fare sempre tenere pronta la mula - quasi uno status symbol del medico del tempo - per accorrere in caso di necessità a loro capezzale anche più volte al giorno. Dimostrò la sua indipendenza di pensiero confutando le teorie che vedevano nella sifilide (il terribile "mal francese" che aveva cominciato a imperversare in Italia dopo la calata di Carlo VIII del 1495) una punizione divina, identificandone correttamente l'origine e introducendo cure innovative, tra cui, appunto, l'uso del legno di guaiaco. Qualche approfondimento nella sezione biografie. Brassavola, signora della notte Questo nobile ferrarese, di casa alla corte di principi e pontefici, non avrebbe disdegnato la pianta che ne ha eternato il nome: nobile e sontuosa è infatti la Brassavola (con due esse, mentre nella grafia del cognome del celebre medico si alternano le due forme Brasavola / Brassavola), un'orchidea che Robert Brown ribattezzò in suo onore nel 1813, quando stabilì il genere staccandolo da Epidendrum. Proprio come il suo dedicatario, pioniere della ricerca sperimentale, degli orti botanici e degli erbari, nonché di audaci operazioni chirurgiche (si dice che sia stato il primo a praticare una tracheotomia), anche la Brassavola ha giocato un ruolo pionieristico nella storia della coltivazione delle orchidee. Nel 1698 B. nodosa fu la prima orchidea ad essere importata e coltivata in Europa: dalla nativa Curaçao, grazie alle navi della Compagnia delle Indie occidentali, approdò a De Hortus, l'appena inaugurato orto botanico di Amsterdam, come attesta il catalogo redatto da Caspar Commelin, e vi fiorì la prima volta nel 1715. Con i suoi delicati fiori bianchi e il soave profumo citrato che inizia a diffondersi verso sera, si guadagnò il soprannome di "Signora della notte" e inaugurò l'inarrestabile passione per le orchidee. Linneo la descrisse in Systema naturae, assegnandola al genere Epidendrum, da cui sarà separata, appunto, per opera di Brown. Il genere Brassavola comprende una ventina di specie, tutte americane (dal Messico fino al Brasile, passando per le Antille), epifite o litofite, con uno pseudobulbo allungato da cui nasce un'unica foglia carnosa. I fiori, solitari o raccolti in racemi, bianchi o bianco-verdastri, colpiscono per le forme singolari: il labello cuoriforme di B. nodosa oppure i lunghissimi sepali e petali di B. cucullata che la fanno assomigliare a un insetto stravagante. Sono proprio queste forme estrose ad aver suscitato l'interesse degli ibridatori. Com'è noto, nella famiglia delle Orchidaceae è possibile ottenere ibridi fertili anche incrociando generi diversi, purché non troppo lontani geneticamente; è quello che, avviene per esempio, incrociando Brassavola con Laelia e Cattleya (i tre generi appartengono alla medesima sottotribù); ecco allora x Brassocattleya, i meravigliosi ibridi tra Brassavola e Cattleya; x Brassolaelia, ibridi tra Brassavola e Laelia; x Brassolaeliocattleya, che discendono da tutti e tre i generi. x Ryncovola è invece un ibrido tra Brassavola e Ryncholelya. Altre notizie nella scheda. C'è stato un tempo in cui la Spagna era la massima potenza europea; in quel momento d'oro della sua storia, il suo potentissimo sovrano, Filippo II, ordina a uno dei suoi medici personali di esplorare la natura dei suoi domini, di studiare le piante esotiche e di indagarne le virtù terapeutiche. Sarà la prima spedizione naturalistica ufficiale dei tempi moderni. Il grande medico e botanico Francisco Hernández assolve il suo compito al di là di ogni aspettativa. Ma proprio come l'oro americano, le sue scoperte non porteranno alcun frutto in patria, e andranno a fecondare la botanica italiana e europea. A ricordarlo il genere Hernandia, e l'intera famiglia delle Hernandiaceae. Il mancato siglo de oro della botanica spagnola Anche in botanica, la Spagna ha avuto - o meglio, avrebbe potuto avere - un siglo de oro. Il dominio del Nuovo mondo metteva nelle mani di Madrid le chiavi d'accesso a quel favoloso continente, un scrigno di nuove specie mai viste che faceva sognare tutti i naturalisti d'Europa. E all'inizio ne fu perfettamente consapevole: come abbiamo visto parlando di Monardes, Siviglia, sede della Casa de Contractacion, era il punto d'arrivo non solo dell'oro e dell'argento americano, ma anche delle piante esotiche, dal tabacco al girasole, dal peperoncino al Tagetes. Anche sul piano culturale e teorico, la Spagna era perfettamente attrezzata: aveva partecipato allo stesso livello degli altri paesi al grande revival di Dioscoride - di cui Andrès Laguna pubblicò una delle più importanti edizioni commentate; aveva strutture all'avanguardia (già nel 1550 Salamanca aveva il suo Teatro anatomico e nello stesso periodo Laguna creava il parco-giardino a Aranjuez); i suoi medici-botanici viaggiavano in Italia, in Francia, nei Paesi bassi, erano in contatto con tutti quelli che contavano ed erano parte propulsiva della grande rete dei naturalisti del Rinascimento. Per essere il primo paese d'Europa nello studio della botanica non mancavano dunque né l'opportunità, né le conoscenze e neppure la consapevolezza dell'enorme importanza anche sul piano economico e politico della posta in gioco; in particolare era chiarissimo l'enorme potenziale delle piante americane per la cura di vecchie e nuove malattie. Eppure qualcosa si inceppò, qualcosa non funzionò e il primato, appena intravisto, si bruciò nell'arco di due generazioni. Proprio come la potenza spagnola, trascinata alla rovina prima dalla megalomania cattolica di Filippo II poi dalla nullità boriosa di Filippo III e Filippo IV. Metafora delle potenzialità bruciate della Spagna tra Cinquecento e Seicento, piccola storia in cui si rispecchia la grande Storia, la vicenda della "Comision de Francisco Hernández a Nueva España" vale la pena di essere raccontata. La "Comision de