Nel 1545 nasce l'Orto botanico di Padova; coincidenza vuole che entrambi i suoi primi curatori si accapiglino con Mattioli. Il secondo, il tedesco italianato Melchiorre Guilandino, approda all'istituzione dopo una vita avventurosa; la guida per 23 anni e diventa un prestigioso professore, il primo a illustrare le piante dal vivo. Linneo gli dedica lo spinoso genere Guilandina. Gli esordi dell'Orto botanico di Padova Nel 1545, su sollecitazione del medico e professore universitario Francesco Bonafede, il Senato della Repubblica veneta delibera la creazione di un giardino dei semplici, destinato alla formazione degli studenti di medicina dell'Università di Padova. Nasce così quello che si vanta di essere il più antico Orto botanico universitario, inserito addirittura nella lista dei siti Unesco patrimonio dell'umanità. Per una curiosa coincidenza, a dirigerlo furono chiamati, uno dopo l'altro, i due arcinemici di Mattioli: Luigi Anguillara e Melchiorre Guilandino. Il primo "prefetto dell'orto" fu appunto Luigi Anguillara, che resse l'istituzione dal 1547 al 1561, portandola subito a un livello di eccellenza come riferiscono le testimonianze dei visitatori dell'epoca. Era giunto a Padova preceduto dalla fama dei suoi viaggi botanici a Cipro, in Grecia, nella Dalmazia, in Provenza e nella stessa Italia; nonostante le malignità di Mattioli, era un botanico eccellente, come dimostrò anche nella sua opera maggiore, Semplici (1561). Non altrettanto versato fu, a quanto pare, nel settore amministrativo; forse per questo, o per le calunnie del velenoso Mattioli (che lo apostrofava con frasi come "Ho visto la coglioneria dei pareri dell’Anguillara, né mai harei pensato che questa bestiaccia scannata fosse stato così mariolo, ignorantissimo, invidiosissimo, malignissimo [...] invero non si può tanto svilirlo e vituperarlo che non meriti peggio") nel 1561 diede le dimissioni, per trasferirsi a Ferrara come medico del duca e professore di quella Università. Dalla Borussia con furore Dopo pochissimi mesi gli subentrò proprio quel Melchiorre Guilandino protagonista di una lunga e feroce disputa con Mattioli. Arrivava da lontano, addirittura dalla baltica Königsberg (la patria di Kant); secondo gli usi del tempo aveva latinizzato in Guilandinus il suo vero nome, Melchior Wieland; amava definirsi "borusso", dal nome latino della sua patria, la Prussia. Al momento di assumere l'incarico, il botanico prussiano era sui quarant'anni e aveva alle spalle una vita alquanto burrascosa. Dopo essersi probabilmente laureato in medicina, era venuto in Italia, dove aveva vissuto qualche anno in Sicilia e a Roma, in terribili ristrettezze. A metà degli anni cinquanta lo ritroviamo in Veneto grazie all'ambasciatore veneto alla curia pontificia, Marino Cavalli, che lo aveva conosciuto a Roma, apprezzandone la competenza botanica. Si trasferisce a Padova, brillantissimo centro universitario dove sta nascendo la nuova scienza; stringe amicizia e condivide la casa con uno dei protagonisti di questa svolta, il medico Gabriele Falloppio. La querelle con Mattioli inizia nel 1556 con una lettera privata a Gessner in cui Guilandino solleva - in tono sferzante - critiche a "quel Dio dei botanici" e alle sue identificazioni; nonostante gli inviti alla moderazione dello svizzero, la lettera viene data alle stampe, in De stirpium aliquid nominibus vetustis ac novis (1557), insieme ad altri scritti in cui Mattioli è esplicitamente chiamato in causa. Il senese per ora incassa: corregge gli errori nella nuova edizione dei Commentarii e risponde con una lettera, non al "cane arrabbiato barbaro Borusso" ma "all'Eccellentissimo S.or Gabriele Falloppia a cui sta in casa, acciò che lo corregga della sua temerarietà e poltroneria". Nel 1558 Guilandino rincara la dose con Apologiae adversus Petr. Andream Mattheolum liber primus, in cui si esaminano cento errori contenuti nell'opera di Mattioli, accusato di non sapere né il greco né il latino e di aver plagiato i grandi botanici del tempo, senza aggiungere una riga di novità. Dopo una seconda lettera senza risposta a Falloppio - questa volta privata - l'infuriatissimo Mattioli si convince che dietro all' "infame bestia", al "tristo furfante, mal nato e peggio allevato" ci fosse proprio Falloppio. Visto il silenzio dell'anatomista, concluse: "non potrò credere altrimenti se non che voi siate stato la balestra e egli il bolzone" (ovvero, Guilandino era stata la freccia, ma Falloppio la balestra che l'aveva scagliata). Ma nel frattempo Guilandino parte per l'Oriente, deciso a sfruttare i contatti e la rete diplomatica veneziana per esplorare dal vivo le piante del Mediterraneo orientale e del nord Africa, ponendosi come meta finale le favolose Molucche. Mattioli saluta con sollievo la sua partenza, augurandogli addirittura che i turchi "lo puniscano con un palo", e non manca di cercare di danneggiarlo, inviando una lettera piena di malignità al figlio di Marino Cavalli, all'epoca Bailo veneziano a Costantinopoli. Non conosciamo nei dettagli il viaggio di Guilandino in Oriente, tranne che, ottenuto un salvacondotto da Solimano il Magnifico grazie a Jean de la Vigne, ambasciatore della Francia a Costantinopoli, cercò di raggiungere la Persia, ma dovette tornare indietro a causa della guerra; toccò quindi il Turkmenistan, la Siria, la Palestina, l'Egitto. Qui si imbarcò alla volta della Sicilia e, da qui, per Lisbona (con l'idea di cercare un passaggio per l'India), ma la nave fu catturata dai corsari algerini. Condotto ad Algeri, fu venduto come schiavo e rimase in cattività nove mesi, finché l'amico Falloppio, conosciuta la sua sorte, si recò in Grecia e lo riscattò per l'ingente somma di duecento scudi. Le avventure non erano finite: la nave che doveva riportarlo in Italia fece naufragio e Guillandino si salvò a stento. Fu soccorso da alcuni nobili genovesi e nel 1561 era di nuovo a casa. Ma in queste vicissitudini tutti gli esemplari, tutti i preziosissimi appunti erano andati perduti. Curatore dell'Orto e Ostensore dei semplici Ma torniamo a quel 20 settembre 1561 in cui Guillandino diventa curatore dell'Orto: nella sua nomina contano la protezione di Marino Cavalli; la fama di grande erudito; la conoscenza delle piante orientali acquisita nello sfortunato viaggio; la provenienza da quel mondo tedesco che con Fuchs, Bock, Cordus e Brunfels era all'avanguardia nella scienza botanica. Nel 1564, all'incarico di curatore unisce la docenza, con il titolo di "Ostensore dei semplici". E' una cattedra innovativa, non basata sulla lettura del testo di un'autorità (in particolare Dioscoride, l'argomento principale delle cattedre di Materia medica); è piuttosto un laboratorio pratico che parte dalle piante vive coltivate nell'orto botanico; e per questo, le lezioni non si terranno ex catedra nella sede universitaria di palazzo Bo, ma proprio in mezzo alle aiuole. E' la prima cattedra di botanica della storia. Nel 1567, quando Bernardino Trevisan lasciò l'incarico "teorico", i due insegnamenti furono riuniti e affidati entrambi a Guilandino, che continuò - nonostante qualche mugugno - a tenere le sue lezioni all'aperto, nella sede dell'Orto, fino alla morte, avvenuta