Nella storia australiana, Allan Cunningham è noto soprattutto come esploratore, per aver aperto nuove vie di comunicazione e scoperto diversi valichi, tra cui quello che porta il suo nome (Cunningam's Gap); tuttavia, anche dopo essere stato coinvolto dal governatore Brisbane nell'esplorazione del territorio della colonia, egli continuò a sentirsi in primo luogo un botanico che, come scrisse a Kew, aveva trovato il modo di "mescolare l'esplorazione con la ricerca botanica tollerabilmente bene". Finite le spedizioni marittime guidate del capitano King, tra il 1822 e il 1829 Cunningham perlustrò gran parte del Nuovo Galles del sud, per poi essere incaricato di trovare vie di collegamento con il Queensland, e prese parte a più di venti spedizioni, almeno una delle quali diretta e organizzata da lui stesso. Un viaggio lo portò anche in Nuova Zelanda. Senza però mai smettere di raccogliere piante: secondo l'amico e primo biografo Robert Heward, durante i suoi quindici anni australiani furono oltre 3000 specie. Moltissime sono quelle che lo ricordano nel nome specifico, Alania cunninghamii anche in quello generico. Senza dimenticare il genere Cunninghamia, che divide con il quasi omonimo James Cunighame. ![]() Tra fatiche e speranza Il 25 aprile 1822, con il rientro a Sydney della Bathurst, si concludeva la prima fase delle avventure australiane di Allan Cunnigham, quella marittima (l'ho raccontata in questo post). L'infaticabile botanico del re rivolgeva ora la sua attenzione all'interno del paese. Dopo aver dedicato qualche mese a preparare i materiali da spedire a Kew (fase a cui dedicava ogni attenzione e che sempre lo preoccupava sommamente, per il lunghissimo viaggio che attendeva i suoi campioni e le fragili piante vive), già a settembre era di partenza: superate le Blue Mountains, per tutto il mese fu impegnato ad erborizzare nell'area compresa tra Bathurst e il fiume Cudgegong, spingendosi anche a oriente di quest'ultimo. I risultati di questa spedizione attirarono l'attenzione del nuovo governatore del Nuovo Galles del Sud, sir Thomas Brisbane, che lo incaricò di cercare una via di collegamento tra Bathurst e le Liverpool Plains scoperte da Oxley nel 1818. Cunningham, che da tempo coltivava la passione per l'esplorazione, accettò di buon grado e scrisse a Kew: "'Ho scoperto di poter mescolare l'esplorazione con la ricerca botanica tollerabilmente bene". L'appoggio logistico offerto dal governatore tornava per altro comodo, visto il magro salario e gli scarsi finanziamenti londinesi. Nel marzo 1823 Cunningham, accompagnato da cinque servitori e altrettanti robusti cavalli da soma, partì da Bathurst dirigendosi verso nord in direzione del Lawson's Goulburn River, poi a est fino alle sorgenti del fiume Hunter. Da qui risalì la Liverpool Range alla ricerca di un valico; dal Mount Macarthur (oggi Mount Moan) vide a est un punto in cui catena di abbassava e decise di muovere in questa direzione, ma il cammino si fece sempre più difficile, finché risultò bloccato da ogni parte da ripidi burroni. Non restava che tornare indietro fino al Mount Macarthur, per cercare un passaggio in direzione nord-ovest. L'infruttuosa deviazione era costata tre settimane e tre giorni. Dopo altri sei giorni di cammino lungo la catena, il 2 giugno Cunningham decise di salire nuovamente su una cima: guardandosi intorno, a non più di tre miglia scorse una notevole depressione, al di là della quale si intravvedevano pianure aperte. Cunningham aveva scoperto il Pandora's Pass: gli diede questo nome pensando, da una parte, alle privazioni e alle difficoltà del viaggio, dall'altra alla piccola speranza che aveva trovato alla fine, che gli facevano pensare al mito di Pandora che, quando apre il suo vaso, sparge nel mondo ogni male, ma in fondo le rimane la speranza. Raggiunto il valico il 9 giugno, ritornò infine a Bathrust il 27 giugno, dopo undici settimane di arduo cammino. Relazionò poi i due viaggi da Bathurst in A Specimen of the Indigenous Botany […] between Port Jackson and Bathurst, e in Journal of a Route from Bathurst to Liverpool Plains (1825); significativamente, il focus del primo sono le piante, del secondo l'esplorazione. Dopo questa epica spedizione, fu la volta di una serie escursioni più brevi, per lo più in distretti già esplorati, in cui la botanica tornava in primo piano: a novembre raccolse esemplari nelle Blue Mountains lungo la Bells Line; nel gennaio 1824 tornò a Bathrust a raccogliere semi maturi. Poco dopo il suo ritorno a Parramatta, attraccò a Port Jackson il battello francese Coquille, che stava circumnavigando il globo al comando di Louis Isidore Duperrey. Con grande gioia, Cunningham fece conoscenza con il naturalista ufficiale della spedizione René Primevère Lesson e il primo ufficiale e botanico Jules Dumont d'Urville e in marzo li accompagnò a erborizzare nelle contee di Camden e Argyle; visitarono i laghi George e Bathurst, le sorgenti del Murrumbidge, Brisbane Downs, la Marley Plain e Shoalhaven. Era una zona facile da percorrere e almeno in parte già battuta, che non offriva grandi novità botaniche, tranne intorno alle cave calcaree di Shoalhaven, ma fu senz'altro un splendido biglietto d'ingresso per i due naturalisti francesi, Rientrato con loro a Parramatta all'inizio di maggio, Cunningham trascorse i mesi di luglio e agosto a erborizzare a Illawarra, uno dei suoi luoghi preferiti, riportandone piante vive che piantò in piccole scatole o vasi, perché recuperassero prima di essere spedite in Inghilterra. Tra l'altro scoprì la terribile Dendrocnide excelsa (lui la chiamò Urtica gigas), un albero dalle foglie urticanti che provocano un dolore che può durare mesi, tanto inteso da resistere alla morfina. Si affrettò poi a rientrare a Parramatta, in modo da imbarcarsi sulla Amish diretta a Moreton Bay; questa spedizione, di nuovo guidata da Oxley, aveva lo scopo di esplorare il fiume Brisbane. Insieme a Oxley, Cunnigham risalì in battello il fiume finché fu navigabile; lungo le sue rive poté scoprire molte piante interessanti, tra cui Araucaria cunninghamii, e anche diverse specie di orchidee. A ottobre era di nuovo a Parramatta; per concludere l'anno, tornò nuovamente a Bathurst a fare incetta di semi. Ne riportò novità come Banksia cunninghamii, Grevillea anethifolia, Eucalyptus mannifera. Dal Nuovo Galles al Queensland Nell'inverno del 1825 (da aprile a giugno) fu la volta di una nuova spedizione verso nord, che nel prima tratto ripercorse la strada che egli stesso aveva aperto due anni prima. Passando da Richmond, Cunningham raggiunse la valle dell'Hunter, quindi superò il Pandora's Pass procedendo verso nord attraverso le Liverpool Plains, dove trovò un notevole ostacolo nella pioggia continua e nel terreno piatto e paludoso; proseguì alla ricerca di una strada più elevata, finché fu costretto a tornare indietro, trovando la piana completamente allagata. Rientrò a Parramatta il 17 giugno, avendo percorso un circuito di 700 miglia. Gli ultimi mesi dell'anno furono trascorsi ad esplorare le aree della Wellington valley e di Mudgee, alla ricerca di semi ed esemplari da inviare a Kew; il bottino più interessante furono diverse orchidee terrestri. Ma la sua salute cominciava a risentire di tante fatiche e tanti viaggi, e dovette fermarsi fino a febbraio, per poi accontentarsi di escursioni botaniche relativamente brevi lungo il Cox's River e ancora a Illawarra. Nell'agosto 1826 poté realizzare un sogno che accarezzava da molto tempo: imbarcatosi su una baleniera, raggiunse la Nuova Zelanda dove fu accolto calorosamente dai missionari della Baia delle isole. Si trattenne nell'isola del Nord per quattro mesi, visitando l'area compresa tra la Baia delle isole e Hokianga, la zona di Wangoroa e la baia di Plenty. Infine, il 29 dicembre si imbarcò sul piccolo vascello dei missionari diretto a Sydney, dove sbarcò il 20 gennaio 1827 dopo un viaggio reso lungo e penoso dai venti avversi. Risultato della breve visita fu Florae Insularum Novae Zelandiae Precursor (1837-39), considerato la prima sinossi della flora neozelandese. Lo attendeva la più impegnativa delle sue spedizioni. Essendogli giunta notizia che il governatore sir Ralph Darling desiderava si esplorassero le potenzialità economiche dell'area compresa tra la Grande Catena divisoria e Moreton Bay (l'odierna Brisbane), si offrì come capo della spedizione, per la quale propose un dettagliato itinerario. Ad accompagnarlo sarebbero stati sei uomini, parecchi cani e undici cavalli da soma con le provviste per quattordici settimane; i cavalli vennero inviati via terra fino all'alto corso del fiume Hunter, mentre Cunnigham raggiungeva in nave Newcastle; da qui risalì il fiume con le provviste fino a Dulwich, dove il gruppo si riunì. Proseguirono quindi insieme fino a Segenhoe, all'epoca la fattoria più estrema e punto di partenza della spedizione vera e propria. Gli esploratori ne partirono il 30 aprile e si diressero a nord, varcando la Liverpool Range all'altezza di Dartbrook Creek; spesso la strada era così ripida che bisognava alleggerire i cavalli, trasportando i bagagli a braccia. Quindi si diressero verso nord in direzione del fiume Peel, passando attraverso una boscaglia aperta di Eucalyptus sideroxylon. Il 21 maggio raggiunsero un vasto fiume che Cunningham chiamò Gwydir; proseguirono attraverso aride boscaglie interrotte da crinali e gole, fino a fiume Macintyre che era quasi asciutto per la siccità. Preoccupato dalla mancanza di pascolo per i cavalli e per le provviste, già consumate a metà, Cunningham decise di non proseguire verso nord come aveva progettato, ma di spostarsi più a est. Fu così che il gruppo si imbatté in un fiume largo e profondo che il botanico battezzò Dumaresq, in onore del segretario del governatore Henry Dumaresq. Dopo averlo attraversato, proseguirono per altri sei giorni; il 6 giugno Cunnigham salì sul monte Damaresq: di fronte a lui una vasta pianura feritile di ricchi pascoli. Era le terra promessa che era venuto a cercare: non a caso la battezzò Darling Downs in onore del governatore che aveva voluto quella spedizione. A una distanza di forse dieci km, vide anche un valico che prometteva di offrire un comodo passaggio verso Moreton Bay. Debilitato dall'epatite di cui soffriva periodicamente fin dai tempi dei viaggi della Mermaid, non lo esplorò personalmente, ma vi inviò due uomini che confermarono la sua supposizione. Cunningham lo chiamò Spicers Gap in onore di Peter B. Spicer, sovrintendente dei forzati. Attraverso un altro passo, che poi sarebbe stato chiamato Cunningham's Gap, il gruppo scese nei Darling Downs, seguendo per qualche giorno il corso del fiume che lo irrigava (Cunningham lo battezzò Condamine River, in onore di Thomas de la Condamine, ex aiuto di campo del governatore); quindi si accamparono in una valle ad est del fiume (Logan Valley, in onore del comandante dell'insediamento di Moreton Bay) per far recuperare uomini e cavalli. Era infatti ora di tornare indietro, cosa che fecero seguendo una via più occidentale rispetto a quella dell'andata, rientrando a Segenhoe dopo un viaggio di tredici settimane. Cunningham poté presto verificare di persona la praticabilità della via di collegamento che aveva intravvisto. Nel 1828 andò ad erborizzare a Moreton Bay con il botanico della colonia Charles Fraser; a luglio partivano in spedizione con il comandante Logan, un soldato, cinque forzati e molte provviste. Dirigendosi verso sud, raggiunsero il Logan River, scoperto dal capitano due anni prima, e il monte Barney, che Logan già aveva tentato inutilmente di scalare. Questa volta ci riuscì. Dopo aver esplorato per qualche giorno l'area intorno all'attuale Boonah, Fraser e Logan tornarono a Brisbane; Cunningham invece si addentò nelle montagne e varcò il passo che aveva scoperto nel 1827. La strada che egli percorse è oggi diventata un'autostrada, e ovviamente porta il suo nome: Cunningham Highway. Cunningham tornò a Moreton Bay ancora nel 1829, per esplorare l'alto corso del Brisbane River. Anche nel 1828 e nel 1829 non mancarono i consueti viaggi botanici a Bathurst e Illawarra. Tra maggio e settembre egli visitò anche l'isola Norfolk. Trattenuto nell'isola oltre il previsto dal cattivo tempo, poté fare un inventario molto ampio della sua flora (nel suo diario elenca 104 specie che ritiene native e 38 che considera introdotte). Visitò anche la vicina isola Phillip, dove fu derubato di gran parte dell'equipaggiamento e delle provviste da alcuni forzati. Fin nel 1828 aveva chiesto di poter tornare in Inghilterra (ricordo che l'aveva lasciata nell'ormai lontano 1814); il permesso gli fu finalmente accordato nel novembre 1830. Dopo un'ultima visita a Illawarra e alla Cox Walley e i saluti agli amici (erano tanti che richiesero non meno di una settimana), partì da Sydney il 25 febbraio e arrivò in Inghilterra a luglio. Qui si stabilì non lontano da Kew, dedicandosi alla sistemazione del suo erbario e alla stesura di vari articoli. Nel 1832 fu ammesso alla Linnean Society. Lo stesso anno morì Charles Fraser, e gli fu offerto di succedergli come botanico della colonia, ma egli rifiutò a favore del fratello minore Richard. Anche quest'ultimo era un ottimo botanico, entrato appena quindicenne a Kew. In Australia non mancò di partecipare a diverse spedizioni e visitò anche la Nuova Zelanda (dove tra l'altro scoprì l'orchidea che porta il suo nome Dendrobium cunninghamii), ma infine fu vittima di un tragico incidente. Nell'aprile 1835 si unì alla spedizione Mitchell, inviata ad esplorare il corso del fiume Darling. Nei pressi del Bogan River, si allontanò dal gruppo per erborizzare e non fece mai più ritorno. Più tardi si scoprì che, perdutosi e probabilmente in preda al delirio, si era unito ad alcuni indigeni che più tardi, terrorizzati dal suo strano comportamento notturno, lo avevano ucciso. Quando la notizia della morte di Richard giunse in Inghilterra, il posto di botanico della colonia fu nuovamente offerto a Allan Cunningham, che questa volta accettò e ritornò a Sidney nel febbraio 1837. Tra i suoi compiti, c'era anche la direzione del Giardino del governatore; Fraser aveva cominciato a trasformarlo in orto botanico (il futuro Sydney Royal Botanic Garden), ma era ancora soprattutto un parco pubblico e un orto per la coltivazione di verdure per la mensa del governatore; dopo qualche mese, Cunningham diede le dimissioni, proclamando che non "avrebbe più tollerato di essere un mero coltivatore di cavoli e rape". Nell'aprile 1838 si imbarcò sulla corvetta francese L'Héroine alla volta della Nuova Zelanda; trovò tempo pessimo e ritornò Sidney in ottobre gravemente malato. Nonostante la sua salute continuasse a peggiorare, progettava di accompagnare il capitano John Wickam della Beagle in una nuova ricognizione della costa nord-occidentale. Ormai stava così male che la nave partì senza di lui; il suo successore e amico James Anderson lo fece trasportare in un piccolo cottage situato nell'Orto botanico, dove Cunningham si spense il 27 giugno 1839. Nel 1844 in sua memoria venne eretto un obelisco commemorativo, alla cui base nel 1901 vennero traslate le sue ceneri. Si trova al centro di un piccolo stagno affiancato da boschetto di una delle tante piante da lui scoperte, la palma Archontophoenix cumminghamiana. Gli è intitolata anche la rivista scientifica dell'Orto botanico di Sydney "Cunninghamia". ![]() Una piccola pianta per un grande raccoglitore Insieme a Robert Brown, Allan Cunningham è considerato il più importante esploratore della flora australiana della prima metà dell'Ottocento; ne esplorò le coste settentrionali, gran parte del Nuovo Galles del Sud, il Queensland meridionale, la Tasmania, nonché le isole Norfolk e Phillips e alcune aree della nuova Zelanda. Secondo il suo amico e primo biografo Robert Heward, le specie da lui raccolte ammontano a 3000. I suoi invii di semi, bulbi, piante vive a Kew furono così importanti che una serra, prima destinata alle piante africane, venne invece riservata alle sue australiane. Moltissime delle specie da lui raccolte erano ignote alla scienza, e non poche gli sono state dedicate. Ricordiamo almeno Casuarina cunninghamiana, Archotophoenix cunninghamiana, Araucaria cunninghamii, Crotalaria cunninghamii, Actinodium cunninghamii, Adenanthos cunninghamii, Alsophila cunninghamii, Angianthus cunninghamii, Banksia cunninghamii, Cassinia cunninghamii, Clematis cunninghamii, Eucalyptus cunninghamii, Nothofagus cunninghamii, Solanum cunninghamii. A una scelta di queste magnifiche piante è dedicata la gallery a fine post. Anche se i continui viaggi e la brevità del soggiorno in Inghilterra gli permisero di pubblicare solo una minima parte delle sue raccolte, gli si devono 139 denominazioni valide: 6 generi (Ackama, Alseuosmia, Corokia, Fieldia, Rabdothamnus, Hoheria), 133 specie (la più nota delle quali è probabilmente Grevillea rosmarinifolia) e una varietà. Si basano invece su raccolte di Cunningham più di 300 denominazioni di altri autori, tra cui 6 generi. A Cunningham sono stati dedicati due generi: Cunninghamia R.Br., che condivide con il quasi omonimo James Cuninghame (ne ho parlato in questo post) e Alania Endl., un genere monospecifico della famiglia Boryaceae, la cui unica rappresentante ha la ventura di ricordare il nostro protagonista sia nel nome generico sia nell'epiteto: è infatti Alania cunninghamii, un'erbacea rizomatosa del Nuovo Galles del Sud. Come ci ricorda Endlicher, Cunnigham la raccolse all'inizio del suo soggiorno australiano, nel 1818, "in campi aridi nei pressi delle Blue Mountains". E' una perenne cespitosa con foglie lineari, infiorescenze ascellari di piccoli fiori bianchi a stella con perianzio formato da sei tepali liberi, sei stami inseriti alla base con filamenti lunghi quanto i tepali. E' endemica delle Blue Mountains settentrionali; eliofila, tende a formare tappeti espandendosi con i rizomi. Qualche informazione in più nella scheda.
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Allan Cunningham, il secondo "raccoglitore del re per Kew", arriva in Australia alla fine dal 1816. E' l'inizio di una vera epopea che farà di lui il più prolifico cacciatore di piante australiane della prima metà dell'Ottocento, con la raccolta di non meno di 20.000 esemplari. Giovane ed entusiasta, tra il 1817 e il 1822 è il botanico di bordo delle cinque spedizioni guidate dal capitano Phillip Parker King. Per una volta, tra capitano e botanico, uniti dalla medesima sete di scoperta e dallo stesso amore per la natura, non c'è conflitto, ma collaborazione, stima, anzi amicizia. Non sono rare le occasioni in cui i due scendono insieme a terra per esplorare e fare raccolte di piante e animali. Meritatissima dunque la dedica da parte di Robert Brown del curioso genere Kingia (con il quale il botanico scozzese paga anche un debito con il padre del capitano, Philip Gidley King, governatore del Nuovo Galles del Sud all'epoca delle spedizioni Flinders). ![]() Primo contatto: una spedizione di 1200 miglia Il 20 dicembre 1816, dopo due anni trascorsi in Brasile (ne ho parlato in questo post) il raccoglitore del re Allan Cunningham (1791-1839) sbarcava finalmente nella baia di Sidney. In Brasile aveva perfezionato le tecniche di raccolta e acquisito il gusto dell'avventura, ma ora finalmente aveva raggiunto la meta per la quale si preparava da tempo. Dotato di una buona istruzione di base (la famiglia avrebbe voluto farne un avvocato), a 17 anni era entrato a Kew ed era stato assegnato all'erbario, come assistente di William T. Aiton che stava completando la seconda edizione di Hortus Kewensis; decisivo fu poi l'incontro con Robert Brown che tra il 1801 e il 1805 era stato il botanico delle spedizioni Flinders in Australia e ora era il bibliotecario di Joseph Banks. Fu Brown a iniziare Cunningham alla flora australiana e a spingerlo a proporsi per una missione sul campo nel nuovissimo continente. La sua candidatura fu caldeggiata da Aiton che ne aveva grandissima stima. Al suo arrivo a Port Jackson Cunningham aveva appena 25 anni; ne sarebbero trascorsi più di quindici prima che rivedesse la madre patria: quindici anni pieni di avventure, di spedizioni per mare e per terra, che ne avrebbero fatto il più importante esploratore della flora australiana della prima metà dell'Ottocento. Appena sbarcato, si presentò al governatore del Nuovo Galles del sud Lachlan Macquarie che lo accolse con grande gentilezza e gli suggerì di unirsi alla spedizione di John Oxley che si accingeva ad esplorare il territorio a ovest delle Blue Mountains; Cunningham accettò e, in attesa della partenza, affittò un cottage a Parramatta e iniziò a botanizzare nei dintorni. Fin dai tempi del primo viaggio di Cook, la baia di Sidney era la zona più battuta dagli europei ed egli ebbe l'impressione di essere quasi a casa, ritrovando molte piante coltivate nei giardini e nelle serre inglesi, che conosceva benissimo come assistente di Aiton e spesso non aveva difficoltà a riconoscere a colpo d'occhio. Nell'aprile 1817 Cunningham lasciò Parramatta e si unì alla spedizione Oxley il cui scopo principale era verificare se il fiume Lachlan (scoperto appena due anni prima e battezzato così in onore del governatore) si gettasse in mare o in qualche lago interno; venne così ad affiancarsi al botanico Charles Fraser, a un mineralogista e un disegnatore. Partiti da Bathurst il 28 aprile, gli esploratori seguirono il corso del fiume per circa due mesi, finché a giugno ogni ulteriore progresso fu bloccato da paludi impenetrabili. Allora si diressero a nord e raggiunsero il Macquarie River che discesero fino a Bathurst, dove rientrarono il 29 agosto. In circa 20 settimane, avevano percorso (a piedi, a cavallo, in barca) circa 1200 miglia, toccando ambienti ecologici molto diversificati; dal primo all'ultimo giorno, Cunningham non cessò mai di raccogliere piante, anche se all'inizio era un po' deluso perché "la botanica, con pochissime eccezioni, è la stessa che ho osservato in situazioni simili nei dintorni di Parramatta". Tra quelle poche eccezioni, una delle tante piante che portano il suo nome, Casuarina cunninghamiana. Alla fine, però, il bottino ammontò a circa 450 specie. L'8 settembre 1817, al tramonto, Cunningham rientrò a Parramatta con tutte le sue collezioni ben impacchettate. Il mattino dopo si presentò al governatore che lo invitò a cena e gli suggerì di unirsi a una nuova spedizione, questa volta per mare: il capitano Phillip Parker King si accingeva infatti a perlustrare le coste australiane non esplorate da Flinders. Cunningham ovviamente accettò. Scrisse a Banks e Aiton per comunicare che era rientrato sano e salvo e trascorse gli ultimi mesi dell'anno a preparare gli esemplari da inviare a Kew e a continuare l'esplorazione dei dintorni. Il 21 dicembre era a bordo del cutter Mermaid, la piccola nave scelta dall' ammiragliato per la missione di King. Costruita in India in legno di teak, era lunga 17 metri e a pieno carico aveva un pescaggio di appena tre metri, ideale per la ricognizione idrografica anche di strette insenature. Aveva dunque un carico limitato (uno degli obiettivi era anche individuare punti di rifornimento di acqua e cibo fresco) e un equipaggio di appena 19 uomini: oltre al capitano, il luogotenente Phillip Parker King, i suoi secondi Frederick Bedwell e John Septimius Roe (che poi sarebbe diventato il primo General Surveyor dell'Australia occidentale), il nostro Cunningham, 12 marinai, due mozzi e l'aborigeno Bungaree, che aveva già partecipato come guida, interprete e negoziatore con le