Francisco Hernández a Nueva España" Francisco Hernández, nato nel 1514, faceva parte della prima generazione degli studiosi spagnoli che avevano partecipato con passione alla riscoperta delle opere botaniche dell'antichità. Si era costruito una solida fama di medico, botanico, naturalista, era un umanista di formazione erasmiana che stava preparando la prima traduzione spagnola dell'opera di Plinio il Vecchio. A metà degli anni '60, entrò nell'ambiente di corte fino a diventare uno dei medici di Filippo II. Non è strano dunque che il re abbia pensato proprio a lui per la missione che avrebbe dovuto, d'un solo colpo, collocare la Spagna all'avanguardia degli studi naturalistici. Nel 1570, dopo averlo nominato "protomedico generale delle nostre Indie", gli affidò il compito di dirigere la spedizione incaricata di esplorare - per una durata di cinque anni - le risorse naturali (essenzialmente a fini medici) di tre territori della corona spagnola: la nuova Spagna (il Messico e l'America centrale), il Perù, le Filippine. E' la prima spedizione scientifica ufficiale dei tempi moderni. Il re la organizzò senza badare a spese (un contemporaneo dichiarò che alla fine era costata 60.000 ducati, un cifra enorme se si calcola che con 100 ducati si poteva acquistare una casa). Un'impresa destinata a dare prestigio al monarca che tanto generosamente la finanziava, ma anche con trasparenti scopi economici: imporre il monopolio della Spagna sul mercato dei farmaci di origine americana. Dopo alcuni mesi di preparativi, nell'agosto 1570 il gruppo si mise in viaggio: oltre a Francisco Hernández, ne facevano parte suo figlio Juan, con compiti di segretario, e il geografo Francisco Dominguez, incaricato delle rilevazioni topografiche; tutti gli altri collaboratori sarebbero stati reclutati sul posto. Dopo una sosta a Gran Canaria e una tappa a Santo Domingo de Cuba, a febbraio 1571 il gruppo sbarcò a Veracruz, al tempo il maggior porto della Nuova Spagna e la principale base della penetrazione spagnola in centro America. Nei successivi tre anni la spedizione - cui si erano aggiunto numeroso personale indigeno, tra cui tre pittori, medici e erboristi, un interprete e numerosi servitori - percorse sistematicamente tutti i territori della Nuova Spagna fino ad allora esplorati, attraverso una serie di grandi giri che includevano la zona centrale del Messico, la costa del Pacifico, le regioni di Oaxaca e Michoacán, il corso del Pánuco. Per raccogliere gli esemplari, Hernández si avvalse della collaborazione di raccoglitori indigeni; per ottenere descrizione omogenee, non influenzate dalle differenze linguistiche e culturali, elaborò un dettagliato questionario-guida. Creò anche un modello formalizzato per l'erborizzazione e la raccolta, che prevedeva la visita delle stazioni più volte durante l'anno, per esaminare le piante nei diversi stadi dello sviluppo. Piante e animali vennero scrupolosamente disegnati a vivaci colori dai pittori indigeni che accompagnavano la spedizione. Nel marzo del 1574, raccolta un'immensa quantità di materiali (la descrizione di 3000 piante, 400 animali, un centinaio di minerali; semi, piante vive e essiccate, insetti, piume, scheletri e pelli di animali), Hernández rientrò a Veracruz per predisporre riordinare le collezioni, presiedere al completamento delle illustrazioni, testare di persona l'efficacia terapeutica dei semplici locali attraverso la sperimentazione diretta negli ospedali della città. Nel 1575 l'opera era terminata. Era una vera enciclopedia, senza eguali nella scienza del tempo: 24 volumi sulle piante, uno sulla fauna, uno sui minerali, 10 volumi di disegni. Tra le piante documentate l'ananas, il cacao, il mais, il tabacco, la vaniglia, i peperoncini, i pomodori, molti tipi di cactus, diversi tipo di Passiflora, Guaiacum officinale, Strychnos nux-vomica, molte piante con proprietà allucinogene come alcune specie di Datura. Di fronte a quel materiale immenso, raccolto con la determinante partecipazione degli indigeni, la nomenclatura e i criteri di classificazione europei (ancora basati su Dioscoride e Plinio) si rivelavano inutili: senza alcun pregiudizio eurocentrico, Hernández usò i nomi indigeni e spesso raggruppò le piante secondo i criteri della medicina locale (a piante diverse, con effetti terapeutici simili, venivano assegnati nomi formati dalla medesima radice). Nel marzo del 1576, dopo aver predisposto una seconda copia, Hernández affidò alla flotta reale la copia lussuosamente rilegata da donare al re, gli erbari, le piante vive, le casse con le raccolte. Si trattenne ancora un anno in Messico, a sperimentare e a curare le vittime di una epidemia. Partito il 30 marzo 1577, a settembre rientrava a Siviglia. Le strane avventure del Tesoro messicano Ma la Spagna in cui Francisco Hernández sbarcò non era quella da cui era partito. Filippo II accolse con cortesia il medico, ammirò i disegni e ne volle alcuni nei suoi appartamenti privati, ma il suo entusiasmo non andò oltre. L'opera si rivelava enorme e probabilmente aveva troppo ecceduto i suoi desideri: avrebbe voluto un catalogo di piante medicinali utili, da vendere sui mercati europei, invece si trovava nelle mani un'immensa enciclopedia naturalistica, con nomi incomprensibili e troppe concessioni alla sapienza indigena. In una Spagna alle prese con la seconda bancarotta e impegnata nel braccio di ferro con i Paesi Bassi e l'Inghilterra, la sua pubblicazione a stampa era impensabile (tra testi e disegni, secondi i calcoli dello stesso Hernández non meno di 16 volumi in folio); i soldi non c'erano, ma presumibilmente neppure la volontà. Per non perdere del tutto l'enorme investimento, forse per il declino della salute di Hernández, forse in polemica con l'impostazione troppo "indigenista", il re affidò a un altro dei medici reali, l'italiano