nel 1589. Tralasciando la seconda puntata della polemica con Mattioli - il combattivo borusso pubblicò una seconda serie di accuse in uno scritto del 1562 - che per fortuna con gli anni e i crescenti impegni di entrambi i contendenti si andò affievolendo, nei suoi ventitré anni di gestione il nostro tedesco italianizzato fece dell'Orto padovano una delle istituzioni scientifiche più importati d'Europa. Si deve a lui la trasformazione delle collezioni, da giardino dei semplici, destinato essenzialmente alla coltivazione delle piante medicinale, in giardino botanico che accoglieva le piante rare ed esotiche che grazie alle esplorazioni geografiche, ai viaggi e ai commerci affluivano sempre più numerose in Europa. Da una parte, Venezia, con quanto rimaneva dello "Stato de Mar", era in ottima posizione per fare da tramite tra l'Europa e il Levante; dall'altra, Guiladino seppe costruire una rete di contatti e scambi con altri importanti studiosi europei. Fu per questa via che arrivarono a Padova il bulbocastano (Bunium bulbocastanum), oggetto - tanto per non smentirsi - di una polemica con Mattioli, i tulipani, i lillà. Non abbiamo cataloghi per quest'epoca, ma sappiamo che nel 1591, due anni dopo la morte del nostro, le specie coltivate nell'Orto erano 1200. Migliorò anche l'irrigazione, facendo costruire una prima canalizzazione che deviava le acque di un fiumicello; e riuscì a convincere i Rettori ad assumere un secondo giardiniere. Alla sua morte, lasciò la sua copiosa biblioteca alla Repubblica di Venezia; ancora oggi, a margine dei libri che gli sono appartenuti, si possono leggere i suoi feroci commenti a quelli che riteneva svarioni dei colleghi: Error, Falsum, Falsa Omnia (e passando al volgare "Questa è una coglionaria", "Animalaccio"). Una sintesi della sua vita nella biografia. Guilandina, una spinosa arrampicatrice All'ipercritico prussiano Linneo nel 1747 in Flora zeylanica dedica il genere Guilandina, poi confermato in Species Plantarum (1753). Ma, evidentemente, le polemiche devono essere nel suo destino: in uno studio del 1973, Guilandina è stato declassato a sottogenere di Caesalpinia; da allora, i botanici si sono rimpallati la classificazione: è un genere autonomo; no fa, parte di Caesalpinia, ma...; è un genere autonomo, però... Solo di recente (ottobre 2016) uno studio ha definitivamente risolto la questione, dimostrando, sulla base di dati molecolari, l'indubbia indipendenza del genere, anche se ne rimangono ancora incerti i confini (da sette a diciannove specie). Guilandina è un genere pantropicale della famiglia Fabaceae, appartenente alla tribù Caesalpineae e al gruppo informale Caesalpinia; comprende liane e arbusti sarmentosi armati di spine ricurve; i fiori sono unisessuali, anche se in alcune specie hanno l'apparenza di ermafroditi (ma con antere prive di polline). La caratteristica più interessante è data dai semi, duri e globosi, adatti a fluttuare sulle onde oceaniche, per essere dispersi a lunga distanza, il che spiega perché sia presente nei Caraibi, in Madagascar, in alcune isole della Polinesia, nel Sud est Asiatico, in Giappone. La specie tipo è Guillandina bonduc, una liana tropicale dai fiori gialli, spinosa, che si arrampica sulla vegetazione. Visto lo status ancora incerto di molte specie potenzialmente appartenenti a questo genere, taccio prima che dall'aldilà mi arrivi un Error, Falsum (e di peggio). Poche notizie in più nella scheda.
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Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. Nella seconda metà del Cinquecento, a Siviglia il medico Nicolas Monardes sperimenta i semplici che arrivano dalle Americhe e li coltiva nel suo giardino; è il primo a descriverli in un'opera scientifica dal lunghissimo titolo che ben presto diventa un bestseller, tradotto e letto in tutta Europa. Linneo gli dedicherà il genere Monarda, una soave labiata dalle foglie profumate e dai bellissimi fiori. Ma indirettamente, lo celebra anche Monardella. Un giardino americano in calle de las Sierpes Nel 1503 a Siviglia nasce la Casa de contractacion, l'organismo per il quale devono passare tutte le merci americane, sulle quali va versata un'imposta del 20% (il quinto real). La Casa è anche un luogo di studio e formazione scientifica, attraverso il quale scorre un incessante flusso di materiali, curiosità e notizie etnografiche che conquistadores e trafficanti riversano sulla madre patria. A Siviglia arrivano sempre più numerose anche le piante americane (inizialmente dalle isole, poi dalla Tierra Firme, com'è chiamato il territorio continentale attorno al golfo dei Caraibi, quindi dal Perù e dalla Florida) che, oltre a suscitare curiosità, vengono immediatamente rivestite di ogni possibile potere taumaturgico. Tra i sivigliani che si appassionano della flora del nuovo mondo, c'è anche Nicolas Monardes, un medico coltissimo, che appena può trasferirsi in una casa con un terreno coltivabile, trasforma la prima in un gabinetto di curiosità, la seconda in un giardino di acclimatazione delle specie del nuovo mondo. Prova a seminare tutti i semi che riesce a procurarsi: coltiva soprattutto le piante medicinali che usa nel suo lavoro, ma anche piante da frutto, come la guaiava, e qualche ornamentale, come la hierba del sol (cioè il girasole Helianthus annuus) e i flores de sangre (ovvero i nasturzi Tropeolum majus). Già diffuso come ornamentale negli altri giardini della città, ma appassionatamente studiato da Monardes per le sue virtù medicinali, c'è anche il tabacco; il dottore è un estimatore anche del peperoncino - che a quanto racconta era già popolarissimo negli orti sivigliani, dove se ne coltivavano esemplari alti come un albero - migliore nel gusto e molto meno costoso del pepe. Si duole di non poter sperimentare l'ananas: gliene sono pervenuti solo esemplari seccati o in conserva (tra l'altro, piuttosto acida, per essere stata preparata con frutti poco maturi). Gioiose notizie del nuovo mondo Il giardino di Monardes non è sopravvissuto ai secoli, ma ne sappiamo qualcosa grazie a quanto racconta l'autore nel suo capolavoro, un libro con un titolo da fare invita a Lina Wertmuller: Historia medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales, que sirven en medicina (1565-74, in tre volumi). Monardes è un vero uomo del suo tempo, con un piede nel passato e l'altro nel futuro. E' uno stretto seguace della teoria galenica, che ritiene che le malattie siano dovute a uno squilibrio dei quattro umori (bile nera, bile gialla, flemma, sangue) e vadano curate ristabilendo l'equilibrio; d'altra parte, non ha alcuna arroganza eurocentrica e pratica già il metodo sperimentale: interroga con passione soldati e avventurieri, clienti e viaggiatori per scoprire i segreti della farmacologia indigena del nuovo mondo; ma poi sottopone a verifica le proprietà medicinali delle sostanze medicinali americane (vegetali, ma anche sostanze di origine animale e minerale) provandole sui suoi pazienti nel corso di una carriera trentennale. Quando è possibile, coltiva le piante nel suo orto per avere sottomano il materiale fresco. Così ci racconta come, afflitto da un forte mal di denti, ricorre con