La carriera accademica di Pierre Magnol, uno dei più grandi botanici del Seicento, decollò solo quando egli aveva abbondantemente superato la cinquantina. Due gli ostacoli: la sua appartenenza alla perseguitata minoranza protestante e una cricca familiare onnipotente che monopolizzava le cattedre e la direzione dell'orto botanico più antico di Francia. Curioso che a questa vittima del familismo si debba il concetto di famiglia botanica. Ma a ricompensarlo con gli interessi c'è la dedica del magnifico genere Magnolia. Una carriera a ostacoli Nella Francia dell'Ancien Régime erano migliaia le magistrature e gli incarichi distribuiti secondo il sistema della venalità delle cariche: si compravano, si vendevano, si ereditavano (previo il versamento di una tassa più o meno modica, la Paulette). A questa prassi, che coinvolgeva magistrati e funzionari, non era estranei neppure gli incarichi scientifici. Fu così che per centocinquant'anni alla testa dell'Orto botanico di Montpellier si succedette un'autentica dinastia. In riconoscimento delle sue benemerenze di fondatore dell'orto, il re aveva concesso a Richer de Belleval di nominare il suo successore come insegnante di botanica all'Università e intendente (cioè direttore) dell'orto; Belleval fece venire un nipote, Martin Richer (1599-1664), che dal 1641, con privilegio regio, divenne anche cancelliere dell'Università. A sua volta, Martin Richer chiamò a succedergli un parente, Michel Chicoyneau (1626-1701), che riuscì a accumulare nelle sue mani le cattedre di anatomia e di botanica e gli incarichi di sovrintendente dell'orto e cancelliere dell'Università. Costui inaugurò una dinastia che si trasmise tutte o alcune di queste funzioni per quattro generazioni, per quasi un secolo, dal 1664 al 1759. I contemporanei hanno descritto Michel come un uomo superbo, imperioso e violento, che svolgeva i suoi compiti senza alcun particolare talento (i suoi talenti andavano tutti agli intrighi e alla capacità di ingraziarsi i potenti, primo fra tutti Antoine Vallot, il medico del re). Eppure uomini competenti, che avrebbero saputo tenere alto l'onore della prestigiosa università e del più antico orto botanico del paese, non mancavano. In quegli anni, il più competente di tutti era proprio un uomo di Montpellier, Pierre Magnol. Figlio di un farmacista, Magnol si era appassionato alla botanica fin da ragazzo e aveva acquisito una competenza eccezionale percorrendo in lungo in largo la Linguadoca e le Cevenne. Fu lui, e non certo l'irrilevante Chicoyneau, a destare l'ammirazione di John Ray durante il suo soggiorno a Montpellier, tra il 1665 e il 1666. A lui si rivolse lo stesso Vallot (di cui pure Chicoyneau era un protetto) quando, desiderando rilanciare il trascurato Jardin du Roy di Parigi, inviò a Montpellier per consultarlo e chiederne l'aiuto prima Denis Jonquet, poi Guy-Crescent Fagon. Il primo fu così entusiasta da convincere Vallot a ottenere per Magnol il titolo di medico del re (del resto, del tutto onorifico: non comportava né uno stipendio né una funzione effettiva). Con il secondo strinse una profonda amicizia, "concimata" dalla comune passione per le piante. Ma alla carriera accademica di Magnol si aggiungeva un altro ostacolo, ben più insuperabile dell'ingombrante Chicoyneau: Magnol era protestante e nella Francia di Luigi XIV non gli era consentito rivestire un incarico pubblico. Nel 1664 egli presentò la sua candidatura a dimostratore dell'orto botanico; fu respinta a causa della sua fede religiosa. Lo stesso avvenne nel 1668, quando, essendosi rese vacante due cattedre alla facoltà di medicina, partecipò al concorso, con le prove più brillanti; questa volta il re stesso pose il veto. Così fu piuttosto come privato che Magnol incominciò ad attirare attorno a sé molti giovani allievi, che seguivano le sue dimostrazioni anche sul campo. Tra di loro, il più celebre è senza dubbio Joseph Pitton de Tournefort, che frequentò la facoltà di medicina tra il 1669 e il 1671 e seguì con entusiasmo l'insegnamento informale di Magnol. Fu per questi allievi che Magnol scrisse una flora dell'area di Montpellier, Botanicum Monspeliense (1676). La revoca dell'editto di Nantes costrinse Magnol, come i suoi correligionari, a una scelta drastica: l'emigrazione o l'abiura. Magnol scelse la seconda. L'anno successivo, arrivò il primo incarico ufficiale: fu nominato dimostratore di botanica come supplente di Michel Chicoyneau, trattenuto a Parigi dagli affari della facoltà. Dopo questa breve parentesi, fu solo nel 1694 che Magnol, grazie ai buoni uffici degli amici Fagon e Pitton de Tournefort, ottenne finalmente una cattedra universitaria (di medicina, non di botanica). Le cattedre di anatomia e botanica, infatti, Chicoyneau, ormai anziano, le teneva in caldo per i suoi figli: nel 1689 era riuscito a far nominare il figlio maggiore, Michel-Amatus, che morì dopo appena un anno; stessa sorte toccò al terzogenito Gasparetus, nominato nel 1691 e morto nel 1693. Rimaneva in vita ancora un figlio, François, che al momento non aveva ancora una preparazione sufficiente per assumere effettivamente i suoi compiti. Chicoyneau padre si rivolse di nuovo a Magnol, che venne nominato supplente Intendente del Giardino per tre anni. Allo scadere del mandato, François Chicoyneau divenne l'intendente in carica - sia detto per inciso, fu una figura ben più degna del padre, un medico di fama che si distinse quando a Montpellier scoppiò la peste e divenne primo medico di Luigi XV - ma di fatto il giardino continuò ad essere gestito da Magnol, che ne venne nominato ispettore a vita. Del resto, era ormai un membro a tutti gli effetti dell'establishment scientifico francese, tanto da essere chiamato nel 1709, alla morte di Tournefort, a sostituirlo all'Accademia delle scienze. Qualche approfondimento sulla sua vita nella sezione biografie. Nasce il concetto di famiglia Durante la sua lunga vita, Magnol pubblicò solo tre opere. La prima fu Botanicum Monspeliense (1676), una flora dei dintorni di Montpellier sul modello del catalogo della flora di Cambridge di John Ray. Vi si descrivono, in ordine alfabetico, circa 1300 specie, buona parte delle quali Magnol aveva raccolto personalmente. Nata per esigenze didattiche, di ogni pianta l'opera indica l'habitat e gli eventuali usi officinali. Fu apprezzata da Linneo che la utilizzò come base per Flora Monspeliensis, dissertazione discussa dal suo allievo Theophilus Erdman Nathorst nel 1756. Più importante nella storia della botanica è Prodromus historiæ generalis plantarum, in quo familiæ per tabulas disponuntur (1689) in cui Magnol sostiene un nuovo metodo di classificazione delle piante e introduce il concetto di famiglia. Analogamente a Ray (che era rimasto tra i suoi numerosi corrispondenti), Magnol respinge le classificazioni basate su un unico carattere; per raggruppare correttamente le piante, bisogna basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche (dunque radici, fusti, foglie, fiori, frutti, semi, portamento). Osserva poi che tra le piante si possono notare affinità e parentele e su questa base crea il concetto di famiglia, intesa come un raggruppamento di piante con caratteristiche affini. Nelle tavole accluse all'opera, le piante vengono raggruppate in 76 famiglie, anche se i criteri di classificazione non sono esplicitati e risultano spesso vaghi. Nel 1697, come supplente intendente dell'Orto di Montpellier, Magnol ne pubblicò il catalogo, sotto il titolo Hortus regius monspeliensis (1697), un'opera imponente accompagnata da illustrazioni di ottima fattura, in cui descrisse 2000 piante, adottando come criterio di classificazione non il proprio sistema, ma quello di Tournefort (che rifletteva la disposizione fisica del giardino, in cui le piante erano appunto state riorganizzate in tal modo). Un'ultima opera, Novus character plantarum, uscì postuma nel 1720 a cura del figlio Antoine; Magnol vi rivide il proprio sistema di classificazione, tenendo conto delle osservazioni dei suoi numerosi corrispondenti e stabilendo come carattere principale il calice fiorale. Il sistema fu apprezzato da Linneo che nel suo Classes Plantarum (1738) deplora che abbia trovato pochi seguaci. Magnifiche magnolie Fu un altro botanico del sud della Francia, che con Magnol era in contatto anche attraverso il comune amico Pitton de Tournefort, Charles Plumier, a dedicargli una delle piante da lui scoperte nelle Antille, Magnolia dodecapetala (1703). Il nome fu fatto proprio da William Sheridan, un allievo di Tournefort che lo diffuse in Inghilterra. Linneo lo riprese nella prima edizione di Systema naturae (1735) e lo ufficializzò in Species plantarum (1753). E così, dopo tante vicissitudini e umiliazioni, Magnol ha donato il suo nome a uno degli alberi più belli e amati (un nome straordinariamente eufonico, che non sembra neppure derivato da un cognome). Gloria dei parchi e dei giardini, Magnolia - dopo varie vicende tassonomiche - è oggi un grande genere di oltre 200 specie, uno dei due (l'altro è Liriodendron) della famiglia Magnoliaceae. Dal punto di vista della coltivazione le magnolie si dividono in due grandi gruppi: quelle a foglia caduca, di origine per lo più asiatica, fioriscono all'inizio della primavera; tra le specie più note, M. stellata, M. liliiflora, M. campbellii, e l'ibrido M. x soulangeana. Quelle a foglia persistente, o sempreverdi, sono per lo più americane e fioriscono d'estate; la più nota è M. grandiflora. La storia dell'introduzione di questa specie ora addirittura inflazionata è curiosa e affascinante. Sembra che il primo esemplare a sbarcare in Europa sia arrivato a Nantes nel 1711, per essere piantato nella serra di René Darquistade, sindaco della città, a La Maillardière. Dopo vent'anni, insoddisfatto dello scarso sviluppo della pianta, coltivata rigorosamente in serra, egli decise di disfarsene. La moglie del giardiniere la salvò e convinse il marito a piantarla all'esterno, in un'area riparata. In queste nuove condizioni, la magnolia si sviluppò e regalò una magnifica fioritura. I vivaisti della città la moltiplicarono per margotta e la diffusero nel resto del paese. Quanto alla magnolia di La Maillardière, trascurata e danneggiata durante la rivoluzione, morì intorno al 1848. Naturalmente questa storia è contestata dagli inglesi, che sostengono che le prime magnolie arrivarono invece a Exmouth, in Inghilterra, intorno al 1720, nei giardini di sir John Colliton. La magnolia di Exmouth ebbe vita più breve di quella di Nantes perché, a quanto pare, nel 1794 fu tagliata accidentalmente. Ne è discesa però un'apprezzatissima cultivar a fiori particolarmente grandi, M. grandiflora 'Exmouth'. Questa rivalità e queste storie - a metà tra storia e leggenda - testimoniano la popolarità delle magnolie, come del resto le migliaia di locali,catene di negozi, prodotti di bellezza, case di moda, gruppi musicali, associazioni e ditte di ogni genere che ne portano il nome. Se ne fregiano anche diverse città statunitensi. Magnifiche magnolie. Una bella rivincita per Monsieur Magnol. Come sempre, qualche approfondimento nella scheda.