Nardo Antonio Recchi, il compito di predisporre un'edizione abbreviata, in lingua latina, selezionando solo le piante di interesse medico. In una poesia latina, dedicata all'amico Arias Montano, Hernández, già molto malato, espresse con estrema dignità il suo dolore per essere stato emarginato dal frutto di tante fatiche. Morì nel 1587. Qualche approfondimento nella biografia. Anche l'impresa di Recchi però incontrò ostacoli. Benché epurata del suo indigenismo (si torna a far riferimento alla teoria galenica dei quattro umori), ridotta a un solo tomo (le piante passano a circa 800), più uno di tavole, e completata nel 1582, non venne mai pubblicata in Spagna. Nel 1589, al suo rientro in Italia per assumere l'incarico di protomedico del reame di Napoli, Recchi portò con sé il manoscritto, che passò al suo erede Marco Antonio Petilio; questi intorno al 1610 lo vendette a Federico Cesi, il fondatore dell'Accademia dei Lincei, che con la collaborazione di diversi membri dell'Accademia - Giovanni Faber (Johannes Schmidt), Giovanni Terrenzio (Johann Schreck), Fabio Colonna, Francesco Stelluti e Cassiano dal Pozzo - su di esso si basò per predisporre un'edizione a stampa, arricchita con commenti e nuove figure. Finalmente nel 1628, per i tipi del tipografo Mascardi a Roma, usciva la prima parte dell'opera sotto il titolo Rerum Medicarum Novae Hispaniae Thesaurus (più conosciuta come "Tesoro messicano") che riproduceva, in dieci libri, il compendio di Nardo Recchi. Tra il 1631 e il 1648, usciranno la II, III e IV parte, con aggiunte, annotazioni e indici elaborati dai membri dell'Accademia. Sarà questa la via principale che farà conoscere Hernández alla scienza europea e ne consoliderà la fama come massimo conoscitore della natura del nuovo mondo. L'opera fantasma di Hernández, intanto, conosceva una vita carsica. Già nel 1607, in Messico, Juan de Barros, in appendice al suo Verdadera medicina, cirurgia y astrologia en tres libros, aveva pubblicato un ricettario - attribuito a Hernández - in cui le piante indigene, con nomi in lingua nahuatl, sono raggruppate in base alla parte del corpo che dovrebbero curare (disposte dalla testa ai piedi). Barrios si basò, presumibilmente, su un altro manoscritto di Hernández, rimasto in Messico: forse una prima versione del suo magnus opus, forse un estratto ad uso dei medici messicani, spagnoli e indigeni. Qualche anno dopo, sempre in Messico, questa volta sulla base della silloge di Recchi, Francisco Ximénez, frate e infermiere del convento di San Domingo di Città del Messico, nel 1615 pubblicò Cuatro libros de la naturaleza y virtudes de las plantas y animales de uso medicinal en la Nueva España, in cui il testo di Hernández-Recchi, senza figure, è integrato con osservazioni dovute all'esperienza medica dell'autore. Il manoscritto originale era conservato all'Escorial e sicuramente fu visto e consultato dagli studiosi che visitarono la Spagna, fu spesso citato e sicuramente se ne trassero copie parziali e estratti. Nel 1590 Filippo II donò a un altro medico di corte, Jaime Honorato Pomar - il titolare della più antica cattedra di botanica in Spagna - un prezioso manoscritto miniato, oggi noto come Codex Pomar, che contiene circa 200 acquarelli con animali e piante del vecchio e del nuovo mondo. Le figure di 7 animali e 25 piante, come ha dimostrato il confronto con le tavole dell'edizione romana del Tesoro del Messico, derivano dal manoscritto di Hernández. Quest'ultimo nel 1671 andò perduto nell'incendio della Biblioteca dell'Escorial. L'opera originale di Hernández, tuttavia, non scomparve del tutto: alla fine del Settecento, nella Biblioteca dei gesuiti di Madrid Juan Bauptista Munoz ne scoprì una copia parziale (tre volumi di botanica, uno di zoologia, uno di opuscoli vari); ne informò il re Carlo III che, nel pieno del rinnovamento della scienza spagnola, affidò l'incarico di pubblicarla al grande botanico Casimiro Gomez Ortega. Ma la maledizione hernandina continuava: neppure Gomez Ortega vide completata la sua fatica (riuscì a pubblicare solo la parte di botanica, nel 1790). Tuttavia, proprio questo ritrovamento stimolò la stagione delle grandi spedizioni naturalistiche finanziate dalla monarchia spagnola. Hernandia, frutti senza polpa Nonostante tanta sfortuna editoriale, Francisco Hernández, forse il più grande botanico spagnolo del Rinascimento, e la sua opera mai pubblicata, perduta, sconciata, rimasero un mito per le generazioni successive. Padre Plumier, sempre molto attento ai contributi spagnoli alla conoscenza delle piante americane, non poteva certo dimenticarlo e gli dedicò uno dei suoi nuovi generi (Nova plantarum americanarum genera, 1703). Nel 1753 Linneo convalidò il genere Hernandia, considerandolo appropriato non solo perché la specie-tipo, H. sonora, fa parte della flora messicana, ma perché nel curioso frutto della pianta scorgeva una corrispondenza ironica con le vicende della spedizione nella Nuova Spagna; come in quella un enorme investimento di denaro alla fine aveva prodotto ben pochi frutti, così i frutti delle Hernandiae sono piccole e modeste drupe racchiuse in una cupola carnosa vuota. Hernandia - che dà il nome alla famiglia delle Hernandiaceae - è un genere di alberi o arbusti pantropicali che comprende circa 25 specie. La sua particolare distribuzione - Antille, coste americane e africane, isole dell'Oceano Indiano, Australia e Polinesia - si spiega con la dispersione dei frutti da parte delle onde marine. Oltre al curioso frutto "vuoto", un'altra particolarità di questo genere è la spiccata eterofillia: le foglie giovanili, in genere a tre o cinque lobi, sono estremamente diverse da quelle adulte, semplici, spesso peltate. Il legname leggero e di facile lavorazione ha fatto sì che presso diverse popolazioni sia stato usato per costruire canoe. Qualche