successo a un cataplasma di foglie di tabacco e "carlo santo" (Aristolochia serpentaria) raccolte in giardino. L'Historia medicinal è un libro molto importante per la conoscenza della flora americana; per la prima volta vengono presentate al pubblico europeo in una pubblicazione scientifica quasi cento piante americane, selezionate per le loro virtù medicinali vere o presunte. Monardes ha anche uno scopo pratico immediato: in un momento di difficoltà economica - la sua impresa di import-export specializzata in farmaci americani ha appena fatto fallimento - vuole sia ristabilire la sua rispettabilità scientifica sia convincere i clienti delle virtù medicinali delle piante americane che sono, lo ribadisce a più riprese, molto più economiche di quelle che a caro prezzo i portoghesi trasportano dalle Indie orientali, ma anche più piacevoli e più efficaci. Riesce nel suo intento: non solo l'opera sarà un successo commerciale (tradotta in latino e nelle principali lingue europee, avrà 25 edizioni in sei lingue prima della fine del secolo), ma imporrà nell'immaginario collettivo europeo l'idea della favolosa virtù terapeutica delle piante europee; a dimostrarlo basta il titolo dell'edizione inglese, Ioyfull newes out of the newe founde worlde, "Gioiose notizie che arrivano dal nuovo mondo" (traduzione di J. Frampton, 1577). Ancora una volta non si tratta di un testo di botanica, ma di un manuale di farmacologia; tuttavia la descrizione delle essenze vegetali è chiara e precisa, almeno quando il medico sivigliano conosce direttamente la pianta; spesso in effetti in Europa erano commercializzate parti come cortecce e radici essiccate o prodotti come resine e balsami. Proprio con questi ultimi si apre il primo volume dove si parla di resine di origine vegetali quali copal, animé, tacamahaca e dei balsami del Perù e del Tolù; poi si passa ai purganti (che occupavano un ruolo centrale nella dottrina galenica, come restauratori dell'equilibrio tra gli umori), con l'olio del "fico dell'inferno" (Jatropha curcas), la "cañafístola" americana (Cassia grandis), considerata superiore a quella asiatica (C. fistula), le "nocciole purgative" (Jatropha multifida), ma soprattutto la radice di mechoacán (Convolvulus mechoacan), considerato il purgante ideale, molto preferibile alla gialappa (Exogonium purga) che per i suoi drastici effetti Monardes chiama "mechoacan furioso". Un capitolo a parte meritano il guayaco e il "palo santo" (Guaiacum officinale e G. sanctum), insuperabili contro la sifilide; il succedaneo americano (Smilax pseudo-china) della radice di China asiatica (S. china); le salsapariglie americane (Smilax spp.), di cui vengono esaminate diverse qualità. La trattazione del tabacco occupa da sola un trattatello con tanto di ricette degli svariati preparati; in ogni caso Monardes, pur considerandolo praticamente una panacea, lo raccomanda essenzialmente per impacchi o per clisteri ed è ben consapevole degli effetti stupefacenti del fumo, che accosta addirittura a quelli della coca. E' poi il primo a descrivere e introdurre nella farmacopea il sassofrasso (usato come succedaneo meno costoso del guayaco), la "cebadilla" (Schoenocaulon officinale), le cannelle americane Dicypelium caryophilatum e Canella alba, il pepe lungo (Piper angustifolium) - questi ultimi presentati come migliori e concorrenziali rispetto alle pregiate spezie asiatiche. Per un approfondimento su alcune specie medicinali descritte da Monardes, si rimanda al blog Plantas en America. Sebbene trattate più rapidamente, fanno la loro comparsa anche specie alimentari: il peperone, il mais, l'ananas, la guayaba, la granadilla, il fico d'India, la batata, la manioca e le noccioline americane, chiamate "frutto che cresce sotto terra". Tra le piante decorative, il girasole e la cappuccina, entrambe descritte in toni entusiastici. Altre notizie sulla vita di Monardes, piuttosto movimentata anche se non visitò mai l'America e non si allontanò dalla città natale se non per gli studi, nella biografia. Posso offrirvi una tazza di tè? Linneo che, presumibilmente aveva ricavato da Historia medicinal il nome specifico della nocciolina americana, Arachis ipogea (= "leguminosa che cresce sotto terra"), non mancò di dedicare un genere (in Species Plantarum, 1753) al medico spagnolo. Contrariamente a quanto si sostiene in alcune pubblicazioni, non si tratta di una delle tante specie descritte nel libro (che provenivano essenzialmente dalle Antille, dall'istmo di Panama e dal Perù, tranne tre dalla Florida), ma è ovviamente americano: Monarda, famiglia Lamiaceae (o Labiate), comprende una quindicina di specie di erbacee annuali o perenni, originarie delle praterie nordamericane. Conosciute in Europa almeno dal Seicento - furono tra quelle introdotte dai Tradescant - alcune di esse sono comunque piante medicinali, con le quali si preparano profumate tisane, molto più piacevoli dei drastici purganti prediletti dal dottore spagnolo. M. dydima, comunemente nota come tè degli Oswego, ha anche avuto un ruolo nella storia statunitense; quando, con il famoso Boston tea party, iniziò il boicottaggio del tè importato dalla Compagnia delle Indie, per un breve periodo fu usata come succedaneo, secondo l'uso appunto degli indiani Oswego. M. didyma e M. fistulosa sono anche splendide piante da giardino, soprattutto grazie ai numerosi ibridi orticoli. Come al solito, approfondimenti nella scheda. La nostra storia tuttavia non finisce qui. Nel 1834 il tassonomista George Bentham, in suo lavoro dedicato alle Labiate (Labiatarum genere et species) distacca dal genere Pycanthemum alcune specie e crea il genere Monardella (cioè "piccola monarda"), per la somiglianza nell'aspetto generale con Monarda fistulosa. Così al dottor Monardes riesce il colpaccio: due dediche al prezzo di una! Anche per Monardella, si rinvia alla scheda. Lo storico della scienza D. Sutton l'ha definito "una delle opere di storia naturale più durature che siano mai state scritte [...] che ha formato le basi del sapere occidentale per i successivi 1500 anni". E' innegabile: con la Materia medica del greco Dioscoride, che aveva già alle spalle quasi un millennio di storia, hanno fatto i conti tutti gli studiosi che tra Quattrocento e Seicento hanno fondato la botanica moderna. Ripercorriamo le tappe della storia di questo long seller e scopriamo anche il genere che ne celebra l'autore, Dioscorea. Prima vita: la composizione In un momento imprecisato della terza metà del primo secolo (tra il 50 e il 70 d.C.) un medico greco, nato in Cilicia, Dioscoride Pedanio, scrive il trattato Περὶ ὕλης ἰατρικῆς Peri hules iatrikēs, più noto con il titolo latino De materia medica ("Sulle sostanze medicinali"). L'argomento è l'illustrazione delle sostanze vegetali, animali, minerali utilizzate in campo medico; il testo, distribuito presumibilmente in cinque volumi, tocca oltre 800 sostanze, tra cui 583 piante, delle quali vengono forniti la denominazione, se possibile la distribuzione geografica, una breve descrizione della parte utilizzata, il procedimento di raccolta, preparazione, somministrazione, le indicazioni terapeutiche e la posologia. Dioscoride aveva a lungo viaggiato