0 Comments
In un sodalizio scientifico, può essere difficile distinguere il contributo dei singoli: si lavora insieme, si discute, le idee nascono, si scambiano, maturano dal confronto reciproco. Quanto deve Linneo all'amico Artedi? oppure L'Obel a Pena? Nel caso di John Ray e Francis Willughby, per secoli nessun dubbio: Ray era il cervello, Willughby il portafoglio. Ma in anni recenti, nuovi documenti hanno dimostrato che forse le cose non stanno proprio così. E, per ironia della sorte, il grandissimo John Ray, padre della classificazione naturale, si vede scippato del genere Rajania, mentre a Willughby resta l'onore del genere Willughbeia. Un maestro carismatico e una passione contagiosa Il nome di John Ray (1627-1705) è uno dei più noti della botanica prelinneana. A lui si deve la prima definizione scientifica di specie, l'introduzione di termini come petalo e pistillo, e soprattutto l'elaborazione di un metodo e di un sistema che ne fanno il fondatore della classificazione naturale degli esseri viventi. Ben meno celebre è il suo allievo Francis Willughby, che di Ray fu anche compagno di viaggio e sopratutto, per molti anni, il mecenate che ne rese possibile gli studi e lo introdusse negli ambienti scientifici londinesi. Francis era l'unico erede di ampi possedimenti nelle Midlands, tra cui la residenza di Middleton Hall; di intelligenza pronta e di interessi enciclopedici, arrivò a Cambridge nel 1657, a 22 anni. Ufficialmente, le uniche materie insegnate erano le lingue e la cultura classica, la filosofia, la teologia e la matematica; Willughby seguì con scrupolo il curriculum previsto, laureandosi nel 1662, ma il suo tutor John Ray - che a sua volta si era avvicinato allo studio delle scienze naturali da pochi anni, da autodidatta - gli trasmise la sua passione e lo coinvolse nelle sue ricerche. Al momento, Ray stava scrivendo la sua prima opera di botanica, Catalogus plantarum circa Cantabrigiam nascentium (1660), ovvero "Catalogo delle piante che nascono nei dintorni di Cambridge", che fu la prima flora regionale pubblicata in Inghilterra. Willughby collaborò alla raccolta di esemplari per il catalogo e seguì gli esperimenti del maestro nel piccolo orto botanico creato da Ray presso la sua residenza al Trinity College. Era intenzione di Ray continuare su questa strada, scrivendo una flora inglese, ma era anche interessato ad altri argomenti, in particolare alla riproduzione degli uccelli. Per raccogliere esemplari per la flora e approfondire le sue ricerche, prese a dedicare le estati a viaggi scientifici nel paese: nell'estate del 1658, da solo aveva, erborizzato in Galles e nelle Midlands; nel 1660, insieme a Willughby, visitò l'Inghilterra settentrionale e l'isola di Man; nel 1661 si spinse in Scozia con un altro allievo, Philip Skippon. Nel viaggio del 1660, Willughby ebbe probabilmente modo di scoprire la sua vera vocazione: più che alla botanica, i suoi interessi andavano alla zoologia, soprattutto agli uccelli e alla fauna marina. Insieme al maestro, fu tra i primi a intuire il fenomeno della migrazione degli uccelli, postulando che le rondini non andassero in letargo, come supponeva Aristotele, ma partissero per climi più miti. Nel 1662, dopo la restaurazione della monarchia, Ray, vicino alle posizioni dei puritani, rifiutò di aderire all'Act di Uniformity e fu costretto a lasciare la carriera universitaria. Da quel momento, per vivere, dovette "confidare nella Provvidenza e nei buoni amici; ma la libertà è una bella cosa!" La Provvidenza assunse il volto di Francis Willughby, che propose al maestro di accompagnarlo in un vero e proprio Grand Tour attraverso l'Europa. Forse i due ci pensavano da tempo: nonostante figure prestigiose come Bacone e Harvey, la scienza inglese era indietro rispetto alle acquisizioni della nuova scienza europea; nel paese non esisteva neppure un orto botanico e in nessuna università era possibile studiare anatomia, botanica o zoologia. Il viaggio durò tre anni e portò maestro ed allievo a visitare molte istituzioni scientifiche importanti, ma soprattutto permise loro di studiare dal vivo una natura multiforme, mettendo insieme vastissime collezioni di piante essiccate, animali, fossili, rocce, reperti naturali, archeologici, etnografici. Chi ha scritto questi libri? A partire da Dover il 18 aprile 1663 furono in quattro: Ray, Skippon, Willughby e il suo amico Nathaniel Bacon. Il gruppo visitò i Paesi Bassi, la Germania e la Svizzera, navigando lungo il Reno, quindi lungo il Danubio da Augusta a Vienna. Da qui, in carrozza, raggiunsero Venezia e Padova, dove Ray seguì lezioni di anatomia; quindi si spostarono a Ferrara e a Bologna, dove visitarono il famoso Teatro della natura di Aldrovandi. Da Parma risalirono a Milano, a Torino, poi riscesero a Sud toccando Lucca e Pisa. Via mare raggiunsero Napoli, dove scalarono il Vesuvio. Qui nella primavera del 1664 si divisero: Willughby si spostò in Spagna, per poi rientrare in Inghilterra, mentre Ray continuava verso sud, in Sicilia e a Malta. Mentre Ray proseguiva il viaggio (sarebbe rientrato in Inghilterra solo nel marzo del 1666, dopo aver visitato anche la Francia), probabilmente Willughby era tornato a casa alla fine del 1664, visto che nel gennaio 1665 lesse una comunicazione sul loro viaggio alla Royal Society, alla quale era stato ammesso nel marzo dell'anno precedente. La Royal Society era allora un'istituzione recentissima, fondata appena nel novembre del 1660. La morte del padre nel dicembre del 1665 aumentò i doveri di Willughby come capo della casata; egli si stabilì nella residenza di Middleton Hall dove, al ritorno dalla Francia, lo raggiunse Ray. Le enormi collezioni raccolte durante il viaggio dovevano essere organizzate e catalogate; questo fu il compito ufficiale affidato a Ray, anche se il ruolo di Willughby non fu semplicemente quello di mecenate, ma di studioso in prima persona. Con l'enorme massa di dati scientifici raccolti, i due amici si proponevano infatti di pubblicare una descrizione sistematica delle piante e degli animali conosciuti; si divisero i compiti: Ray si sarebbe occupato delle prime, Willughby dei secondi. Cedendo alle pressioni delle famiglia, all'inizio del 1668, Willughby si sposò; mentre la madre, Cassandra, vedeva di buon occhio le attività scientifiche del figlio e la presenza di Ray, a quanto pare l'atteggiamento della moglie Emma era meno entusiastico, se non ostile. Quando dal matrimonio nacquero tre figli, Ray fu incaricato della loro educazione, Mente poliedrica e geniale (i suoi manoscritti, dove si mescolano gli argomenti più vari e linee di scrittura si intersecano e si sovrappongono, mettono a dura prova chi cerca di decifrarli), Willughby si occupò contemporaneamente di vari argomenti; nel 1669, insieme a Ray presentò alla Royal Society una memoria sulla circolazione della linfa (Experiments concerning the Motion of Sap in Trees; nel 1667 anche Ray era stato ammesso alla Society, stringendo contatti che sarebbero stati preziosi dopo la morte di Willughby); studiò gli uccelli, i pesci, gli insetti, ma anche argomenti più frivoli, come i giochi. Nel 1672, a soli 37 anni, Willughby morì improvvisamente di pleurite. Lasciava numerosi manoscritti, ma nessuna opera compiuta. Ray, che continuava a percepire una pensione come curatore delle collezioni di Middleton Hall e come precettore dei bambini, sentì il dovere morale di assicurare la pubblicazione delle opere del suo protettore e amico. Nel 1676 uscì, sotto il nome di Willughby, Ornithologia libri tres, tre volumi corredati da splendide (e costose) illustrazioni finanziate dalla vedova Emma. Nel 1687 (quando Emma si era ormai risposata e Ray aveva definitivamente lasciato Middleton Hall) seguì Historia piscium, a spese della Royal Society; l'uscita di questo libro esaurì le risorse dell'istituzione, tanto da costringerla a procrastinare la pubblicazione dei Principia Mathematica di Newton. Ancora più tardi, rispettivamente nel 1705 e nel 1710, materiali di Willughby confluiranno in due opere della vecchiaia di Ray, Methodus insectorum e Historia insectorum. Di queste opere, quanto si deve a Willughby e quanto a Ray? Per secoli, la risposta è stata semplice: il vero autore era Ray che, per affetto e riconoscenza verso l'amico