approfondimento nella scheda. Gli epiteti di molte piante ci ricordano l'importanza dell'Università di Montpellier, culla della botanica francese. E gran parte del merito va a un grande medico, scienziato e didatta, Guillaume Rondelet, che seppe attirare nella città della Linguadoca tante giovani menti, soprattutto dal mondo protestante, diventando il vero "maestro di color che sanno" della botanica francese (e non solo) di fine Cinquecento. A ricordarlo la bella, e non abbastanza nota, Rondeletia. La botanica francese nasce a Montpellier Acer monspessulanum, Cytisus monspessulanus, Dianthus monspessulanus, Cistus monspeliensis, Chrisanthemum monspeliense, Ranunculus monspeliacus (e via elencando)... Avete notato quante piante ricordano nel nome specifico la città francese di Montpellier (in latino Monspessulanus)? E' dunque un paradiso botanico questa città della Linguadoca? In realtà, molte di queste piante non sono affatto esclusive di quella località, anzi alcune non vi crescono neppure spontaneamente. Se il nome di Montpellier è legato a tante specie, si deve al ruolo che ebbe la sua Università nella storia della botanica. Già durante il Medioevo, la scuola di medicina di Montpellier, fondata nel 1180, contendeva a Salerno, Bologna e Padova il primato negli studi medici. Con questa lunga storia alle spalle, proprio qui, nel Rinascimento, era destinata a sorgere la botanica scientifica francese. Il merito va in gran parte a un grande professore, Guillaume Rondelet, che fu per la Francia quello che Ghini fu per l'Italia e Fuchs per la Germania; un ricercatore, ma soprattutto un insegnante carismatico, capace di creare una scuola e di richiamare attorno a sé le più belle menti del tempo. Proprio a Montpellier Rondelet era nato nel 1507, figlio di un aromatarius (un po' speziale, un po' droghiere, un po' farmacista) e aveva studiato medicina, per poi perfezionarsi in anatomia a Parigi. Come anatomista dà anzi scandalo, quando - nell'intento di individuare la causa della morte -disseziona il cadavere del suo stesso figlio. All'inizio degli anni '40, entra al servizio del cardinale François de Tournon, che accompagna nei suoi viaggi in Italia e nei Paesi Bassi. Rondelet ha così modo di incontrare Ghini - da cui pare abbia appreso le tecniche per predisporre un erbario - e Aldrovandi. Durante i suoi viaggi incomincia anche a raccogliere e studiare sistematicamente la fauna acquatica che, insieme all'anatomia e alla botanica, sarà il principale campo di studio di questo scienziato dottissimo e polivalente. Tornato a Montpellier, nel 1545 diventa professore di medicina dell'università; nel 1550 (cinque anni dopo l'analogo provvedimento padovano) inserisce nel corso di studio dei futuri medici l'obbligo di raccogliere piante e organizza il primo corso ufficiale di botanica in Francia. Anziché sui libri di Dioscoride - come si farà a Parigi ancora un secolo dopo - gli allievi di Rondelet si formano sul grande libro della natura: i giovani aspiranti medici che accorrono da tutta l'Europa vengono inviati dal maestro a erborizzare nelle garrigues della Linguadoca, nelle Cevenne e nei Pirenei e a raccogliere esemplari che, preparati secondo le tecniche apprese da Ghini, saranno "dimostrati" nel corso delle lezioni. La botanica incomincia anche a emanciparsi dalla medicina: oggetto delle erborizzazioni non sono solo i semplici, ma ogni tipo di pianta, che viene ora studiata e descritta nelle sue caratteristiche; incomincia a delinearsi quell'interesse per la classificazione, la sistematica, la tassonomia che sarà il grande contributo della scuola francese alla botanica (da Tournefort a de Candolle, passando per i Jussieu). Con la sua formazione di anatomista, Rondelet abitua i suoi allievi ad osservare le parti e gli organi delle piante, a paragonarli tra di loro, a interrogarsi sulla loro funzione. Botanica e Riforma Intanto, l'Europa in generale e la Francia in particolare, si dividono tra Cattolici e Protestanti e l'Università di Montpellier diventa uno dei centri di diffusione del calvinismo nella Francia meridionale, mentre la città è teatro di scontri tra le due fazioni. E' discusso se Rondelet stesso abbia aderito o no alla fede riformata; certo a quegli ambienti fu vicino ed espresse la sua simpatia anche con gesti clamorosi, come nel 1551, quando il vescovo della città, l'umanista Guillaume Pellicier, suo buon amico, fu arrestato dal Parlamento di Tolosa con l'accusa di eresia (cioè di posizioni filoprotestanti): per protesta, Rondelet bruciò pubblicamente tutti i suoi libri di teologia. In ogni caso, mentre le università cattoliche si chiudevano ai protestanti, Montpellier diventava l'unica università francese che continuò ad accoglierli. Questa circostanza, insieme al carisma di Rondelet, che nel 1556 era diventato anche cancelliere dell'Università, attirò a Montpellier molti studenti sia dalla Francia sia dai vicini paesi protestanti. E di fede riformata erano molti di loro (anche se non tutti). Tra i più celebri nella storia della botanica ricordiamo almeno i francesi Charles de l'Écluse (ovvero Carolus Clusius, che di Rondelet per qualche tempo fu anche segretario), Matthias de l'Obel (Lobelius) e il suo amico Pierre Pena, Jacques Daleschamps; gli svizzeri Jean e Gaspard Bauhin e Felix Platter. A parte il provenzale Pena, arrivavano dai quattro angoli della Francia e anche da più lontano, e non conoscevano la flora mediterranea; furono proprio loro, nelle loro descrizioni delle piante che andavano raccogliendo nelle loro spedizioni botaniche, ad assegnare con tanta generosità l'etichetta monspessulanus, monspeliacus ecc. anche a specie non strettamente legate ai dintorni di Montpellier. Grazie alle lettere che Felix Platter (1536-1614) - studente svizzero destinato a diventare un celebre anatomista - scambiò durante