e nella sua opera confluiscono le conoscenze degli autori che lo avevano preceduto, la sapienza popolare e le sue stesse esperienze come medico-erborista. Polemizzando con i contemporanei che esponevano le sostanze in ordine alfabetico, adotta per il suo trattato un ordine logico, difficile da cogliere per noi, ma che doveva basarsi sulle loro proprietà mediche. Il primo libro tratta le sostanze aromatiche e oleose; il secondo gli animali, i cereali, le erbe orticole e piccanti; il terzo radici, succhi, erbe e semi usati come cibo o medicamento; il quarto i narcotici e i veleni; il quinto i vini e le sostanze minerali. Il focus è sull'uso medico; le descrizioni quindi sono essenziali e, presumibilmente, non erano accompagnate da illustrazioni. Una sintesi delle poche informazioni biografiche pervenuteci su Dioscoride nella biografia. Seconda vita: il Dioscoride greco Soprattutto nella parte orientale dell'impero, l'opera di Dioscoride si afferma come testo di riferimento; lo attestano le citazioni in altri autori, come Galeno, medico di M. Aurelio, e i relativamente numerosi manoscritti. Ma il successo vuol dire anche rimaneggiamenti. L'ordine scelto da Dioscoride rendeva l'opera difficile da consultare; nel IV secolo Oribase, medico dell'imperatore Giuliano, ne predispose un indice. Forse in Italia venne confezionato un estratto, che comprende una parte delle notizie sulle piante, riorganizzate in ordine alfabetico. Accompagnato da miniature che ritraevano le piante, questo Erbario alfabetico è la fonte di due spettacolari codici: il Dioscoride di Vienna e il Dioscoride napoletano. Il Dioscoride di Vienna è considerato da molti il più bel manoscritto antico a noi pervenuto; fu donato alla principessa bizantina Anicia dal popolo di Costantinopoli verso il 512-513; è il più antico erbario figurato della cultura occidentale, con 383 disegni di piante. Dopo complesse vicende, fu acquistato e portato a Vienna dall'ambasciatore imperiale a Costantinopoli, Ogier Ghiselin de Busbecq. Il Dioscoride di Napoli, più recente ma dipendente dallo stesso archetipo (ovvero dal medesimo manoscritto precedente, oggi perduto), comprende 170 pagine illustrate. E' stato recentemente oggetto di una importante pubblicazione a cura dell'Università di Napoli e della casa editrice Aboca. Molti materiali nel sito della Biblioteca nazionale di Napoli. Entrambe sono opere spettacolari, più pensate come oggetti di lusso che come libri di studio o consultazione, in cui le illustrazioni prevalgono sul testo. Terza vita: il Dioscoride latino Anche nella parte occidentale dell'impero, l'opera di Dioscoride circolò dapprima nella versione greca; tuttavia nella tarda antichità incominciarono ad esserne tratte traduzioni in latino; ce ne sono pervenuti alcuni manoscritti, risalenti al VII-X secolo (senza figure). Ma anche in Occidente abbondano i rimaneggiamenti. Uno dei più antichi è il Liber medicinae ex herbis foemininis, un testo anonimo forse del III secolo, che estrae la descrizione di una settantina di piante, accompagnate da illustrazioni. Intorno al XII secolo, forse in connessione con la scuola di Salerno, viene approntata una versione in ordine alfabetico (Dioscorides alfabeticus), che interpola all'opera di Dioscoride notizie tratte da molte altre fonti. Questa edizione diventerà quella più diffusa (non ci sono manoscritti della vecchia traduzione latina posteriori al X secolo) e sarà glossata intorno al 1300 da Pietro da Abano. La versione glossata da Pietro sarà anche il primo Dioscoride stampato (nel 1478 da Medemblik, a Colle Val d'Elsa). Citato anche da Dante, nel Medioevo dunque Dioscoride è conosciuto attraverso questa versione spuria ed ampiamente citato - o meglio copiato - nelle enciclopedie come lo Speculum naturae di Vincenzo da Beauvais, nei manuali medici e nei ricettari farmaceutici. Le miniature che accompagnano i manoscritti medioevali sono spesso di grande qualità artistica, ma molto fantasiose. Quarta vita: il Dioscoride arabo Anche più vitale si rivelava intanto Dioscoride in un'altra area, quella dell'Oriente islamizzato. Il testo è trasmesso attraverso una complessa trafila di traduzioni, dal greco al siriano, dal siriano all'arabo, dall'arabo al persiano. Anche nel mondo islamico abbondano le opere più o meno rimaneggiate, tra cui erbari con illustrazioni non molto più attendibili di quelle occidentali. Ma Dioscoride è anche un autore di prestigio, che ispira molte opere originali in campo medico, a partire dal IX secolo. Tutti i grandi nomi della medicina araba gli pagano un debito. Ad esempio, per limitarci a un nome noto anche in Occidente, Ibn Sina (da noi chiamato Avicenna) trae da De Materia medica gran parte del capitolo sui semplici del suo Canone di medicina. Quinta vita: il Rinascimento E' stato sostenuto che il Rinascimento non aveva bisogno di riscoprire Dioscoride perché non era mai stato dimenticato. Ma, come abbiamo visto, quello che circolava nel Medioevo occidentale era un Dioscoride di seconda o terza mano. Era ora di tornare al testo autentico: come diceva Leonhardt Fuchs, perché bere l'acqua inquinata quando si può attingere alla fonte? Due generazioni di studiosi sono impegnate a ritrovare il vero De Materia medica liberandolo dalle parti spurie. La prima è rappresentata dai filologi come Ermolao Barbaro che nel 1481 predispone una nuova traduzione partendo dal testo greco, corredata di un commento; pubblicata molto più tardi, sarà seguita nel secondo decennio del Cinquecento da nuove traduzioni come quella di Ruel in Francia o di Marcello Adriani in Italia. La seconda, dopo il 1530, è quella dei medici e dei naturalisti, che intendono tornare a Dioscoride per rivitalizzare la pratica medica e lo studio delle piante. De materia medica diventa un testo canonico dell'insegnamento della medicina e tutto il gotha della medicina (e della botanica, che al tempo erano la stessa cosa) del '500 tiene lectiones su Dioscoride: tra gli altri, Francesco Frigimelica, Gabriele Falloppio, Ulisse Aldrovandi, Luca Ghini in Italia; Guillaume Rondelet in Francia; Valerius Cordus in Germania; Caspar Bauhin in Svizzera. Il culmine di questo filone sono probabilmente i Commentari a Dioscoride di Pietro Andrea Mattioli (1544). Vista l'importanza assunta da Dioscoride nella formazione dei futuri medici, l'obiettivo fondamentale dei medici-botanici della generazione di Fuchs è identificare correttamente, descrivere e classificare le specie trattate dal medico greco, mentre cresce l'interesse per le piante in sé, non solo per il loro uso farmaceutico. Su questa via, anche se Dioscoride è ancora un punto di riferimento, incominciano ad emergerne i limiti in modo sempre più clamoroso: i botanici tedeschi o olandesi hanno molta difficoltà a ritrovare la flora dell'Europa centro-settentrionale in un manuale di farmacologia nato nel Mediterraneo orientale; non parliamo poi delle nuove piante che arrivano grazie alle scoperte geografiche. Brasavola (1500-55) dirà esplicitamente che Dioscoride avrà forse descritto l'1 per cento delle piante del pianeta (era molto, molto ottimista!); Monardes si chiederà retoricamente come avrebbe potuto conoscere le piante del