precocemente perduto, con finezza d'animo aveva voluto pubblicare sotto il nome di lui l'Ornithologia e l'Historia piscium. L'accesso agli archivi di Middleton e una lettura più attenta della corrispondenza dei protagonisti hanno invece dimostrato che quei libri sono il frutto delle ricerche di Willughby, e Ray ne può essere considerato quello che dichiarò di essere, cioè il curatore. Emerge anche come l'idea, generalmente attribuita a Ray che la classificazione degli esseri viventi dovesse basarsi sull'insieme delle loro caratteristiche fisiche, e non su un singolo tratto, nacque invece dal lavoro comune di entrambi. Prima che Ray lo applicasse alle piante, questo metodo trovò applicazione nei tre libri sugli uccelli, con i quali nasce l'ornitologia scientifica. Una sintesi della breve vita di Willughby nella sezione biografie. I dolci frutti della Willughbeia Venendo ora ai nostri nomi delle piante, ci troviamo di fronte a un paradosso. Al grande botanico John Ray, la cui gigantesca Historia platantarum (1686-1704) è una delle opere più importanti della botanica prelinneana, non mancò l'omaggio dei successori. A partire da Plumier, gli venne dedicato un genere di Dioscoreaceae, di cui generazioni di botanici si sono divertiti a cambiare la grafia (Janraja, Raya, Rayania, Rajania). Nella forma Rajania, fissata da Linneo nel 1753, questo piccolo genere per oltre 250 anni ha continuato a celebrare il nome di Ray; finché, in anni recentissimi, gli studi filogenetici l'hanno declassato a sinonimo di Dioscorea, di cui costituisce forse una sezione. John Ray, che polemizzava con i botanici del suo tempo che tendevano a moltiplicare le specie senza necessità, e che insisteva che non bisogna operare distinzioni tassonomiche sulla base di caratteristiche secondarie (aristotelicamente, accidentia), ma solo sulla base di caratteristiche sostanziali (substantia), benché scippato del suo genere non avrebbe avuto niente da obiettare. Rajania infatti si distingue dal genere Dioscorea solo per i frutti, che sono silique. Al mecenate, ma oggi sappiamo anche grande zoologo, Willughby spetta invece un genere valido, Willughbeia, creato nel 1820 da Roxburgh in Flora indica, riprendendo una denominazione di Scopoli. Lo ricordano anche i nomi specifici di Megachile willughbiella (un'ape tagliafoglie) e di Salvelinus willughbii (il salmerino del lago Windermere). Willughbeia è un genere della famiglia Apocynaceae che comprende una quindicina di specie native del Sud Est asiatico e del subcontinente indiano; sono per lo più liane, con piccoli fiori con ovario con una sola cella e frutti polposi indeiscenti. Abbastanza sorprendentemente (molte Apocynaceae sono tossiche) i frutti di diverse specie sono eduli. Citiamo W. edulis (sin. W. cochinchinensis), diffusa dall'India settentrionale alla penisola indocinese, che produce frutti tondeggianti, giallo aranciati, con polpa acidula; W. sarawacensis, nativa del Borneo e delle Filippine, con frutti che per colore e forma ricordano un pompelmo, ma con un gusto dolce che viene descritto come una combinazione di mango, guanabana e ananas; nativa della Tailandia, della Malaysia e dell'Indonesia è W. angustifolia (sin. W. elmeri), con grandi frutti dalla polpa bianca molto dolce. Poco noti da noi (poche informazioni sono reperibili in siti dedicati ai frutti tropicali), sono invece assai apprezzati a livello locale. Qualche approfondimento nella scheda. A proporre una delle prime classificazioni delle piante è alla fine del Cinquecento Mathias de l'Obel, ovvero Lobelius, con l'amico Pierre Pena. Basata sulle foglie, è un po' bizzarra a nostri occhi, senza dubbio un vicolo cieco, ma non priva di meriti. Tanto è vero che il bestseller di l'Obel, Icones stirpium, fu assai consultato da Linneo. Entrambi gli amici sono ricordati da un genere, in fondo azzeccato: il dimenticato Pena dal poco noto Penaea, il celebrato Lobelius dal diffusissimo Lobelia. Un'amicizia e un sodalizio intellettuale Nella tarda primavera del 1565, giungono a Montpellier, a un mese di distanza l'uno dall'altro, due studenti non più giovanissimi. Il primo, ad aprile, è Pierre Pena, un "figlio del paese", un provenzale che ha abbracciato la riforma. Il secondo, a maggio, è Mathias de l'Obel (o de Lobel, o alla latina, Lobelius), un fiammingo di Lilla. Dato che purtroppo conosciamo male la giovinezza di entrambi, non sappiamo se si conoscessero già, e avessero addirittura erborizzato insieme in Germania, in Svizzera e in Italia, o se si incontrassero qui per la prima volta. Certo è che da quel momento diverranno inseparabili. Li ritroviamo in un team di sei studenti, sotto la guida di Assatius, collaboratore e genero di Rondelet, a erborizzare nei dintorni di Montpellier; o insieme a un vasto gruppo di studenti, partecipare a una gita a Marsiglia che è allo stesso tempo una spedizione scientifica e un'allegra scampagnata tra amici. Nonostante la sua rozzezza di modi e le lacune della sua formazione accademica (il suo latino è privo di eleganza e non sempre ineccepibile), Rondelet è così colpito dell'acume di de l'Obel che quando morirà, poco più di un anno dopo, gli lascerà in eredità i suoi scritti botanici. Di nuovo, non sappiamo esattamente cosa successe dopo la morte di Rondelet: forse gli amici si fermarono ancora nel Midi ad esplorare Linguadoca e Provenza, forse conseguirono la laurea (mancano i registri di questi anni), forse partirono dopo pochi mesi. Di nuovo, abbiamo una data certa: nel 1570 erano sicuramente in Inghilterra, e vi si trovavano da qualche anno (almeno dal 1568). Non sappiamo quali motivi li avessero spinti a raggiungere il regno di Elisabetta: forse la situazione politica (l'Obel parlerà esplicitamente dei Paesi Bassi come di una terra "bagnata dal sangue umano": sono gli anni in cui il duca d'Alba cerca di schiacciare nei sangue la rivolta dei Paesi Bassi), forse il desiderio di esplorare una flora ancora largamente sconosciuta ai botanici del continente. La data ci è fornita dalla loro opera comune: alla fine del 1570 o all'inizio del 1571, esce a Londra per i tipi dello stampatore Thomas Purfoet (o Pufoot) Stirpium adversaria nova, il libro che gli amici hanno scritto a quattro mani. Il curioso titolo si rifà agli adversaria, i libri dei conti in cui i negozianti annotavano giorno per giorno entrate e uscite. Vuole essere dunque un registro delle piante (circa 1200) viste e raccolte per esperienza diretta soprattutto in Provenza e in Linguadoca, ma anche nel corso di altri viaggi (tra il 1562 e il 1563 l'Obel da solo o insieme a Pena visitò l'Italia settentrionale e conobbe tutti quelli che contavano nella botanica italiana). Una classificazione basata sulle foglie La novità di Stirpium adversaria nova non sta nel metodo (abbondano ancora i riferimenti eruditi ai botanici dell'antichità, con le solite polemiche feroci sull'identificazione delle specie di Dioscoride e soci), né nell'accuratezza delle descrizioni (Tournefort noterà che è quasi impossibile identificare le piante non accompagnate da disegni). A parte un'insolita attenzione all'habitat (di ogni specie è indicato, in genere, il luogo di raccolta e l'ambiente), è nuovo il modo di organizzare le piante. Gli autori si sono infatti proposti di raggrupparle in modo "naturale", in base a evidenti somiglianze morfologiche, così che il molteplice venga ricomposto nell'uno: "Quest'ordine si sviluppa uno e identico a se stesso, conduce dai semplici più vicini ai sensi e più familiari a quelli più sconosciuti e compositi, seguendo un percorso di somiglianze e familiarità, grazie al quale, per quanto possibile, le piante vengono a corrispondersi sul piano universale e particolare attraverso la varietà e l'immensità". E' lo stesso intento di Cesalpino (l'Obel lo conobbe in Italia, e forse ne fu influenzato), ma attuato in modo assai diverso, quasi opposto. Come Cesalpino, l'Obel si rifà ad Aristotele (citato poco più avanti nello stesso passo), ma mentre l'italiano muoveva dal generale al particolare (partendo da considerazioni generali sulla natura, ovvero l'essenza, dei vegetali, per poi giungere a categorie specifiche, con approccio deduttivo), il fiammingo parte dall'osservazione del molteplice per giungere all'uno (con approccio induttivo, dal particolare al