l'intero corso degli studi con il padre, che viveva a Basilea, conosciamo la vita quotidiana degli studenti di Montpellier, che non era fatta solo di studi severi e di discussioni teologiche, ma anche di danze, serenate con il liuto e bevute in compagnia (anche, se sullo sfondo, incombevano le perquisizioni, gli arresti, i processi e i roghi per eresia). Scopriamo che Rondelet - proprio come Linneo dopo di lui - sapeva interessare gli studenti con piccole storie e aneddoti divertenti; era una personalità aperta, amante degli scherzi e delle battute, un padre affettuoso e bonario per i suoi studenti, che spesso accompagnava ad erborizzare. Al tempo degli studi, fu anche buon amico di un altro studente di Montpellier, il grande scrittore François Rabelais, che a lui si ispirò per la figura del dottor Rondibilis nel terzo libro del Pantagruel. Entrambi pronti alla battuta e amanti della buona tavola, a quanto pare, da giovani studenti avevano recitato insieme in ruoli farseschi. Così importante per la storia della botanica grazie al sapere trasmesso ai suoi allievi, Rondelet non ha pubblicato nulla in questo campo. La sua opera più importante è Histoire des poisson, "La storia dei pesci", pubblicato dapprima in latino (1554), quindi in francese (1558); nonostante il titolo, il trattato, l'opera fondatrice dell'ittiologia, non parla solo di pesci, ma anche di altri animali acquatici; anzi Rondelet fu forse il primo scienziato, dissezionando un delfino, a capire che non di un pesce si trattava, ma di un mammifero. Oltre ad aver dotato l'università di un piccolo hortulus, nel 1556 promosse la costruzione di un teatro anatomico. Negli ultimi anni della sua vita, funestati dallo scoppio delle guerre di religione (1562) e da problemi di salute, si ritirò nella cittadina di Réalmont dove morì nel 1566. Qualche notizia in più nella biografia. Una profumata (?) Rondeletia E' ancora una volta Charles Plumier (1703) a dedicare a Rondelet uno dei suoi nuovi generi americani; del resto l'omaggio al fondatore della botanica francese era atto dovuto per un botanico provenzale, amico di tanti naturalisti formati all'Università di Montpellier. La dedica, come sempre ricca di superlativi, suona: "Guillaume Rondelet, eccellentissimo nell'arte della medicina, scrisse una celeberrima opera sui pesci e sulla natura dei pesci, ma anche realizzò un'opera somma nella raccolta e nel riconoscimento delle piante, e in ciò eccelse assai; fu il primo a esporre Dioscoride (= cioè la materia medica, la botanica) a Montpellier". Il genere Rondeletia (Rubiaceae) sarà convalidato da Linneo nel 1753. Rondeletia è uno dei più ampi generi della sua famiglia nell'area dei Tropici che va dal Messico al nord del Sud America, con massimo centro di diversità nelle Grandi Antille, in particolare a Cuba. Sottoposto di recente a una parziale revisione tassonomica, che ne ha separato alcune specie - per ironia della sorte, proprio alcune di quelle più coltivate nei giardini e normalmente conosciute con il nome Rondeletia - comprende circa 120 specie di arbusti e piccoli alberi, con foglie sempreverdi lucide, tondeggianti, e infiorescenze di fiori spesso profumati, che attirano le farfalle. La specie più nota, la sola relativamente diffusa in coltivazione, è R. odorata, originaria di Cuba e Panama, un arbusto con brillanti corimbi di fiori rosso aranciato con gola gialla; nonostante il nome, i fiori non sono molto profumati, anche se in passato hanno trovato impiego in profumeria. Molto decorativa, è stata introdotta nei giardini della fascia tropicale. Qualche informazione in più nella scheda. Riscoprire l'antichità e viaggiare per studiare la natura dal vivo: sono le due vie maestre percorse dai medici-botanici del Rinascimento; compreso Prospero Alpini che in Egitto vede all'opera l'antica tecnica di impollinazione delle palme e ne deduce la differenziazione sessuale delle piante dioiche. Grande esperto di piante medicinali esotiche e quarto ostensore dei semplici dell'Orto padovano, dona al suo nome all'esotico (e speziato) genere Alpinia. Dalle palme d'Egitto all'orto di Padova La palma da dattero (Phoenix dactilifera) è un noto esempio di specie dioica, con piante maschili (che producono il polline) e femminili (che danno i frutti). L'impollinazione naturale è effettuata dal vento, ma già in Mesopotamia, almeno 4000 anni fa, si scoprì che la produttività e la qualità dei frutti viene accresciuta con l'impollinazione artificiale. Presso i Babilonesi e gli Egizi, i rami fioriti degli esemplari maschili venivano tagliati e legati sugli esemplari femminili; quello di impollinatore di palme doveva essere un mestiere alquanto pericoloso, visto che occorre arrampicarsi su piante mediamente alte tra i 15 e i 20 metri. L'antichissima pratica era ben nota agli scrittori antichi di cose naturali, come Teofrasto e Plinio, anche se la loro comprensione del fenomeno era parziale. In ogni caso, benché la tecnica fosse rimasta ininterrottamente in uso, in Europa anche quelle limitate conoscenze vennero dimenticate almeno fino al Rinascimento. Tra il 1580 e il 1584, Prospero Alpini, un altro botanico legato al fecondo ambiente padovano, soggiornò in Egitto come medico di Giorgio Emo, console veneziano al Cairo. Ebbe così modo di osservare gli impollinatori delle palme al lavoro e dedusse correttamente che le piante da dattero femminili davano frutto solo se avveniva un mescolamento tra rami maschili e femminili, in modo che la polverina prodotta dai fiori maschili (noi oggi diremmo il polline) cospargesse i fiori femminili. Queste osservazioni gli permisero di essere tra i primi botanici a riconoscere la differenziazione sessuale delle piante. Il libro che Alpini ricavò dal soggiorno in Egitto, De plantis Aegypti liber (1592), contiene la descrizione - accompagnata da illustrazioni di