popolazioni locali alla spedizione Flinders. ![]() Alla scoperta della costa settentrionale dell'Australia Il compito principale di King era il rilevamento idrografico della costa settentrionale, in particolare del settore più occidentale non toccato da Flinders; l'ammiragliato sperava che egli individuasse qualche fiume che fosse possibile risalire per penetrare nell'interno. Ma la lista dei compiti che gli fu consegnata includeva anche la raccolta di informazioni sulle condizioni metereologiche, le montagne, la flora e la fauna, il legname, i minerali, le comunità locali, le loro lingue e costumi, la possibilità di commerciare con loro, nonché ogni prodotto che potesse essere esportato in Gran Bretagna. Obiettivi che per una volta mettevano d'accordo il capitano e il suo naturalista. Salpata da Port Jackson il 22 dicembre 1817, la Mermaid scese lungo la costa occidentale, per poi navigare lungo le coste meridionale e orientale fino a raggiungere il North West Cape dove sarebbe iniziato il rilevamento. Durante il tragitto, due soli scali significativi: il 26 dicembre a Twofold Bay, quando Cunningham per la prima volta scese a terra con il capitano, notando che la vegetazione poco differiva da quella di Port Jackson; il 20 gennaio 1818 a Oyster Bay, che fu perlustrata per quasi due settimane. Doppiato il North West Cape, intorno a metà febbraio venne scoperto un golfo battezzato Exmouth Gulf in onore di Lord Exmouth. Erano acque infide in cui vennero perse due delle tre ancore. Per circa due settimane la navigazione, in quasi totale assenza di vento, proseguì lenta, perlustrando il tratto di costa tra il golfo di Exmouth e Port Walcott. Cunningham ebbe parecchie opportunità di scendere a terra, spesso in compagnia del capitano che condivideva i suoi interessi naturalistici; tuttavia si era alla fine della stagione secca e il territorio appariva arido e desolato, le piante erbacee erano per lo più morte, mentre le rare specie arboree raramente portavano frutti. Finalmente l'8 marzo si levò il vento da sud e la Mermaid fece vela a nord, in direzione della Terra di Arnhem. Sospinta dal vento, dapprima carico di pioggia, non si sarebbe fermata fino al 27 marzo, quando gettò l'ancora in un'isola che poi sarebbe stata battezzata Goulburn Island; ora il paesaggio appariva del tutto diverso; così lo descrive un entusiasta capitano King: "Si era ormai al termine della stagione delle piogge, e ogni cosa aveva l'aspetto più rigoglioso; l'erba, che copriva il terreno dell'isola, era alta più di sei piedi, tanto che ci nascondeva l'un l'altro mentre camminavamo verso la sommità della collina, i cui lati erano fittamente boscosi. Ai margini della spiaggia crescevano il pandano e l'ibisco e una varietà di altri alberi e arbusti tropicali e la sabbia era variegata dai lunghi tralci del convolvolo in piena fioritura". Insomma un vero paradiso, come l'adiacente Sims Island (così nominata su richiesta di Cunningham in onore del primo curatore del Botanical Magazine John Sims) dove il nostro botanico poté fare incetta di piante, tra cui una profumatissima Asclepiadacea. Lasciata Goulburn Islands il 6 aprile, per tutto quel mese e quello successivo vennero esplorate la penisola di Cobourg, le isole Melville e Bathurst, le coste del golfo di Van Diemen fino al West Alligator River, il punto più orientale: King lo chiamò così per i coccodrilli che infestavano le sue rive paludose ed egli scambiò per alligatori. In più occasioni ci furono incontri con nativi, non sempre amichevoli nonostante la presenza mediatrice di Bungaree; il più drammatico si ebbe nella penisola di Cobourg, in un ancoraggio ribattezzato da King Knocker's Bay "Bay dei picchiatori" perché gli esploratori furono presi a sassate dai nativi mentre cercavano di disincagliare una lancia rimasta intrappolata tra le mangrovie. La stagione inoltrata e il tempo pessimo rendevano impossibile proseguire verso est; il capitano decise così di fare rotta per Timor; la breve sosta a Kupang (6-11 giugno) permise a King di rinnovare le provviste e a Cunningham di erborizzare nei dintorni della città, con l'aiuto di servo malese messogli a disposizione dall'amministrazione olandese. Il viaggio di ritorno, nuovamente lungo le coste occidentale e meridionale, fu funestato dalla dissenteria, con la morte di uno dei marinai; grazie ai venti favorevoli, fu tuttavia molto veloce: il 29 luglio 1818 la Mermaid gettava l'ancora nella baia di Sidney. Il comandante e i suoi ufficiali trascorsero la seconda metà del 1818 a riordinare le carte e a preparare la nave per la successiva spedizione; Cunningham, oltre a preparare i pacchi di semi e piante per Kew, ebbe anche il tempo di fare una breve escursione a sud di Sidney, visitando la regione di Illawarra; situata ad appena una cinquantina di miglia da Port Jackson, con il suo clima caldo-umido e una peculiare vegetazione tropicale, sarebbe divenuto uno dei suoi terreni di caccia favoriti dove sarebbe tornato molte volte negli anni successivi. Partito da Parramatta il 19 ottobre e rientrato esattamente un mese dopo, era pronto per una seconda avventura con l'amico King. La seconda spedizione della Mermaid fu però quasi un viaggio di routine: nel dicembre 1818 King salpò per la terra di van Diemen (l'odierna Tasmania) e ne perlustrò la costa fino al Macquarie Harbour; già il 14 febbraio era di ritorno nella baia di Sidney. Cunningham incrementò le sue raccolte erborizzando nei dintorni di Hobart e Launceston; la visita in Tasmania fu tuttavia abbastanza deludente per lui: erano le stesse zone già esplorate da Robert Brown e vi trovò poche novità. Il terzo viaggio della Mermaid (8 maggio 1819-12 gennaio 1820) seguì una rotta opposta rispetto al primo. Accompagnata da un altro vascello, la Lady Nelson, su cui viaggiava una nostra vecchia conoscenza, John Oxley, la Mermaid si diresse a nord, raggiungendo Port Maquaire e la foce del fiume Hastings. Dopo aver esplorato insieme quest'area, mentre la Lady Nelson e Oxley rientravano a Port Jackson, la Mermaid si inoltrava nel rischioso passaggio tra la costa del Queensland e la barriera corallina; era una navigazione lenta e difficile che moltiplicò gli scali, offrendo molteplici possibilità di raccolta a Cunnigham; sulla Fitz Roy Island poté raccogliere molti alberi tipici della foresta pluviale e addirittura due orchidee (una sarà poi dedicata al capitano come Dendrobium kingianum); all'Endeavour River, dove Cook era stato costretto a spiaggiare la sua nave gravemente danneggiata dalla barriera corallina, fu deliziato dalla raccolta di alcuni esemplari che andavano a sostituire quelli imperfetti raccolti da Banks in persona. Il 25 luglio la Mermaid doppiava Capo York ed entrava nel golfo di Carpentaria; partendo da Goulburn Island, King riprese il rilevamento della costa settentrionale, procedendo però da est a ovest; tra agosto e settembre furono esplorate le coste e le isole della Terra di Arnhem, per poi proseguire fino al Capo Londonderry e l'arcipelago Buonaparte. Si era ormai a metà ottobre. il tempo era di nuovo pessimo e molti uomini erano malati. Come due anni prima, King si diresse a Timor, per rinnovare le scorte e iniziare il viaggio di ritorno, che seguì la stessa rotta di quello precedente, concludendosi il 12 gennaio 1820. Il terzo viaggio, con i numerosi scali lungo le coste del Queensland e la lenta esplorazione della costa settentrionale fu particolarmente fruttuoso per Cunningham, che poté anche osservare (e raccogliere) in una stagione diversa varie piante che aveva già incontrato nel corso del primo viaggio; tuttavia egli si ammalò abbastanza gravemente (di itterizia, secondo King). Ciò non gli impedì di essere di nuovo della partita per la quarta spedizione della Mermaid (14 giugno-9 dicembre 1820). Nei mesi precedenti il vascello era stata carenato e bonificato (con scarso successo) degli scarafaggi e dei ratti che infestavano lo scafo. A giugno era pronto per la partenza, con gli stessi ufficiali ma un equipaggio rinnovato perché solo due marinai avevano confermato l'ingaggio; ora a bordo c'era anche un chirurgo. Fu un viaggio sfortunato fin dall'inizio. Poco dopo l'uscita dal porto, la nave incontrò un tempo così cattivo da perdere il bompresso; dovette così rientrare per essere riparata. Il viaggio riprese il 13 luglio, ma una settimana dopo, durante le manovre d'ancoraggio a Port Bowen, la nave rimase incagliata in un banco di sabbia, riportando danni gravi ma al momento non visibili, tanto che King ordinò di riprendere la navigazione. Il Capo York venne doppiato senza difficoltà e per la terza volta la Mermaid raggiunse Goulburn Island dove Roe, che si era imprudentemente allontanato da solo per cacciare, rischiò di essere catturato e ucciso dai nativi. Ma la preoccupazione maggiore era proprio la Mermaid: dall'ingresso nel golfo di Carpentaria lo scafo imbarcava sempre più acqua, tanto che King decise di portarla a terra per carenarla. Il 21 settembre fu trovato un ancoraggio adatto in una baia riparata e provvista di acqua dolce; i lavori di riparazione si protrassero fino al 30 settembre, ma non poterono che essere provvisori, in mancanza di sufficienti chiodi di rame. Non restava che intraprendere il forzato viaggio di ritorno, lungo le coste ovest e sud. Prima di rientrare a Sidney il 9 dicembre, a Botany Bay si rischiò il naufragio. Anche le raccolte di Cunningham erano state magre, a causa della stagione avanzata. All'arrivo a Port Jackson, lo attendeva una notizia dolorosa: quella della morte del suo protettore Joseph Banks, avvenuta il 20 giugno. Fu l'ultimo viaggio della Mermaid (la nave, non più adatta alla navigazione oceanica, fu destinata a usi meno logoranti), ma non l'ultimo di King, Cunningham e compagni. Il 26 maggio 1821 riprendevano il mare a bordo del brigantino Bathurst, un vascello di tonnellaggio doppio rispetto alla piccola e agile Mermaid, con un equipaggio di 33 persone. Ripercorrendo la rotta ormai consueta, ripresero l'esplorazione della costa settentrionale, completandone la ricognizione fino alla penisola Dampier e a Roebeck Bay. Tuttavia, dopo la brutta avventura della Mermaid, e tanto più con una nave con maggior pescaggio, il capitano temeva i banchi di sabbia e trascurò di esplorare la profonda insenatura che oggi porta il suo nome (King Sound). Da Roebeck Bay la nave fece rotta per Mauritius, dove Cunningham che non aveva raccolto molto durante l'ultima parte del viaggio, essendosi di nuovo ammalato, riuscì a scambiare alcune piante australiane con piante indiane, africane e malgasce. Quindi la Bathurst, nuovamente navigando lungo le coste occidentale e meridionale, rientrò a Sidney il 25 aprile 1822. ![]() Un enigma botanico In cinque anni di viaggi e avventure comuni tra King e Cunningham si era cementata una sincera amicizia. Il capitano avrebbe descritto così il "suo" botanico: "Era un esemplare raro, direi un genere a sé: devoto alla sua scienza, la botanica; un caldo amico e un uomo onesto". Ma per i due amici era venuto il momento di separarsi. A King fu ordinato di rientrare in Inghilterra con la Bathurst; Cunningham rimase in Australia di cui continuò ad esplorare la flora per altri nove anni; e lì lo ritroveremo in un altro post. A Londra King fu accolto nella Royal Society e nel 1826 pubblicò la relazione dei suoi viaggi, che contiene anche un'appendice sulla flora della costa settentrionale dell'Australia scritta da Cunningham. Fu quindi incaricato dei rilevamenti idrografici della Terra del fuoco, missione che lo impegnò per ben cinque anni (1826-1830). Tornato in Inghilterra in cattiva salute, nel 1831 decise di lasciare il servizio attivo e di tornare in Australia, dove il padre gli aveva lasciato una vasta proprietà; vissuto fino al 1856, vi ricoprì una serie di incarichi politici; nel 1855 fu nominato retroammiraglio. Fu Robert Brown a rendere merito dei suoi servigi alla botanica dedicandogli un singolare endemismo australiano, Kingia australis; allo stesso tempo si sdebitò con il padre di lui, Philip Gidley King, governatore del Nuovo Galles del Sud ai tempi delle spedizioni Fliders. Così infatti scrive: "A questo nuovo genere ho dato il nome del mio amico il capitano King, che durante i suoi importanti rilevamenti delle coste della Nuova Olanda creò preziose collezioni in diversi campi delle scienze naturali, e in ogni occasione diede tutta l'assistenza in suo potere a Mr. Cunningham, l'infaticabile botanico che lo accompagnava. Il nome è anche inteso come segno di rispetto alla memoria del fu capitano Philip Gidley King che, come governatore del Nuovo Galles del Sud, organizzò materialmente il viaggio del Capitano Flinders; e verso la cui amicizia io e Ferdinand Bauer siamo in debito per l'assistenza che ci ha prestato finché siamo rimasti in quella colonia". Si rimanda alla sezione biografie per un profilo biografico di padre e figlio; qui basti dire che il capitano King, oltre ad essere un grande idrografo, era un naturalista più che dilettante, interessato soprattutto alla zoologia. Il suo amore per la natura traspare alla lettura di quasi ogni pagina di Narrative of a Survey of the Intertropical and Western Coasts of Australia, Performed Between the Years 1818 and 1822, dove spesso lo vediamo partecipare con entusiasmo alle raccolte di Cunningham; in Patagonia, raccolse un'importante collezione etnografica che poi donò al British museum e esemplari di uccelli, in alcuni casi inediti, che poi pubblicò sul Zoological Journal di Sidney. Era inoltre un dotato disegnatore e acquarellista. Oltre alla già ricordata orchidea, lo ricordano gli eponimi di sei rettili: Amphisbaena kingii, Chlamydosaurus kingii, Egernia kingii, Elgaria kingii, Hydrophis kingii e Liolaemus kingii. Kingia australis, l'unica specie del genere Kingia, è una pianta assai singolare. Si presenta come un tozzo pseudo tronco, formato dall'accumulo delle basi fogliari, sormontato da un ciuffo di foglie lunghe, sottili e piuttosto rigide. I fiori, minuscoli, da giallo verdastro a bruno, ma raggruppati in dense infiorescenze globose, sono portati all'apice di lunghi steli emessi tra il fogliame. Di crescita lentissima (circa 1 cm e mezzo l'anno), è però molto longeva; esemplari pluricentenari alti oltre sei metri non sono insoliti. Fin dalla sua scoperta, dovuta proprio a Robert Brown, che la raccolse nel 1801 sulla costa del King George Sound, costituisce un'enigma per i botanici. Quando non è in fioritura, ha un aspetto assai simile ad alcune specie del genere Xanthorrhoea, tanto che per molti anni si credette ne fosse la forma femminile. In realtà, i suoi fiori sono talmente diversi. Brown poté osservarla in fioritura, ma trovò solo frutti così rovinati e imperfetti che inizialmente non la pubblicò; tuttavia nel 1823 ottenne esemplari di fiori e frutti maturi raccolti da William Baxter, basandosi sui quali poté descriverla e discuterne la collocazione tassonomica in Character and description of Kingia, inizialmente pubblicato in appendice al resoconto dei viaggi di King. Con molti dubbi, egli assegnò il nuovo genere alle Liliaceae. A lungo è stato collocato nella famiglia Xanthorrhoeaceae; oggi, insieme a altri tre generi, tutti australiani, fa parte della famiglia Dasypoganaceae, stabilita nel 1998, molto più vicina alle Arecaceae (le palme) che non alle Xanthorrhoeaceae/Asparagaceae. La sua crescita lentissima è un adattamento a condizioni di estrema aridità, in terreno con pochi elementi nutritivi; la sua fioritura è evento raro, che si produce in condizioni particolarmente favorevoli, ma soprattutto dopo un incendio. Altre informazioni nella scheda. Napoleone è appena stato sconfitto e relegato all'Elba, quando sir Joseph Banks e il suo capo giardiniere William Townsend Aiton approfittano della pace ritrovata per inviare a caccia di piante i primi due "raccoglitori dei re" James Bowie e Allan Cunningham. Dopo una breve puntata in Brasile, il primo dovrà andare a raccogliere in Sud Africa, il secondo in Australia. La ripresa della guerra prolunga il soggiorno brasiliano e solo nel 1816 i due si dividono per raggiungere le destinazioni finali. In questo primo post seguiamo le avventure sudafricane di James Bowie, ricchissime di scoperte, finché il malcapitato botanico scopre sulla propria pelle che cosa succede quando, morto un re, se ne fa un altro. Da botanico del re cerca allora di rimettersi sul mercato come cacciatore di piante indipendente, ma l'impresa gli riuscirà solo per breve tempo. A ricordarlo la curiosissima Bowiea volubilis, oggi assai ricercata da appassionati e collezionisti. ![]() Australia, Sudafrica via Brasile Il 3 maggio 1814 lo sconfitto Napoleone sbarca all'Elba da una nave da guerra britannica. Per l'Europa è arrivato il momento della pace? Ne è convinto il capo giardiniere di Kew William Townsend Aiton che il 29 maggio ricorda a sir Joseph Banks che prima di ammalarsi re Giorgio III aveva espresso la volontà di inviare dei raccoglitori per incrementare le collezioni dei giardini reali e gli suggerisce di discuterne con il principe reggente. Il 7 giugno Banks risponde che la pace con la Francia ha riaperto la possibilità, e aggiunge che l'imperatore d'Austria ne sta già approfittando per spedire in giro i raccoglitori di Schönbrunn, l'unico vero rivale di Kew. Se il Reggente acconsentirà, ha già individuato tre possibili mete: il Capo, Buenos Aires e il Nuovo Galles del sud. Da parte sua, Aiton ha già in mente le persone adatte: due giovani giardinieri molto preparati che ha istruito lui stesso: James Bowie e Allan Cunningham. Alla fine le mete scelte sono due: il Sudafrica e l'Australia, con tappa intermedia in Brasile. Ci vuole ancora qualche mese per ottenere l'autorizzazione sia del Reggente, sia del governo portoghese. Terminati i preparativi, il 29 ottobre 1814 i "raccoglitori del re per Kew" Bowie e Cunningham si imbarcano sulla HMS Duncan alla volta di Rio de Janeiro, dove sbarcano il 29 dicembre. Dovrebbero fermarsi pochi mesi, ma la ripresa della guerra in Europa in seguito alla fuga di Napoleone dalla Elba cambia tutto: le comunicazioni intercontinentali sono di nuovo difficili e Banks usa tutto il suo prestigio per convincere i portoghesi a concedere ai suoi raccoglitori il permesso di addentrarsi nell' interno del paese, fino ad allora chiuso agli stranieri. Nei dintorni di Rio Bowie e Cunningham hanno trovato una ricca messe di piante e hanno già cominciato a inviare in patria esemplari d'erbario, semi e occasionalmente piante vive, che i francesi lasciano passare benevoli sempre grazie al prestigio internazionale di Banks. Nel aprile 1815 partono per Sao Paulo, che raggiungono dopo un mese di difficile viaggio a dorso di mulo. Si trattengono in questa regione che sono i primi europei ad esplorare per circa quattro mesi, per poi rientrare a Rio ad agosto. Dedicano l'autunno e l'anno successivo di nuovo ai dintorni di Rio, con escursioni a breve raggio nelle località più promettenti, in particolare alla Serra dos Orgãos, famosa per la sua ricchezza di biodiversità vegetale e animale. Se nelle zone più aride hanno raccolto soprattutto cactacee (sono loro a "scoprire" Rhipsalis grandiflora, Hatiora salicornioides e lo splendido Rhodocactus grandifolius), ora è la volta di bromeliacee e orchidee. Quelle che inviano a Kew sono soprattutto "piante da stufa", ovvero da serra calda. I loro apporti più noti sono la glossinia Sinningia speciosa e Jacaranda mimosifolia. Nel giugno 1816 arriva l'ordine di Banks di lasciare il Brasile e di imbarcarsi per le mete finali con la "primissima opportunità", ma, soprattutto per insistenza di Bowie che vuole completare l'esplorazione della Serra dos Orgãos, si trattengono ancora qualche mese. Infine, il 28 settembre 1816 entrambi si imbarcano per le rispettive destinazioni: Cunningham sulla Surry alla volta di Port Jackson (ovvero l'attuale Sideney) - dove lo raggiungeremo in un prossimo post -, Bowie sulla Mulgrave Castle per il Capo, dove sbarca il 1 novembre. ![]() Quattro grandi spedizioni e un triste declino James Bowie (ca. 1789–1869), londinese, era figlio di un mercante di seta di Oxford Street. Intorno al 1810, a circa vent'anni, era stato assunto come giardiniere ai Kew Gardens, dove dunque prima di imbarcarsi per il Brasile aveva lavorato per quattro anni, venendo formato dalla stesso Aiton non solo in orticoltura, ma nelle migliori tecniche di raccolta e conservazione gli esemplari. Era un naturalista entusiasta e scrupoloso, ma, forse agli occhi di Banks, fino troppo intraprendente (e indipendente). Anche se aveva lasciato il Brasile con qualche rimpianto, il Sud Africa appariva ai suoi occhi ancora più promettente: "Nessun luogo è così produttivo del Capo di Buona Speranza [...]