generale). E se i ragionamenti filosofici avevano indotto Cesalpino a scegliere come criterio di classificazione gli organi riproduttivi (in particolare i frutti e i semi), l'osservazione diretta delle piante induce l'Obel a scegliere l'organo più immediatamente percepibile: le foglie. Oggi noi sappiamo che, per convergenza evolutiva, piante diversissime che vivono negli stessi ambienti possono avere aspetto simile; le foglie, da questo punto di vista, sono particolarmente ingannevoli. Ciò non toglie che quello di l'Obel (e Pena) sia stato il primo tentativo di raggruppare le piante per affinità naturali, giungendo a individuare delle sorta di "famiglie". Almeno un risultato è stato raggiunto: anche se solo sulla base della diversa struttura delle foglie, vengono chiaramente distinte le monocotiledoni (con foglie, in genere allungate, caratterizzate da nervature parallele) e le dicotiledoni (con foglie distinte in picciolo e lamina, caratterizzate da nervature reticolate). Non mancano le confusioni, i vicoli ciechi e le incongruenze: ad esempio, le monocotiledoni con lamina fogliare ampia, come Arum, finiscono con le dicotiledoni. Trifogli, Oxalis e Hepatica, che hanno foglie a tre o quattro lobi, sono raggruppate insieme; piante prive di foglie verdi, come Orobanche, finiscono insieme ai funghi. D'altra parte, anche i criteri di classificazione sono incongruenti: così, ninfee, loti, Caltha e Hydrocharis stanno insieme (sono tutte piante che fluttuano sull'acqua). Tuttavia, a sfogliare il testo di l'Obel, abbiamo l'impressione che un ordine inizi a delinearsi. Non più piante in ordine alfabetico (tra l'altro, in base al nome greco come in Fuchs o in Mattioli), raggruppate in base alle virtù terapeutiche o agli usi pratici, oppure disposte dall'alto in basso (dagli alberi, le essenze più nobili, fino alle erbe, le più effimere e insignificanti, come in Teofrasto). L'Obel e Pena procedono esattamente al contrario: si parte dalle forme più semplici, più comuni, cioè dalle graminacee, per giungere via via a forme più articolate e complesse. I gruppi non hanno nome (se non quello di una specie più nota e familiare, molto lontanamente paragonabile al "genere tipo" della tassonomia odierna) e manca anche un'esposizione teorica dei criteri seguiti; tuttavia, ciascun gruppo è corredato di tabelle o schemi ad albero che evidenziano visivamente i rapporti tra le diverse "stirpi". Accanto alle piante medicinali o utili all'uomo, acquistano diritto di cittadinanza anche le "erbacce". Attività editoriali e mediazione culturale E' oggetto di discussione quale sia stata il ruolo rispettivo dei due autori nella raccolta dei materiali e nella redazione di Stirpium adversaria nova: c'è chi giudica il contributo di Pena insignificante, chi al contrario vorrebbe attribuirgliene quasi l'intera paternità. Sta di fatto che poco dopo la pubblicazione, le strade dei due si divisero: Pena tornò in Francia, abbandonò del tutto la botanica e la scrittura (non risulta aver pubblicato nient'altro) per dedicarsi a una lucrosa attività di medico specializzato nella cura della sifilide. Il poco che sono riuscita a appurare sulla sua vita, assai mal nota, è esposto nella sezione biografie. All'opposto, Mathias de l'Obel, anch'egli rientrato in patria, divenne un botanico militante e un attivo pubblicista. Per qualche anno visse ad Anversa ed entrò a far parte della scuderia di Christophe Plantin. Scrisse un supplemento degli Adversaria, Stirpium Observationes, che nel 1576 fu pubblicato da Plantin, insieme a una riedizione dell'opera prima, in un'edizione assai curata accompagnata da quasi 1500 xilografie, sotto il titolo Plantarum seu stirpium historia (nel frontespizio compare solo il nome di l'Obel, mentre quello di Pena è conservato nel frontespizio della seconda parte, per la quale Plantin si accontentò di riutilizzare le copie rimaste invendute dell'edizione Purfoot, cambiando appunto solo il frontespizio). Nel 1581 seguì la versione in fiammingo, con il titolo Krydtboeck. Queste vicende mi sembrano confermare il ruolo secondario di Pena nella redazione di Stirpium adversaria nova: se davvero fosse stato un botanico così geniale e innovativo, come mai non si è più occupato di botanica? se avesse scritto gran parte di quell'opera, non avrebbe in qualche modo reagito al tentativo di l'Obel di appropriarsene? Che almeno il sistema tassonomico basato sull'osservazione delle foglie si debba a l'Obel, è confermato a mio parere da un'altra impresa editoriale plantiniana. Poiché le opere di botanica illustrate avevano un grande successo di mercato, sempre nel 1581 l'editore pensò di pubblicare in un solo volume più di 2000 xilografie ricavate dalle opere di Dodoens, Clusius e l'Obel; la redazione venne affidata a quest'ultimo che riorganizzò le illustrazioni disponendo le piante secondo la sua classificazione e corredò ciascuna tavola con un nome descrizione e un rimando alla pagina relativa di Plantarum seu stirpium historia; in una riedizione, fu aggiunto un indice in sette lingue che rese l'opera fruibile agli studenti di botanica dei principali paesi europei. Il volume, pubblicato con il titolo Icones stirpium, fu senza dubbio un grande successo editoriale, oltre che l'opera più nota di l'Obel, e non mancò di influenzare Linneo, che lo cita ripetutamente. Dopo essere stato per qualche anno medico di Guglielmo il taciturno a Delft, de l'Obel (forse alla fine degli anni '80) ritornò in Inghilterra dove entrò al servizio di lord Zouche come curatore del giardino di Hackney, nei pressi di Londra, allora il più importante del paese, che univa alle funzioni di orto botanico quello di giardino di piacere. Nominato più tardi giardiniere del re Giacomo I (un incarico del tutto onorifico), egli esercitò un essenziale ruolo di intermediazione tra la botanica continentale, più avanzata sul piano teorico, e la più empirica botanica inglese. Inizialmente amico del più noto botanico inglese di fine Cinquecento, John Gerard, nel 1596, scrisse la prefazione della sua prima opera, Catalogue of Plants. L'amicizia si ruppe quando, nel 1597, riscontrando il Great Herball dell'inglese, de l'Obel individuò non solo più di mille errori, ma ampi plagi delle sue stesse opere. Altre notizie sulla vita, purtroppo non ben conosciuta, di questo influente botanico nella sezione biografie. La sconosciuta Penaea e l'ubiquitaria Lobelia Se Pena, al contrario di l'Obel, è stato quasi dimenticato, almeno sul versante della nomenclatura botanica i due amici hanno avuto diritto a pari onori: non solo ad entrambi è stato dedicato un genere, ma l'uno e l'altro hanno avuto la ventura di tenere a battesimo un'intera famiglia. Non stupisce che l'omaggio sia partito in primo luogo da Plumier, egli stesso provenzale (è anche una delle nostre poche fonti sulla vita di Pena), che nel suo Nova plantarum americanarum genera ne battezzò due generiPenaea e Lobelia; nessuno dei due corrisponde però ai generi attuali (la Penaea di Plumier è una Polygala e la sua Lobelia venne rinominata Scaevola da Linneo). Infatti lo scienziato svedese in Species plantarum, 1753 riutilizzò le due denominazioni, attribuendole ad altre piante. Penaea dà il nome alla piccolissima famiglia delle Peneaceae, che comprende solo sette generi e una ventina di specie, limitate alle aree meridionali e sudorientali della provincia del Capo in Sud Africa. Sono arbustini caratteristici della tipica formazione vegetale del fynbos, affine alla nostra macchia mediterranea, con piante adattate a condizioni semiaride con piogge invernali. Il genere Penaea comprende quattro specie: P. mucronata, P. cneroum, P. acutifolia, P. dahlgreenii; sono piccoli arbusti con fusti quadrangolari e foglie coriacee, alternate o opposte, e infiorescenze terminali di piccoli fiori poco vistosi, con tubo fuso e quattro lobi più o meno appuntiti, gialli, rossastri o bianchi. Non avendo particolare pregio estetico, non sono stati finora introdotti in coltivazione. Tutto il contrario della notissima e diffusissima Lobelia erinus, la più coltivata delle Lobeliae, fin troppo sfruttata in giardini e fioriere. Il genere Lobelia, assegnato ora alla famiglia Campanulaceae, ora a una famiglia propria (Lobeliaceae) è presente in tutti i continenti, tranne l'Antartide; comprende