buona qualità - di una cinquantina di specie medicinali, coltivate e spontanee, usate nella farmacopea egiziana del tempo. E' celebre soprattutto per contenere la prima illustrazione europea della pianta del caffè; del caffè e del suo consumo Alpino parla anche in altro testo dedicato all'Egitto, Aegyptiorum libri quatuor (1591), che contiene informazioni etnologiche, storiche e archeologiche. Alpini era nato a Marostica nel 1553 e si era formato all'Università di Padova, sotto la guida di Guilandino; anzi fu proprio l'esempio del maestro a spingerlo ad accompagnare Emo al Cairo. Rientrato in patria nel 1584, le sue opere sull'Egitto attirarono l'attenzione dei Riformatori dell'ateneo padovano, che nel 1594 lo nominarono lettore dei semplici, la cattedra che era stata di Guilandino ed era vacante dal 1568. Alla morte di Giacomo Cortuso, nel 1603, gli succedette nell'incarico di prefetto dell'Orto botanico di Padova e ostensore dei semplici, riunendo nuovamente le due cattedre (come il suo maestro prima di lui). Il prestigioso incarico, che mantenne fino alla morte nel 1616, fece di Alpini una figura riconosciuta nella medicina e nella botanica europea del primo Seicento; come i suoi predecessori, intrattenne rapporti e scambi di piante con importanti botanici, come Gaspard Bauhin e Camerarius il giovane; incrementò l'importanza dell'orto di Padova come centro di studio e diffusione di piante esotiche, alle quali nel 1614 dedicò De plantis exoticis. Ebbe fama europea anche come medico. La sua attenzione di medico-botanico si rivolse in particolare alle specie medicinali, soprattutto esotiche (egizie, ma anche cretesi); si interessò tuttavia anche alla flora locale: sul monte Grappa raccolse una nuova Campanula, che chiamò C. pyramidalis minor; Linneo la ribattezzò in suo onore C. alpini (assegnata a un altro genere e riunita a un'altra specie, il suo nome attuale è Adenophora liliifolia). Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. Dal Medioevo, una spezia magica Decisamente poco fortunato con le dediche linneane, il nostro buon medico di Marostica. Infatti nel 1753 Linneo gli dedicò anche un genere Alpinia, che tuttavia qualche anno dopo confluì nell'affine Renealmia, per opera del figlio di Linneo, Carlo il giovane. Ma qualche anno più tardi, a rendere omaggio a Alpini pensò, questa volta in via definitiva, un altro medico-botanico, lo scozzese William Roxburgh, grande esperto di flora indiana. La sua scelta fu quanto mai felice, perché cadde su un genere esotico - come quelli che amava Alpini - che comprende molte piante medicinali. Alpinia Roxb. è il genere più vasto della famiglia dello zenzero, le Zingiberaceae (cui appartiene anche Renealmia, un genere dell'America tropicale), con circa 250 specie; fino a qualche anno fa ne comprendeva circa 400, ma in seguito a una recente revisione tassonomica ne sono stati separati diversi nuovi generi. Native delle aree tropicali e subtropicali dell'Asia, dell'Australia e delle isole del Pacifico, sono grandi erbacee rizomatose, prive di vero fusto, ma con pseudofusti formati dalle guaine fogliari sovrapposte, che arrivano ai 3 metri (sono noti esemplari giganti di alcune specie, alti fino a 8 metri). I rizomi di alcune specie, estremamente aromatici, trovano impiego in erboristeria e in cucina, come spezie. Dal mio punto di vista, la più affascinante di tutte è A. galanga, ovvero la galanga, una spezia quasi mitica che compare in tutti i ricettari medievali come ingrediente del forte vino speziato dalle proprietà medicamentose, l'ippocrasso. Sebbene sia nota anche come zenzero tailandese - la radice fresca è un ingrediente della cucina thai - il suo aroma solo superficialmente può essere accostato a quello dello zenzero: è molto più rotondo, muschiato, meno aggressivo. Nel Medioevo gli si attribuiva la virtù magica di tenere lontani gli spiriti maligni. Caduta in disuso, fino a epoca recente è stata introvabile da noi (oggi è possibile trovare la radice fresca in rete o in negozi specializzati in prodotti alimentari; come del resto già in epoca medievale, è molto costosa). Anni fa, immaginate con quanta eccitazione, mi capitò di acquistarne radici essiccate (cioè esattamente la spezia usata nel Medioevo) nel bazar di Aleppo. E vi posso assicurare che è vero, l'ippocrasso preparato con la galanga è un'altra cosa. Altre specie di Alpinia, tuttavia, sono interessanti, anche come piante ornamentali, tanto che alcune sono state introdotte nei giardini tropicali di tutto il mondo. Di alcune di loro si parla nella scheda. Medico papale, ma anche poeta, Castore Durante inventa una formula vincente per il suo Herbario, che per circa duecento anni sarà un'opera di riferimento per medici e farmacisti. Guadagnandosi anche la dedica del genere Duranta da parte di Linneo, con la mediazione del solito Plumier. Versi mnemonici e xilografie pirata Tra gli amici e corrispondenti di Cortuso, con il quale scambiava poesie piene di elogi reciproci, troviamo anche la poliedrica figura di Castore Durante, archiatra papale e poeta bilingue. Autore di traduzioni in ottave dell'Eneide e di poemi sacri in italiano e latino, si fece una fama di medico e erborista, ovvero semplicista nel linguaggio del tempo, che lo portò a Roma come archiatra e titolare di una cattedra di "semplici" all'Archiginnasio. Frutto di vent'anni di pratica medica e di ricerche (più libresche che sul campo) è il suo Herbario nuovo (1585) che nel panorama dell'editoria botanica del tardi Rinascimento si distingue non per la dottrina o le novità scientifiche - si tratta essenzialmente di un'opera compilativa - ma per la singolare veste editoriale che gli assicurò un successo duraturo. In primo luogo è un'opera agile, volutamente divulgativa che per lo più condensa in una singola colonna la trattazione di ciascuna delle