. Le piante di questo paese sono belle all'estremo e adatte alla conservazione". Banks la pensava nello stesso modo e non a caso aveva spedito qui il suo primissimo raccoglitore, Francis Masson, nell'orami lontano 1772; senza contare che le sudafricane, a differenza delle brasiliane, non erano "piante da stufa", ma specie rustiche o semirustiche, quindi più adatte alla coltivazione in giardino. Erano passati vent'anni da quanto Masson aveva lasciato definitivamente il Sudafrica, ed era ora di riallacciare quel filo interrotto dalla guerra, in una situazione politica per altro molto più favorevole, visto che nel 1797 gli inglesi avevano occupato la colonia del Capo e nel 1806 l'avevano annessa formalmente. Per circa un anno, Bowie erborizzò nei dintorni di città del Capo, finché nel marzo 1818 intraprese la prima spedizione nell'interno. Muovendosi a poca distanza della costa lungo quella che oggi è nota come Garden Route, esplorò la provincia del Capo occidentale, caratterizzata da clima mediterraneo con estati calde e asciutte e inverni miti e umidi, toccando successivamente Caledon, Gourits River, Great Brak River, George, Kaaimans River, Swart River, Goukamma e raggiungendo la costa a Knysna. Qui fece la conoscenza con George Rex, un ex funzionario britannico interessato alle scienze naturali che possedeva una fattoria detta Melkhoutkraal, che sarebbe diventata la sua base operativa nelle spedizioni successive. Quindi rientrò a Cape Town il 14 gennaio 1819. Si stabilì così una specie di routine: Bowie trascorreva i mesi estivi (ricordiamo che ci troviamo nell'emisfero sud, con stagioni invertite) caldi e asciutti, il periodo di stasi delle fioriture, a Città del Capo per preparare e spedire a Londra le raccolte di esemplari, semi, bulbi; all'inizio dell'autunno, ripartiva rientrando all'inizio dell'estate successiva. E' la falsariga della seconda spedizione (9 aprile 1819-22 gennaio 1820), durante la quale, dopo una sosta a Melkhoutkraal, si spinse fino a Plettenberg Bay, rientrando poi a Cape Town insieme a George Rex. Per la spedizione del 1820, ritornò a Knysna, dove fu ospite di Rex da marzo a settembre, quindi si mosse verso est fino ad Avontour, quindi a Uniondake nella Lang Kloof che separa la provincia del Capo occidentale da quella del Capo orientale; cambia anche il clima e ovviamente la vegetazione: dalla regione con piogge invernali, si passa a quella con piogge estive e inverni secchi e soleggiati, ma anche freddi di notte. Il viaggio proseguì per Uitenhage, Algoa Bay (l'attuale Port Elizabeth), Kowie, Grahamstown, quindi di nuovo Algoa Bay dalla quale Bowie rientrò a Cape Town il 29 gennaio 1821. La quarta e ultima spedizione fu la più lunga, occupando circa un anno e mezzo. Il suo punto di partenza fu quello di arrivo della spedizione precedente, Algoa Bay. Partitone nel giugno 1821, Bowie si diresse verso nord, toccando Graaff-Reinet e Eerste Poort, le località più settentrionali dei suoi viaggi. Rientrato a Algoa Bay, ne ripartì all'inizio del 1822. A febbraio a Uitenhage incontrò il botanico tedesco G.L.E. Krebs che aiutò a impacchettare bulbi e succulente. Una puntata ad est lo portò fino al Kowie River, l'estremo punto orientale delle sue spedizioni. Nel viaggio di ritorno toccò Avontuur, Van Stadens e Knysna, dove trascorse di nuovo tre mesi a casa di Rex, prima di rientrare a Cape Town il 4 dicembre 1822. Lo attendeva un'amara sorpresa. Nel 1820 erano morti sia Banks sia Giorgio III; per il nuovo sovrano Giorgio IV (il principe reggente che abbiamo incontrato all'inizio di questa storia), pochissimo interessato a piante e giardini, Kew cessava di essere una priorità; i fondi destinati ai Kew Gardens vennero dimezzati e fu deciso di richiamare uno dei due "raccoglitori del re", ovvero il nostro Bowie. Il motivo? "La mancanza di applicazione". Eppure egli era un raccoglitore formidabile, e le sue raccolte erano eccellenti per qualità e imponenti per quantità. I motivi veri erano altri: in primo luogo aveva dimostrato di essere troppo indipendente, di voler fare di testa sua, scegliendo in autonomia mete ed itinerari; in secondo luogo aveva preso due abitudini deprecabili agli occhi dei burocrati britannici: per arrotondare il magro salario vendeva sottobanco ai ricchi borghesi di Cape Town vistosi esemplari di piante molto richieste, come le Cycadaceae, le Strelitziae e i Crinum; per mantenere segreti i luoghi di raccolta, nelle note inviate a Kew li indicava in modo approssimativo o anche errato. Bowie dovette rassegnarsi a lasciare il Sudafrica. Non fu licenziato, ma assegnato all'erbario di Kew. Dopo otto anni di viaggi avventurosi e appassionanti, si sentiva stretto nei panni di botanico da scrivania. Sfogava la sua frustrazione nei bar e nei pub, raccontando ai compagni di bevute le sue mirabolanti avventure in Brasile e Sudafrica, magari stupendoli con un enorme serpente impagliato o altre bestie. Il suo unico sogno era tornare in Sudafrica, ma come raccoglitore indipendente. Ce ne informa nei particolari un breve articolo pubblicato all'inizio del 1827 sull'Edinburgh Journal of Science. L'autore (si tratta di William Jackson Hooker) esprime il suo rammarico per un provvedimento che ha rattristato "chiunque abbia a cuore la botanica", attesta l'eccellente qualità delle raccolte di Bowie, che ha potuto esaminare di persona a Kew; quindi scrive: "È ora suo [di Bowie] proposito tornare al Capo, ed esplorare di nuovo l'interno a proprio rischio, in cambio di un compenso per le sue grandi spese, nell'intento di mettere ciò che potrà raccogliere a disposizione dei naturalisti di questo paese". Segue un dettagliato prezzario: esemplari d'erbario, 2 sterline e 10 scellini il centinaio; semi, 5 sterline per cento dozzine; bulbi, come Ixia e simili, 10 scellini il centinaio; per quelli grandi, da 1 a 2 scellini e 6 centesimi l'uno; piante vive, 2 scellini e 6 centesimi l'una (per le piccole succulente, vale l'offerta tre per uno); Strelitziae, Zamiae e piante di dimensioni simili, 5 scellini l'una. Per le specie nuove si applica una maggiorazione. Grazie a questa inserzione e all'interessamento di amici come lo stesso Hooker, nell'aprile 1827 Bowie riuscì a ripartire per il Sudafrica e per qualche anno riprese le sue raccolte come cacciatore di piante free lance, inizialmente con qualche successo. Era anche un membro attivo della comunità scientifica della Colonia: fu tra i soci fondatori della South African Institution, la primissima società scientifica del Sudafrica, di fronte alla quale nella seduta del 31 agosto 1829 sostenne la necessità di creare un orto botanico a Cape Town dove le piante, in attesa di essere spedite in Europa, potessero essere acclimatate e studiate. Nel corso di tre sedute successive, presentò anche tre interventi intitolati "Sketches of the botany of South Africa", uno dei quali fu pubblicato da W. Bridekirk e rappresenta la prima guida della flora del Capo mai pubblicata. Considerato una specie di autorità, la cui conoscenza della flora del Capo era ritenuta senza pari, veniva anche consultato da ricchi proprietari di giardini, come il barone C.F.H. von Ludwig, che, quando la sua impresa fallì verso la metà degli anni '30, lo assunse come sovrintendente del proprio giardino. Sempre inquieto, lavorò alle sue dipendenze fino al 1841, quando riprese a viaggiare nell'interno a caccia di nuove piante; non ne aveva più né l'età né la fibra, anche perché "le sue abitudini erano tali da interferire con i suoi progetti" (dietro questa reticente formula vittoriana del Journal of botany si cela l'alcolismo). Si ridusse in estrema miseria, finché per carità Ralph H. Alderne lo assunse come giardiniere del suo giardino di Clarment. Bowie morì a Wynberg all'età di circa 80 anni. ![]() Una pianta più curiosa che bella? Hooker non era il solo ad apprezzare il lavoro di Bowie. Tra coloro che più si erano giovati dei suoi invii di succulente, c'era Adrian Haworth che nel 1824 denominò in suo onore Bowiea africana una delle piante da lui raccolte nell'ultima spedizione. La denominazione non è valida e oggi si chiama Aloe bowiea, conservando l'omaggio nell'epiteto. Un altro estimatore di Bowie era W. H. Harvey che, essendo stato ridotto Bowiea Haw. a sinonimo di Aloe, decise di recuperare il nome con una motivazione assai elogiativa che è anche un omaggio postumo a un uomo tanto bistrattato dalla sorte: "in molti anni di paziente lavoro nell'interno del Sudafrica ha arricchito i giardini europei con una varietà di succulente molto più ampia di qualsiasi altro viaggiatore in precedenza". Sono inoltre circa una ventina le specie, tanto brasiliane quanto sudafricane, che si fregiano degli epiteti bowiei e bowieanus; tra di esse Oxalis bowiei, Eriospermum bowieanum, Aspalathus bowieana. Bowiea Harv. ex Hook.f. (famiglia Asparagaceae) è un genere monotipico, rappresentato unicamente dalla sudafricana B. volubilis. Hooker figlio, che la pubblicò dopo la morte di Harvey, non la apprezzava più di tanto, ma ne era incuriosito; infatti scrive: "Per quanto possegga poca bellezza, è certamente una delle piante più curiose mai introdotte in Europa". E' proprio questa stranezza a farla oggi apprezzare dai collezionisti di bulbose e succulente. Affine a Drimia o Albuca, possiede un grande bulbo di colore verde chiaro che generalmente affiora dal terreno, rimanendo in gran parte scoperto, da cui nella stagione vegetativa emerge un fusto volubile molto ramificato che può raggiungere anche i tre metri. Le foglie che sono prodotte soprattutto vicino al bulbo in genere cadono poco dopo la nascita, mentre la funzione clorofilliana è svolta dal fusto e dai rami. Oltre che in Sudafrica, è presente in altri paesi adiacenti dell'Africa sud-orientale, dove cresce soprattutto in aree semiaride con piogge estive; in dormienza in inverno, con le prime piogge produce un fusto che cresce molto rapidamente. In primavera sbocciano anche i fiori, poco appariscenti e verdastri, seguiti a fine estate da capsule brunastre. Nel tardo autunno la pianta secca totalmente e entra in riposo. Di crescita lentissima (il bulbo può raggiungere il 15 cm di diametro, ma per farlo gli occorrono 25 anni) richiede coltivatori pazienti. In Sudafrica è diventata rara per l'eccessiva raccolta come pianta medicinale utilizzata per curare varie affezioni; le sono attribuite anche proprietà magiche come rendere i guerrieri coraggiosi, proteggere i viandanti, assicurare l'amore. Eppure è una pianta velenosissima tanto per gli uomini quanto per gli animali. Altre informazioni nella scheda. Nel Giurassico (da 180 a 135 milioni di anni fa) foreste di conifere della sottofamiglia Sequoioideae delle Cupressaceae ricoprivano vaste aree dell'emisfero boreale, come testimoniano i fossili trovati in Nord America, Groenlandia, Europa ed Asia. Oggi ne rimangono solo tre specie viventi, ciascuna delle quali è l'unica rappresentante di un genere monospecifico: le americane (o meglio californiane) Sequoia sempervirens e Sequoiadendron giganteum e la cinese Metasequoia glyptostroboides. Le due californiane sono rispettivamente il più alto e il più grande albero del mondo: la prima può raggiungere un'altezza di 100 metri, la seconda la stessa circonferenza e un volume di quasi 1500 metri cubi. Niente di più appropriato, di più "giusto", che questi maestosi giganti delle foreste americane prendano il nome da un nativo americano, il cherokee Sequoyah. Giusto, appropriato finché volete, ma non necessariamente vero. Il botanico austriaco Stephen Endlicher che creò il nome nel 1847 non ne spiegò l'etimologia; il collegamento con Sequoyah venne proposto per la prima volta nel 1856 in un articolo anonimo; benché presto messo in dubbio, si impose e nel secolo scorso divenne opinione comune. Nel 2018 un rigorosissimo saggio l'ho ridotto a mito, o se volete a fake news. Ma per noi è l'occasione di parlare di un grande linguista nativo e di tre meraviglie della natura. Ognuna con una storia speciale. ![]() Da Sequoyah a Sequoia Nel 1831, il grande cacciatore di piante David Douglas scrive a William Jackson Hooker: "Ma la grande bellezza della vegetazione californiana è una specie di Taxodium, che dà alla montagna un aspetto peculiare, stavo per dire terribile, qualcosa che dice chiaramente che non siamo in Europa. Ho ripetutamente misurato esemplari di questo albero alti 270 piedi (= 82 metri circa) e con un diametro di 32 piedi (= 10 metri circa) a tre piedi dal suolo. Più in alto ne ho visti anche alti 300 piedi (= oltre 90 metri)". Gli alberi giganti che fanno provare a Douglas il terrore del sublime erano esemplari di Sequoia sempervirens, detta anche sequoia della California o sequoia costiera, in inglese redwood; appartiene proprio a questa specie Hyperion, l'albero più alto del mondo, un esemplare di 115,66 metri del Parco nazionale di Redwood. Il più alto, ma non il più massiccio. Questo secondo record spetta a Generale Sherman, un esemplare di un'altra specie di sequoie californiane, la sequoia gigante Sequoiadendron giganteum: alta "solo" 82,8 metri, ha un diametro massimo di 11 metri, un volume stimato di 1486,6 metri cubi e un peso stimato di 1910 tonnellate, che ne fanno il maggior essere vivente del pianeta per volume. A queste glorie della foreste americane l'intuizione di uno studioso o forse il caso sembrerebbe aver assegnato il più adatto dei nomi: il genere Sequoia - e di riflesso Sequoiadendron "albero sequoia" - prenderebbe il nome da un illustre nativo, il cherokee Sequoyah. Come scriverà il giornalista John D. Ross in un articolo comparso in The Los Angeles Times nel 1908, "Quale nome potrebbe essere più appropriato per il più grande degli alberi americani che quello di un esponente della prima razza americana?" Incominciamo dunque da lui, dal cherokee Sequoyah (trascritto anche Ssiquoya, Sikwayi, Se-quo-yah, See-quah-ya). Nato forse intorno al 1770 nella città cherokee di Tuckasegee (all'epoca in North Carolina, oggi in Tennessee), era figlio di una donna cherokee chiamata Wut-teh, figlia, nipote o sorella di un capo indiano; discussa è l'identità del padre (un mercante di pellicce meticcio, un venditore ambulante tedesco o un ufficiale dell'Armata continentale di origine scozzese?), che in ogni caso abbandonò moglie e figlio e non ebbe alcun ruolo nella sua vita. Più tardi, quando servì tra i cherokee alleati con l'esercito federale, egli si faceva chiamare George Guess, ma sappiamo che non parlava inglese, fu allevato dalla madre nelle tradizioni del suo popolo e non frequentò alcuna scuola. Le poche cose certe che sappiamo su di lui - molteplici sono le leggende poi fiorite attorno alla sua persona - si devono all'avvocato, scrittore e editore Samuel Lorenzo Knapp che lo intervistò nel 1828 con l'aiuto di due interpreti, mentre Sequoyah si trovava a Washington come membro di una delegazione del suo popolo. Spiccava in mezzo agli altri sia per il carisma, sia perché era l'unico a non indossare abiti europei, ma i tradizionali abiti cherokee. In gioventù dovette spostarsi in molti luoghi, fu cacciatore e guerriero, gestì una stazione commerciale, servì nel Reggimento di cherokee sotto il comando di Gideon Morgan; quando una malattia o una ferita lo privò dell'uso di un ginocchio, impedendogli di cacciare e combattere, divenne argentiere e fabbro di grandissima abilità e dedicò il suo tempo a risolvere un mistero su cui si interrogava da molti anni: come facessero i bianchi a comunicare con i "fogli volanti". Come egli stesso riferì a Knapp, fu forse intorno al 1810 che incominciò ad elaborare un sistema di scrittura per trascrivere la sua lingua. Dapprima pensò a immagini di uccelli e altri animali da associare a ciascuna parola o idea (si trattava dunque di pittogrammi o ideogrammi), ma presto capì che era un'idea poco pratica. Pensò allora di associare a ogni sillaba un simbolo arbitrario, inventando un sistema di 200 segni, poi ridotto a 86 caratteri; molti furono ripresi da un libro di ortografia, quindi riprendono la forma di lettere latine o greche, ma corrispondono a suoni affatto diversi. Il sistema, perfezionato intorno al 1821, è così efficace che sua figlia, una bimba di cinque anni, lo apprese con facilità; gli adulti invece rimanevano scettici. Sequoyah, convinto che la diffusione del suo sillabario fosse indispensabile per la sopravvivenza stessa del suo popolo, prese a viaggiare nelle riserve dell'Alabama dove vivevano i Cherokee per convincere i capi dell'utilità del suo sistema: a ciascuno di loro chiedeva di dire una parola, la trascriveva, poi chiamava la bambina perché la leggesse. Il successo dell'esperimento gli procurò un numero crescente di allievi, anche se molti non mancarono le diffidenze e i sospetti di stregoneria. Superate le ostilità iniziali, il sistema si diffuse rapidamente. Nel 1824 il Consiglio della Nazione Cherokee lo premiò con una medaglia d'argento. Lo stesso anno Sequoyah si trasferì in Arkansas e nel 1828 a Washington fu tra i firmatari del trattato che istituisce il territorio indiano (corrispondente all'attuale Oklahoma). E' in questa occasione che fu intervistato da Knapp. Nel 1829, Sequoyah si stabilì con la moglie e la figlia nell'attuale Sallisaw, in Oklahoma, dove ancora si conserva la sua capanna; cercò di svolgere un ruolo di paciere tra i Cherokee che si erano trasferiti qui all'inizio del secolo (gli Old Settlers) e i Cherokee occidentali, guidati dal capo John Ross; nel 1839 fu tra i firmatari dell'Atto di Unione tra le due frazioni che portò alla creazione di una nuova costituzione. Nel 1842, insieme a un figlio e a un compagno, andò in Messico per cercare di convincere i Cherokee che vi erano migrati a stabilirsi nel Territorio Indiano, ma nel corso di questo viaggio (tra il 1843 e il 1845) morì presso San Fernando de Rosas nello stato di Coahuila (Messico). Intanto il suo sistema era stato adottato ufficialmente dal suo popolo (1825). I Cherokee furono il primo gruppo indigeno ad avere una lingua scritta e a un alto numero di alfabetizzati (in proporzione molto maggiore rispetto agli statunitensi anglofoni). Alla fine dello stesso anno, la Bibbia e molti inni sacri vennero trascritti in cherokee. Nel 1826 per incarico del Consiglio della nazione Cherokee, George Lowrey e David Brown tradussero e stamparono otto copie delle leggi della Nazione. Nel 1828 incominciò ad essere stampato il Cherokee Phoenix, un quotidiano bilingue in inglese e cherokee. La notizia che un nativo aveva inventato dal nulla un alfabeto (o meglio un sillabario, trattandosi di una scrittura sillabica) si sparse presto in tutto gli Stati Uniti e trovò eco anche all'estero, dove fu d'esempio soprattutto ai missionari che dovevano affrontare il compito di creare sistemi di trascrizione di lingue fino ad allora prive di scrittura. Così, il missionario James Ewans si ispirò al sillabario cherokee per creare il Cree syllabics, il sistema usato per trascrivere le lingue degli indiani Cree del Manitoba e dell'Ontario; a sua volta, il Cree syllabics ispirò un sistema per trascrivere una lingua locale in Cina. Si calcola che il sillabario di Sequoyah sia all'origine di non meno di 21 sistemi usati per trascrivere oltre 60 lingue. ![]() Puntando in alto: Sequoia Delle tre specie viventi della sottofamiglia Sequoioideae della famiglia Cupressaceae, quella con areale più vasto, e anche la prima ad essere nota agli europei è Sequoia sempervirens, la sequoia costiera o redwood, presente unicamente nelle montagne costiere sotto i 900 metri in una striscia lunga approssimativamente 750 km e larga 8-75 lungo la costa pacifica del Nord America, dall'Oregon meridionale alla Monterey Country in California. La prima "scoperta" sembra si debba alla Spedizione Portolá (14 luglio 1769-24 gennaio 1770) che esplorò l'Alta California; il cappellano e diarista della spedizione, il frate Juan Crespi, l'11 ottobre 1769 annota che il giorno prima, a cinque miglia dalla costa, a tre miglia nord dell'attuale Watsonville, gli spagnoli percorsero "basse colline ammantate di altissimi alberi di colore rosso, che ci erano ignoti". Perciò li chiamarono palo colorado, ovvero alberi rossi. Il primo a raccogliere campioni e semi del maestoso albero fu però Thaddäus Haenke, il botanico della spedizione Malaspina, che esplorò l'area intorno a Monterey nel 1791. Fu sicuramente dai semi da lui raccolti e presumibilmente inviati in Spagna dal suo collega Luis Née che nacquero i più antichi alberi di Sequoia sempervirens sul suolo europeo: un esemplare, oggi morto, identificato nel 1926 dal botanico californiano Jepson a Granada, e un boschetto ancora esistente presso la Casita del Principe all'Escorial. Durante la spedizione Vancouver (1791-1795), anche Archibald Menzies raccolse un campione in un luogo imprecisato della costa dell'America occidentale; fu su di esso che David Don si basò per la prima descrizione, pubblicata in A Description of the Genus Pinus di Aylmer Bourke Lambert (1824) con il nome Taxodium sempervirens. E qui entra in scena il secondo protagonista di questa storia, il botanico austriaco Stephen Endlicher, professore di botanica all'Università di Vienna tra il 1830 e il 1849 e rinomato tassonomista. Nel 1847 in Synopsis Coniferarum incluse la riclassificazione di varie specie trattate da Lambert, tra cui appunto Taxodium sempervirens, che assegnò al nuovo genere Sequoia, insieme a una seconda specie S. gigantea, sulla base delle descrizioni di Douglas e Hooker (che oggi sappiamo non riferirsi all'attuale Sequoiadendron giganteum, ma ugualmente a Sequoia sempervirens). Purtroppo Endlicher (morto nel 1849) non spiegò l'etimologia del nuovo genere. Il primo collegamento tra il genere Sequoia e il cherokee Sequoyah compare nel 1856, in un articolo anonimo pubblicato in The Country Gentleman’s, una rivista di agricoltura fondata nel 1852; l'autore anonimo scrive: "Da dove viene questo nome? E' un fatto intenzionale o una coincidenza che questo albero americano porti il nome di un americano che merita tanto onore? L'onore deve essere intenzionale; ma se non lo fosse, la coincidenza è assai gratificante". La congettura dell'anonimo viene ripresa nel 1868 dal geologo Josiah Dwight Whitney nel capitolo della ricognizione geologica della California dedicato alle sequoie del Yosemite Book , e diventa un fatto accertato: "Il genere è stato nominato in onore di Sequoia o Sequoyah, un indiano cherokee [...] meglio noto con il nome inglese George Guess, noto al mondo per la sua invenzione di un alfabeto e della lingua scritta per la sua tribù". E aggiunge che Endlicher avrebbe conosciuto l'attività di Sequoyah proprio grazie all'articolo pubblicato su The Country Gentleman (il che è impossibile, visto che, come sappiamo, uscì sette anni dopo la sua morte). L'opinione di Whitney, ripresa dall'autorevole botanico Engelmann, nel corso dell'Ottocento era tutt'altro che universalmente condivisa. Dopo averne discusso con Asa Gray, che aveva lungamente studiato questa specie, nel 1879 John Gill Lemmon conclude: "Il nome generico Sequoia è stato dato da Endlicher perché questo genere è un solitario seguace (dal latino sequi, "seguire") di vaste foreste colossali. Altri hanno detto che deriva da Sequoyah, il celebre indiano Cherokee; ma si tratta senza dubbio un'idea tardiva, indegna di essere mantenuta". Nonostante queste obiezioni, l'idea invece rimase in voga nell'intero ventesimo secolo, ormai accreditata come versione ufficiale, ripresa senza discussione in fonti di ogni tipo. Il dibattito si riaccese verso la fine del secolo ed è diventato assai vivace solo di recente, grazie a un articolo di Gary D. Lowe che nel 2012 ha rilanciato su nuove basi il collegamento con il latino sequi; nel 2017 gli ha risposto Nancy E. Muleady-Mecham, con un'articolata argomentazione che riafferma l'etimologia tradizionale e la sostiene con una ricca serie di collegamenti indiretti. La risposta di Lowe è stata un ampio saggio, pubblicato nel 2018 con l'eloquente titolo Debunking the Sequoia honoring Sequoyah myth, "Sfatare il mito che Sequoia onori Sequoyah", in cui letteralmente demolisce l'argomentazione di Muleady-Mecham pezzo per pezzo, dimostrando l'inconsistenza e/o la fallacia logica di tutti i suoi argomenti a sostegno; la conclusione è perentoria: "L'attribuzione del nome del genere Sequoia in onore dell'uomo Sequoyah è una tradizione inventata; un contributo silenzioso alla autorappresentazione dell'America come nazione della natura". Ho letto puntigliosamente entrambi i contributi e, dal mio punto di vista, non c'è dubbio che le argomentazioni di Lowe sono più fondate e convincenti di quelle di Muleady-Mecham; il punto più debole rimane forse proprio il collegamento con il latino sequo-r, spiegato in base a un'ipotetica sequenza (ovvero serie di Fibonacci) del numero di semi, in cui Sequoia segue Taxodium, e precede altre specie (che però nel 1847 erano ipotetiche). Ma che Endlicher sapesse di Sequoyah e gli abbia dedicato il genere è davvero più che improbabile. ![]() Una questione di volume: Sequoiadendron Il secondo tipo di sequoia, la sequoia gigante Sequoiadendron giganteum, ha un'areale estremamente ristretto: vive unicamente sulle pendici occidentali della Sierra Nevada in California, in 68 popolazioni in tutto, in un'area totale di 144,16 km2. Le popolazioni variano per dimensioni e numero di alberi: si va dal Redwood Mountain Grove, con 20.000 alberi adulti su un'estensione di 1240 ettari, a piccoli boschi di non più di sei esemplari. E sono proprio questi rari giganti le sequoie per antonomasia, quelle che probabilmente associamo a questo nome. Ovviamente gli indigeni le conoscevano da sempre, ma gli europei e la scienza le scoprirono molto dopo la specie più costiera, proprio per la loro maggiore rarità e per la posizione più interna. La prima menzione, del 1833, si trova nel diario dell'esploratore J. K. Leonard, che non cita alcuna località precisa ma che probabilmente passò attraverso il Calaveras Grove. Più preciso il racconto del cacciatore Augustus T. Dowd che nella primavera del 1852 inseguendo un orso capitò nei boschi ora noti come North Grove nel Calaveras State Park. Vedendo quegli alberi monumentali non credeva ai suoi occhi, e nessuno dei suoi compagni inizialmente volle credergli finché non li portò a vederli di persona; ma ben presto la notizia si diffuse, e purtroppo iniziarono subito anche gli abbattimenti: il primo albero visto da