più di 400 specie, che stupiscono per la grande varietà di forme e dimensioni (si va dalle erbacee annuali, alle perenni, incluse alcune palustri, agli arbusti). Al di là delle enormi differenze di aspetto generale, di portamento, di rusticità, tutte sono accomunate dalle foglie lanceolate e dai fiori tubolari bilabiati, spesso con fioriture spettacolari e prolungate dai colori vibranti, che le hanno rese popolari nei giardini. Le più note sono senza dubbio l'erbacea L. erinus, una perenne di origine sudafricana che noi coltiviamo come annuale nelle aiuole e sui balconi, oggi disponibile in tutte le gamme dell'azzurro e del viola, cui di recente si è aggiunto il rosso; le grandi perenni rustiche nordamericane, la rossa L. cardinalis e l'azzurra L. siphilitica, entrambe in passato utilizzate nella cura della sifilide. Ma accanto ad esse ci sono le sorprendenti Lobeliae arbustive del Sud America e dell'Asia orientale, come L. tupa; e le ancor più stupefacenti Lobeliae giganti dell'Africa e dell'arcipelago delle Hawaii. Qui, dove sono arrivate circa 13 milioni di anni fa forse dall'Asia, forse dall'America meridionale, grazie al clima favorevole e al fertile suolo, si sono rese protagoniste di un'eccezionale differenziazione genetica, grazie alla quale le Lobelioideae sono divenute il gruppo di angiosperme dominanti nelle isole, con sei generi (Lobelia e cinque generi endemici) e 125 specie endemiche. Uno di essi, Trematolobelia, rende a sua volta indirettamente omaggio al nostro Lobelius. E' un piccolo genere di otto specie dalle fioriture spettacolari, con grandi racemi di fiori tubolari dai lobi ricurvi, arricciati, posti come i bracci di un candelabro. Qualche informazione in più su Penaea, Lobelia e Trematolobelia nelle rispettive schede. Teofrasto è stato il primo botanico della storia; a lui le piante interessavano in sé, non solo per l'utilità che ne potevano trarre gli uomini. Ne studiò la morfologia, la riproduzione, la fisiologia, il rapporto con l'ambiente; colse molte loro peculiarità e creò una terminologia. Ne propose una prima sia pur generalissima classificazione. Ma in epoca romana e medioevale fu via via dimenticato, per essere riscoperto solo nel Rinascimento. In fondo, per questo gigante della botanica il minuscolo e oscuro genere Theophrasta non è una scelta così inadeguata. Una metodica indagine sulle piante Linneo l'ha proclamato "padre della botanica". Anna Pavord, nel suo brillante The naming of names, ne ha fatto l'eroe fondatore della tassonomia e l'ha immaginato mentre, una foglia di platano in una mano, una foglia di vite nell'altra, guida gli allievi del Liceo a riflettere su somiglianze e differenze per cercare un senso, un ordine sotto le molteplici forme della natura. Teofrasto, amico, allievo e successore di Aristotele alla guida della scuola peripatetica, è stato in effetti il primo (anzi l'unico, per oltre 1500 anni) a non accontentarsi di considerare le piante solo dal punto di vista utilitario, per osservarle con occhio di scienziato. Autore di centinaia di opere, di cui ben poche ci sono giunte, alla botanica dedicò Perì phutòn istoria, noto con il titolo latino Historia plantarum (che, più che storia delle piante significa "Indagini sulle piante") e Perì phutòn aitòn, noto con il titolo latino De causis plantarum (ovvero "Spiegazione delle piante"); la prima si occupa soprattutto della morfologia e della classificazione delle piante, la seconda della loro riproduzione e fisiologia. Insieme all'aristotelica Historia animalium, rappresentano le opere maggiori della scienza biologica antica: i due amici si erano divisi i compiti: Aristotele si occupò di studiare gli animali, Teofrasto le piante. Per la sua vita, si rimanda alla sezione biografie. L'oggetto dell'indagine di Teofrasto è esposto chiaramente all'inizio di Historia plantarum: "Per individuare i caratteri distintivi delle piante e la loro natura generale dobbiamo considerare le loro parti, le loro qualità, i modi in cui si origina la loro vita e l'intero corso della loro esistenza". Anche il metodo è chiaramente dichiarato: "Il compito generale della scienza è distinguere ciò che è identico in una pluralità di cose". In altre parole, come per Aristotele, conoscere significa paragonare, scoprire ciò che è comune a cose a diverse (arrivando così a definire categorie, gruppi generali), e ciò che differenzia cose uguali (riconoscendo le caratteristiche distintive dei membri di una categoria). Sebbene nelle sue opere non manchino nozioni ereditate dalla tradizione dei rizotomi, gli erboristi-raccoglitori di piante (molte delle quali, dal nostro punto di vista, sono pure e semplici superstizioni; Teofrasto, pensatore cauto e prudente, in genere prende parzialmente le distanze con formule come "si dice", "su questo sono necessarie altre indagini"), moltissimo è dovuto all'osservazione diretta e rivela una profonda conoscenza della morfologia, della fisiologia e della vita delle piante. Respingendo lo zoocentrismo di Aristotele (che descriveva le piante come animali con la bocca sotto terra e l'apparato riproduttivo e escretorio per aria), Teofrasto pensa in primo luogo che le piante vadano studiate con categorie che sono loro proprie. In primo luogo, nota che è persino difficile capire quali sono le loro parti perché, al contrario delle membra degli animali, molte di esse non sono permanenti: le foglie, i frutti, i semi, l'intera parte area delle erbacee perenni cadono o periscono senza che la pianta cessi di esistere come tale. In secondo luogo, il mondo vegetale è caratterizzato da un'enorme varietà; proprio in quegli anni, l'arrivo delle informazioni raccolte nei paesi esotici da soldati, mercanti e studiosi al seguito di Alessandro, complicava ulteriormente le cose. Teofrasto sottolinea che, mentre gli animali sono liberi di muoversi, le piante sono ancorate al terreno da cui ricevono il nutrimento; ecco perché è importante studiare i luoghi "propri", cioè quelli in cui ciascuna pianta trova le condizioni più favorevoli (noi diremmo, la nicchia ecologica; si capisce perché il filosofo greco sia considerato anche il padre dell'ecologia) e capire quali fattori esterni ne influenzino la crescita. il vigore, la fruttificazione. I suoi studi posero le basi della futura botanica, in alcuni casi anticipando di secoli conoscenze di là da venire; in primo luogo, ci ha lasciato alcuni termini (in assenza di ogni terminologia botanica, Teofrasto dovette inventarla dal nulla), ad esempio la distinzione tra il frutto, carpos, e l'involucro dei semi, pericarpon; il nome di molte piante che usiamo ancora oggi (ad esempio, tra quelle che iniziano con la lettera a: Aconitum, Agrostis, Althaea, Anemone, Aristolochia, Arum). Distinse le piante dicotiledoni e monocotiledoni (derivò questo gruppo dall'osservazione dei cereali e di altre Poaceae), le piante da fiore (angiosperme) e le gimnosperme (per lui, le piante che portavano pigne), le piante sempreverdi e quelle decidue, ma colse anche distinzioni più minute, ad esempio esaminando la struttura dei fiori distinse petali liberi e petali fusi, ovario supero e ovario infero. Comprese almeno nelle linee generali il funzionamento della fecondazione delle piante (in particolare nelle piante dioche, come le palme) e colse la relazione tra la struttura di alcuni fiori e quella dei frutti che ne derivano. Fu anche il primo tassonomista e propose una classificazione molto generale delle piante, sulla base della loro struttura, distinguendole in quattro gruppi: alberi, arbusti, suffrutici, erbe; sulla base della durata della vita, le distinse poi in annuali, biennali, perenni. Tutte queste acquisizioni erano destinate a non avere seguito. La botanica, appena nata, morì sul nascere e per secoli divenne un'ancella della farmacia e della medicina. Dopo Teofrasto, la scuola peripatetica si disperse; la maggior parte delle opere sue e del maestro andò perduta. Le due opere di botanica superstiti erano note in età romana, ma vennero fraintese o ignorate: Plinio saccheggiò Historia plantarum per quel bric a brac che è la Naturalis Historia, dove le puntuali notazioni scientifiche di Teofrasto convivono con leggende e racconti superstiziosi; ma soprattutto si impose Dioscoride, un medico che non era