Nuovo Mondo. Ma, prima di finire definitivamente nello scaffale dei classici, ancora all'inizio del Settecento, quando ormai la strada maestra della botanica passa attraverso le ricognizioni sul campo, Dioscoride ha ancora un sussulto: tra il 1701 e il 1702, Joseph Pitton de Tournefort parte appositamente alla volta del Levante per una spedizione sulle sue orme, allo scopo di identificare correttamente le piante descritte nel De Materia medica (ne identificherà circa 400, intorno al 45%); ancora alla fine del secolo, John Sibthorp riprenderà la ricerca con due spedizioni botaniche il cui frutto sarà uno dei capolavori della botanica di primo Ottocento, la Flora Graeca (1806-40). Finalmente, la Dioscorea Sarebbe strano se un personaggio di tale importanza nella storia della botanica non fosse celebrato da un nome di genere. Infatti, ci pensò il solito Plumier, che gli dedicò il genere Dioscorea, confermato poi da Linneo. E' un genere molto importante, tanto che le specie di uso alimentare sono ben note con il nome volgare igname. Detta anche yam, è una pianta alimentare essenziale per la sopravvivenza di oltre 100 milioni di persone, la cui coltura occupa 5 milioni di ettari in 47 paesi dell fascia tropicale e subtropicale. Ricco di carboidrati e povero di proteine, secondo B. Laws (autore di 50 piante che hanno cambiato il corso della storia) il suo consumo è tuttavia anche una delle concause della sottoalimentazione dei paesi più poveri del mondo. Dal punto di vista botanico, Dioscorea è un grande genere con oltre 600 specie (alcune delle quali di uso ornamentale), che ha anche dato il proprio nome alla famiglia delle Dioscoreaceae. Come sempre, altri approfondimenti nella scheda. Il cordigliere André Thevet soggiorna dieci settimane in Brasile, incontra i cannibali tupinambo, raccoglie informazioni etnologiche e naturalistiche e di ritorno a Parigi diventa famoso con un instant book sulla "Francia degli antipodi". Con le sue realistiche e spesso precise descrizioni di una trentina di specie esotiche, per 150 anni il suo libro diventa il testo di riferimento per la flora brasiliana; e Linneo dà il suo nome all'ahouai, la pianta usata dagli indigeni della baia di Rio per uno spicciativo divorzio alla tupinambo. Dieci settimane in Brasile Nel 1494, con il trattato di Tordesillas Spagna e Portogallo, con la benedizione di Papa Borgia, si spartiscono il nuovo mondo. Ovviamente le altre potenze non sono felici di essere tagliate fuori: è nota la battuta di Francesco I di Francia che chiese di vedere "la clausola del testamento di Adamo che lo esclude da questa spartizione". Ecco allora che nel 1555 suo figlio Enrico II dà il suo consenso a una spedizione segretissima che dovrebbe portare alla creazione di una colonia, chiamata pomposamente "Francia antartica" (cioè Francia degli antipodi) nella baia di Guanabara, in Brasile (dove qualche anno più tardi nascerà Rio de Janeiro). Tra i seicento uomini che, guidati dall'ammiraglio di Villegaignon, partono alla volta del Brasile c'è anche André Thevet, un frate francescano con la passione dei viaggi - è appena rientrato da un viaggio di quattro anni nel Levante. In Brasile invece rimarrà solo dieci settimane, poi, fatto il pieno di curiosità con cui nutrire la fame di esotismo dei futuri lettori, si dà malato e rientra in patria. Abbandoniamo anche noi al loro destino i pionieri della Francia antartica, che naufragherà ben presto forse ancora più per le lotte intestine tra cattolici e ugonotti che per il contrattacco portoghese, e seguiamo Thevet in Francia. Appena tornato a casa, il frate - oltre a coltivare nel suo orto i semi di tabacco che ha portato con sé, (come ho raccontato in questo post) si dedica alla confezione di un instant book sul viaggio e sulle curiosità brasiliane, che uscirà nel 1557 con il titolo Les singularitéz de la France Antartique ("Le cose singolari della Francia antartica"). Benché criticato pesantemente dai dotti, che lo accusano di ignoranza, plagio, impudenza, il libro è un successo a corte e tra i lettori curiosi, anche grazie alle 41 incisioni che ritraggono con efficacia drammatica animali, piante e riti indigeni. Tra i posteri lo apprezzeranno soprattutto gli etnologi, per la qualità delle informazioni sui tupinambo, la tribù indigena che viveva nella baia di Guanabara; e i botanici, per le ricche e precise notazioni sulla flora della zona. In effetti, Thevet, per niente affidabile quando parla per sentito dire (o meglio per plagio manifesto), si rivela ben informato sul mondo tupinambo: nei due mesi e mezzo trascorsi in Brasile qualcosa avrà visto di persona, molto gli sarà stato riferito dai truchements, i marinai che vivevano con i locali e facevano da interprete. In ogni caso, è il primo europeo a descrivere spesso con accuratezza diverse piante del nuovo mondo, con precise informazioni etnobotaniche sui loro usi, soprattutto alimentari e medicinali. E non c'è da stupirsene, se pensiamo che il frate proveniva da una famiglia di barbieri-chirurghi. Le piante citate sono almeno una trentina. Tra quelle alimentari sfilano la manioca, la patata dolce, il mais a chicchi bianchi e a chicchi neri (i tupinambo ne ricavano una bevanda per le feste), il platano (Musa paradisiaca subsp. normalis), l'hoyriti (Allagoptera arenaria, una palma endemica del Brasile), l'amahut (Cecropia sp.), l'ananas "meravigliosamente eccellente per la dolcezza e per il sapore più carezzevole dello zucchero fine", due varietà di fagioli, il peperoncino che i tupinambo commerciano con gli europei. Una tavola ritrae la raccolta degli anacardi. Nel capitolo sulla guerra ecco il genipat (Genipa americana), usato per tingersi il corpo prima delle battaglie, come pure l'usub (Bixa orellana, la pianta da cui si ricava l'annatto); l'hairi (Astrocaryum aculeatissimus) e una canna marina (Gynerium sagittatum) con cui si fabbricano arco e frecce. Tra le piante medicinali l'hyvourahé (Chrysophyllum glyciphloeum), usato contro le malattie veneree; Cnidoscolus urens, contro il male agli occhi; l'hiboucouhu (presumibilmente Bicuiba oleifera), antisettico contro le piaghe dovute alla pulce Tunga penetrans; Carapa guaianensis, da cui si ricava un olio così eccellente contro le ferite che ne Thevet ne ha portato "una certa quantità tornando qui, che ho distribuito tra i miei amici". E poi naturalmente c'è il petun, il tabacco che gli indigeni - ma rigorosamente solo i maschi - fumano sotto forma di rudimentali sigari; il pernambuco o pau de brasil (Paubrasilia echinata), il ricercatissimo albero che ha dato il nome al Brasile stesso; e ancora l'albero delle zucche (Crescentia cujte) dai cui frutti gli indigeni ricavano le maracas. Fonti A. Thevet, Les singularitez de la France antartique, Heritiers de Maurice de la Porte, Paris 1558 F. C. Hoehne, Botanica e agricultura no Brasil no século XVI, 1937, ora in http://www.brasiliana.com.br/obras/botanica-e-agricultura-no-brasil-no-seculo-xvi Frutti pericolosi Secondo Thevet, i Tupinambo non avevano un carattere molto accomodante (celebri le sue pagine sui loro riti cannibalici). Se litigavano con qualcuno, non esitavano a rivolgersi a uno stregone che lo facesse morire. Qui