Dowd, ribattezzato Discovery Tree, fu abbattuto già nel 1853. Lo stesso anno la specie entrava nella letteratura scientifica grazie al botanico inglese John Lindley, che la descrisse per primo e la battezzò Wellingtonia gigantea, in onore del duca di Wellington (il vincitore di Waterloo), morto l'anno precedente. Per gli americani, uno scandalo: quel gigante americano doveva celebrare un altrettanto grande eroe d'America, e l'unico nome adatto era Washingtonia. Questo almeno sostenne l'anno dopo un certo Andreas Peter Winslow che proposte di ribattezzarla Washingtonia californica. Ma la botanica segue altre vie e altre regole: Wellingtonia è un nome illegittimo, perché era già stato usato per un'altra specie (W. arnottiana, oggi Meliosoma arnottiana, famiglia Sabiaceae) e pure Washingtonia è inaccettabile perché Winslow, che non era un botanico, nel pubblicarlo non si attenne alle regole appropriate. A superare il problema, per altro, aveva già pensato il francese Joseph Decaisne che assegnò anche questa specie al genere Sequioia, recuperando il nome di Endlicher S. gigantea (che come abbiamo visto in realtà era un sinonimo di S. sempervirens). Le differenze tra le due specie erano però tali da far ritenere andassero assegnate a generi diversi. Nel 1907 Carl Ernst Otto Kuntze la attribuì al genere fossile Steinhauera, per altro dubbio, dato che ne è noto solo il polline; la soluzione definitiva venne nel 1939 da John Theodore Buchholz, che separò le due specie creando per la sequoia gigante il nuovo genere Sequoiadendron, come S. giganteum. Approfittiamone anche noi per sintetizzare le principali differenze tra di due generi (e le due specie, che è la stessa cosa, trattandosi di due generi monospecifici). Oltre alle differenze di altezza e volume di cui abbiamo già parlato, notiamo che Sequoia sempervirens ha tronco dritto e snello, con corteccia marrone cioccolata più opaca, Sequoiadendron giganteum tronco conico e massiccio con corteccia marrone rossastro più luminosa. Molto diverso il fogliame, in entrambi i casi sempreverde: quello di Sequoia sempervirens è costituito da aghi piatti e duri, disposti lungo i rami, in un modo che ricorda quello del tasso, mentre Sequoiadendron gigeanteum ha aghi corti, appuntiti che si dispongono a spirale attorno ai rami, richiamando piuttosto il ginepro. Quanto alle pigne, quelle della gigantessa hanno dimensioni triple rispetto a quelle della sequoia costiera; hanno forma ovale, richiedono due anni per maturare, quindi persistono sui rami almeno sei mesi; quelli della specie costiera sono arrotondati, si formano in primavera e maturano in autunno per poi cadere. Entrambe le specie sono presto diventate ricercatissime piante da giardino. Esemplari notevoli (anche se molto più piccoli delle millenarie piante americane) si trovano anche nel nostro paese. I più antichi sono ovviamente di Sequoia sempervirens e risalgono agli anni '40 dell'Ottocento, quando arrivarono nel Parco della Burcina nel Biellese (Piemonte) e all'Arboreto Siemoni in Casentino (Toscana). Conosciamo con precisione la data d'impianto dei due esemplari della Burcina, che furono piantati nella primavera del 1848 per celebrare la promulgazione dello statuto albertino. Venne piantata presumibilmente intorno al 1853 la più alta d'Italia (54 metri), che si trova nel parco di Sammezzano nel comune di Reggello (Firenze) e ha due tronchi gemelli. I primi esemplari di Sequoiadendron giganteum, commercializzati attraverso l'Inghilterra ovviamente come Wellingtonia gigantea, sembra siano siano arrivati quasi subito dopo la scoperta, o più probabilmente verso la fine degli anni '50 o i primi anni '60 dell'Ottocento. Due dei più imponenti si trovano a Roccavione (Cuneo), superano abbondantemente i cinquanta metri d'altezza e hanno raggiunto un diametro di 11 metri. Presumibilmente furono piantati intorno al 1902, data di costruzione della Villa dei Conti Salazar. E' degno di menzione per la sua storia tragica e commovente anche l'esemplare di Longarone: ha un'età stimata di 170 anni (sarebbe dunque stato introdotto a ridosso della scoperta) e in una ferita longitudinale di 5 metri reca le tracce del disastro del Vajont che il 9 ottobre 1963 devastò la valle e distrusse più di 1900 vite. ![]() Un fossile vivente: Metasequoia Non è finita; ci sono ancora un genere e una storia da raccontare. E dall'America ci spostiamo in Cina. Fin dall'Ottocento erano note specie fossili imparentate con le sequoie, che nel Giurassico dovettero formare vaste foreste in Europa e in Asia. Una di queste specie fossili fu scoperta nel 1939 dal botanico e paleontologo giapponese Shigeru Miki dall'Università di Kyoto che due anni dopo la pubblicò con il nome Metasequoia ("simile a Sequoia); risalente ad almeno 150 milioni di anni fa, doveva essersi estinta con i dinosauri, che un tempo scorrazzavano sotto le sue chiome. Per una coincidenza quasi incredibile, nell'inverno dello stesso 1941 il botanico cinese Gan Duo (noto anche come Toh Kan) durante una spedizione nelle province del Sichuan e dell'Hubei nel villaggio di Moudao nella contea di Lichuan (Hubei) osservò un'enorme conifera; faceva parte di un santuario e i locali lo chiamavano Shuǐshān, ovvero "abete d'acqua". Vista la stagione, era senza foglie, e Gan non raccolse alcun esemplare. Nel 1942, un altro botanico, Zhan Wang, visitò il villaggio e raccolse dei campioni; pensò che appartenessero a una specie già nota, Glyptostrobus pensilis (un'altra rara Cupressacea della Cina subtropicale). Orami si era nel pieno della guerra e solo nel 1945 egli poté mostrare le sue raccolte a un terzo botanico, Wan-Chun Cheng, una delle maggiori autorità mondiali della tassonomia delle Gimnosperme. Cheng capi subito che si trattava di una nuova specie, e inviò un campione a H.H. Hu, il direttore dell'istituto Fan di Pechino (il maggiore istituto botanico della Cina). Nonostante il caos della guerra e l'ostilità tra Cina e Giappone, Hu conosceva il lavoro di Miki e capì che la pianta viva apparteneva allo stesso genere che il collega giapponese aveva battezzato Metasequoia. Dopo altri studi e verifiche, nel 1948 Hu e Cheng pubblicarono insieme la nuova specie sul Bollettino dell'istituto Fan, battezzandola Metasequoia glyptostroboides. Chiesero poi l'aiuto dell'Arnold Arboretum dell'Università di Harvard, che lo stesso anno organizzò una spedizione di raccolta di semi, che, raccolti a migliaia, furono poi distribuiti a università, orti botanici e arboreti di tutto il mondo, Forse senza questi eventi provvidenziali, il fossile vivente sarebbe andato perduto. In natura è infatti rarissimo. Nel 2007 ne sono stati recensiti 5,371 esemplari, principalmente nella contea di Lichuan, con popolazioni minori nelle contee di Shizhu nel Chongqing e di Longshan nello Hunan. Molti esemplari erano già andati perduti per la trasformazione della piana alluvionale in risaie, ma dopo la scoperta l'albero ritrovato è diventato oggetto di venerazione e orgoglio nazionale. Sono state varate leggi per proteggerlo ed è stato largamente piantato in giardini e parchi e lungo le strade cinesi; ma i fragili ecosistemi dove viveva ormai quasi non esistono più e in natura è sempre più raro e minacciato. Spogliante e di dimensioni più contenute rispetto alle cugine di California, la metasequoia può comunque raggiungere un'altezza di circa 37 metri. Ha foglie aghiformi piatte, dritte o leggermente incurvate, opposte lungo i rami. Molto decorativa e di crescita rapida (anche un metro all'anno nei primi anni di vita), è anch'essa molto ricercata come pianta ornamentale ed è utilizzata anche come bonsai. Anche in Italia è giunta nel secondo dopoguerra; esemplari storici sono presenti nel Giardino Botanico Borromeo, nell'Isola Madre del Lago Maggiore e a Borghetto di Valeggio sul Mincio, che furono tra i beneficiari dei semi inviati dall'Arnold Arboretum. E' con una pianta delle Alpi, Saussurea alpina, che nel 1810 de Candolle volle ricordare i suoi illustri compatrioti Horace-Bénédict e Nicolas Théodore de Saussure. Il primo dedicò tutta la sua passione di naturalista all'esplorazione di quella catena di montagne, contribuendo anche a lanciarla come meta turistica con la sua celebre ascensione del Monte Bianco; il secondo scoprì il ruolo dell'anidride carbonica e dell'acqua nel processo di fotosintesi. Ma le specie di questo vasto genere di Asteraceae non vivono solo sulle Alpi: il nucleo più consistente si trova in Cina, con oltre 250 specie. Uno scienziato innamorato delle montagne Il Monte Bianco, il "Gigante delle Alpi" che domina l'anfiteatro di montagne che circonda Ginevra, fin da bambino per Horace-Bénédict de Saussure (1744-1799) fu una presenza familiare, destinata a trasformarsi in ossessione. Nato in una famiglia patrizia ginevrina, nell'infanzia trascorsa per lo più in campagna acquisì il gusto per le libere scorribande nella natura e ben presto scoprì le montagne e l'alpinismo. Come racconta egli stesso nella sua opera maggiore Voyages dans les Alpes, all'età di diciotto anni aveva già percorso più volte tutte le montagne dei dintorni di Ginevra e a 19 trascorse due settimane nella "più alta baita" del Giura per visitarne le maggiori cime. Si era appena diplomato all'Académie di Ginevra con una tesi sulla trasmissione del calore. Da quel momento si dedicò con passione agli studi naturalistici; nel 1762, a soli 22 anni, ottenne la cattedra di filosofia (che includeva la fisica e le scienze naturali) alla stessa Académie, mantenendo l'incarico per 24 anni. Saussure aveva in un certo senso ereditato la passione per lo studio della natura dallo zio materno (marito della sorella della madre) Charles Bonnet, filosofo, entomologo, botanico, psicologo, seguace della teoria delle catastrofi, che gli trasmise tanto l'approccio sperimentale quanto una spiccata tendenza all'ecclettismo. Inizialmente, infatti, gli interessi del giovane Saussure andavano soprattutto alle piante, che amava raccogliere fin da bambino; alla fisiologia vegetale dedicò il suo primo saggio, Obsérvations sur l'écorce des feuilles et des petales, che contiene importanti osservazioni sulla funzione dei pori delle foglie. Tuttavia, anche se continuò ad erborizzare per tutta la vita e a pubblicare occasionalmente articoli di botanica e addirittura un'opera di sistematica (Systema plantarum secundum classes, ordines, genera, species, cum characteribus differentis, 1779) a partire dal 1764 il suo interesse dominante divenne la geologia, "chiave della storia del nostro pianeta". Determinante nella scoperta di questa vocazione fu l'incontro ravvicinato con il Monte Bianco. Nel 1760 egli si recò per la prima volta nel villaggio di Chamonix per visitare il ghiacciaio della Mer de Glace e forse per cercare piante per conto di un altro dei suoi mentori, Albrecht von Haller. Profondamente affascinato, promise a se stesso che un giorno avrebbe raggiunto la cima della grande montagna. Quell'anno, e ancora l'anno dopo, quando tornò a Chamonix, fece affiggere in tutte le parrocchie della valle un manifesto in cui prometteva "una considerevole ricompensa" a chi riuscisse a trovarne la strada. L'appello non ebbe alcun esito, ma ormai le montagne erano diventate il terreno di ricerca privilegiato di Saussure: da quel momento "non lasciai trascorrere un solo anno senza fare lunghe escursioni quando non dei viaggi per studiare le montagne". Nei decenni successivi, egli attraverserà le Alpi quattrodici volte attraverso otto diversi passaggi e farà sedici escursioni fino al centro della catena; percorrerà il Giura, le montagne della Svizzera, dell'Inghilterra, della Germania, dell'Italia, i vulcani attivi della Sicilia e delle isole adiacenti e quelli estinti dei Vosgi, sempre con "il martello da geologo in mano [...] scalando tutte le cime accessibili che promettessero qualche osservazione interessante e prelevando sempre campioni di minerali e rocce". Queste ricerche, non di rado difficili e sempre faticose, basate sull'osservazione diretta e sulla misurazione dei fenomeni, condotta anche attraverso una serie di strumenti di sua invenzione (il più celebre è l'igrometro a capello) dovevano fornire le basi per una Teoria della Terra, che purtroppo Saussure non giunse mai formulare compiutamente, affidandola a molti manoscritti e alle osservazioni contenute nei quattro volumi della sua opera più nota,Voyages dans les Alpes (1779-1799). Nelle esplorazione delle montagne si congiungevano una passione esistenziale e un'intuizione scientifica: "Le pianure sono uniformi, è possibile vedere la stratificazione delle terre e i loro diversi letti solo grazie a scavi, opera dell'uomo o delle acque; mezzi per altro insufficienti [...]. Al contrario, le alte montagne, infinitamente variate nella loro materia e nella loro forma, presentano tagli naturali, di grandissima estensione, dove si possono osservare con estrema chiarezza e abbracciare a colpo d'occhio l'ordine, la posizione, la direzione, lo spessore e persino la natura degli strati di cui sono composte". Di quel sistema di montagne, il Monte Bianco, per la sua grandissima mole e la sua posizione centrale, è la chiave di volta: "Il Monte Bianco è una delle montagne d'Europa la cui conoscenza pare poter fornire un maggior numero di informazioni sulla Teoria della Terra. Questa enorme roccia di granito, situata al centro delle Alpi, collegata a montagne di diverse altezze e diversa natura, sembra essere la chiave di un grande sistema". Scalare quella montagna, giungere su quella cima, per Saussure non era un exploit sportivo, ma un imperativo scientifico. Ma per vedere realizzata la promessa del 1760 dovette attendere ventisette anni. Un tentativo venne effettuato da quattro guide di Chamonix nel 1775, e un secondo da altre tre nel 1783, finché l'anno successivo due cacciatori di camosci si avvicinarono tanto alla cima da fare sembrare possibile la conquista della montagna. Nel 1785, Saussure stesso tentò la scalata dall'Aiguille du Goûter , insieme a numerose guide, allo scrittore e pittore Marc-Thédore Bourrit e al giovane figlio di quest'ultimo, ma dovette tornare indietro a causa dell'alta neve fresca. Finalmente, l'8 agosto del 1786, la cima fu raggiunta da una della guide che aveva partecipato a quel tentativo, il cacciatore di camosci e cercatore di cristalli Jacques Balmat, e dal medico Michel Gabriel Paccard. Subito avvertito da Balmat che andò a riscuotere la ricompensa, Saussure avrebbe voluto a sua volta ripetere subito l'impresa, ma il maltempo lo costrinse ad attendere un altro anno. L'otto luglio 1787 lo troviamo a Chamonix insieme alla moglie; ma deve ancora portare pazienza e aspettare che il tempo si rimetta, mentre controlla e ricontrolla la sua attrezzatura scientifica. Finalmente il 31 luglio torna il bel tempo e il mattino dopo, alla presenza di tutto il villaggio, la grande carovana (Saussure, un servitore e diciotto guide) si mette in cammino. La scalata, seguita dal basso con i cannocchiali puntati, richiede due giorni. La prima notte il gruppo bivacca al Mur de la Côte; il giorno dopo, superando punti difficili e crepacci con l'aiuto di scale, raggiunge il Gran Plateau dove si trascorre la notte in tenda e Saussure effettua alcune osservazioni. La fame, la sete, la stanchezza e il mal di montagna si fanno sentire. La mattina dopo l'ultimo tratto sarà faticosissimo. Saussure cammina preceduto e seguito da una guida che impugna una lunga pertica, cui si aggrappa per non cadere; tuttavia, esausto, rischia di svenire. Dopo una sosta e un ultimo sforzo, la cima è infine raggiunta alle 11.05. Qui, per quattro ore e mezza, Saussure può finalmente realizzare almeno una parte del suo programma scientifico: misura l'altitudine (con un errore di appena settanta metri, una precisione notevole per l'epoca), la temperatura a cui bolle l'acqua, l'igrometria dell'aria, la natura della neve, l'intensità del colore del cielo (per misurare la quale ha inventato l'ennesimo strumento, il cianometro); vorrebbe fare ben di più, ma il tempo incalza. Alle 15,30 dà ordine di iniziare la discesa, combattuto tra la gioia per la vista superba e la delusione: "Me ne andai con il cuore pesante per non aver potuto ricavare tutto ciò che desideravo. Perché, benché avessi cominciato dalle osservazioni più importanti, quello che avevo fatto mi sembrava poco rispetto a quello che avevo sperato". Dopo una terza notte trascorsa presso la "roccia del felice ritorno", poco dopo mezzogiorno Saussure e compagni raggiungono Chamonix accolti da una folla delirante. Mentre l'impresa di Balmat e Paccard si era svolta quasi in modo clandestino (per il timore della guida di vedersi soffiare la ricompensa), quella di Saussure suscita grande clamore durante e dopo. La sua Relation abregée circola in tutta Europa, l'epica scalata è ritratta dai pittori e raccontata nelle gazzette. Grazie a Saussure, tutti conoscono Chamonix e la sua montagna; è nato l'alpinismo come sport. Il che, ovviamente, era quanto di più lontano dalle intenzioni del naturalista ginevrino: come scienziato, probabilmente lo soddisfecero molto di più i sedici giorni che l'anno successivo trascorse a fare osservazioni sulla cresta del Colle del Gigante (in effetti, un'impresa scientifica straordinaria, la prima campagna di osservazioni continuate in alta quota, che gettò le basi della meteorologia alpina). Negli anni successivi, almeno finché la salute glielo permise, Saussure continuò a scalare e studiare le montagne, a fare rilievi geologici, a inventare strumenti. Scrisse gli ultimi volumi di Voyages dans les Alpes (il racconto dell'ascensione al Monte Bianco è contenuto nel quarto tomo, uscito nel 1799). Dopo un primo colpo apoplettico nel 1794, gli ultimi anni furono penosi, resi difficili anche dai rivolgimenti politici causati dalla rivoluzione francese. ![]() Un pioniere della ricerca sulla fotosintesi Nel 1765, Horace-Bénédict de Saussure sposò Albertine Amélie Boissier, una delle più ricche ereditiere della città. Dal matrimonio, straordinariamente felice, nacquero tre figli: la maggiore Albertine (1766-1841), sposata con il matematico Louis Necker, fu una importante scrittrice e pedagogista, fautrice dell'educazione femminile; il minore Alphonse Jean François non si distinse particolarmente, mentre il vero erede scientifico del padre fu il secondogenito Nicolas-Théodore (1767-1845). Il padre, che non credeva nell'educazione impartita dalle scuole pubbliche (tra le sue tante attività c'è anche un progetto di riforma mai approvato) lo fece educare in casa, fino a quando il ragazo si iscrisse all'Università. Dal 1786 divenne l'assistente e il compagno di viaggio del padre, da cui apprese l'approccio sperimentale e la centralità della descrizione quantitativa dei fenomeni. Nel 1790, in occasione del prelievo di esemplari di aria a diverse altitudini tramite palloni di vetro, pensò di pesarli e scoprì che le differenze di peso erano esattamente proporzionali alle differenze di pressione barometrica, portando una conferma sperimentale alla legge di Boyle-Mariotte. Nel 1792 fu lui a dare il nome di dolomite (in onore di Déodat de Dolomieu) alla roccia di cui aveva ricevuto alcuni campioni dalla Carniola e di cui fece l'analisi chimica. Nicolas-Thédore si stava infatti ormai orientando verso questa disciplina, che, insieme alla fisiologia vegetale, divenne il suo campo d'elezione. Proprio per approfondire le sue conoscenze chimiche, nell'estate del 1793 andò in Inghilterra, ma una lettera della madre, preoccupata per la salute del marito e anche per alcune perdite finanziarie, lo richiamò in Svizzera. Tra il 1794 e il 1795, insieme al fratello minore, a causa delle tensioni politiche che scuotevano Ginevra. fu costretto a rifugiarsi a Rolle nel Vaud, dove curò l'edizione dell'ultimo volume dei Voyages dans les Alpes. Al suo ritorno a Ginevra, iniziò gli studi originali. Dal 1802 venne nominato professore di mineralogia e geologia dell'Università di Ginevra, un incarico onorario che mantenne fino al 1835, facendosi però supplire dal nipote Louis-Albert Necker, figlio di sua sorella Albertine. Poté così dedicarsi soprattutto a ricerche di laboratorio su questioni all'incrocio tra chimica e fisiologia vegetale: l'assimilazione del carbonio da parte delle piante (1797), l'influenza del suolo sulla loro nutrizione (1799), il ruolo dei sali minerali (1804). Questi studi fanno da preludio a Recherches chimiques sur la végétation (1804), in cui il processo di nutrizione delle piante è studiato con un approccio sperimentale e quantitativo. La teoria prevalente all'epoca era che le piante ricavassero dal suolo il carbonio che va a formare i loro tessuti. Coltivando le piante in acqua e chiudendole in contenitori di vetro con atmosfera controllata con aggiunta di anidride carbonica, Saussure dimostrò invece che le piante assorbono anidride carbonica dall'aria ed emettono ossigeno. Misurando i due gas all'inizio e alla fine dell'esperimento, poté provare che il peso del diossido di carbonio assorbito è approssimativamente uguale al volume dell'ossigeno consumato. Ne dedusse che l'aumento di massa delle piante durante la loro crescita non è dovuto unicamente all'assorbimento di anidride carbonica, ma anche di acqua. Studiò poi il consumo dell'ossigeno durante la germinazione e nelle piante coltivate al buio, concludendone che l'uso dell'ossigeno da parte delle piante è simile a quello degli animali durante la respirazione. Sulla base delle sue ricerche, Saussure giuse a formulare una prima sommaria equazione chimica del processo di fotosintesi (un nome al di là da venire). Altre ricerche, condotte sull'analisi qualitativa e quantitativa delle ceneri di varie piante, dimostrarono che per il loro nutrimento sono necessari, sebbene in piccolissime quantità, diversi sali minerali, che esse traggono dal suolo. Ma poiché la composizione chimica delle piante è diversa da quella del terreno dove vivono, Saussure ne concluse che le piante assorbono i nutrienti in modo selettivo. Notò anche l'importanza dell'azoto, ma non poté spiegare come le piante se lo procurino. Come si vede, si tratta di ricerche importanti non solo sul piano teorico, ma anche per le loro applicazioni in agricoltura. Eppure la loro importanza sfuggì ai contemporanei, finché non furono riscoperte e approfondite da Liebig, che dimostrò che le piante ricavano anche l'azoto dall'atmosfera. Un'accoglienza migliore ricevettero i suoi successivi studi sui processi biochimici, apprezzati fra gli altri da Pasteur. Qualche informazione in più su padre e figlio nella sezione biografie. Diversi altri membri di questa famiglia furono illustri scienziati, ma il più famoso di tutti fu ugualmente geniale e innovativo in tutt'altro campo; si tratta di Ferdinand de Saussure (1857-1913), pioniere della linguistica strutturale, bisnipote di Horace-Bénédict da parte del figlio minore Alphonse. ![]() Un grande genere montano Nel 1810, il grande botanico Augustin Pyramus de Candolle volle celebrare i due illustri concittadini dedicando loro un nuovo genere di Asteraceae montane: "Ho dato a questo genere il nome Saussurea, in onore dei miei celebri concittadini i signori de Saussure padre e figlio, che hanno potentemente contribuito al progresso della fisica e della chimica e sono stati utili anche alla botanica, il primo con le sue osservazione sui pori della superficie delle foglie e sulla risalita della linfa, il secondo con le sue ricerche chimiche sulla vegetazione; desidero che il nome delle saussuree alpine ricordi a tutti i botanici che percorreranno le Alpi