interessato alle piante in sé, ma al loro uso medicinale. Questa fu la via maestra per tutto il Medioevo. I testi di Teofrasto furono dimenticati; si salvò fortunosamente solo una manciata di manoscritti nelle biblioteche bizantine. Perché venissero riscoperti e i semi del loro insegnamento incominciassero a germogliare, bisognò attendere il Rinascimento. Ma questa è appunto la prossima storia. Un supplemento d'indagine per Theophrasta Dopo che il Rinascimento lo ebbe sdoganato, Teofrasto recuperò il suo ruolo di padre fondatore della botanica; a rendergli omaggio pensò in primo luogo padre Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani (1703). Ma con un pizzico di snobismo lo denominò Eresia, dal luogo natale di Teofrasto (il filosofo era noto come Teofrasto di Ereso, o alla latina Theophrastus Eresius). Una dedica un po' troppo per iniziati, secondo Linneo, che corresse il tiro adottando il più trasparente Theophrasta (in Species Plantarum, 1753). Si tratta di un piccolissimo genere di arbusti o piccoli alberi endemici dell'isola di Hispaniola, che comprende due sole specie; Theophrasta americana e T. jussieui. L'aspetto è davvero curioso, e non avrebbe mancato di incuriosire il dedicatario, un vero scienziato senza preconcetti che era ben consapevole della provvisorietà delle proprie categorie conoscitive, e non mancò di segnalare i casi della natura che le contraddicevano. Come gli alberi hanno solitamente un unico fusto, tuttavia non legnoso, ma piuttosto fibroso (che ricorda quello delle palme) con un ciuffo di lunghe foglie all'apice, coriacee, spinose e molto seghettate. Fino a qualche anno fa erano assegnate, insieme a una manciata di altri generi, tutti endemici delle Antille, a una famiglia propria, Theophrastaceae. Ma, come sapeva già Teofrasto, le conoscenze scientifiche vengono messe in discussione da nuovi studi, nascono nuovi paradigmi; e grazie alle ricerche basate sulla storia evolutiva, oggi fa parte delle Primulaceae, in cui sono state incluse non solo le ben note erbacee del vecchio mondo, ma anche alcune piante legnose del nuovo mondo. Una scelta che non convince tutti (occorre un supplemento d'indagine, direbbe Teofrasto) anche se i fiori a cinque petali delle Theophrastae che si addensano numerosissimi al centro del ciuffo di foglie hanno indubbiamente un'aria... primulesca. Qualche notizia in più nella scheda. Teofrasto è ricordato anche dal nome specifico di alcune piante; la più nota è probabilmente Abutilon teophrasti, volgarmente detta "cencio molle", un'infestante delle culture. Sicuramente più apprezzata è Phoenix theophrasti, la palma di Creta, una delle due uniche specie di palme endemiche dell'Europa. Il medico, filosofo e botanico rinascimentale Andrea Cesalpino è il primo a tentare una classificazione delle piante. Anche se a noi può sembrare bizzarra, è perfettamente coerente con la logica aristotelica e con le conoscenze del tempo, tanto che il suo De plantis è considerato il libro più importante della botanica prima di Linneo. A ricordarlo Caesalpina, un genere che per ironia è un vero rebus tassonomico. Strumenti per organizzare il caos Nel Cinquecento, l'afflusso sempre crescente di piante dall'Oriente e soprattutto delle Americhe aveva scompigliato le file della botanica: ormai essa assomigliava a un campo di battaglia in cui i soldati non sapevano più in quale ruolo dovevano combattere, tanto che qualcuno finiva nel posto sbagliato. L'immagine non è mia: si deve a Andrea Cesalpino, colui che per primo cercò di portare ordine in questo caos. Fin dal vecchio Dioscoride, due erano stati criteri seguiti per organizzare le piante negli Herbaria, i libri di botanica: il più comune era l'ordine alfabetico (in genere sulla base dei nomi greci, come in Mattioli e Fuchs); più raramente, le piante potevano essere raggruppate sulla base di criteri empirici privi di ogni rigore, per lo più connessi alle proprietà terapeutiche vere o presunte. Analogamente i vegetali erano disposti nelle aiuole dei nascenti orti botanici: ancora nel Seicento, in quello di Montpellier le troveremo schierate in ordine alfabetico, con tanto di etichetta con il nome greco. Cesalpino decise di seguire una strada del tutto innovativa: classificare le piante sulla base delle loro caratteristiche intrinseche. Lo fece armato di due strumenti interpretativi non sempre in accordo tra loro: la logica aristotelica e l'osservazione diretta del mondo vegetale, che aveva appreso dal maestro, il grande Luca Ghini. Da Aristotele - e dal suo allievo Teofrasto, l'unico che nell'antichità avesse già tentato questa strada - trasse il metodo, i procedimenti logici e molti concetti fondamentali: per classificare i componenti di un insieme, bisogna procedere per somiglianze e differenze, e per farlo in modo corretto occorre distinguere tra somiglianze sostanziali e accidentali (sono i concetti aristotelici di "sostanza" e "accidente"). Quali sono le proprietà sostanziali di una pianta? Quelle che permettono alla pianta di essere pianta, ovvero di esplicare le proprie funzioni vitali. Poiché le piante sono vive, esse sono dotate di ciò che Aristotele chiamava "anima vegetativa": il principio che governa ogni essere vivente e fa sì che si nutra, cresca, si riproduca. Per Cesalpino, due sono le funzioni essenziali delle piante: il nutrimento e la riproduzione; dunque, saranno gli organi che presiedono a queste funzioni a fornire i criteri di classificazione. La pianta attraverso le radici assorbe il nutrimento, che attraverso il fusto (in base a qualcosa di analogo alla circolazione del sangue, di cui come medico Cesalpino fu uno dei primi brillanti studiosi) giunge agli organi riproduttivi che grazie ad esso potranno esplicare la funzione più importante di ogni essere vivente: riprodursi. Poiché, come tutti i suoi contemporanei, Cesalpino ignorava del tutto la riproduzione sessuale delle piante, ne consegue che gli organi da osservare saranno non tanto i fiori, quanto i frutti e i semi. Degli altri organi della pianta (come le radici e le foglie) si terrà sì conto, ma solo per le classificazioni più minute, in particolare per distinguere specie affini. Saranno invece meri accidenti, da scartare come criteri di classificazione, non solo il gusto, l'odore, il colore (che variano in base al luogo in cui cresce la pianta, o addirittura tra piante selvatiche e coltivate), ma anche gli usi che ne fa l'uomo, comprese le proprietà farmaceutiche, che per secoli erano state il criterio di classificazione fondamentale. Ma prima di procedere alla classificazione, bisogna definire gli enti da classificare. Ancora una volta Cesalpino ricorre ad Aristotele, da cui riprende i concetti di specie (il singolo oggetto) e genere (il raggruppamento di oggetti che condividono caratteristiche simili). Mentre non usa ancora la parola genere nel significato attuale (i suoi generi sono gruppi molto più vaghi, che piuttosto corrispondono a famiglie o gruppi anche più ampi), egli fu il primo a definire la specie nel significato moderno, fornendo anche un criterio di verifica sperimentale: appartengono alla stessa specie piante che si assomigliano nella totalità delle loro parti (al di là delle piccole differenze accidentali) e queste caratteristiche rimangono invariate nelle piante nate dai semi. Il sistema di Cesalpino Come si sarà notato, il ragionamento di Cesalpino è totalmente deduttivo; procede cioè dall'alto verso il basso, dal generale al particolare (all'opposto del metodo induttivo, che procede dall'osservazione di casi particolari per giungere a conclusioni generali). Ciò significa anche che la sua classificazione ingabbia il mutevole mondo vegetale in una serie di categorie del tutto artificiali, che raramente corrispondono alla realtà (è stato notato che, tra i suoi gruppi, l'unico ad avere una corrispondenza con la realtà, confermato dalle ricerche successive, è quello delle Ombrellifere). Ma questo non annulla il valore pionieristico della sua opera: anche la classificazione di Linneo è del tutto artificiale; bisognerà attendere l'Ottocento perché le conoscenze dei botanici siano sufficienti per procedere a una credibile classificazione naturale. D'altra parte, misuriamo la strada intercorsa tra i due nel fatto che Cesalpino credeva che