quasi novecento sostanze presentate, in uno stile chiaro e gradevole. Ma soprattutto ad attirare i curiosi, oggi come allora, sono i versi latini che aprono ciascuna voce, sintetizzando in poche righe, pensate per essere apprese a memoria, le virtù di ciascun semplice. Seguono, poi in lingua italiana - altra singolarità del libro è dunque di essere bilingue - i nomi (in greco, latino, italiano e talvolta altre lingue, compreso l'arabo), una succinta descrizione ("forma"), indicazioni sull'habitat ("loco"), le virtù, distinte in "di dentro" e "di fuori" (noi oggi diremmo per uso interno e esterno). Durante fu attento alle novità che arrivavano dal Mediterraneo orientale e dalle Indie; ad esempio, fu tra i primi a dedicare una voce al tabacco, da lui chiamato erba di Santa Croce, dal nome del cardinale Prospero di Santa Croce, nunzio apostolico in Portogallo, che nel 1561 ne riportò a Roma alcuni semi, probabilmente di Nicotiana rustica. Come i suoi contemporanei, anche Durante non manca di elogiare la pianta come panacea di tutti i mali e la celebra in versi latini, che vennero poi anche ripresi e ripubblicati in una miscellanea edita ad Amsterdam. Un elemento di successo del libro furono sicuramente le xilografie che accompagnano ciascuna voce, stilizzate e essenziali - spesso si tratta di plagi semplificati di tavole del Kreüterbuch di Fuchs e dei Ragionamenti di Mattioli - ma proprio per questo di sicuro effetto decorativo. Furono realizzate dall'incisore Leonardo Parasole, originario di Norcia, ma attivo a Roma, dove dirigeva una bottega di incisori-tipografi nella quale lavoravano i suoi fratelli, ma anche due notevoli artiste, sua moglie Girolama e sua cognata Isabella (o Elisabetta). E' purtroppo infondata la notizia, ampiamente ripresa dalla rete, che Leonardo Durante abbia realizzato le xilografie su disegni della moglie Isabella (che, come si è visto, in realtà era sua cognata) o che quest'ultima abbia realizzato le xilografie della terza edizione. Dico purtroppo, perché se l'informazione fosse stata vera si sarebbe trattato di una delle prime illustratrici botaniche. Ma torniamo all'Herbario nuovo; dopo la prima edizione, uscita a Roma nel 1585, fu più volte ristampato da editori veneziani; dopo oltre ottant'anni dal sua uscita, ne venne approntata una seconda edizione - sempre a Venezia - curata da uno speziale veneziano, che integrava molte piante esotiche giunte in Europa nel frattempo (come ribes, tè, cacao); una terza edizione ci porta addirittura al 1718, segno del duraturo successo dell'opera, che nel Cinquecento era stata tradotta anche in tedesco e in spagnolo. Quanto a Durante, il medico-poeta nel 1586 bissò il successo con il Tesoro della sanità, un manuale di consigli igienici e ricette di medicina popolare che in parte tocca anche la botanica, dato che la seconda parte è dedicata agli alimenti giovevoli o nocivi. E' un altro testo divulgativo semplice e chiaro, che ebbe undici edizioni nel Cinquecento e ventiquattro nel Seicento, affermandosi come prontuario di facile lettura. Durante, nato nel 1529, era già in età avanzata al momento di questi successi editoriali, immediatamente dopo i quali si ritirò a Viterbo, dove morì nel 1590. Altre notizie nella biografia. Duranta, grappoli azzurri per i climi miti La grande diffusione dell'Herbario di Durante giustifica l'omaggio che volle tributargli Plumier nel suo Nova plantarum americanarum genera, dedicandogli la Castorea (nome quindi ricavato non dal cognome, ma dal nome di battesimo del medico umbro). A sua volta Linneo, nel 1754, riprese la dedica, ma fissò il nome del genere in Duranta, sulla base del cognome, secondo la regola da lui stesso stabilita. Duranta è un genere di circa 20 specie di arbusti e piccoli alberi della famiglia Verbenaceae, originari dell'America subtropicale e tropicale, dalla Florida all'Argentina. Alcune specie sono state introdotte nei giardini come piante ornamentali, per le fioriture, bianche o viola, e le bacche, arancio brillante o giallo dorato. Per questa via, soprattutto D. erecta, la specie più nota e coltivata, si è naturalizzata nella fascia tropicale, tanto da essere considerata invasiva in Australia, Cina, Sud Africa e in alcune isole del Pacifico. Questa specie (nota anche con il sinonimo D. repens) è un piccolo arbusto dal portamento variabile - talvolta eretto, talvolta strisciante, talvolta arboreo - originario del Centro America, con piccole foglie ovali persistenti; dall'inizio dell'estate all'autunno, all'apice dei fusti porta lunghe pannocchie di fiori viola chiaro o blu con margine bianco; molto decorative anche le bacche dorate, che persistono per settimane (sono però tossiche, come anche le foglie). Qualche notizia in più, soprattutto sulle cultivar selezionate negli Stati Uniti e in Australia, nella scheda. Almeno nei confronti di un collega il supponente e iracondo Mattioli si espresse solo con elogi, tanto da dare il suo nome a una pianta che proprio questi aveva scoperta. Inaugurò così un costume destinato a grande fortuna. Quel botanico è Cortuso, medico e erborista così abile da aver trovare una cura a base d'erbe capace di sconfiggere la peste. E la pianta è la bellissima e rarissima Cortusa. Un grande "semplicista" alla testa dell'Orto padovano Il primo botanico ad essere celebrato in età moderna con il nome a una pianta ci riporta all'Orto botanico di Padova e al bilioso Mattioli. Si tratta di Giacomo Antonio Cortuso, terzo curatore di quella istituzione. Rampollo di una nobile famiglia cittadina, si dedicò alla professione medica; i racconti del tempo ce lo descrivono come uomo energico, grande conoscitore delle piante medicinali e medico eccellente. Quando nel 1575 scoppiò una delle ricorrenti epidemie di peste (in due anni causò 50.000 morti a Venezia e 12.000 a Padova), mentre i suoi colleghi