il nome di colui che ha descritto nel modo migliore questa vasta catena di montagne, mentre quelle delle steppe salate della Siberia ricorderanno gli esperimenti di Théodore de Saussure sull'assorbimento delle materie saline da parte dei vegetali". L'uno come gli altri membri di importanti famiglie del patriziato ginevrino, de Candolle e i Saussure appartenevano al medesimo ambiente sociale e soprattutto Horace-Bénédict non aveva mancato di far sentire la sua influenza sul giovane Augustin, anche se cercò di dissuaderlo dal dedicare il suo tempo alla botanica. Come sappiamo, anch'egli ne era stato appassionato in gioventù, quando percorreva le dolci montagne del Giura e le Prealpi svizzere tanto ricche di fiori, ma quando il suo terreno di ricerca erano diventate le alte cime, quella passione aveva finito per raffreddarsi: "Nella vegetazione di questo cantone [di Chamonix] c'è una monotonia insopportabile. Non so se la causa risieda nella struttura del paese, oppure nella natura del suolo, oppure nel freddo di questi ghiacci eterni, ma è sempre la stessa cosa". E così, come racconta de Candolle nelle sue memorie, cercò con accanimento di "arruolarlo" nelle scienze che più amava e di disgustarlo della botanica: "Ogni volta che lo vedevo mi ripeteva che questo studio non prometteva nessun successo, e non valeva la pena di occuparsene se non come passatempo". Ovviamente de Candolle non si lasciò convincere, ma neppure se ne ebbe a male. Come è attualmente inteso, Saussurea (Asteraceae) è un vasto genere soprattutto di perenni cespitose con una distribuzione molto ampia (America, Europa, Asia, più una specie australiana) per lo più in ambienti montani o steppici; l'area di maggiore diversità sono le alte montagne temperate dell'Asia (Asia centrale, Siberia, Himalaya, Tibet, Cina). Il centro di diversità si trova proprio in Cina, nella zona dei monti Hengduan con oltre cento specie, in gran parte endemiche. Con 289 specie, di cui 191 endemiche, è uno dei generi più ricchi di specie della flora cinese. Nella flora italiana abbiamo quattro specie, tutte alpine e piuttosto rare: S. alpina (tutto l'arco alpino, eccetto la Liguria); S. depressa (Alpi occidentali, dal San Bernardo al Rocciamelone); S. discolor (tutto l'arco alpino, salvo la Liguria, e l'Appennino settentrionale); S. pygmaea (Alpi carniche orientali e Alpi Giulie). S. alpina dà il nome al Giardino botanico alpino Saussurea, che sorge a 2173 metri d'altitudine nei pressi della stazione intermedia della funivia del Monte Bianco, sopra Courmayeur. Vuole anche essere un omaggio indiretto a Horace-Bénédict de Saussure, che non mancò di visitare (e descrivere in Voyages dans les Alpes) la località valdostana e questo versante della grande montagna. Le specie himalayane, molte delle quali a rischio per l'eccessiva raccolta in qualità di piante medicinali, hanno spesso infiorescenze totalmente avvolte da una candida peluria che le fa assomigliare a palle di neve. Molte sono ricercate dai collezionisti, ma di difficile coltivazione: in natura vivono ad altitudini comprese tra 3000 e 5500 metri, vegetano solo nella breve stagione estiva e richiedono estati fresche e terreni perfettamente drenati, senza dimenticare che spesso sono di lenta crescita e fioriscono una volta sola, per poi morire. Ne troverete alcune nella scheda. Nel 1794, quando fu assegnato al Dipartimento medico della presidenza del Bengala, Francis Buchanan aveva già trentadue anni e da dieci prestava servizio come chirurgo sulle navi della Compagnia delle Indie. Ora finalmente contava di dedicarsi alla sua vera passione: la botanica. Ma, contrariamente a quella del conterraneo William Roxburgh, da poco nominato sovrintendente dell'Orto botanico della Compagnia a Calcutta, la sua carriera ventennale in India proseguì in un'alternanza di grandi speranze e cocenti delusioni. Quando finalmente fu chiamato a succedere a Roxburgh, di anni ne aveva orami più di cinquanta, ed era già deciso a ritornare in Europa. Benché sia stato un raccoglitore straordinario e sia stato tra i primi ad esplorare la flora della Birmania e del Nepal, più che come botanico è noto come geografo ed esploratore, grazie alle due ricognizioni che diresse nel 1800-01 a Mysore e tra il 1807 e il 1814 in Bengala. A ricordarlo il genere Buchanania, che comprende una ventina di specie di alberi tropicali diffusi tra l'India e l'Australia; alcuni producono semi commestibili simili a quelli dell'anacardio. ![]() Sedici anni di gavetta Nella vita di Francis Buchanan, più tardi Buchanan-Hamilton (1762-1829), c'è una specie di convitato di pietra: William Roxburgh. Quasi coetanei (Roxburgh gli è maggiore di dieci anni) i due sono entrambi scozzesi, si sono formati con gli stessi maestri e si sono laureati in medicina alla stessa università, quella di Edimburgo. Subito dopo la laurea, a dieci anni di distanza, entrambi sono entrati al servizio della Compagnia inglese delle Indie (EIC), spinti dalla necessità (l'uno come l'altro sono privi di mezzi), ma anche dal sogno di farsi un nome come scienziati. Prima di potersi dedicare interamente alla botanica, anche a Roxburgh non erano mancati gli anni di apprendistato, quando lavorava come sotto chirurgo e poi chirurgo dell'EIC; ma fin dal 1781 (all'epoca aveva trent'anni) è diventato botanico ufficiale, poi capo naturalista della presidenza di Madras, quindi dal 1793 direttore dell'orto botanico di Calcutta, che trasforma in uno straordinario centro di ricerca. La carriera di Buchanan ripercorre alcune di queste tappe, ma in tempi dilatati e con un percorso segnato da speranze e delusioni. Le leggi scozzesi, ancora basate sul maggiorascato, escludono Francis, quarto figlio maschio, dall'eredità del padre, un facoltoso medico appartenente alla piccola nobiltà, che è anche un proprietario terriero. Per mantenersi deve avere una professione e sceglie la medicina. All'università, due incontri segnano per sempre la sua vita: il primo è con il suo professore di botanica, John Hope, che lo inizia alla scienza delle piante e al culto di Linneo; il secondo è con il condiscepolo James Edward Smith. Nel 1783, l'anno in cui Francis Buchanan si laurea, quest'ultimo acquista le collezioni linneane e di colpo, da oscuro studente, si trasforma in una stella di prima grandezza del firmamento dei naturalisti. E' probabilmente questo esempio a spingere Francis ad entrare al servizio dell'EIC, anziché iniziare una tranquilla carriera di medico di provincia. La prima delusione è immediata: l'EIC ha già fin troppi chirurghi nelle stazioni di terra, e Buchanan è costretto a prestare servizio sulle navi della Compagnia che fanno la spola tra l'Inghilterra e l'Asia; gli scali sono brevi e occasionali, e, come egli stesso si esprime, la botanica, di cui aveva sperato di fare una professione, diventa il suo hobby horse. Finalmente nel 1794 l'ultimo ingaggio lo porta da Portsmouth a Calcutta, dove entra al servizio del Dipartimento medico della Presidenza del Bengala. Va a fare visita a Roxburgh, che è ciò che lui vorrebbe essere: un botanico professionista e uno scienziato riconosciuto a livello internazionale. Per lui è un punto di riferimento, un amico, un corrispondente, un modello, ma, come vedremo, più tardi si trasformerà in un rivale, o per lo meno in un ostacolo. Assegnato alla remota stazione rurale di Luckipore, dove c'è ben poco da scoprire, Buchanan ha la sua prima occasione nel 1795, quando, forse proprio grazie alla raccomandazione da Roxburgh, accompagna il capitano Michael Symes in missione diplomatica in Birmania come medico della legazione. Anche se non fa parte dei suoi compiti, Buchanan ne approfitta per mettere insieme un erbario birmano di 168 esemplari e per interessarsi alla cultura, alla religione e alla letteratura del paese. Dotatissimo naturalista, egli è anche un osservatore acuto e un meticoloso raccoglitore di informazioni. Tuttavia, tutti questi talenti per ora rimangono inutilizzati. Nonostante doni l'erbario e il catalogo delle piante birmane alla Compagnia, nella speranza di accreditarsi come botanico, il dono cade nel vuoto e gli toccano altri cinque anni di purgatorio. Fino al 1798 rimane a Luckipore, quindi viene trasferito a Buraipur che ha il vantaggio di distare solo una giornata da Calcutta, ma non presenta alcuna attrattiva per un botanico; Buchanan si rassegna a trasformarsi in zoologo e a studiare gli animali. Unico diversivo, sempre nel 1798, una missione a Chittagong, che gli è stata procurata da Roxburgh che lo considera il migliore tra i botanici che operano in India. Quando Buchanan scopre che nel volume di Symes sull'ambasceria (An Account of the Embassy to the Kingdom of Ava, London 1800) sono stati usati i suoi disegni e le sue descrizioni naturalistiche senza neppure citarlo, anzi attribuendone la paternità a Joseph Banks, alla frustrazione si aggiungono il dolore e l'indignazione. Per la Compagnia e per gli ambienti scientifici londinesi, Buchanan come naturalista non esiste. Al momento, è più accreditato come orientalista; nel 1796 è ammesso all'Asiatic Society, sulla cui rivista pubblica l'importante saggio On the Religion and Literature of the Burmas, in cui contrappone "l'egualitarismo del Buddismo alla natura oppressiva e gerarchica del Bramanesimo". ![]() L'"inchiesta statistica" a Mysore e la scoperta della flora del Nepal La seconda occasione arriva nel 1800, quando il governatore generale dell'India, Richard Wellesley, si accorge di lui e gli affida una ricognizione del recentemente conquistato territorio di Mysore. Nell'India meridionale è già all'opera Colin Mackenzie, incaricato dei rilievi topografici, ma, prima di essere completato, il suo lavoro richiederà anni; al governatore serve invece in tempi rapidi una relazione che dimostri che l'invasione di Mysore, fortemente criticata da parte dell'opinione pubblica inglese ma anche da settori influenti della Compagnia, era pienamente giustificata e corrispondente agli interessi tanto dell'EIC quanto del Regno britannico. L'oggetto privilegiato dell'inchiesta affidata a Buchanan è l'agricoltura, ma, oltre che sulle produzioni vegetali e animali, gli viene chiesto di raccogliere informazioni sul clima, i minerali, le produzioni artigianali, le condizioni di vita degli abitanti, inclusi il cibo, i vestiti, i costumi, la religione, le leggi, i commerci ecc. E' un tipico statistical survey, dove l'aggettivo non ha il significato odierno: è un'inchiesta ufficiale (promossa da uno stato, questo il significato originario) a tutto campo sulle risorse, la popolazione, gli aspetti umani di un territorio. E, come ha dimostrato la sua esperienza in Birmania, Buchanan ha gli strumenti per gestire un compito così complesso, anche se ovviamente per lui la botanica viene prima di tutto. Il suo viaggio muove da Madras nella primavera del 1800 e a Madras si conclude nell'estate nel 1801; segue un itinerario tortuoso, che lo porta a visitare non solo Mysore, ma anche il Malabar e la costa del Karnataka. Spesso a guidare i suoi passi sono gli interessi botanici, ma egli visita località strategiche come Sira, incontra il diwan di Mysore, intervista persone di ogni classe sociale e raccoglie informazioni di ogni genere. E' il primo a osservare e descrivere la laterite. Mette insieme un erbario imponente e disegna o fa disegnare da artisti locali centinaia di piante. Alla fine, la sua relazione ai vertici della compagnia sarà esattamente come Wellesley la desidera: Tipu Sultan vi è dipinto come un despota orientale, odioso agli occhi dei suoi stessi sudditi, l'occupazione britannica come il ristabilimento della giustizia, dell'equità, della pace e del progresso. Il premio non si fa attendere. Poco dopo il rientro a Madras, Wellesley gli chiede di accompagnare il capitano Knox a Katmandu dove verrà fondata la prima sede diplomatica britannica in Nepal. La situazione del paese è instabile e dopo appena un anno Knox è bruscamente richiamato; la presenza dei britannici è mal tollerata e i raccoglitori nepalesi di Buchanan sono addirittura accusati di essere spie al servizio degli inglesi. Ma nonostante la brevità e la brusca interruzione, per la storia della botanica il soggiorno di Buchanan in Nepal è importantissimo: è il primo botanico occidentale ad esplorarne la flora ricchissima di endemismi; prima che un altro studioso vi sia ammesso di nuovo, passeranno quasi vent'anni: si tratta di Nathaniel Wallich, che visiterà il Nepal nel 1820. Nel 1825, sulla base delle collezioni di entrambi, David Don pubblicherà il suo Prodromus florae nepalenisis, rimasto l'opera di riferimento sulla flora del paese himalayano praticamente fino alla seconda metà del Novecento. Al suo rientro in India, Buchanan viene rispedito a Buraipur; ancora una delusione, ma di breve durata. Wellesley lo vuole come medico personale e poco dopo lo chiama a Barrackpore, la sua residenza di campagna, a dirigere il suo zoo e il Natural History Project of India, ovvero la ricognizione, l'illustrazione, la descrizione e la classificazione di tutti i mammiferi e gli uccelli dell'India. Di colpo, Buchanan si trova a fare parte del circolo più intimo del governatore, e su un gradino superiore a quello di Roxburgh, di cui per altro spera di prendere il posto; voci insistenti dicono che è ammalato e che presto sarà costretto a lasciare l'India. Il momento di gloria è brevissimo. Nel 1805 Wellesley viene richiamato e sostituito da lord Cornwallis, che taglia tutte le spese che considera inutili, tra cui il Natural History Project. Cronwallis è uno dei critici più feroci di Wellesley e Buchanan capisce che per il momento in India per lui non c'è futuro; decide di imbarcarsi con il suo patrono per Londra, dove potrà difendere meglio i propri interessi. Conta soprattutto sul vecchio amico James Edward Smith, ora presidente della Linnean Society, cui affida i manoscritti con le descrizioni in latino, gli esemplari raccolti a Mysore e una magnifica collezione di illustrazioni botaniche che ha fatto eseguire a Calcutta da un artista locale. Spera che Smith li faccia conoscere includendone una parte nella sua Exotic Botany e li custodisca finché egli stesso possa pubblicarli. E' una fiducia mal riposta: Smith utilizza sono una dozzina di illustrazioni (fatte ridisegnare da Sowerby), dieci di piante nepalesi e due di Mysore, ne pubblica altre 37 senza illustrazioni sulla Rees's Cyclopedia; e non restituisce mai i materiali a Buchanan. Dopo la sua morte, passeranno alla Linnean Society, finendo semi dimenticati, fino a tempi recenti, quando la collezione di illustrazioni è stata riscoperta e pubblicata anche in forma digitale. In ogni caso, il nome di Buchanan incomincia ad essere conosciuto negli ambienti scientifici della capitale e nel maggio 1806 egli è ammesso alla Royal Society. Nel 1807, a spese dell'Asiatic Society e della Compagnia delle Indie, viene pubblicata la relazione sul viaggio a Mysore, in tre volumi (A Journey from Madras through the Countries of Mysore, Canara and Malabar). Negli stessi mesi, è a Londra anche Roxburgh: in effetti è molto malato e, sebbene abbia sono 54 anni, pensa davvero di ritirarsi; è qui per trattare con la Compagnia la sua quiescenza e soprattutto per assicurare la successione al figlio omonimo. Buchanan, che aspira a quel posto per se stesso, fa di tutto per impedirlo; scrive non meno di quattro volte a Smith perché faccia pesare tutta la sua influenza sui vertici dell’EIC, denuncia il nepotismo di Roxburgh e scredita il rivale: quel giovanotto non ha studiato in un’università europea, ciò che sa di botanica gli deriva dall’essere l’assistente del padre; insomma, più o meno un giardiniere. Le pressioni di Buchanan fanno centro: nel gennaio 1807 la direzione della Compagnia lo nomina successore di Roxburgh. ![]() Grandi speranze deluse Come due anni prima, anche questa sarà una vittoria di Pirro. Roxburgh non solo recupera la salute, ma ritorna in India e riassume pienamente i suoi doveri. Ma, se non altro, la ricchezza delle sue raccolte ha fatto capire alla Compagnia le grandi qualità di Buchanan, e, forse anche come premio di consolazione, viene deciso di affidargli la ricognizione del territorio bengalese. E' il secondo, più noto, statiscal survey diretto da Buchanan, che lo impegnerà per ben sette anni, dal 1807 al 1814. Come a Mysore, la sua inchiesta non riguarda solo le risorse naturali, ma ogni aspetto della vita quotidiana, della cultura locali, della religione, della storia, dell'archeologia. Rispetto a Mysore, il suo compito è però molto più impegnativo. La Corte dei direttori della compagnia esige una relazione distretto per distretto e il nuovo governatore, lord Minto, che è rimasto impressionato dai risultati dei rilievi topografici di Mackenzie, in particolare dalle carte a scala di un pollice a un miglio (1/63.000), esige una descrizione topografica dettagliata. Ecco perché i lavori si prolungano ben oltre le attese sia dell'EIC sia dello stesso Buchanan. Ovviamente egli prosegue le raccolte botaniche ma, dato che il Bengala è una regione ricca di acque, incomincia a interessarsi sempre più ai pesci. Il risultato sarà l'importante An account of the fishes found in the river Ganges and its branches (1822), in cui descrive oltre cento specie in precedenza ignote alla scienza. Rimane sempre la prospettiva di succedere a Roxburgh, la cui salute nel frattempo si è di nuovo deteriorata, ma ora è lo stesso Buchanan a provare molto meno interesse per l'incarico un tempo tanto agognato. In primo luogo, la Compagnia, insoddisfatta dell'indirizzo scientifico impresso da Roxburgh, vorrebbe che il giardino tornasse allo scopo iniziale: l'acclimatazione di specie esotiche di interesse economico. In secondo luogo, gli anni passano e anche Buchanan sta per toccare la cinquantina; la sua salute è ancora buona, ma teme di rovinarsela definitivamente e di essere privato di qualche anno di serena vecchiaia da dedicare allo studio e alla pubblicazione dei suoi sempre più cospicui materiali. Almeno dal 1810, è intenzionato a ritirarsi appena possibile e a questo scopo inizia a risparmiare e inviare denaro da investire al suo banchiere londinese. Intanto, continua ad esplorare il Bengala, seguendo un itinerario divagante e a zigzag, anche più che a Mysore dettato dalla passione botanica. Se una zona è arida e priva di vegetazione, si sposta in un'altra più promettente. Nel 1808 abbandona "il fango del Bengala" per organizzare una spedizione botanica nelle Alpi del Bhutan; a Ronggopur e Purnea si spinge oltre i confini del territorio della Compagnia per esplorare la flora alpina; nel 1812 va ad esplorare le foreste di Bhagalpur, e l'anno dopo si spinge a Gorakpur, lungo il turbolento confine con il Nepal. Nel 1813 la salute di Roxburgh precipita; l'anno dopo egli dà le dimissioni e lascia definitivamente l'India per tornare in Scozia, dove morirà appena due anni dopo. La Compagnia conferma la nomina di Buchanan, ma quel traguardo per cui ha intrigato appena sette anni prima è orami privo di interesse, tanto più che si pretende da lui che si occupi sia del giardino sia del completamente del survey. Dopo pochi mesi anche lui si dimette e rientra in Europa. Dopo trent'anni di viaggi, è ora di dedicarsi esclusivamente allo studio e alla pubblicazione dei suoi ricchissimi e disparati materiali. Ma c'è ancora un problema (con Buchanan, ce ne sono sempre): le sue raccolte sono così imponenti che gli è impossibile portarle con sé. Decide così di farne dono alla Compagnia delle Indie in cambio del trasporto gratuito; ma durante le trattative il governatore generale lord Moira confisca più di cinquecento disegni di animali e piante, pretendendo che siano di proprietà dell'EIC. E' un nuovo affronto, probabilmente il più amaro di tutti. Anche se i direttori ordinano che gli siano restituiti, sembra che ciò non sia mai accaduto. In cambio di un dono inestimabile, dalla Compagnia che ha servito per trent'anni ha ricevuto al più un ringraziamento formale, è stato come "dare perle ai porci", commenta amareggiato. Torna in Gran Bretagna nel 1815 e lo stesso anno, alla morte della madre, ne eredita la proprietà e cambia il proprio nome in Francis Buchanan-Hamilton. Ancora alla ricerca del riconoscimento scientifico, lavora molto e pubblica più che può, impegnandosi in direzioni diverse. Il suo lavoro più noto è probabilmente The Kingdom of Nepal (1819), al cui successo contribuisce anche la prossimità della prima guerra nepalese (1814-1816); seguirono Genalogies of Hindus (1819), pubblicato in poche copie in edizione privata, che lo accreditò presso letterati e orientalisti, e il già citato volume sui pesci del Gange. Nel 1818 la morte del fratello e l'eredità delle terre di famiglia gli assicurano un nuovo status e una inedita tranquillità economica. Buchanan-Hamilton va a vivere in Scozia, nella residenza baronale di Leny House, nei cui giardini ha fatto piantare piante rare. Si sposa e si dedica interamente al lavoro scientifico, in particolare al commento di Hortus malabaricus e Herbarium amboinense di Rumphius: vuole ricavarne un'opera complessiva di grande impegno, in cui potrà trasfondere tutto ciò che ha imparato in trent'anni di ricerca e raccolte in India e nell'Asia orientale. Nel 1822 ne pubblica la prima parte, ma il lavoro non sarà mai completato. Buchanan-Hamilton muore nella sua residenza scozzese nel 1829. ![]() Nutrienti Buchanania Almeno sul versante delle denominazioni botaniche, i riconoscimenti arrivarono presto. Nel 1801, Curt Sprengel, assegnando a un nuovo genere un albero raccolto da Buchanan durante la missione diplomatica in Brimania, crea in suo onore il genere Buchanania. Nel 1806 il suo esempio è seguito da Smith nel suo Exotic Botany. Troppo tardi: ad essere valida è ovviamente la denominazione di Sprengel. Il genere Buchanania Spreng. (Anacardiaceae) comprende circa venticinque specie di alberi o arbusti tropicali, distribuiti tra la Cina meridionale, l'India, l'Indocina, l'Indonesia, le isole del Pacifico e l'Australia. Hanno foglie semplici, inserite a spirale, con margini interi; piccoli fiori bianchi, profumati, raccolti in infiorescenze a pannocchia. Il frutto è una drupa con sottile endocarpo legnosi; i semi, come quelli dell'anarcardio, in alcune specie sono commestibili. E' il caso della specie tipo, B. cochinchinensis (più nota con il sinonimo B. lanzan), di relativamente ampia diffusione in India e in Indocina; in India, dove è anche coltivata, è nota come chironji o charoli; i suoi semi dall'aroma di mandorla e dalle dimensioni di un pinolo sono consumati crudi dopo una leggera tostatura o utilizzati nei dolci; ridotti in polvere, entrano anche in piatti salati. Ha antichissimi usi alimentari anche l'australiana B. obovata, un piccolo alberello del sottobosco dell'Australia settentrionale, i cui frutti, noti come green plum o wild mango, sono tradizionalmente consumati dalle comunità indigene. Ricchi di proteine, fibre e minerali come potassio, fosforo e magnesio, si segnalano per l'alto contenuto di acido folico. Di altre specie sono note le proprietà medicinali. Con le sue grandi foglie a cuore e i fiori azzurri simili a quelli del cugino nontiscordardimé, Brunnera macrophylla è una delle più simpatiche abitatrici dei giardini d'ombra. In natura, vive a cavallo del Caucaso, in un'area che va dall'Anatolia nord-orientale alla Transcaucasia; e infatti il suo primo raccoglitore, Johannes Michael Friedrich Adams (quello che scoprì il celebre mammut) la trovò - si era nei primissimi anni dell'Ottocento - "nei boschi ombrosi