la sua classificazione fosse naturale e corrispondesse all'ordine dato da Dio all'Universo, mentre Linneo era ben consapevole dell'artificiosità della propria. Torniamo a Cesalpino, che espose i propri criteri di classificazione nei primi due libri del suo capolavoro botanico, De plantis, in sedici volumi (1583), cui segue la trattazione di 1500 specie, organizzate per gruppi sistematici. Il procedimento di Cesalpino segue la logica binaria (fu anche il primo a fornire delle chiavi di classificazione basate sull'opposizione dicotomica). In primo luogo i vegetali sono divisi in due grandi categorie, basate sull'organo che trasporta il nutrimento dalle radici ai frutti: piante legnose (questa categoria raggruppa gli alberi e gli arbusti); piante non legnose (questa categoria raggruppa i suffrutici e le erbacee). All'interno di ciascuno dei raggruppamenti principali, Cesalpino distingue poi cinque sottocategorie, in base al rapporto tra frutto e seme: frutto con un solo seme; semi ripartiti in due loculi; semi ripartiti in tre loculi; semi ripartiti in quatto loculi; semi ripartiti in più di quattro loculi. Ciascuna sottocategoria può a sua volta suddividersi in raggruppamenti minori, in base all'osservazione di caratteristiche particolari dei frutti e talvolta anche dei fiori (Cesalpino fu tra i primi a osservare la posizione dell'ovario, al di sopra o al di sotto degli altri organi fiorali); in totale, i gruppi sono 32, comprendendone anche uno riservato alle piante senza semi, in cui Cesalpino inserisce funghi, muschi e alghe. Ancora una volta mescolando intuizioni moderne e i limiti della scienza del suo tempo, egli era convinto che gli appartenenti a questo gruppo si riproducessero per generazione spontanea. Non diede invece alcuna importanza alle foglie (per la scoperta della fotosintesi bisogna attendere la fine del Settecento), cui attribuiva una semplice funzione di protezione dei frutti e dei semi. Il capolavoro di Cesalpino non ottenne il successo che meritava. Anche se un certo interesse per una classificazione sistematica delle piante si ritrova in alcuni sui contemporanei, la strada maestra percorsa dalla botanica del Rinascimento fu quella dei commenti a Dioscoride e degli erbari, destinati a medici e farmacisti, visto che la botanica continuava ad essere ancella della medicina. Oltre a questa situazione oggettiva, contribuì il fatto che il libro era stato stampato senza illustrazioni (erano state preparate le xilografie, ma, lo sponsor, il granduca di Toscana Cosimo era morto prima della pubblicazione e il figlio Francesco era meno disponibile a sostenere l'impresa); inoltre il linguaggio filosofico di Cesalpino risulta spesso oscuro e ostico. Esercitò tuttavia un notevole influsso su coloro che dopo di lui ne ripresero la strada (Caspar Bauhin, Ray, Pitton de Tournefort e lo stesso Linneo, che considerava Cesalpino il primo di tutti i botanici e annotò fittamente la sua copia di De Plantis). A Cesalpino (che nonostante la profonda cultura filosofica non era uno studioso libresco e aveva una notevole famigliarità con le piante) si deve anche uno dei primi e più importanti erbari, quello che approntò tra il 1555 e il 1563 per il cardinale Tornabuoni, il primo in cui le piante sono organizzate secondo criteri sistematici. Nella biografia altre notizie su questo importantissimo studioso. Il rebus di Caesalpinia E' davvero ironico che al pioniere della classificazione delle piante sia stato dedicato uno dei generi dalla storia tassonomica più travagliata. La creazione del genere Caesalpinia (che riprende la grafia latina del cognome Caesalpinus) si deve a Plumier e fu ufficializzata da Linneo nel 1753. Da allora si sono sussesseguite le dispute sui confini e la consistenza di questo genere, che nel corso di 250 anni si allargato e ristretto come una fisarmonica, tanto che alcune specie nel frattempo hanno cambiato nome più di trenta volte. Il gruppo Caesalpinia (una designazione informale proposta nel 1981 da Polhill e Vidal, per comprendere tutte le varie specie affini ora incluse, ora escluse dal genere) comprende alberi, arbusti, rampicanti e qualche erbacea della famiglia Fabaceae (ma si è anche proposto di inserirlo in una famiglia a sé, Caesalpinaceae) presenti nella zona tropicale di tutti i continenti. E' anzi proprio questa estensione, insieme alla difficoltà di individuare caratteristiche morfologiche distintive, ad aver determinato questo rebus. Nel senso più ampio, il genere è arrivato a comprendere fino 250 specie. Nell'ultimo trentennio, gli studi basati sempre di più sulla ricostruzione della storia evolutiva (filogenesi) attraverso le analisi del DNA, hanno ristretto sempre di più queste cifre. Il primo studio che va in questa direzione è proprio quello di Polhill e Vidal, i quali, nell'ambito di una revisione della tribù Caesalpineae, assegnarono al gruppo informale Caesalpinia 140 specie, distribuite in 16 generi. Vari studi che si sono susseguiti tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, hanno via via ristretto i confini del genere, fino a giungere alla drastica riduzione dello studio più recente (Gagnon et alii), che, partendo dall'esame dell'84% delle specie, giunge a conclusioni ben supportate e estremamente convincenti: il gruppo viene spezzettato in 26 generi certi e un ventisettesimo probabile; a Cesalpinia in senso stretto rimangono solo nove specie, tutte americane. E c'è anche una piccola rivincita di Cesalpino, che volle classificare le piante sulla base dei frutti: Gagnon e soci affermano infatti: "A livello di genere, i frutti sono altamente variabili e molto più utili dei fiori a fini tassonomici. Molti dei generi che abbiamo determinato qui possono essere differenziati basandosi sulle caratteristiche dei frutti". Tra le specie più note del vecchio genere Caesalpinia, probabilmente l'unica a conservare il suo nome è Caesalpinia pulcherrima, un arbusto originario delle Antille con spettacolari fioriture dal caldo colore aranciato. Diventa invece Erythrostemon gilliesii (= C. gilliesii), uno splendido arbusto coltivato anche da noi che molti si ostinano a chiamara Poinciana (un genere obsoleto che, diversamente da altri, non è stato resuscitato dall'équipe di Gagnon). Il pernambuco o pau brasil, l'albero che ha dato il proprio nome al Brasile, viene assegnato a un proprio genere monospecifico con il nome Paubrasilia echinata. Un'altra pianta tintoria abbastanza nota, C. spinosa, diventa Tara spinosa. Qualche notizia in più su Caesalpinia (o su quanto ne rimane) nella scheda. Fonte: E, Gagnon, A. Bruneau, C. E. Hughes, L. Paganucci de Queiroz, G. P. Lewis, A new generic system for the pantropical Caesalpinia group (Leguminosae), PhytoKeys 71: 1-160 (12 Oct 2016), http://phytokeys.pensoft.net/articles.php?id=9203 Seguendo le vicende editoriali di Flora Danica, arriviamo al terzo curatore, il grande Martin Vahl, uno dei più importanti tassonomisti della storia della botanica, cui si deve una prima intuizione del concetto di "tipo". Tuttavia, il suo sogno di diventare un secondo Linneo gli fa trascurare Flora Danica, lasciando addirittura in eredità alla vedova un contenzioso con l'erario danese. La gavetta di un grande botanico Con il terzo curatore, Flora danica approda nelle mani di un botanico di razza, il norvegese Martin Vahl. Quando gli viene assegnato l'incarico, ha alle spalle solidi studi con Linneo (dal 1769 al 1774) e una lunga attività sul campo. Dal 1779, in qualità di assistente e dimostratore, è stato coinvolto nei grandi lavori di trasferimento dell'orto botanico di Copenhagen che, dal 1778, in seguito al dono di un nuovo terreno da parte del re, viene spostato a Charlottenborg. La sua è però una posizione di subordinato: il giardino botanico aveva due direttori, uno scelto dall'Università (il primo fu C. F. Rottböll), l'altro dal re (il primo fu Thomas Holmskjold); è Vahl, però, di fatto a dirigere il trasferimento delle piante dal giardino di Oeder a Amaliegade e ad arricchirne le collezioni, anche grazie ai numerosi contatti europei. Non mancano però i dissapori con il giardiniere dell'istituzione, Niels Bache; anzi sono così gravi che il governo decide di inviare Vahl, a spese della corona, in un lungo viaggio nelle capitali europee, in Italia, penisola