veniva molto utile un albero chiamato ahouaï "che porta un frutto velenoso e mortale, della grandezza di una castagna media, che è un vero veleno, soprattutto la mandorla. I mariti che anche per una leggerezza sono arrabbiati contro le mogli, gliene danno, e le mogli ai mariti". Ma non l'avrebbero mai somministrato a un estraneo, anzi facevano molto attenzione che i bambini non si avvicinassero. Una volta levato il nocciolo velenoso, con i frutti a forma di delta facevano dei sonagli da usare come cavigliere. I botanici del Cinquecento e del Seicento, come Clusius, Jean Bauhin e Tournefort attingeranno ampiamente dal testo di Thevet per la descrizione delle piante americane. Linneo non poteva mancare di onorarlo con un nome di genere, e scelse proprio la pianta degli uxoricidi, battezzata Thevetia ahouai (in Genera Plantarum, 1757). Come molte Apocynaceae, a cominciare dal nostro oleandro, tutte le specie del genere Thevetia sono tossiche, ma estremamente ornamentali; anche se oggi è stata assegnata a un altro genere, vale la pena di citare la bellissima Cascabela thevetia, che probabilmente molti conoscono con il vecchio nome T. peruviana. Indirettamente, Thevet ha anche dato nome alla tevetina, un glicoside estratto da alcune specie di Thevetia, usato come cardiotonico. Altre informazioni sulla romanzesca vita del frate etnobotanico nella sezione biografie; approfondimenti su Thevetia (e sulla sorella gemella Cascabela) nella scheda. Con 5 milioni di morti all'anno (secondo le stime dell'OMS) ne uccide più di cicuta, aconito, stramonio, veratro e tutte le piante tossiche messe insieme. Eppure quando il tabacco arrivò in Europa fu celebrato come panacea capace di guarire tutti i mali. Tra i suoi celebratori, l'ambasciatore Jean Nicot che riuscì a promuoverlo alla corte di Francia, instaurando una moda e guadagnandosi (forse un po' abusivamente) l'onore di divenire patrono del genere Nicotiana. La miracolosa erba d'India Nel 1559 il re di Francia Enrico II inviò a Lisbona in qualità di ambasciatore l'umanista Jean Nicot, per risolvere alcune questioni relative ai diritti di dogana e soprattutto per negoziare il fidanzamento tra la figlia Margherita e il giovanissimo re portoghese, don Sebastian. Sul piano diplomatico la missione fu un totale fallimento, ma fu proficua sul piano culturale: Nicot inviò in Francia marmi, libri preziosi, spezie e piante esotiche. In effetti Lisbona nel Cinquecento era uno dei principali porti di accesso delle novità botaniche che affluivano in Portogallo dalle Indie orientali e occidentali. Così l'ambasciatore spedì in patria (in particolare al suo protettore, il cardinale di Lorena) nuove varietà di aranci, limoni e fichi, il fico d'India, l'indaco e soprattutto i semi di una pianta medicinale di cui vantava le virtù quasi magiche. Questa "erba d'India - magnificava Nicot - è dotata di meravigliose proprietà verificate contro il Noli me tangere [tipo di ulcere] e le fistole considerate inguaribili dai medici, e allo stesso tempo è un rimedio rapido e singolare contro le ferite". Anche se a questo punto realtà e leggenda incominciano ad intrecciarsi inesorabilmente, è certo che nel 1560 alcuni semi pervennero al cardinale di Lorena e, attraverso di lui, alla regina madre Caterina de' Medici (nel frattempo divenuta vedova) che provò le virtù della pianta per curare le terribili cefalee del figlio Francesco II. In tal modo lanciò a corte la moda di fiutare le foglie ridotte in polvere della magica erba, che incominciò ad essere conosciuta in Francia con molti nomi: herba reginae, herbe à la reine ("erba della regina"), Medicée, herbe à l'ambassadeur ("erba dell'ambasciatore"), ma soprattutto herbe à Nicot, herba nicotiana. Sarà quest'ultimo nome ad affermarsi in Francia; nel 1572 nell'edizione accresciuta di L'Agricolture et Maison Rustique di C. Estienne, Jean Liébault dedica parecchie pagine a quella che chiama ormai Nicotiana; ci informa che è efficacissima per curare piaghe, verruche, ragadi alle dita e ai talloni, che può essere usata fresca o secca (in impiastri), in polvere o in preparazioni come acqua distillata, olio, unguento, balsamo (degli ultimi due fornisce dettagliate ricette). In campo botanico il nome sarà ufficializzato nel 1586 da Jacques Daléchamps, nel suo Historia generalis plantarum, in cui la pianta è denominata Nicotiana sive tabacum ("Nicotiana ovvero tabacco"). Da lì al Nicotiana tabacum di Linneo il passo è breve! Questioni di precedenza Allora, tutto a posto? un nome di pianta dedicato alla persona giusta? Non proprio. Intanto, Nicot non è lo scopritore del tabacco, che era noto agli europei fin dal primo viaggio di Colombo; addirittura uno dei suoi compagni, Rodrigo de Jerez, prese il vizio del fumo dagli indigeni di Cuba (cosa che al suo ritorno gli costò l'arresto da parte dell'Inquisizione e una detenzione di sette anni). La prima approssimativa descrizione risale al 1495, per opera del frate Romano Pane, che aveva accompagnato Colombo nel secondo viaggio. Con buona pace dell'Inquisizione, il consumo del tabacco (l'etimologia del nome è discussa) si diffuse rapidamente in Spagna e Portogallo, tanto che già nel 1533 è attestato un mercante di tabacco a Lisbona. Gli si attribuivano d'altra parte tante virtù medicinali da farlo considerare una vera panacea; il suo maggiore estimatore fu il medico Nicolas Monardes in Historia Medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales (1574), secondo il quale poteva curare qualcosa come 36 malattie! Nel frattempo attraverso le Fiandre, che al tempo erano un possedimento spagnolo, il tabacco cominciava ad essere conosciuto nel resto d'Europa. La prima descrizione "scientifica" si deve a Rembert Dodoens nel suo erbario (Cruydeboeck, 1554), che tuttavia non descrive Nicotiana tabacum, ma N. rustica. Nella sua grande opera rimasta inedita, Fuchs descrive invece entrambe le specie. La prima immagine stampata di N. tabacum arriva nel 1570, in Stirpium adversaria nova di Pena e de L'Obel. Allora Nicot è stato il primo in Francia? Neppure questo è vero. Tra la fine del 1555 e l'inizio del 1556 il francescano André Thévet per dieci settimane visse a Fort Coligny, un forte che i francesi avevano costruito sulla costa brasiliana, in un fallimentare tentativo di colonizzazione; durante il breve soggiorno raccolse una massa di informazioni etnografiche, geografiche, zoologiche e botaniche. Malato, tornò in patria e scrisse Singularitéz de la France antartique ("Cose singolari della Francia antartica", 1558) in cui riferì come gli indiani Tupinamba coltivassero il tabacco, preparassero e fumassero rudimentali sigari; per quanto non fosse entusiasta di questa abitudine - quando aveva fatto qualche tiro gli era venuta una sincope! - ne portò con sé alcuni semi, che seminò nel suo orto a Angouleme, ribattezzando la pianta herbe angoulmoisine; usò anche il nome pétun (derivato dal tupi petyma, petyn) che ebbe una certa diffusione in Francia. Quando Thévet scoprì che uno che, contrariamente a lui, non era mai stato neppure in America, si era attribuito il merito della diffusione della pianta e le aveva dato il suo nome, andò su tutte le furie. Inutile: ormai