dell'Iberia", cioè della Georgia. La credette un Myositis, e la battezzò senz'altro M. macrophylla. A capire che si trattava di un genere a sé fu circa mezzo secolo dopo un altro botanico al servizio della Russia, Christian von Steven; lo battezzò Brunnera, in onore dell' "egregio botanico Samuel Brunner bernese che visitò due volte la Tauride". Ma non furono quelli in Crimea i viaggi più avventurosi dello svizzero, che amava definire se stesso reisender Wissenschafter, "scienziato in viaggio". Un botanico in viaggio dall'Italia alla Crimea Il medico, viaggiatore e naturalista (anzi, scienziato in viaggio, come gli piaceva definirsi) bernese Samuel Brunner (1790-1844) sta un po' a metà tra il cultore di scienza dilettante e lo studioso di professione. Era sì laureato in medicina e abilitato all'insegnamento della botanica, ma non esercitò mai la professione e mai insegnò. Era membro di diverse società scientifiche e pubblicò anche alcuni articoli di botanica su Flora, la rivista della Società reale di botanica di Ratisbona, ma la sua fama è legata soprattutto a tre libri di viaggio che, in un linguaggio accattivante, presentano una massa di informazioni geografiche, etnografiche e naturalistiche (con un occhio di riguardo alla botanica) a un ampio pubblico. Ancora ispirati al modello di Humboldt, sono già più simili a reportage che a saggi scientifici. Brunner prepara i suoi viaggi scrupolosamente, mette nei bagagli i testi più aggiornati, quindi viaggia, visita giardini e istituzioni scientifiche, incontra molte persone (la sua rete di corrispondenti è vasta e conosce l'arte di farsi molti amici), si incuriosisce di tutto, si informa sulle produzioni del territorio, osserva scrupolosamente ed elenca le piante spontanee e coltivate; a casa, nel trasformare i diari di viaggio in libri, non manca di aggiungere informazioni di varia natura attinte da molti testi di riferimento. E' certamente un buon botanico, ma le sue identificazioni sono a volte approssimative e le descrizioni si riducono spesso a poche righe. Due elementi colpiscono: benché abbia esplorato a fondo una flora all'epoca poco nota, quella dell'arcipelago di Capo Verde, gli si deve l'identificazione di una sola nuova specie (oggi non più valida); e soprattutto, anche se era in corrispondenza con de Candolle (la cui opera è perfettamente contemporanea alla sua) non figura tra i collaboratori del suo Prodromus, che vide la partecipazione di ben 35 studiosi di otto nazioni diverse, un terzo dei quali elvetici. In una fase in cui i naturalisti iniziavano a professionalizzarsi e a lavorare per università, istituti di ricerca e orti botanici, Brunner era ancora un agiato gentiluomo che poteva permettersi di non lavorare e di viaggiare a proprie spese grazie alla notevole fortuna lasciatagli dal padre omonimo, membro di una ricca famiglia a metà tra borghesia e patriziato della città di Berna. Samuel Brunner padre era membro del Gran consiglio cittadino, castellano di Wimmis, presidente della Società dei Calzolai e aveva fatto fortuna sia nel settore immobiliare sia con abili investimenti obbligazionari. Nel 1798, quando l'esercito francese occupò Berna, venne arrestato e trattenuto nella fortezza di Hüningen; poco dopo fu rilasciato, ma decise di lasciare la città in attesa di tempi migliori, rifugiandosi con la famiglia a Sciaffusa. All'epoca, il nostro Samuel aveva otto anni. Più tardi, lo troviamo a Würzburg dove nel 1813 si laureò in medicina; come medico militare, partecipò all'ultima fase delle guerre napoleoniche dalla parte degli alleati. Nel 1814 la famiglia Brunner poté rientrare a Berna e Samuel figlio ottenne il brevetto di medico, cui nel 1818 aggiunse l'abilitazione all'insegnamento come libero docente di pediatria e botanica. Il patrimonio ereditato dal padre (morto nel 1821) gli permise però di vivere di rendita e di dedicarsi interamente alla politica, agli interessi intellettuali e ai viaggi. Negli anni della Restaurazione, tra il 1821 e il 1830, come suo nonno e suo padre prima di lui, fu membro del Gran Consiglio e nel 1830 presentò una petizione decisamente conservatrice contro l'allargamento della base sociale del Consiglio stesso; tuttavia vi si sosteneva la necessità di migliorare il sistema scolastico e di pagare di più gli insegnanti. Subito dopo i liberali andarono al potere, e Brunner si trovò all'opposizione; probabilmente non fece più politica, ma nel 1832 si sfogò scrivendo Gemütliche Unterhaltung im politischen Klubb zum klugen Elefanten in Utopia, "Accogliente conversazione sul club politico L'elefante intelligente in Utopia", in cui prendeva in giro il governo liberale del cantone. All'epoca era già un viaggiatore di lungo corso, membro di diverse società scientifiche elvetiche e tedesche: la Società medico-chirurgica del Cantone di Berna, la Società dei naturalisti bernesi e svizzeri, la Società Botanica Reale di Ratisbona, la Società naturalistica Senkenberg di Francoforte sul Meno, l'Associazione di storia naturale di Mannheim. Aveva molti corrispondenti in diversi paesi europei, inclusi noti scienziati. Iniziò a viaggiare intorno al 1819; i suoi obiettivi, come egli stesso scriverà nella prefazione al resoconto del suo ultimo viaggio, erano soddisfare la curiosità personale, arricchire le proprie collezioni (mise insieme un erbario di circa 10.000 esemplari), ma anche ampliare il patrimonio di conoscenze di storia naturale e contribuire al progresso economico; ecco perché si definiva Reisender Wissenschafter, "scienziato in viaggio". Svizzero germanofono formatosi in Germania, conosceva bene quel paese e i territori dell'Impero asburgico, dove aveva molti amici che spesso risalivano agli anni universitari o alla comune militanza nell'esercito alleato. Conosceva anche la Gran Bretagna e nel 1821 visitò la Provenza (ne parlerà anni dopo, in un articolo su Flora), ma presto la sua meta preferita divenne l'Italia alla cui flora dedicò i suoi primi articoli per la rivista di Regensburg: nel 1825 Die botanische Gärten Italiens, in due puntate, che - nonostante il titolo - si occupa solo dei giardini napoletani; nel 1826 Uber de Vegetation des Festalandes des Italien, "Sulla vegetazione della terraferma italiana", anch'esso in due parti: la prima è uno schizzo sulle peculiarità della flora della penisola, la seconda una bibliografia relativamente ampia. Sempre all'Italia è dedicato il primo libro di viaggio di Brunner, Streifzug durch das östliche Ligurien, Elba, die Ostküste Siciliens, und Malta, zunächst in Bezug auf Pflanzenkunde im Sommer 1826 unternommen, uscito presumibilmente a spese dell'autore nel 1828, in cui racconta un viaggio dell'estate del 1826. Dopo aver visitato molte località della riviera ligure di Levante, soffermandosi soprattutto sui giardini, gli oliveti, gli agrumeti, Brunner andò via terra a Livorno, da dove si spostò all'Elba, ancora pervasa di memorie napoleoniche; quindi, tornato a Livorno, si imbarcò per Milazzo. In Sicilia - la meta più importante del viaggio - visitò Messina, Catania, le pendici dell'Etna, Siracusa, Capo Passero dove si imbarcò per Malta; qui visitò la Valletta, Mdina (che Brunner chiama Civita Vecchia), Gozo e Comino, per poi imbarcarsi alla volta di Livorno. In un linguaggio con qualche pretesa letteraria, il gentiluomo-viaggiatore racconta visite, incontri, impressioni, senza mancare di infarcire il testo con informazioni di ogni genere, spaziando dalla geografia alla geologia, dal folclore alla musica, dall'estrazione del marmo di Carrara alle tonnare sicule, dalla politica degli occupanti britannici allo stato delle farmacie maltesi; l'attenzione privilegiata va però sempre alle piante, tanto quelle native, quanto quelle introdotte o coltivate, e ogni capitolo si conclude con un elenco delle specie osservate. Probabilmente alla fine degli anni '20 la curiosità di Brunner sull'Italia e la sua flora era ormai soddisfatta. Orami sognava mete più lontane e ambiziose: così nell'estate del 1831, dopo aver fatto visita ad alcuni amici viennesi, eccolo a Trieste ad imbarcarsi per Costantinopoli; visitò puntigliosamente la città, compresi i giardini delle sponde europea e asiatica, ma si trattava solo di una tappa di avvicinamento alla vera destinazione: la Crimea. Da Costantinopoli si imbarcò dunque per Odessa, dove dovette sottostare a una quarantena di due settimane; si spostò quindi a Sinferopoli, il capoluogo del Governatorato di Tauride, dove stabilì il suo quartier generale per esplorare la penisola e la sua natura, caratterizzata da paesaggi spettacolari e di grande varietà: dalle piante della steppa alla macchia mediterranea, dalla vegetazione litoranea alle foreste delle montagne. Anche se la Russia l'aveva definitivamente annessa solo nel 1792 e in un certo senso la Crimea rimaneva un territorio di frontiera, sia nei confronti dell'Impero ottomano sia in vista dell'espansione verso il Caucaso, era già una delle mete preferite dell'aristocrazia russa, che vi creò a gara le proprie case di vacanza (di alcune Brunner, con il suo talento per le amicizia, sarà ospite coccolato). Ad aprire la strada era stato proprio un naturalista, Peter Pallas, che nel 1793, subito dopo l'occupazione, aveva iniziato ad esplorarne la flora e poi si era stabilito a Sinferopoli in una grande tenuta donatagli dall'imperatrice Caterina II. Un altro grande protagonista dello studio della flora della Crimea era il finno-svedese Christian von Steven, che aveva partecipato alla spedizione von Biberstein e poi era rimasto in Crimea per creare l'orto botanico di Nikita nei pressi di Yalta, che aveva diretto fino al 1826, quando fu nominato ispettore capo per la sericoltura, di fatto responsabile di gran parte dell'agricoltura della Russia meridionale. Nonostante fosse impegnatissimo e sempre in giro per il vasto territorio che doveva ispezionare, Brunner, che era uno dei suoi corrispondenti, poté incontrarlo; ma moltissimi furono i funzionari e i proprietari terrieri ad aiutarlo, accompagnarlo e ospitarlo. Dunque neppure la Crimea era terra incognita, e Brunner la percorse tenendo sotto mano i volumi di Pallas, Biberstein, Steven e soci. Vi si trattenne fino ad ottobre e visitò tutto il visitabile, innamorandosi della regione al punto da dedicarle un poema in ottave, Sehnsucht nach Taurien, "Nostalgia della Tauride", incluso nel libro di viaggio che ricavò dall'esperienza, Ausflug über Constantinopel nach Taurien im Sommer 1831, pubblicato nel 1833. ![]() Capo Verde: dalla delusione all'entusiasmo Brunner tornò in Crimea ancora una volta, ma evidentemente neppure la mitica Tauride era sufficiente a soddisfare il suo desiderio di esotismo. Erano gli anni in cui le potenze europee incominciavano la loro penetrazione coloniale in Africa; i francesi avevano da tempo un avamposto a Gorée e Saint Louis nel Senegal, a lungo centri del commercio degli schiavi ma ora, dopo l'abolizione ufficiale della schiavitù, alla ricerca di nuove fonti di reddito. Per Brunner, da sempre interessato alle piante agricole e utilitarie, poteva essere un'occasione per approfondire sul campo la conoscenza di piante come la canna da zucchero, il caffè, la cannella, la melegueta (Aframomum melegueta); ma sperava anche di dare un contributo originale alla scienza botanica esplorando finalmente un'area inesplorata, o per lo meno poco battuta. Come al solito, si preparò con scrupolo leggendo ciò che avevano scritto i naturalisti che lo avevano preceduto, e come meta finale scelse le isole del golfo di Guinea, in particolare São Tomé che, tra l'altro, stava convertendo la sua economia dal traffico degli schiavi alla coltivazione del cacao e del caffè. Prima di partire, discusse il suo progetto con Augustin Pyramus de Candolle, che lo scongiurò di lasciar perdere São Tomé: "Non è il caso di andare a morire, vedete, non lo voglio, perché morto non fareste nulla. Mi oppongo!". Gli consigliò invece di optare per le isole di Capo Verde: facili da raggiungere come scalo di molte navi dirette in India o in Sud America, con un clima salubre e una flora ancora in larga parte sconosciuta. Ancora convinto a metà, nel novembre 1837 Brunner si imbarcò a Marsiglia alla volta di Saint Louis, da dove raggiunse Gorée. In porto c'era una piccola imbarcazione diretta a São Tomé; pensò di approfittarne, ma non c'era posto per lui, così dovette rassegnarsi a dare ascolto alla ragione e agli ammonimenti di de Candolle. Nel maggio 1838, eccolo dunque all'esplorazione delle isole di Cabo Verde. La prima che tocca è la desolata Ilha do Sal, dove visita le saline che le danno il nome e fa alcune escursioni all'interno, caratterizzato da una vegetazione desertica ma con molti endemismi. Dopo qualche giorno, a bordo di una goletta portoghese, raggiunge Boavista; la baia è splendida, e ricorda un po' quella di Napoli, ma anche quest'isola è quasi priva di vegetazione: ovunque nient'altro che rocce e sabbia. Va comunque a visitare le tenute di due portoghesi che ha conosciuto sulla gletta che lo ha portato a Boavista. Dopo pochi giorni lascia anche quest'isola per Santiago, la maggiore dell'arcipelago. La delusione continua. La capitale, Praia, un villaggio di non più di 2000 abitanti, gli lascia un'impressione di squallore: a parte poche case più grandi in stile europeo raggruppate nella via principale o attorno alla piazza del mercato, l'abitato è costituito da casupole con il tetto di foglie di palma, "più simili a porcili che a abitazioni umane. Dappertutto si vedono povertà e pigrizia". Ma quando finalmente penetra nell'interno per fare visita a un residente francese, la delusione si muta in entusiasmo: all'ingresso della valle d'Orgão lo accolgono le palme da cocco più belle che abbia mai visto, le piantagioni di canna da zucchero e di banani sono ben irrigate e lussureggianti, le cascine accoglienti e ben tenute. Ma i soldi stanno per finire, senza contare l'avvicinarsi dell'estate; Brunner decide di imbarcarsi su una ex nave negriera diretta in Europa; poco dopo la partenza, tuttavia, lo scafo imbarca acqua e si rende necessario uno scalo a Brava per le riparazioni. Anche questo porto è squallido e la sistemazione di fortuna disagevole, ma una gita verso le parti alte dell'isola lo rincuora con la bellezza delle fioriture e l'abbondanza di vigneti, piantagioni di manioca, caffè e banani. E' dunque con un pizzico di rimpianto che dopo dieci giorni può partire definitivamente per Lisbona, da dove raggiungerà Berna dopo un'assenza di circa otto mesi. Come i viaggi in Italia e in Crimea, anche quello in Senegal e Capo Verde si trasforma in un libro, Reise nach Senegambien und den Inseln des grünen Vorgebirges im Jahre 1838, che esce nel 1840. Ma Brunner questa volta decise di pubblicare separatamente la parte botanica, presentando le piante raccolte o osservate in un articolo in due parti comparso ancora su Flora, sotto il titolo Botanische Ergebnisse einer Reise nach Senegambien und den Inseln des grünen Vorgebürges ("Risultati botanici di un viaggio in Senegambia e nelle isole di Capo Verde). Con la trattazione in ordine alfabetico di circa 220 specie, è sicuramente il lavoro botanico più ampio di Brunner, ma, al contrario dei tre libri di viaggio, che ebbero un'accoglienza prevalentemente favorevole, passò praticamente inosservato. In effetti, con l'eccezione delle piante da reddito, le descrizioni sono molto brevi e le identificazioni non sempre accurate. L'unica segnalazione di una specie nuova è quella di Tylophora incana (oggi sinonimo di Leptadenia lanceolata). Era l'ultima fatica di Brunner che morì nella città natale appena quattro anni dopo, nel 1844. ![]() Brunnera, un tesoro per i giardini d'ombra Nel 1851 Steven volle commemorarlo dedicandogli il genere Brunnera, da lui separato da Myosotis; la motivazione è semplice e laconica: "per l'egregio botanico Samuel Brunner bernese che visitò due volte la Tauride". E' dunque come visitatore innamorato della Crimea, e non come esploratore della flora di Capo Verde, che lo svizzero è entrato a far parte della schiera dei dedicatari di generi botanici. Brunnera (Boraginaceae) è genere di piante erbacee piccolo, ma ben noto agli appassionati perché almeno una delle sue tre specie, B. macrophylla, è molto coltivata. Tutte sono originarie dei boschi di tre aree disgiunte tra il Mediterraneo e la Siberia, passando per l'Anatolia e il Caucaso, la terra di origine di B. macrophylla. Le altre due specie sono appunto la siberiana B. sibirica, originaria della Siberia centrale e meridionale (specie scoperta dallo stesso Steven) e la mediterranea B. orientalis, originaria dell'Anatolia e del Vicino oriente. La più nota è però B. macrophylla, il cui habitat naturale sono i boschi umidi dell'Anatolia orientale e di entrambi i versanti del Caucaso. Fu scoperta originariamente intorno al 1800 da Adams, che la battezzò Myosotis macrophylla. E' una delle specie più belle e utili nei giardini boschivi e d'ombra, con grandi foglie a cuore e piccoli fiori azzurri simili a quelli del nontiscordardimé, vigorosa ma non invadente, adatta anche come tappezzante. Non è affatto esigente, e sopporta anche il sole del mattino, purché possa godere di umidità e magari di un terreno umifero. Accanto alla specie tipica con foglie verde scuro, ne sono state selezionate diverse varietà a foglia variegata. Probabilmente la più nota è 'Jack Frost', con foglie argentate e venature verde scuro; altre cultivar interessanti sono 'Diane's Gold' con foglie giallo oro e fiori blu; 'Hadspen Cream' con foglie molto grandi e margini irregolarmente variegati di crema; 'Langtrees' (o 'Silver Spot') con foglie puntinate d'argento; 'Looking Glass' con foglie argentee dai riflessi metallici. 'Betty Bowring' è simile alla specie tipica, ma con fiori bianchi. Altre informazioni nella scheda. Nel 1824, Nathaniel Wallich dedica "con grande soddisfazione" un bell'arbusto dell'Himalaya, Leycesteria formosa, all'amico William Leycester, giudice della suprema corte di giustizia del Bengala, appassionato orticultore e primo presidente della Agri-Horticultural Society of India. Poco sappiamo di questo personaggio che in tal modo ha donato il suo nome al genere Leycesteria e a questa notevole pianta, di moda nei giardini vittoriani e oggi ingiustamente un po' dimenticata. ![]() Nuove introduzioni per migliorare l'orticultura indiana Fino alla grande rivolta dei Sepoy del 1857, che spinse la monarchia britannica a prendere il controllo diretto del Raj, gran parte della penisola indiana era amministrata dai funzionari della Compagnia delle Indie (più correttamente, Compagnia Britannica delle Indie Orientali), una compagnia commerciale privata. Gli storici valutano che verso la metà del secolo, quando sotto il suo controllo passarono anche gran parte della Birmania, Singapore ed Hong Kong, un quinto dell'umanità fosse sottoposto alla sua autorità. Per assolvere i propri immensi compiti amministrativi, la Compagnia si avvalse di una schiera di migliaia di funzionari, reclutati in Gran Bretagna, ma cercò anche di coinvolgere le élites locali (caratteristica che differenziò profondamente il colonialismo britannico, tra gli altri, da quello francese). Un esempio relativamente riuscito di questa politica di integrazione può essere la Agri-Horticultural Society of India, fondata, come si è visto in questo post, nel settembre 1820 da William Carey. Per la sua storia personale, che lo aveva messo in contatto con studiosi, tipografi, filantropi indiani, egli era sicuramente la persona più adatta per imprimere alla nuova società un carattere multietnico. Infatti nel progetto di statuto scrisse esplicitamene: "E' particolarmente desiderabile che i gentlemen nativi possano non solo essere membri, ma anche dirigenti della società esattamente nello stesso modo degli europei". Considerando che le riunioni si tenevano in inglese, i "gentlemen nativi" erano ovviamente notabili colti e anche ricchi, visto che l'iscrizione era abbastanza costosa. Nel primo comitato direttivo, ne troviamo due, che erano anche vecchie conoscenze di Carey. Il primo era Radhakanta Deb (1784-1867), un linguista e uno studioso, autore di un dizionario di sanscrito, ma anche un pedagogo impegnato nella promozione dell'educazione (inclusa quella delle ragazze) e un uomo politico conservatore; egli mise a disposizione della società cinquecento acri di terreno e intervenne assiduamente alle riunioni, presentando diversi contributi sullo stato dell'agricoltura in Bengala. Il secondo, Ramkamal Sen (1783-1844), rappresenta molto bene il tipo del funzionario nativo di successo; all'inizio della sua carriera era un compositore tipografico sotto pagato; poi passò a lavorare al Fort William College e acquisì posizioni di crescente prestigio, fino a diventare tesoriere della Banca del Bengala e segretario dell'Asiatic Society; per le edizioni missionarie di Serampore curò la prima edizione in bengali dell'Hitopadesha, una raccolta di fiabe in sanscrito risalente al XII secolo. Tra i soci c'erano altri bengalesi eminenti. Vale la pena di citare almeno l'uomo d'affari Dwarkanath Tagore (1794-1846), fondatore di una delle prime grandi aziende anglo-indiane, che si occupava tra l'altro della produzione e dell'esportazione di prodotti agricoli, e più tardi fu coinvolta sia nell'introduzione del tè cinese in Assam sia nel traffico dell'oppio in Cina. Era il nonno del poeta premio Nobel Rabindranath Tagore. E' chiaro che né il governatore dell'India, né i funzionari della Compagnia, né tanto meno i magnati e proprietari terrieri indiani, e tutto sommato neppure i missionari, intendevano mettere in discussione la struttura agraria del paese e lo sfruttamento dei piccoli contadini da parte dell'élite rurale degli zamindar (era proprio da questa classe che la Compagnia reclutava gran parte dei suoi funzionari); erano però convinti che le condizioni di vita dei contadini e più in generale l'economia del paese (e della potenza colonizzatrice) avrebbero tratto giovamento dall'introduzione di nuove coltivazioni e di tecniche agrarie più moderne. Nonostante l'ostilità degli ambienti indù più conservatori, che temevano che la Società promuovesse la coltivazione di piante proibite (come l'aglio e le cipolle, il cui consumo era vietato dai testi sacri), il progetto di Carey ottenne un immediato successo, anche grazie all'alto patronato del governatore dell'India e di sua moglie, lord e lady Hastings, che misero a disposizione un terreno a Barrackpore. Il numero dei soci, sia britannici sia indiani, crebbe abbastanza rapidamente e oltre che in Bengala, vennero fondate sezioni in Punjab, a Madras e a Bombay. La presenza tra i soci di un certo numero di esperti permise anche alla società di varare una serie di comitati di studio, dedicati alla coltivazione del cotone, del grano, della canna da zucchero, del tè, del lino e della canapa, del tabacco, all'orticoltura, alla sericoltura e all'allevamento. In una prima fase, più o meno dalla fondazione al 1835, tuttavia, la società si concentrò prevalentemente sulle produzioni orticole su piccola scala e sull'acclimatazione di ortaggi europei, coinvolgendo non solo grandi proprietari terrieri, ma un vasto tessuto di ortolani e giardinieri a cui vennero distribuiti i semi fatti giungere dall'Europa o da altre colonie britanniche. Ad esempio, nel 1824 dalla Colonia del capo giunse una consegna di semi che comprendeva spinaci, carciofi, asparagi, lattuga, insalata pan di zucchero, pastinaca, cavoli, cavolfiori, zucche, cavolini di Bruxelles, sedano, zucchine, rape e crescione. Sul modello delle fiere agricole