iberica e Nord Africa. Da un lato si tratta di una spedizione scientifica (Vahl erborizza in Portogallo, nelle isole mediterranee, tra cui la Sardegna, in Nord Africa), dall'altro è un modo per rafforzare i contatti della nascente scienza naturale danese con le principali istituzioni scientifiche europee; tappa essenziale è Londra, dove Vahl ha modo di conquistare la stima di Banks e del suo segretario, lo svedese Dryander. E' durante questo viaggio che Vahl, visitando diversi erbari, constatata un grave problema che influenzerà le sue ricerche future: ormai il verbo linneano si è affermato, tutte le istituzioni stanno adottando la nomenclatura binomiale e battezzano le piante sulla base dei libri di Linneo (Systema Naturae e Species Plantarum), ma poiché le descrizioni linneane sono spesso succinte, nell'attribuzione dei nomi di specie affini pullulano gli errori di identificazione. Nel 1785, al suo rientro a Copenhagen, Vahl riceve, come si è detto, l'incarico di curatore di Flora Danica e il sospirato titolo di professore. E' l'inizio di un'attività frenetica che, proprio come il suo predecessore O. F. Müller, lo porterà a una morte precoce e a non concludere le sue opere sempre più ambiziose. Il lavoro per Flora Danica esordisce con una spedizione botanica nel nord della Norvegia che tra il 1787 e 1788 lo porterà dalla natia Bergen fino a Capo Nord; alla fine, nei suoi andirivieni, avrà percorso 1500 km. A Copenhagen, tuttavia, anche se all'orto botanico vengono impartite lezioni ("dimostrazioni") di botanica, manca ancora una cattedra universitaria di scienze naturali. La tradizionalista università, che già aveva respinto la nomina di Oeder, continua a rifiutarne l'insegnamento. Per superare l'impasse, nel 1789 viene creata - con l'appoggio regio - Naturhistorie-Selskabet, la Società delle scienze naturali, sul modello della Royal Society londinese; oltre a curare una propria collezione e un'importante pubblicazione, di fatto funziona come un'università privata; la cattedra di botanica e zoologia è affidata proprio a Vahl, che la manterrà per un decennio. Soltanto nel 1797, l'Università di Copenhagen si deciderà a creare una propria cattedra di botanica, che tuttavia non sarà affidata a Vahl, ma E. N. Viborg. Al momento Vahl, sebbene sia noto e apprezzato in tutta Europa, ha ancora pubblicato poco. Il suo primo lavoro importante è Symbolae Botanicae (1790-1794), un'opera che tra le altre cose contiene la descrizione e la discussone delle piante scoperte da Peter Forsskål nel corso della sventurata spedizione danese in Yemen. Segue (1797-1807) Eclogae Americanae, dedicato alle piante che gli sono state inviate dalle piccole colonie danesi delle Antille. Riscrivere Linneo? Nel 1799-1800 un secondo viaggio a spese della corona porta Vahl in giro per l'Europa, con tappe principali a Parigi e Ginevra; lo scopo fondamentale è raccogliere materiali per l'enorme opera che egli ha concepito: Enumeratio Plantarum, una revisione delle opere di Linneo, volta a superare gli errori di identificazione. Secondo Vahl, questo problema potrà essere superato soltanto se la stessa persona studierà le diverse specie affini, basandosi sugli esemplari originali su cui è stata condotta l'identificazione. E' grazie a lui che si affaccia il concetto di "tipo": l'esemplare di un dato taxon (specie, sottospecie, varietà, ecc.) sul quale si è basata la descrizione originale ed è stata assegnata la denominazione. Il prestigio di Vahl è ormai tale che i botanici gli aprono le porte delle loro collezioni, comprese quelle inedite. Tra viaggi (compiuti, sarà bene sottolinearlo, in un'Europa devastata dalle guerre seguite alla rivoluzione francese), studio e scrittura, il norvegese intraprende un'opera titanica, che prevedeva 20 volumi, uno per ciascuna delle classi linneane; egli fece in tempo a pubblicarne solo uno (nel 1804, anno della sua morte) e un secondo seguì postumo, a cura di alcuni amici e collaboratori; quindi il progetto fu abbandonato. Le 20.000 schede preparatorie manoscritte che ne costituiscono l'indice dell'opera bastano per coglierne l'immensità. Al rientro a Copenhagen, nel 1801, quando Viburg passa alla direzione della scuola di veterinaria, per Vahl arriva finalmente anche la cattedra di botanica all'Università. E' ovvio che con questo accumulo di impegni (per lui, è evidente, al primo posto c'è Enumeratio Plantarum), la pubblicazione di Flora Danica - per la quale ha pure ricevuto uno stipendio - langue. Se ai tempi di Oeder usciva un fascicolo all'anno e con Müller un fascicolo ogni due anni, con Vahl i tempi si allungano ancora: ora esce mediamente un fascicolo ogni tre anni (in tutto sei tra il 1787 e il 1799); tra il 1799 e il 1804, anno della sua morte precoce e improvvisa, non ne esce neppure uno. Sebbene Vahl sia stato uno dei più grandi tassonomisti di tutti i tempi e nelle altre sue opere abbia pubblicato centinaia di nuove specie, ce ne sono pochissime in Flora Danica (alcune graminacee e qualche fungo). Quando il botanico morì, si aprì un contenzioso tra la corona, finanziatrice dell'opera, e la vedova: Anneken Vahl sosteneva che il marito avesse lasciato cinque fascicoli pronti per la pubblicazione e ne chiese il pagamento, la tesoreria di stato fece notare che Vahl era stato già pagato per produrre un fascicolo all'anno; alla fine, vista anche la fama europea dello studioso, si arrivò a un compromesso: il sovrano acquistò la biblioteca, i manoscritti, lo splendido erbario di Vahl (ancora oggi la perla del Museo di scienze naturali danese) e concesse alla vedova una pensione. Nel 1805 uscì un fascicolo di Flora Danica che almeno in parte si deve alla mano di Vahl; gli altri quattro erano presumibilmente frutto della fantasia (o del bisogno) di Anneken. Grandissimo botanico, Vahl fu anche un notevole zoologo; come se non gli bastassero gli impegni, fu anche tra i curatori di Fauna Danica, l'opera gemella di Flora Danica concepita da O.F. Müller. Per una sintesi di questa intensa vita di studioso si rimanda alla biografia. La sfuggente variabile Vahlia La dedica di un genere botanico giunse a Vahl quando era ancora un naturalista di belle speranze, impegnato nel trasloco dell'orto botanico di Copenhagen. Fu il condiscepolo Thunberg a dedicargli nel 1782 uno dei tanti nuovi generi che andava scoprendo nella provincia del Capo. Vahlia comprende 5-8 specie di erbacee e piccoli arbusti originari dell'Africa e del subcontinente indiano; un tempo assegnato alla famiglia Saxifragaceae, per le sue peculiarità oggi viene inserito in una famiglia propria (Vahliaceae) e in un ordine proprio (Vahliales). Sicuramente queste piante avrebbero fatto la gioia di Vahl: si tratta di specie molto variabili per statura, dimensione dei fiori, numero dei petali, presenza o assenza di peluria, ecc., così che la loro classificazione, tra specie, sottospecie, varietà, ha dato vita a una foresta di sinonimi e a intricati problemi tassonomici. Lo stesso nome Vahlia - oggi ufficialmente considerato il "nome da conservare" - è stato in passato contestato in quanto la denominazione di Thunberg è successiva a quella di Adanson (che aveva denominato il genere Bistella). La specie più nota, Vahlia capensis, è un grazioso arbustino molto ramificato, originario dell'Africa meridionale, con piccoli fiori gialli e foglioline lineari, apprezzabile per la lunga fioritura e l'adattabilità a condizioni aride; non c'è bisogno di dire che si manifesta in tante varietà (in un sito ne ho trovate elencate non meno di otto), anche se Plant list ne presenta solo due: Vahlia capensis subsp. vulgaris var. vulgaris, Vahlia capensis subsp. vulgaris var. linearis (come si vede nella fotografia, ha un numero di petali più che doppio della specie tipo, che ne presenta solo cinque). In effetti, esemplari raccolti in località anche abbastanza vicine - e talvolta persino nella stessa località - possono differire grandemente tra loro, ed è difficile stabilire i confini tra una varietà e l'altra. Un rebus su misura per il buon Martin Vahl. Qualche notizia in più nella scheda. |
Se cerchi una persona o una pianta, digita il nome nella casella di ricerca. E se ancora non ci sono, richiedili in Contatti.
CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
Categorie
All
|