pensavano solo alla propria pelle, riuscì a salvare il bestiame del Vicentino e del Padovano facendolo trasportare lontano dai luoghi infetti; contrasse la malattia e non solo riuscì a guarire se stesso, ma anche una figlia e una nipote, spostandole in campagna e curandole con infusi di varie erbe. Le sue preziose conoscenze botaniche e farmaceutiche le aveva acquisite sul campo, probabilmente come autodidatta, sperimentando diversi semplici e perlustrando il territorio della Repubblica veneta alla ricerca di vecchie e nuove piante. In una di queste spedizioni, in Valstagna, scoprì appunto la pianta destinata a rimanere per sempre legata al suo nome; ne sperimentò le virtù medicinali e la diffuse tra i botanici con cui era in corrispondenza, tra cui Mattioli, che volle onorarlo dando il nome di cortusa alla nuova specie. Botanico appassionato ("semplicista famoso dei tempi nostri", lo definisce Mattioli) non era un teorico - scrisse in effetti pochissimo - ma un ricercatore che coltivava personalmente le piante officinali nel suo orto privato e ne sperimentava le proprietà medicinali su stesso e suoi propri pazienti. Le numerose botteghe di speziali di Venezia, ancora il maggior crocevia delle rotte verso il Mediterraneo orientale, garantivano inoltre l'accesso a numerose semplici esotici, di cui proprio l'orto padovano fu spesso il centro di diffusione in Europa. Per molti anni Cortuso fu in corrispondenza con i più bei nomi della botanica europea, ai quali comunicava le proprie scoperte e con i quali scambiava semi e esemplari; tra gli altri, oltre ovviamente a Mattioli, Aldrovandi, Clusius, Pena, Gessner, i fratelli Bauhin, Lobelius, Dodoens. I carteggi tra questi scienziati forniscono molte informazioni preziose sulla botanica del tardo Rinascimento e sull'introduzione di nuove specie; ad esempio, grazie a una lettera di Cortuso a Clusius scopriamo che egli fu il primo a piantare un cedro del Libano in Europa, oppure, grazie a una citazione di Mattioli, a cui ne donò un ramo fiorito, sappiamo che i primi lillà europei, provenienti dall'Impero ottomano, fiorirono a Padova nel 1565. Già anziano, nel 1590, alla morte di Guilandino, Cortuso fu nominato curatore dell'Orto botanico di Padova. Nonostante l'età avanzata, resse l'incarico con competenza e energia: fece circondare il giardino con un muro circolare per proteggerlo dalle alluvioni; migliorò il sistema di irrigazione introdotto dal suo predecessore; soprattutto arricchì le collezioni, avvalendosi della sua estesa rete di corrispondenti. Secondo il Dizionario biografico degli italiani avrebbe anche compiuto numerosi viaggi in Italia, Slovenia, nelle isole dell'Egeo per cercare nuove piante, notizia che non mi sembra molto credibile, considerando che resse l'incarico tra i settantasette e i novant'anni. Fu onoratissimo dai botanici del suo tempo, che ne stimavano l'eccezionale competenza nel campo delle erbe medicinali. Qualche approfondimento nella biografia. Cortusa o Primula? Mattioli, tanto pronto alla polemica, si dimostrò invece sempre amichevole e rispettoso nei confronti di Cortuso, uomo molto generoso che non lesinava a colleghi e amici piante e i lumi tratti dalle sue esperienze. Nell'edizione dei Discorsi che ho consultato, Mattioli lo cita, sempre in termini elogiativi, quasi trenta volte. A partire dall'edizione del 1568, inoltre, volle includere la descrizione della pianta scoperta dal padovano, battezzandola in suo onore "cortusa", nome con il quale da allora la pianta fu conosciuta e descritta in molti testi botanici del tempo. A sua volta, a fine Seicento Plumier dedicò a Cortuso uno dei suoi nuovi generi americani; ma giustamente Linneo (Species plantarum, 1753) riprese la denominazione di Mattioli, anzi unì i due botanici italiani nel nuovo nome binomiale: Cortusa matthioli, la cortusa di Mattioli. Bramato graal degli escursionisti botanici delle nostre Alpi, la cortusa è una graziosa primulacea delle aree fresche e ombrose, dai 700 ai 2000 metri, con grandi foglie basali lobate e uno scapo fiorale eretto che porta un'ombrella di graziose campanelline rosa carico. Benché diffusa in un'ampia area (dalle Alpi ai Carpazi, alla Russia, alla catena dell'Himalaya alla Cina e al Giappone), da noi è piuttosto rara. Infatti le Alpi sono l'estremo lembo del suo areale; la si trova in poche stazioni in Trentino, Veneto e Piemonte. Del resto, già rara era al tempo del suo scopritore che, come riporta Mattioli, l'aveva vista unicamente in Valstagna. La sua presenza in poche aree non contigue fa pensare che sia un relitto della flora preglaciale, che si sarebbe conservata in piccole enclaves protette non soggette a glaciazione. A questa pianta dalla bellezza semplice corrisponde uno status tassonomico complicato. Primo problema: Cortusa è un genere a sé? Il mondo scientifico è diviso: recenti studi basati sul DNA dimostrerebbero che va incluso nel genere Primula (Plant list e Plants of the world si allineano; la nostra è Primula matthioli), ma in molti testi è ancora Cortusa matthioli e non si è giunti a una conclusione unanime. Secondo problema: se è un genere, quante specie ne fanno parte? le risposte al quesito sono ancora più incerte: si va da un'unica specie (C. matthioli appunto, con numerose varietà e/o sottospecie) a una quindicina di specie (molte delle quali asiatiche). E' dall'analisi dei taxa russi e cinesi che si attendono le risposte alle due domande. Vista l'importanza storica della denominazione tradizionale, sarebbe un peccato che colui che fu il primo moderno a dare il nome a una pianta perdesse il suo genere (anche se il suo nome rimarrebbe almeno nei nomi comuni italiano, cortusa, e francese, cortuse). Come sempre, qualche notizia in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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