britanniche, i giardinieri indiani erano incoraggiati a presentare i prodotti migliori in esposizioni periodiche, ben pubblicizzate dalla stampa. La prima si tenne nel gennaio 1827 e premiò cinque bengalesi con medaglie e piccoli premi in denaro. Certamente i risultati non furono trascurabili, tanto da cambiare permanentemente le abitudini alimentari indiane: due casi eclatanti sono l'introduzione del cavolfiore e della patata (giunta dall'Inghilterra nel 1832), ortaggi oggi molti comuni nelle ricette indiane. Tuttavia, dopo il primo decennio, si registrò una certa crisi. Nel 1827, la Compagnia delle Indie decise di utilizzare il terreno di Barrackpore per espandere le coltivazioni sperimentali dell'orto botanico di Calcutta, e la Società fu costretta a cercare una nuova sede, che alla fine fu trovata ad Alipore. Tuttavia già nel 1834 il giardino fu dismesso, in seguito alla bancarotta del tesoriere della società, l'agenzia Alexander and Co. Non si trattava solo di problemi finanziari. La Compagnia delle Indie era insoddisfatta dell'indirizzo assunto dalla società; i risultati economici si facevano attendere, mentre all'introduzione di nuove coltivazioni provvedeva anche meglio l'orto botanico di Calcutta, ora abilmente diretto da Nathaniel Wallich. La Società rispose creando un vivaio all'interno dello stesso orto botanico; l'importazione di semi orticoli e di alberi da frutto dall'Europa non cessò, così come continuarono le mostre orticole, ma venne incrementata l'introduzione di piante alimentari e industriali. Abbiamo già visto il caso delle patate, giunte nel 1832. Nel 1830, da Londra arrivarono semi di cotone e tabacco. Tra le colture introdotte per la prima volta dalla Società, possiamo aggiungere il mais, introdotto dagli Stati Uniti nel 1831; la segale e l'orzo; il lino, importato dalla Scozia nel 1842, e il ramié bianco Boehmeria nivea, giunto dall'orto botanico di Edimburgo nel 1854. Tra le foraggere, il trifoglio e l'erba di Guinea Megathyrsus maximus. Molti sforzi furono anche rivolti all'introduzione di alberi da frutto tipicamente europei (meli, peschi, peri, ciliegi, susini), inclusi piccoli frutti come il ribes e l'uva spina, particolarmente richiesti dai proprietari terrieri indiani. Tuttavia alla fine degli anni '30, la Società aveva ormai cambiato natura. Anche per influenza di personaggi come Dwarkanath Tagore, il focus andava sempre più spostandosi dalle piante alimentari e medicinali a quelle industriali, come la canna da zucchero, dalle necessità della popolazione al profitto e alla produzione per l'esportazione. Non seguiremo questa evoluzione per soffermarci su uno dei protagonisti della prima fase "orticola" della società: William Leycester. ![]() Un giudice appassionato di orticultura Purtroppo su di lui sappiamo meno di quanto vorremo. William Leycester (1775 - 1831), giunto in India quindicenne, nel 1790, inizia la carriera dalla gavetta, come scrivano della Compagnia delle Indie. Nel 1802 è esattore nel Bihar. Forse dal 1804 entra in magistratura. Nel 1809 lo troviamo come magistrato e giudice nel distretto di Moradabad (Uttar Pradesh). Nel 1814 è promosso secondo giudice della corte di giustizia di Bareilly (sempre nell'Uttar Pradesh). Nel 1820 diventa primo giudice sia della corte suprema delle entrate sia dell'alta corte di giustizia, entrambe con sede a Calcutta. In questo ruolo, si trovò a conciliare la legge inglese con quelle musulmane e indù, come possiamo notare da diverse sentenze da lui emesse. Il caso più clamoroso riguarda una bimba dodicenne arrestata per aver evirato l'uomo cui era stata venduta dal fratello e condannata da una fatwa del tribunale musulmano; Leycester ne dispose il rilascio, sostenendo l'inapplicabilità della fatwa a un soggetto di età inferiore a tredici anni, non punibile secondo la legge inglese. Più tardi fu uno dei giudici che si pronunciò contro la pratica (sati) di sacrificare le vedove bruciandole vive sulla pira del marito defunto. Era noto come un giudice preparato e imparziale, e difese la separazione delle funzioni di magistrato e di giudice. Le testimonianze del tempo lo dicono appassionato di orticoltura e botanica. Quella più ampia si deve a Nathaniel Wallich che, proprio nel dedicargli Leycesteria, si espresse in questi termini: "E' con grande soddisfazione che lo dedico al mio stimatissimo amico William Leycester, giudice capo della principale corte nativa della Presidenza del Bengala, che in una lunga serie di anni e in varie parti dell'Indostan distanti tra di loro ha perseguito ogni ramo dell'orticultura con munificenza, zelo e successo tali da assicurargli pienamente questa distinzione". Queste esperienze gli garantirono anche l'elezione alla presidenza dell'Agri-Horticultural Society, incarico che mantenne dalla fondazione nel 1820 al 1829, quando ripresentò la sua candidatura ma non fu rieletto; pare che ci fossero stati dissapori con Carey, ma sicuramente fu determinante la svolta della linea di fondo della società, che dalla vocazione orticola stava ormai virando verso le produzioni agricole e industriali. Non che Leycester si disinteressasse del tutto di queste ultime: come membro del comitato del lino e della canapa nel 1822 presentò uno studio sulle potenzialità delle fibre di tre specie di Musa (M. x sapientum, M. ornata, M. textilis). Ma certo era un convinto sostenitore della linea "orticola" e come presidente la sua maggiore incombenza fu l'organizzazione delle esposizioni annuali, di cui ebbe a lamentare lo scarso numero di partecipanti. Si è già visto che Nathaniel Wallich ne aveva grande stima, tanto che nel 1822, quando dovette lasciare momentaneamente Calcutta per recarsi a Singapore con Raffles, Leycester ne fece le veci. In questa occasione, guadagnò anche una medaglia d'argento della Royal Horticultural Society per "il valido dono di piante, semi e frutti conservarti sotto alcool inviati alla Società dall’Orto botanico di Calcutta”. Dal 1821, era anche membro della Asiatic Society. ![]() Un arbusto dalla bellezza inconsueta Leycesteria è un piccolo genere della famiglia Caprifoliaceae che raggruppa sei o sette specie di arbusti originari dell'Himalaya e dell'Asia temperata, dal Pakistan al Myanmar. Decidui, hanno rami cavi o con midollo solido, foglie opposte con margini interi o serrati, fiori raccolti in infiorescenze a spiga o in giri sovrapposti, spesso con brattee vistose. E' il caso della specie più nota, L. formosa (quella dedicata da Wallich a Leycester), un notevole arbusto con eleganti rami arcuati e fiori penduli bianchi sottesi da brattee viola porpora. In autunno sono seguiti da bacche lucide viola scuro, molto gradite agli uccelli, ma amare per gli esseri umani. Piacciono molto anche ai fagiani, il che ne ha favorito la voga all'epoca vittoriana quando veniva piantata in grandi quantità nelle macchie di arbusti delle grandi tenute per la gioia dei cacciatori. Poi la moda è cambiata e ora è un po' dimenticata; in Inghilterra è ancora abbastanza coltivata, anche se piuttosto che la specie si privilegiano le cultivar. Da noi non è molto diffusa. E' un peccato, perché è una specie inconsueta, attraente, del tutto rustica e poco esigente. D'altra parte, poiché ogni medaglia ha il suo rovescio, in alcuni paesi, come l'Australia, si è rivelata infestante e pone seri problemi di controllo. Le altre specie non sono in genere coltivate, tranne in qualche orto botanico. La più notevole è L. crocothyrsos, originaria delle valle montane dell'Assam; un arbusto spettacolare, ma non rustico, che ostenta vistosi grappoli di fiori giallo-oro. Altre informazioni nella scheda. Il missionario William Carey è una personalità molto nota della storia indiana. Prodigioso poliglotta, tradusse e pubblicò il Vangelo e la Bibbia in molte lingue del subcontinente, creò una tipografia, una rete di scuole, la prima università indiana. Forse è meno noto che era un appassionato botanico e un agronomo sperimentatore, e come tale fu tra i soci fondatori della Società agricola indiana, di cui dettò gli obiettivi. Il suo giardino botanico privato era il più ricco dell'India, secondo solo a quello della Compagnia delle Indie diretto dal suo amico William Roxburgh, a cui Carey donò per altro molte piante. Roxburgh ricambiò con la dedica di Careya, ma Carey lo contraccambio con un inestimabile servizio postumo: la pubblicazione di Flora indica. Una missione rivoluzionaria Nel 1755, la Compagnia danese delle Indie Orientali, in cambio di cinquemila rupie e vari doni, ottenne dal Nawab del Bengala il permesso di commerciare e di stabilire un emporio e un porto. Poté così installarsi a Serampore sulla riva dell'Hoogly, uno dei bracci del delta del Gange, un piccolo centro circondato da villaggi agricoli che già da secoli ospitava un mercato frequentato da portoghesi, olandesi e francesi. Con l'impegno di versare una tassa annuale e di far rispettare la legge e l'ordine, vi creò una minuscola stazione commerciale battezzata Frederiksnagore in onore del re di Danimarca Federico V (anche se è per lo più nota come Serampore). Rispetto a altre città dell'area controllate dalle compagnie francesi e inglesi, era insignificante ma i danesi furono abili a sviluppare attività artigianali e mercantili, attraendo mercanti europei e migliaia di indiani, impiegati soprattutto come tessitori. Nel 1777 l'amministrazione di Serampore passò alla corona danese. Grazie all'abile governatore Ole Bie (1776-1805) la cittadina conobbe un eccezionale sviluppo urbanistico, tanto da essere descritta dai contemporanei come la città più elegante e meglio amministrata dell'India europea. Gli affari andavano a gonfie vele, la presenza danese favoriva lo sviluppo dell'artigianato tessile e incise anche sull'agricoltura: i contadini vennero infatti incoraggiati ad affiancare alla traduzionale coltivazione del riso, quella l'indaco (Indigofera tinctoria), utilizzato nella tintura delle stoffe. Nel 1799 Ole Bie permise a un gruppo di missionari battisti britannici di stabilirsi a Serampore. I primi missionari battisti, John Thomas e William Carey, era arrivati a Calcutta nel 1793, ma avevano dovuto scontrarsi con l'ostilità della Compagnia inglese delle Indie che temeva che la loro attività di proselitismo causasse insanabili attriti con gli indiani; inoltre, come non conformisti con idee sociali avanzate, erano visti come pericolosi sovversivi. Il governatore Bie invece contava su di loro per creare una scuola aperta ai ragazzi tanto indiani quanto europei; per i missionari sarebbe stato un asilo dove iniziare finalmente la sospirata attività di proselitismo. A fondare la missione furono tre energici personaggi, noti come il "trio di Serampore": il maestro Joshua Marsham, il tipografo William Ward e il più famoso di tutti, il reverendo William Carey (1761-1834), una figura così eccezionale che il filantropo William Wilberforce lo definì "una delle principali glorie della nazione britannica", mentre Rabindranath Tagore lo salutò "padre del Bengala moderno". Figlio di un tessitore, nacque in un piccolo villaggio del Northamptonshire dove non esistevano scuole, finché, quando aveva sei anni, suo padre venne assunto dalla parrocchia come funzionario e maestro. Da lui ricevette una sommaria istruzione, rivelando un precoce talento per le lingue (imparò il latino da autodidatta) e un grande interesse per la natura, specialmente per gli insetti e le piante. A quattrodici anni fu collocato come apprendista presso un calzolaio e uno dei suoi compagni lo avvicinò all'ambiente dei dissidenti religiosi. Passò quindi a lavorare per un calzolaio battista; ne abbracciò la fede e ne sposò la cognata, una giovane donna analfabeta. Alla morte del padrone, ne rilevò la bottega; sempre più coinvolto nelle attività della congregazione battista, studiò i testi sacri e imparò da autodidatta altre lingue: il greco, l'ebraico, l'italiano, l'olandese e il francese, sempre con un libro sotto mano mentre fabbricava scarpe. Nel 1785, come mastro si trasferì in un villaggio più grande dove venne invitato a servire come pastore; lo diverrà a pieno tempo nel 1789. Intanto aveva incominciato a interessarsi sempre più alle attività missionarie. Nel 1792 grazie al finanziamento di un amico e correligionario pubblicò An Enquiry into the Obligations of Christians to use Means for the Conversion of the Heathens, un vero e proprio manifesto in cui sostenne che ogni cristiano deve farsi apostolo del messaggio di Cristo. Lo stesso anno fu tra i fondatori della Società battista per la propagazione del Vangelo (poi nota come Baptist Missionary Society) e nel 1793, con la moglie e i figli, partì per l'India insieme al medico John Thomas. Pensava di mantenersi come agricoltore e portò con sé bulbi e semi di piante orticole e alimentari; anche in questo campo era un colto autodidatta: conosceva la classificazione linneana, e aveva una certa esperienza di raccolta sul campo. Giunto in India nel novembre 1793, venne a sapere che in seguito alla morte del colonnello Kyd il posto di intendente del giardino della Compagnia delle Indie era vacante. Si precipitò a Calcutta per presentare la sua candidatura, ma scoprì che era già stato designato William Roxburgh. La cosa non lo amareggiò, anzi andò a fargli visita: fu l'inizio di una grande amicizia. Carey scoprì ben presto che, a causa dell'ostilità della Compagnia delle Indie, gli era impossibile predicare; anche Thomas abbandonò l'impresa. Grazie a un amico, fu assunto come sovrintendente di una piantagione di indaco a Madnabati, dove visse per sei anni. Fu così testimone della miserevole condizione dei contadini indiani e si convinse che fosse compito degli inglesi risollevarla introducendo strumenti migliori e nuove coltivazioni. Vi creò un orto botanico e come l'amico Roxburgh, fece molti esperimenti agricoli. Scriveva agli amici in Inghilterra per ottenere pianticelle di piante da frutto e semi di ortaggi; da Roxburgh ebbe alberi di cannella, noce moscata, teak; a sua volta gli inviava esemplari che raccoglieva in natura. Tra di essi l'albero di sal, che nel 1798 Roxburgh pensò di dedicargli con il nome di Careya saulea. Carey respinse l'omaggio, sia per modestia sia nella convinzione che le piante debbano conservare i nomi indigeni; in effetti, le sue proteste furono accolte e la pianta fu rinominata Shorea robusta (dal nome sanscrito sarja). Furono anni durissimi che gli costarono la perdita di un figlio di cinque anni e l'alienazione mentale della prima moglie. Non aveva certo dimenticato lo scopo per cui era venuto in India; si preparò alla missione imparando il sanscrito e il bengali e tradusse in quest'ultima lingua il nuovo testamento. Dall'Inghilterra giunsero altri confratelli, in particolare Marsham e Ward che nel 1799 lo precedettero a Serampore; acquistarono una grande casa che doveva ospitare sia le loro famiglie sia i locali della scuola. Carey con la moglie e i figli superstiti li raggiunse all'inizio del 1800 portando con sé una macchina da stampa procuratagli dal proprietario della piantagione di Madnabati. Ad occuparsi della scuola furono soprattutto Joshua Marsham e sua moglie Hannah: era aperta a tutti, senza badare alla religione o alla casta: fu l'inizio di una vasta rete di scuole in lingua bengali che nel 1818 ne contava 92 frequentate da 10.000 alunni. Intanto anche la Compagnia delle Indie incominciava a convincersi che i missionari di Serampore non costituivano un pericolo, anzi potevano tornare utili per dare una patina di credibilità alla sua immagine offuscata. Nel 1801 il governatore Wellesley lo chiamò a insegnare bengali al Fort William College, una scuola dove i funzionari della Compagnia studiavano le lingue, le culture, le tradizioni e la storia dell'India. Continuò a dedicarsi con zelo allo studio del maggior numero possibile di lingue indiane e alle traduzioni e insieme a Ward creò una casa editrice, che iniziò la sua attività con la stampa del Nuovo testamento in bengali da lui tradotto; seguirono il Nuovo testamento in sanscrito, in marathi, in panjabi, e l'intera Bibbia in bengalese. Entro il 1835, l'anno successivo alla morte di Carey, la Bibbia era stata tradotta e stampata in non meno di 42 lingue e dialetti. Ma non si pubblicavano solo testi religiosi: nello stesso arco di tempo, la casa editrice giunse a stampare oltre 200.000 volumi: c'erano classici della tradizione indiana come il Mahabaratha e il Ramayana, grammatiche, lessici e dizionari per l'uso del Fort William College, ma anche - come vedremo meglio tra poco - testi scientifici. A partire dal 1818 venne anche pubblicato un quotidiano bilingue, in inglese e bengali. Anche se nel 1812 un devastante incendio distrusse manoscritti, carta, set di caratteri tipografici, le macchine da stampa si salvarono; la tipografia rimase ufficialmente attiva fino al 1837, ma anche dopo questa data uscì ancora occasionalmente qualche volume. Nel 1818 Carey, Marsham e Ward fondarono il Serampore College, destinato sia ai futuri pastori, sia a studenti di "ogni casta, colore o paese". Posto inizialmente sotto la giurisdizione danese, quindi passato sotto controllo britannico dal 1845, è considerato la prima università indiana, di cui ha costituito un duraturo modello. ![]() Carey e Roxburgh: una collaborazione fraterna Per Carey, la coltivazione di un giardino era una passione, un svago salutare per la mente e il corpo, ma lo studio delle scienze naturali aveva anche un risvolto religioso: la lettura del libro della natura avvicina a Dio quanto quella della Bibbia. Al suo arrivo a Serampore, portò con sé le piante che coltivava a Madnabati e creò un orto botanico privato; più tardi, quando in seguito a dissidi con la casa madre in Inghilterra lasciò la Baptist Missionary Society e si trasferì nel College, vi spostò anche il giardino. Misurava cinque acri, vantava una collezione di migliaia di piante (seconda solo a quella del giardino di Calcutta della Compagnia delle Indie), quattro vasche per le piante acquatiche, voliere per gli uccelli. Dopo la sua morte (1834), divenuto giardino del Serampore College, fu posto sotto la direzione di Joachim Otto Voigt, che ne scrisse il catalogo, insieme a quello dell'orto botanico di Calcutta (Hortus suburbanus Calcuttensis, 1845). Alcune piante erano state raccolte dallo stesso Carey, molte le aveva ottenute dai suoi corrispondenti, molto numerosi tanto in India quanto all'estero, grazie alla rete delle missioni e ai suoi contatti con studiosi, proprietari terrieri e filantropi indiani. Collezionava anche acquarelli di piante e insetti dipinti da artisti indiani, di alcuni dei quali fece dono alla Linnean Society di Londra di cui divenne membro nel 1823. Fin dai tempi di Madnabati, era molto interessato ai risvolti pratici della botanica e all'agricoltura; per sostenere la missione, progettò una piantagione di alberi da legname, cui dovette rinunciare perché la Compagnia delle Indie non concesse i terreni. Nel settembre 1820, su sollecitazione di lady Hastings, la moglie del governatore generale dell'India, insieme a Joshua Marsham e altri due europei fondò l'Agricultural and horticultural society of India, che entro un mese, posta sotto il patronato di lord e lady Hastings, che concessero anche un terreno sperimentale a Barrackpore, contava già cinquanta soci, metà europei e metà indiani. Gli obiettivi della società, fissati dallo stesso Carey, includevano il miglioramento dei terreni, tramite metodi di coltivazione più avanzati, incluse le più efficienti tecniche di rotazione delle culture; l'introduzione di nuove piante utili; il miglioramento delle attrezzature; il miglioramento degli animali agricoli; la bonifica e la coltivazione dei terreni abbandonati. Fin da quando si conobbero nel 1793, la collaborazione tra Carey e William Roxburgh fu strettissima. Il missionario considerava il suo stesso giardino quasi una succursale dell'orto botanico di Calcutta cui donò non meno di ottanta esemplari. Tra di essi, forse il più notevole è l'himalayana Rosa clinophylla (che Roxburgh chiamava R. involucrata) da lui spedita al giardino di Calcutta nel 1797; negli anni venti, ne inviò un esemplare anche a Hooker, all'epoca direttore dell'orto botanico di Glasgow. Nel 1813, quando Roxburgh, lasciò l'India nella speranza di recuperare la salute (sarebbe purtroppo morto poco più di un anno dopo) gli affidò due manoscritti: il catalogo dell'orto botanico di Calcutta Hortus Bengalensis e la sua monumentale Flora indica. Il primo fu pubblicato dalla tipografia di Serampore già nel 1814, con una prefazione dello stesso Carey. Durante il suo servizio in India (dal 1773 al 1813, interrotti solo da due brevi soggiorni in patria) Roxburgh descrisse circa 2600 specie, e di circa 2500 fece preparare i disegni. Nel 1795, quando da poco si era trasferito a Calcutta, una selezione di cento piante da lui raccolte in Cormandel fu pubblicata a spese della Compagnia delle Indie nel primo volume di Plants of the Coast of Coromandel, sotto la direzione di Joseph Banks e con la prefazione di Patrick Russell. Seguirono, a lunghi intervalli di tempo, altri due volumi, in tutto trecento piante; l'ultimo uscì nel 1819, dopo la morte di Roxburgh. Negli anni di Calcutta, quest'ultimo aveva continuato a lavorare alla sua Flora indica, un grosso manoscritto con 2542 descrizioni botaniche di cui preparò due copie. Per prudenza, tornando in patria una la portò con sé, con l'intenzione di completarla e prepararla per la stampa, l'altra la affidò a Carey. Durante il viaggio, aggiunse ancora alcune descrizioni, e inviò copia anche di queste a Carey. Le gravi condizioni di salute e la morte però gli impedirono di attuare il suo proposito. Non trovandosi in Inghilterra nessuno disposto a pubblicarlo (Plants of the Coast of Coromandel, tre volumi in folio con illustrazioni a piena pagina, si era rivelato costosissimo), Carey decise di stamparlo nella tipografia di Serampore. Con l'aiuto di Nathaniel Wallich (assistente di Roxburgh e suo successore alla testa dell'orto botanico di Calcutta dal 1817) che aggiunse le sue note, ne pubblicò una parte in due volumi, usciti rispettivamente nel 1820 e nel 1824. Nel 1832, su richiesta dei figli di Roxburgh, visto che ancora mancava un'edizione inglese, pubblicò l'intera opera in tre volumi, questa volta senza le note di Wallich. Tanto la prima edizione parziale, quanto la seconda edizione integrale per ragioni di costi furono stampate senza illustrazioni. Anche così, è un'opera fondamentale, fondativa della botanica indiana, di cui Roxburgh è considerato il padre. ![]() Un albero dai molti usi Se Carey aveva rifiutato la dedica dell'albero di sal, dovette accettare un secondo omaggio di Roxburgh che nel 1811 nel secondo volume di Plants of the Coast of Coromandel gli intitolò il genere Careya sulla base di un esemplare di C. erbacea, raccolto dal missionario in Bengala e da lui inviato all'orto botanico di Calcutta; Roxburgh ricorda queste circostanze e aggiunge "nominata per il suo scopritore, un buono botanico, e un promotore della storia naturale in generale". Se avesse dovuto far propria la propensione di Carey per le denominazioni indigene, avrebbe dovuto chiamarla Kumbhaadu-lataa. Il genere Careya (famiglia Lecythidaceae) comprende tre specie, distribuite tra Afghanistan, isole Andamane, subcontinente indiano, Indocina e Malaysia. C. herbacea è un'erbacea perenne diffusa dalle pendici himalayane al Bengala; C. valida, un albero endemico delle isole Andamane. La specie più nota è però C. arborea, anch'essa descritta da Roxburgh. E' un bell'albero