lo scippo era stato perpetrato! D'altra parte, neppure lui avrebbe dovuto vantarsi di aver introdotto la pianta in Francia: nel 1525 il cartografo Pierre Grignon aveva visto in una bettola di Dieppe un marinaio che fumava la pipa (un oggetto talmente nuovo e inconsueto che sulle prime l'aveva scambiato per un calamaio). I marinai, accaniti fumatori di pipa, furono del resto tra i principali diffusori del tabacco, tanto che già nel 1542 per opera di marinai portoghesi aveva fatto il suo ingresso in Giappone, dove entrò rapidamente a far parte della cerimonia del tè. Altre informazioni sull'ambasciatore Nicot, come sempre, nella sezione biografie. Calmi, ragazzi: c'è una pianta per tutti Per una terza ragione, l'attribuzione a Nicot di Nicotiana tabacum è abusiva: come egli dichiara espressamente, la pianta di cui inviò in semi in Francia nel 1561 era originaria della Florida; si trattava dunque di Nicotiana rustica; è ancora più tossica di N. tabacum (contiene 9 volte più nicotina di quest'ultima) ed era usata dagli indigeni americani sia come erba sciamanica sia per vari usi medici. La pianta introdotta da Thévet, importata come abbiamo visto dal Brasile, è invece proprio Nicotiana tabacum. Inoltre, ai due possiamo far risalire la diversa connotazione sociale del tabacco da fumo (introdotto dal "plebeo" Thévet) e del tabacco da fiuto (introdotto a corte dal nobile Nicot): almeno fino a tutto il Settecento, l'uno vile abitudine delle classi più basse, il secondo consumo raffinato delle élites. Nonostante la frustrazione di Thévet per lo scippo, alla fine c'è una giustizia botanica: Nicot ha legato il suo nome al dono avvelenato del tabacco (e all'alacaloide che ne viene ricavato, la nicotina), mentre Thévet (lo vedremo meglio in questo post) si è visto assegnare la Thevetia, per aver descritto l'ahouai (Thevetia ahouai) una pianta altrettanto velenosa, ma ben meno pericolosa, ornamento dei giardini tropicali. Ma dato che questa è una storia di equivoci e inganni, anche il petun sopravvive sotto le mentite spoglie di un'altra solanacea, la Petunia. Quanto alla Nicotiana, oltre essere alla base della discutibile ma lucrosissima industria del tabacco, grazie a diverse specie ed ibridi è una magnifica pianta da giardino, che nelle notti estive emana un dolce profumo per attirare le falene. Altre informazioni soprattutto sulle specie ornamentali nella scheda. Nel Cinquecento nel curriculum di ogni futuro medico c'era l'accurato studio dei testi di medicina e farmacologia ereditati dall'antichità, che di ogni pianta indicavano le virtù e gli usi. Ma come essere certi che a un dato nome greco o latino corrispondesse davvero la pianta giusta, conosciuta con infiniti nomi volgari? Fuchs risolve il problema con una trovata degna dell'uovo di Colombo; e si guadagna per sempre la riconoscenza dei botanici e il nome di uno dei generi più amati, una vera superstar del giardinaggio: la Fuchsia. Piante ritratte dal vero La conoscenza delle piante era essenziale per la medicina; infatti da esse - i semplici, come venivano chiamate - veniva ricavata la maggior parte dei medicamenti. Dunque non solo era importante conoscerne le diverse virtù medicamentose, ma bisognava distinguerle con sicurezza. Tuttavia le confusioni erano all'ordine del giorno: la stessa pianta veniva chiamata con nomi diversi nelle varie regioni e anche la più accurata delle descrizioni era spesso insufficiente per un riconoscimento sicuro; impossibile poi usare i "sacri testi" della medicina classica ignorando a quale pianta reale corrispondessero i nomi greci e latini di Dioscoride piuttosto che Plinio. Il medico e botanico tedesco Leonhardt Fuchs risolve il problema in modo semplice e geniale: accompagnare le descrizioni delle piante e i loro nomi nelle varie lingue con illustrazioni dal vero, dettagliate ed affidabili. Già prima gli herbaria (cioè i libri di descrizioni di piante e delle loro proprietà medico-farmacologiche) erano spesso illustrati; ma le illustrazioni era irrealistiche, grossolane, spesso ricavate dalle descrizioni stesse, quindi creavano più dubbi di quanti non ne risolvessero. La novità del libro di Fuchs De historia stirpium commentarii insignes ("Notevoli commenti sulla storia delle piante"), pubblicato nel 1542, consiste sostanzialmente nella qualità delle illustrazioni delle piante, per la prima volta ritratte dal vero con grande precisione; per la loro realizzazione il botanico diresse una piccola équipe di artisti: il pittore Albrecht Meyer disegnava le piante dal vero, ritraendone i particolari nelle diverse stagioni; il copiatore Heinrich Füllmaurer trasferiva i disegni su tavole di legno; l'incisore Vitus Adelphus Spreckle incideva le matrici e colorava le incisioni ad acquarello (il libro era stampato in bianco e nero, ma in alcuni esemplari, più costosi, le xilografie erano successivamente colorate a mano). Per la prima volta nella storia del libro, i nomi degli artisti che avevano collaborato alla realizzazione dell'opera è riportato del testo, in cui sono presenti anche i loro ritratti. L'eccezionale qualità delle illustrazioni di De historia stirpium è frutto di tre circostanze: il perfezionamento dell'arte della stampa, che ormai permetteva di stampare da matrici di legno (xilografia) con incisioni di notevole qualità e finezza; l'ideale del naturalismo, diffuso dal Rinascimento, che propugnava una riscoperta diretta della natura, da studiare di per se stessa e non come specchio del creatore; l'esigenza pratica di dotare gli studenti di medicina e i medici praticanti di uno strumento efficace. In effetti, Fuchs era un medico rinomato e un professore universitario. Le tavole del testo di Fuchs sono importanti nella storia dell'illustrazione botanica, perché in qualche modo ne fissano le convenzioni che - con minime modificazioni - rimarranno invariate per secoli: la pianta viene disegnata intera, con tanto di radici, nel momento del suo massimo rigoglio, completa di fiori in boccio, fiori sbocciati, frutti. Esse in effetti costituirono un modello, molto imitato quando non semplicemente riprodotto con vere operazioni di pirateria editoriale. A oltre due secoli dalla loro realizzazione, saranno ancora utilizzate nel 1774 in un'opera di Salomon Schinz. Un peperoncino latino L'opera è meno innovativa per i contenuti. Fuchs - anche se dichiarava di partire dalle proprie esperienze di medico e da conoscenze dirette - per la descrizione delle piante note e delle loro proprietà si rifaceva ai testi classici; del resto, una delle sue aspirazioni era che gli studenti e i medici potessero identificare con certezza le piante descritte dagli antichi, in primo luogo Dioscoride. Su questa strada commise anche errori, ad esempio identificando piante tedesche con piante mediterranee, che semplicemente non conosceva. Il libro descrive 497 piante, accompagnate da 517 illustrazioni e ordinate in ordine alfabetico sulla base del nome greco. Ogni voce ha una struttura ricorrente da cui ben si può notare il carattere prescientifico dell'opera:
Tra le circa cento piante descritte per la prima volta, De historia stirpium contiene anche la più antica descrizione di alcune piante americane: il mais (chiamato Turcicum frumentum), quattro varietà di peperone o peperoncino, alcuni tipi di zucche, un fagiolo americano, una specie di Tagetes. E' curioso che anche in questo caso Fuchs assimili queste piante a specie descritte dagli autori classici e non sembri conoscerne la provenienza: le zucche e il fagiolo americano sono semplicemente inseriti nei generi corrispondenti del vecchio mondo, il Tagetes (chiamato già con il nome latino Tagetes indica) è assimilato a una specie di Artemisia (e il nome è collegato alla divinità etrusca Tages). Il caso più divertente è quello del peperoncino, identificato con una pianta descritta da Plinio con il nome siliquastrum, grazie al fatto che la bacca è grande (siliquastrum significa letteralmente 'con un grande baccello'). Quanto al mais, Fuchs deve rassegnarsi ad ammettere che gli antichi non lo conoscevano (è descritto nell'ultima parte del volume, dove egli elenca le specie prive di nome greco), ma pensa che arrivi dalla Grecia, ai suoi tempi sottomessa dai turchi (donde il nome Turcicum frumentum, il nostro granoturco). Pur con questi limiti, il testo è un caposaldo della nascente botanica e ottenne un immediato successo, tanto che già l'anno successivo l'autore ne predispose un'edizione ridotta (quindi più maneggevole e meno costosa) in lingua tedesca, Neue Kreüterbuch (1543). Di entrambe le versioni e delle traduzioni che ne vennero ricavate in olandese, francese, tedesco, spagnolo uscirono ben 39 edizioni nel corso della vita di Fuchs (che morì nel 1566). Quanto alle incisioni, furono largamente riprodotte e plagiate per almeno duecento anni. Approfondimenti sulla vita di Fuchs nella sezione biografie. Un fiore rosa fucsia Un personaggio del calibro di Fuchs non poteva essere ignorato dal buon padre Plumier, che nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) aveva celebrato i big della botanica dedicando loro molte delle nuove piante scoperte nei suoi viaggi nelle Antille. Anzi, bisognava scegliere una pianta degna di tanto personaggio. La sua scelta cadde sulla magnifica Fuchsia triphylla flore coccineo (oggi Fuchsia triphylla). Intorno al 1788 le prime fucsie arriveranno nei giardini inglesi; e sarà fuchsiomania, che da allora non è mai cessata. Per altre notizie sul genere Fuchsia, si rimanda come sempre alla scheda. Il vecchio Fuchs ha avuto anche l'onore di battezzare un giovanissimo colore: nel 1859 il chimico francese François-Emmanuel Verguin produsse sinteticamente una nuova anilina che chiamò fuchsina; anche se poco dopo il nome fu cambiato in magenta, per celebrare la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, il color fucsia è rimasto; e come la pianta da cui prende il nome, è amatissimo, soprattutto dalle ragazzine. Chi ha inventato i nomi scientifici formati dalla combinazione di due nomi, uno per il genere, l'altro per la specie? Risposta facile: Linneo. Risposta facile ma sbagliata! L'inventore è Gaspard Bauhin. Scopriremo in che modo ha anticipato la nomenclatura linneana e perché è stato importante nella storia della botanica. E troveremo anche la risposta a un altro interrogativo: come mai una coppia di severi calvinisti svizzeri (Gaspard e suo fratello Jean) è stata immortalata dal genere Bauhinia, le cui fioriture sgargianti le hanno guadagnato il nome di albero delle orchidee? Chi ha inventato la nomenclatura binomiale? Tutti conosciamo Linneo come l’inventore della nomenclatura binomiale, ma non si trattava di un'invenzione del tutto originale. Lo studioso svedese la riprese da un medico e botanico franco-svizzero, vissuto un centinaio di anni prima: Gaspard (o Caspar) Bauhin. Costui, nel suo Pinax theatri botanici (1596) introdusse per primo i concetti di genere e specie. Fino ad allora, negli erbari e nei testi di botanica la denominazione della pianta era costituita da una descrizione in latino più o meno ampia, che inoltre variava da autore ad autore: ad esempio il comune ranuncolo dei prati (Ranunculus acris) poteva essere denominato Ranunculus pratensis reptante caulicolo oppure Ranunculus magnus hirsutus flore pleno, e così via. Questi nomi-descrizione vengono definiti nomi polinomiali, o denominazione polinomia, in contrapposizione ai futuri nomi binomiali e alla denominazione binomia. Bauhin ridusse tale descrizione al minimo, spesso utilizzando due parole: una per il genere, l’altra per la specie, analogamente al sistema attuale. Tuttavia non lo fece in modo sistematico; spesso mantenne nomi-descrizione; inoltre per i generi costituiti da una sola specie o per le specie tipiche, spesso usò un solo nome; non si tratta dunque né di un sistema coerente né di un metodo universale. In ogni caso, Pinax theatri botanici può essere considerato una pietra miliare della storia della botanica; Gaspard Bauhin vi descrisse e classificò quasi 6000 specie, facendone uno dei testi botanici più reputati e consultati del tempo. Lo stesso Linneo lo utilizzò largamente, riprendendo molte denominazioni introdotte da Bauhin; lo dimostrano anche le oltre 300 annotazioni di sua mano che costellano l’esemplare del Pinax a lui appartenuto. Per un approfondimento sul ruolo di Bauhin nella invenzione della nomenclatura binomiale e sulle ragioni per cui Linneo ne ha oscurato la fama, si rimanda all'interessante articolo di C. Sorrentino. Anche Jean (o Johann) Bauhin, fratello maggiore di Gaspard, era medico e botanico; a sua volta, dedicò una grande opera, Historia plantarum universalis, alla descrizione di tutte le piante allora conosciute; il lavoro, rimasto incompiuto, ne registra oltre 5000. Altre notizie sui fratelli Bauhin nella sezione biografie. Le foglie "fraterne" della Bauhinia La Bauhinia venne dedicata ai fratelli Bauhin dal suo scopritore, il frate francese Charles Plumier, che l'aveva raccolta nel 1690, durante il suo primo viaggio nelle Antille. Era stato proprio Plumier a inaugurare l'abitudine di dedicare i nuovi generi che andava scoprendo a botanici del passato, viaggiatori, scienziati nonché personaggi influenti della corte del re Sole. Nell'assegnare questo genere ai due fratelli padre Plumier aveva in mente una sua caratteristica peculiare. Le foglie di diverse specie di Bauhinia sono formate da due lobi divergenti ma uniti alla base (appaiono abbastanza simili a quelle del nostro albero di Giuda, Cercis siliquastrum, che del resto è strettamente imparentato). In tal modo egli intese disegnare un ritratto vegetale dei due fratelli, diversi e allontanati dalle vicende biografiche, ma uniti dall'amore per la botanica di cui furono tra i più importanti pionieri. Per classificare e nominare le piante americane Linneo si avvalse ampiamente delle opere di Plumier e spesso - come in questo caso - riprese i nomi da lui assegnati. Convalidato in Species Plantarum 1753, questo genere è dunque per noi Bauhinia L. (dove la sigla sta per Linneo). Nella sezione schede, un profilo del genere Bauhinia, con sintetiche informazioni sulle specie più significative. E se leggerete attentamente, scoprirete anche un modo per superare brillantemente gli esami! |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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