da medio a grande, deciduo, con le foglie che diventano rosse prime della caduta. Produce vistosi fiori a coppa crema o bianco verdastro con lunghissimi stami e filamenti sterili, porpora o soffusi di rosso alla base. All'epoca del Raj, la sua corteccia fibrosa veniva usata per gli stoppini dei fucili. Nella medicina tradizionale indiana, la corteccia e i fiori, ricchi di mucillaggini, trovano impiego per le loro proprietà astringenti. In Myanmar le grandi foglie vengono usate per fabbricare i tradizionali sigari detti cheroot, ma fermentate entrano in alcune specialità culinarie. In Tailandia invece le foglie giovani e i boccioli si consumano freschi in insalata. Il frutto è edule (tanto che l'albero è noto come guaiava selvatica) ma si ritiene che i semi siano lievemente tossici. Per accattivarsi il favore di sovrani, uomini politici e potenti, da cui dipendevano finanziamenti e incarichi prestigiosi, i botanici sono stati prodighi di dediche di generi, spesso scelti tra i più vistosi. Non fa eccezione neppure Napoleone, che anzi ha collezionato ben tre dediche. Ad aprire la lista sono gli spagnoli Ruiz e Pavón che già nel 1802 intitolano all'allora primo Console Bonapartea. Niente di strano: i due non andavano tanto per il sottile con le dediche, e le elargirono generosamente ai potenti di turno, adattandosi di volta alla linea politica del momento; all'epoca, la monarchia spagnola era alleata con la Francia e si trattava di ingraziarsi, più ancora che lo stesso Napoleone, il ministro filofrancese Godoy (lui stesso dedicatario di Godoya). Nel 1804, l'anno in cui Bonaparte si autoincorona imperatore, arriva un omaggio ben più sorprendente: il botanico Palisot de Beauvois, un nobile vittima della rivoluzione, battezza pomposamente Napoleonaea imperialis un singolare alberello da lui scoperto in Africa. Il personaggio è tale che la dedica non può essere liquidata come plateale adulazione, e vale la pena di approfondire. Non stupisce (tranne che nel nome) che lo stesso anno Ventenat, che al momento era nel libro paga di S. M. l'Impératrice, abbia voluto metterci anche del suo con Calomeria. E poi, tutto sommato, i meriti di Napoleone agli occhi degli scienziati, inclusi i botanici, non erano pochi. ![]() Un'adulazione smaccata? Il due dicembre 1804, con un gesto clamoroso, Napoleone Bonaparte incoronò se stesso Imperatore dei francesi. Culminava così un lungo processo, iniziato il 18 maggio, quando il Senato aveva mutato la costituzione trasformando la Repubblica in impero ereditario; immediatamente dopo la decisione era stata sancita dal plebiscito i cui risultati furono proclamati il 6 novembre: risultati ovviamente... plebiscitari, con 99,76% di voti favorevoli e solo 2569 contrari. In mezzo a queste date, il botanico Ambroise Marie François Joseph Palisot de Beauvois allestì la sua personale corona per Napoleone: una corona di petali (o almeno luio credeva così), quelli di una pianta che aveva raccolto in Africa. Dopo averla preannunciata in una seduta dell'Institut de France di ottobre, pubblicò scoperta e dedica verso la fine di dicembre, a incoronazione avvenuta, nell'opuscolo Napoléone impériale: Napoleonaea imperialis. E' una esplicita scelta di campo, dal significato eminentemente politico; il sottotitolo "Primo genere di un nuovo ordine di piante: le Napoleonée" non lascia dubbi. Napoleonaea inaugura una nuova famiglia di piante, esattamente come Napoleone inaugura un regime senza precedenti e una nuova dinastia: "Per essere un re si devono ereditare vecchie idee e genealogie. Io non voglio discendere da alcuno." Come dobbiamo leggere la plateale dedica di Palisot de Beauvois? E' la più smaccata delle adulazioni? O l'espressione di un entusiasmo reale, del resto condiviso - al netto della propaganda e della repressione - da una grande maggioranza di francesi? Certo non possiamo escludere l'interesse. All'epoca Palisot de Beauvois versava in una situazione economica molto difficile. Un tempo ricco possidente terriero, era stato rovinato dalla rivoluzione, da un amministratore incapace (o piuttosto interessato e disonesto) e da un divorzio; tornato in Francia dopo una serie di viaggi avventurosi e un lungo esilio, aveva in programma di pubblicare degnamente le sue scoperte in una serie di opere illustrate, corpose e costose: la sua Flore d'Oware et de Benin incominciò ad uscire proprio nel 1804; l'anno successivo seguì il primo volume di Insectes recueillis en Afrique et en Amérique. Cerro sperava anche che l'appoggio di Napoleone e dei suoi corifei scientifici gli garantisse l'ammissione come membro effettivo (con tanto di stipendio) dell'Institut de France (che aveva incorporato l'Accademia delle scienze), di cui era da tempo membro corrispondente. Eppure, a leggere le biografie e le testimonianze su Palisot de Beauvois, il tipo di cortigiano leccapiedi non sembra calzargli affatto (al contrario di tanti anche più famosi colleghi, a cominciare da Laplace). Nobile, durante la rivoluzione si era trovato proscritto e privato di tutti i suoi beni ed aveva potuto rientrare in Francia solo alla fine del 1798, quando il suo nome era stato cancellato dalle liste degli emigrati (un provvedimento che anticipa l'amnistia generale concessa da Napoleone primo console nel 1802). Di Napoleone certamente apprezzava la politica di conciliazione nazionale, ma anche di ritorno all'ordine dopo gli eccessi rivoluzionari. Feroce difensore dello schiavismo, che per le proprie posizioni aveva rischiato di essere messo a morte durante la rivolta di Haiti, gradiva particolarmente che egli avesse ristabilito la schiavitù nelle colonie, a suo parere follemente abolita dai rivoluzionari. Dunque, la dedica riflette probabilmente l'adesione al progetto politico di Napoleone, che rimarrà costante e sincera anche in tempi difficili, come conferma un fatto inequivocabile: nel 1815, durante i Cento giorni, il traballante Napoleone si fidava tanto della sua fedeltà che lo nominò consigliere per l'Università. ![]() Napoleone e la scienza Oltre a considerazioni di ordine più generale, avrà pesato anche la politica culturale del nuovo imperatore che aveva fatto della scienza un importante tassello della sua propaganda e aveva valorizzato il ruolo politico e sociale degli scienziati, tanto che Eric Sartori ha definito quello napoleonico "l'impero delle scienze". Lo era, secondo lo studioso francese, da tre punti di vista: il dominio scientifico a livello europeo; la formazione e la passione scientifica dell'imperatore stesso; il ruolo politico assegnato all'élite scientifica. Quanto al dominio scientifico, la Parigi napoleonica è indubitabilmente la capitale della scienza: Laplace rivoluziona l'astronomia, i vari Berthollet, Fourcroy, Gay-Lussac portano avanti la rivoluzione della chimica inaugurata da Lavoisier, l'abate Haüy studia la struttura dei cristalli, Daubenton e Lacépède proseguono l'opera di Buffon, Fourier fa avanzare l'analisi matematica, Cuvier getta le basi della paleontologia, Lamarck e Saint-Hilaire preparano l'evoluzionismo. Parlando poi di Bonaparte, l'interesse per la scienza è una costante della sua vita, da quando ragazzo era considerato il migliore matematico della scuola militare fino all'esilio di Sant'Elena, quando riempiva le giornate leggendo la Storia naturale di Buffon, il trattato di astronomia di Delambre o il corso di chimica di Fourcroy (gli ultimi due, per altro, pubblicati grazie a lui). Veniamo al terzo punto, anche se nel breve spazio di un post dovremo limitarci a qualche cenno. Già durante la Campagna d'Italia Napoleone intraprende una vera propria opera di seduzione verso gli scienziati, chiamati a sostituire le vecchie classi dirigenti e a formare una nuova élite fondata non sul sangue e sul privilegio, ma sul talento e il sapere. A Milano, frequenta artisti, letterati e scienziati, invita alle propria tavola Volta e Spallanzani, incoraggia gli scienziati ad assumere un nuovo ruolo sociale: "A Milano gli scienziati non godono della considerazione che spetterebbe loro. Ritirati nel fondo dei loro laboratori, si ritengono fortunati se i re e i preti si limitano a non offenderli. Ma oggi non è più così: in Italia il pensiero ora è libero. Non ci sono più né Inquisizione, né intolleranza, né despoti. Invito gli studiosi a riunirsi e ad espormi le loro idee sui mezzi da adottare, o sui bisogni che emergeranno, per dare alle scienze e alle arti una nuova vita e una nuova esistenza. Tutti quelli che vorranno venire in Francia saranno accolti con distinzione dal governo. Il popolo francese valuta molto di più l'acquisizione di un matematico [...] che la conquista della città più ricca e più popolosa". Ovviamente questi proclami democratici fanno da paravento alla spogliazione del patrimonio culturale italiano; in nome della fratellanza e della libertà, a prendere la via di Parigi non sono solo quadri e statue, ma anche biblioteche intere, collezioni scientifiche, erbari e piante vive (attese con trepidazione da sua moglie Joséphine, grande appassionata di piante e giardini). Tra i "commissari governativi" che dirigono la spogliazione ci sono il grande matematico Monge (uno degli insegnanti di Napoleone alla scuola militare) e il chimico Berthollet; entrambi si legano a Bonaparte e nel 1797 ne propongono la candidatura all'Institut de France per la sezione meccanica. L'elezione del brillante generale, che non ha scritto una riga né di meccanica né di altre scienze al contrario dei candidati sconfitti, è tutta politica, primo atto della sua alleanza con l'establishment scientifico. Il secondo atto è la spedizione in Egitto (1798-1801); insieme ai soldati, ci sono 167 savants: disegnatori, architetti, ingegneri, geometri, cartografi, astronomi, chimici, mineralogisti, zoologi e botanici; divisi nelle quattro sezioni di matematica, fisica, economia politica, letteratura e arti, devono studiare e descrivere ogni aspetto dell'Egitto del passato e del presente: la geografia, la flora, la fauna, le risorse minerarie, l'arte, la società. A reclutarli a stato proprio Monge - assistito ancora da Berthollet e dal matematico Fourier - che li ha contattati e convinti in segreto (la missione era coperta dal segreto militare). In genere sono molto preparati, giovani, di salute robusta, ma una ventina di loro perirà durante la missione. Tralasciando gli altri settori, soffermiamoci sulle scienze naturali. Il compito dei naturalisti è redigere un catalogo completo della fauna e la flora del paese; per assolverlo lo zoologo Geoffroy de Saint Hilaire, affiancato dal pittore Henri-Joseph Redouté (fratello del più celebre Pierre-Joseph) e il botanico Alire Raffeneau-Delile intraprendono molte spedizioni, a volte lunghe e faticose, nell'alto e nel basso Egitto. Raffeneau-Delile descrive il loto e il papiro e crea un orto botanico al Cairo; un altro attivo raccoglitore è Ernest Coquebert de Montbret, che la ha sfortuna di morire ventunenne di peste il 7 aprile 1801, lo stesso giorno in cui la Commissione delle scienze e dell'arti si imbarca alla volta dell'Europa. Nel febbraio 1802 un decreto di Napoleone ormai primo console ordinerà la pubblicazione dei risultati a spese delle stato, ma a beneficio degli autori: è l'inizio della grandiosa Description de l'Egypte, che coinvolgerà 160 savants, 2000 artisti tra cui 400 incisori, si protrarrà per oltre vent'anni e comporterà nella prima edizione 19 volumi, 37 nella seconda. Ma abbiamo anticipato gli eventi. Come è noto, Bonaparte parte per Parigi nell'agosto del 1799 (insieme a lui, viaggia l'ormai inseparabile Monge); il 18 brumaio (ovvero il 9 novembre) con un colpo di stato rovescia il Direttorio e si impadronisce del potere. Per legittimare il quale, ha cura di circondarsi di scienziati e di chiamarli alle più alte responsabilità: diversi di loro, tra cui Lagrange, sono nominati senatori; Laplace diviene addirittura ministro dell'interno: grande matematico e fisico, ma amministratore incapace, sarà allontanato dopo appena sei settimane; Fourier è prefetto dell'Isère; Monge senatore, presidente dell'Institut d'Egypte e direttore dell'école polytechnique. Come si vede, tra questi notabili non c'è nessun botanico; cultore della matematica e delle "scienze dure", Napoleone non ha una gran considerazione della scienza della piante; in famiglia, la botanica era sua moglie Joséphine, come ci ricorda un aneddoto spesso ripetuto. Nel 1804, quando Humboldt ritornò dal suo grande viaggio in America latina, il neoimperatore lo ricevette e gli domandò, in tono quasi di disprezzo: "Dunque vi interessate di botanica? Anche mia moglie si occupa di piante". Forse nuoce ai botanici del Jardin des plantes (ora Muséum national d'histoire naturelle) anche il loro passato giacobino. E' vero che Antoine-Laurent de Jussieu ne mantiene la direzione che esercita fin dai tempi della Convenzione e nel 1804 è nominato professore di botanica alla facoltà di medicina e presidente della I sezione dell'Institut national, ma non riceverà mai gli onori che toccano ai colleghi fisici, chimici e matematici. Tra i naturalisti, l'uomo di Napoleone è Cuvier, segretario perpetuo dell'Institut e presidente della commissione che deve riformare l'università. Un merito di Bonaparte agli occhi dei botanici sarà stato se non altro aver finanziato la spedizione Baudin (1800-1803), quando era ancora primo console. Diretta verso le "coste della Nuova Olanda", ovvero l'Australia, aveva obiettivi geografici e cartografici, ma anche naturalistici, come ci ricordano i nomi delle due navi della spedizione, Géographe e Naturaliste. A bordo ci sono 24 tra artisti e scienziati, compresi molti membri dell'Institut de France, e cinque giardinieri, incaricati di occuparsi delle piante vive; tra i botanici, l'ormai anziano André Michaux, che però abbandona l'impresa per dissensi con il comandante Baudin, e Jean-Baptiste Leschenault de la Tour. Nonostante tante vicissitudini, compresa la morte del comandante, il successo scientifico della spedizione è straordinario: 200.000 esemplari di animali e piante vanno ad arricchire le collezioni del Muséum national e del Jardin des plantes. Piante e animali vivi raggiungono invece i giardini della Malmaison; e nelle sue serre fioriscono per la prima volta molte piante ora a tutti familiari, come Acacia dealbata, ovvero quella che siamo abituati a chiamare "mimosa". Per quanto tiepidamente interessato alla botanica, che delegava volentieri alla botanofila Joséphine, questi risultati avranno fatto piacere anche al quasi imperatore, cui non sfuggiva l'importanza dell'introduzione di nuove specie per il progresso dell'agricoltura, che considerava invece "l'anima, la base prima dell'Impero". Questo interesse pratico gli poteva derivare dall'esempio del padre, Carlo Bonaparte, che, convinto esponente della scuola fisiocratica, aveva iniziato a bonificare la tenuta delle Saline, dove aveva creato un vivaio con alberi da frutto e piante esotiche. Nel 1800, ancora all'epoca del consolato, Napoleone fece creare ad Ajaccio il primo orto botanico della Corsica, il Jardin d'Expériences. Inaugurato il 12 giugno 1801, si trovava nel recinto dell'ex convento di San Francesco, trasformato in ospedale militare, aveva una superficie di circa 6.000 metri quadri e godeva di un clima favorevole che permise l'acclimazione di piante esotiche, tra cui il tabacco. Nel 1807 con un decreto imperiale passò direttamente sotto l'amministrazione del Muséum di Parigi, ma solo nel 1812 fu dotato di finanziamenti e fu costruita una serra. Anche in seguito ebbe vita grama, con la morte per febbre perniciosa di almeno due giardinieri. Durante gli anni napoleonici, le società agricole, abolite ai tempi del Terrore, rifiorirono e si moltiplicarono. Prima la perdita delle colonie, poi le difficoltà dei commerci a lunga distanza causati dall'interminabile ciclo di guerre, infine il blocco continentale resero ancora più urgente l'acclimazione di piante esotiche anche nel territorio metropolitano o la ricerca di loro succedanei. L'esempio più noto è quello della coltivazione della barbabietola da zucchero; il metodo di estrazione fu messo a punto da un altro botanico, Benjamin Delassert. Nominato barone da un grato Napoleone, andò aggiungersi alla piccola schiera di scienziati di primo piano entrati a far parte della nobiltà dell'Impero (che, però, non dimentichiamolo, era formata per quasi il settanta per cento da militari). Per un alto numero di scienziati, però, c'erano incarichi pubblici ben rimunerati, posti di insegnamento nelle scuole secondarie (dove le scienze divennero materia obbligatoria) e all'università, premi in denaro, donazioni e vitalizi come quelli assegnati a Volta, la possibilità di pubblicare a spese dello stato, le sovvenzioni per le ricerche e le innovazioni tecniche, prime fra tutte quelle che potevano essere utili all'esercito, come il telegrafo ottico inventato da Claude Chappe. ![]() Le dediche botaniche a Napoleone Palisot de Beauvois era stato anticipato di due anni dagli spagnoli Ruiz e Pavón che nel 1802 dedicarono al primo Console Bonapartea sulla base di una specie da loro raccolta in Perù. Erano abituati a offrire con disinvoltura le loro piante all'uomo politico di turno, e la dedica a Napoleone, intesa a ingraziarsi forse ancor più di lui il filofrancese Godoy, da poco ritornato al potere, è un capolavoro di servilismo e adulazione: "Genere dedicato a Napoleone Bonaparte, rifondatore della ricostituita repubblica francese, primo console, comandante sempre invitto, patrono della botanica, di tutte le scienze fruttuose e delle arti, difensore della religione, ripristinatore della pace in tutto il globo, uomo immortale, che rimarrà nella memoria degli uomini famosissimo per le sue gesta". E' quasi una consolazione sapere che il genere non è valido (è un sinonimo diTillandsia), mentre lo è il bel Lapageria, che i due botanici iberici dedicarono contestualmente "all'eccellente Joséphine de La Pagerie, degnissima sposa di Napoleone Bonaparte, egregia fautrice della botanica e delle scienze naturali". Senza esprimersi in termini così smaccati, Palisot de Beauvois è non meno celebrativo. Per omaggiare il neoimperatore sceglie una pianta i cui vistosi fiori a coccarda ostentano un triplice giro di petali (più probabilmente staminoidi), che li fanno assomigliare a una corona. Non meno importante è il convincimento - confermato da Antoine-Laurent de Jussieu, amico di una vita - che la Napoleonaea non appartenga ad alcuna famiglia nota, anzi inauguri una famiglia propria. In effetti, la famiglia Napoleonaeaceae è stata a lungo accettata dai botanici, per essere poi assorbita nelle Lecythidaceae. Oggi al genere sono assegnate diciassette specie, tutte originarie dell'Africa tropicale occidentale e centrale intorno al golfo di Guinea; quelle più note sono N. imperialis e N. vogelii. Il primo è un alberello alto circa 6 metri, il secondo un albero di dimensioni maggiori; entrambi sono sempreverdi, con grandi foglie alternate obovate, e curiosi fiori che nascono sui rami maturi o direttamente sul tronco. Hanno una struttura molto complessa, che ha fatto parecchio discutere i botanici. Oltre che a una corona, possono essere paragonati a una coccarda, con due giri esterni di elementi simili a petali disposti orizzontalmente e un giro interno di venti stami e staminoidi eretti. Per alcuni botanici, anche recenti, si tratta di una vera corolla e gli elementi esterni sono petali; per altri è un fiore apetalo e si tratta di staminoidi, una tesi confortata dai dati molecolari e dal confronto con le strutture fiorali delle Lecythidaceae. In ogni, caso una struttura peculiare ed affascinante, nonché discussa e discutibile, come lo stesso Napoleone. Che lo stesso anno ricevette una seconda dedica vegetale dal botanico Etienne Pierre Ventanat, che in quel momento, per incarico di Joséphine, stava redigendo il catalogo delle collezioni del giardino della Mailmaison, una splendida opera in due volumi, con le illustrazioni di Pierre-Joseph Redouté. E fu proprio su richiesta della sua patrona che creò un terzo genere in onore dell'ormai imperatore, come racconta egli stesso: "Sua Maestà l'Imperatrice dei francesi, essendosi resa conto che la pianta di cui ho appena presentato la descrizione appartiene a un genere nuovo, ha voluto indicarmi il nome che dovevo dargli. I signori Ruiz e Pavón hanno già consacrato quello di Bonapartea nella Flora del Perù, e il signor Palissot-Beauvois quello di Napoleonaea in Flora d'Oware e del Benin; ho fatto così ricorso alla lingua greca, che ha fornito ai botanici un gran numero di denominazioni tanto espressive quanto armoniose, per obbedire al desiderio di Sua Maestà l'Imperatrice e dare a Sua Maestà l'Imperatore una modesta prova della riconoscenza che gli devono tutti coloro che coltivano le arti e le scienze". Come tutti i francesi, anche Ventenat è appena passato da cittadino a suddito, e si comporta di conseguenza. La pianta in questione è Calomeria amaranthoides, coltivata nei giardini della Malmaison dai semi giunti dall'Australia grazie alla spedizione Baudin. Il nome generico, come spiega lo stesso Ventenat, è formato da due parole greche, καλός (kalòs) "bello, buono" e μερίς (meris) "parte": dunque, Bonaparte. E' forse l'unica specie del piccolo genere Calomeria (Asteraceae), a cui vari repertori ne attribuiscono quattro, con una sorprendente distribuzione disgiunta: mentre C. amaranthoides è endemica degli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud nell'Australia sud orientale, le altre tre vivono nell'Africa meridionale e orientale. Appaiono alquanto diverse dalla sorella australiana, e altri botanici le assegnano decisamente al genere Helichrysum. Parliamo dunque della sola specie certa. quella descritta e denominata da Ventenat. E' una perenne di breve vita solitamente coltivata come biennale, di grandi dimensioni (può superare i tre metri) e foglie intensamente profumate d'incenso. In estate produce grandi infiorescenze color amaranto simili a pennacchi. Ricordano tanto da vicino quelli inalberati sull'elmo dell'alta uniforme della Guardia Imperiale da far pensare che non si tratti di una semplice coincidenza. Prima di concludere, vale la pena di ricordare la damnatio memoriae che toccò a Napoleonaea imperialis. Nel 1814, appena caduto per la prima volta Napoleone, un altro botanico francese, Nicaise Augustin Desvaux, ritenne che quella ignominiosa dedica dovesse essere cancellata, e si affrettò a rinominare la pianta Belvisia caerulea, in onore dello stesso scopritore Palisot de Beauvois. Ma, grazie al repubblicano e antinapoleonico Augustin Pyramus de Candolle, in botanica vale la regola della priorità: Napoleonaea vive, Belvisia è un nome illegittimo. A scusante dei quattro botanici che si affrettarono a prostrarsi ai piedi di Napoleone, ricordiamo che non furono i soli a subirne la fascinazione. Come è noto, lo stesso Beethoven voleva dedicargli la sua terza sinfonia, finché proprio l'incoronazione gli aprì gli occhi. E le tre dediche vegetali sono tutte comprese tra il 1802 e il 1804, quando davvero Napoleone poteva ancora presentarsi nelle vesti di pacificatore, restauratore dell'ordine e al tempo stesso fautore del progresso e del rinnovamento sociale. |
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E' in uscita La ragione delle piante, che costituisce l'ideale continuazione di Orti della meraviglie. L'avventura delle piante continua! CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
January 2023
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