Nella Ferrara del Cinquecento, grazie al favore del suo duca, Antonio Brasavola impianta un orto botanico e mette alla prova le conoscenze farmaceutiche di antichi e moderni usando il metodo sperimentale. Diventa un medico così dotto da guadagnarsi un soprannome onorifico dal re di Francia e la fiducia delle maggiori teste coronate del tempo. A onorare i suoi meriti botanici, la splendida e fragrante Brassavola. Brasavola, il nuovo Antonio Musa Sebbene più recente e meno famoso degli atenei di Padova o della vicina Bologna, nel Rinascimento anche lo Studio ferrarese, ovvero l'Università di Ferrara, fu un centro di prim'ordine, caratterizzato da grande libertà e apertura culturale, capace di attirare molti studenti stranieri (basti ricordare Niccolò Copernico, che qui si laureò nel 1503). A conferirgli risonanza europea nel campo della medicina e della botanica, fu un personaggio poliedrico che a Ferrara nacque, si formò e insegnò per molti anni: Antonio Brasavola (o Brassavola). Filosofo, precoce commentatore dell'Isagoge di Porfirio (un importante testo del III secolo a.C., su cui si basava l'insegnamento della logica medievale), a soli 19 anni si laureò in filosofia e medicina. Entrato al servizio del duca Ercole II, lo accompagnò in Francia dove il giovane medico ferrarese (al momento aveva 28 anni) ebbe modo di dimostrare le sue conoscenze enciclopediche e la sua abilità dialettica in tre giorni di discussione de quodlibet scibile (ovvero su qualsiasi argomento, a scelta del pubblico) di fronte ai dottori della Sorbona; ammirato, il re Francesco I gli conferì la croce di San Michele e lo ribattezzò Antonio Musa, vedendo in lui la reincarnazione del celebre medico dell'imperatore Augusto (se ne parla in questo post). Il soprannome rimase e dal quel momento il nostro fu per sempre Antonio Musa Brasavola. Contro una scienza medica e botanica tutta libresca (come ancora troviamo anche nella grande opera di Mattioli) egli sente l'esigenza di sottoporre a verifica le reali proprietà dei semplici citati nelle opere degli antichi. Nel 1536 crea l'Orto botanico ("ingens viridarium") del Belvedere, su un isolotto messogli a disposizione dal duca, che viene sistematicamente arricchito con piante esotiche provenienti dalla Grecia e dall'Asia minore - l'area nativa dei semplici descritti da Dioscoride. Fu una delle prime istituzioni del genere, che precede di nove anni Padova: ma mentre l'orto padovano può vantarsi di essere l'orto botanico universitario più antico del mondo, essendo sopravvissuto nei secoli, quello ferrarese andò perduto con le vicissitudini del ducato estense del secondo Cinquecento; l'attuale orto botanico di Ferrara sorge in tutt'altro luogo e risale al XVIII secolo. Grazie ai numerosi viaggi che compie con il duca, Brasavola mette anche insieme uno dei più notevoli erbari del tempo; anche la pratica dell'ortus siccus, ovvero l'idea di sostituire gli erbari figurati con raccolte di piante essiccate, era ai suoi esordi, grazie a Luca Ghini e ai suoi allievi. Il medico farrese sperimenta sistematicamente l'efficacia dei semplici sia sui cani sia su detenuti messi a sua disposizione del duca; i risultati del suo lavoro pionieristico sono esposti nella sua opera maggiore, Examen omnium simplicium medicamentorum, "Esame di tutti i semplici d'uso medico"; si tratta sia di un catalogo di tutte le piante, i semi, i frutti (nonché, secondo il dettato di Dioscoride, delle pietre, terre e metalli con proprietà medicamentose) in uso nelle farmacie di Ferrara, sia una discussione delle loro reali proprietà medicinali, basate sull'osservazione diretta. Come molti suoi contemporanei, Brasavola si preoccupa della corretta identificazione delle piante citate dagli antichi; ad esempio osserva che il cedro descritto da Teofrasto e Plinio è tutt'altra cosa di quello che cresce in Liguria e in Campania, quindi non ha senso attribuire al secondo le proprietà del primo. Ma va molto più in là: è perfettamente consapevole dell'inadeguatezza delle conoscenza degli antichi: “E’ certo che neppure la centesima parte delle erbe è stata descritta dagli antichi ma ogni giorno impariamo a conoscerne di nuove”. Le conoscenze mediche dei classici, oltre ad essere spesso inficiate da fraintendimenti e cattive traduzioni, erano limitate e infarcite di errori; né si può respingere ciò che gli antichi non conoscevano e l'esperienza dimostra efficace: "Noi non vogliamo imitare coloro che rifiutano l'uso del decotto di guaiaco perché gli antichi non ne hanno parlato". Con parole quasi identiche a quelle celebri di Leonardo ("l'esperienza è madre di ogni certezza") Brasavola sottolinea la funzione insostituibile dell'esperienza, "signora di tutte le cose", sia nella ricerca di nuove specie vegetali sia nella verifica delle loro proprietà medicinali. Dottissimo in molti campi, medico appassionato e celeberrimo, conteso da sovrani e pontefici (fra i suoi pazienti illustri si annoverano, oltre ai duchi d'Este Alfonso I e Ercole II, Francesco I di Francia, l'imperatore Carlo V, Enrico VIII d'Inghilterra, il papa Paolo III), era così dedito anche al più umile dei malati da fare sempre tenere pronta la mula - quasi uno status symbol del medico del tempo - per accorrere in caso di necessità a loro capezzale anche più volte al giorno. Dimostrò la sua indipendenza di pensiero confutando le teorie che vedevano nella sifilide (il terribile "mal francese" che aveva cominciato a imperversare in Italia dopo la calata di Carlo VIII del 1495) una punizione divina, identificandone correttamente l'origine e introducendo cure innovative, tra cui, appunto, l'uso del legno di guaiaco. Qualche approfondimento nella sezione biografie. Brassavola, signora della notte Questo nobile ferrarese, di casa alla corte di principi e pontefici, non avrebbe disdegnato la pianta che ne ha eternato il nome: nobile e sontuosa è infatti la Brassavola (con due esse, mentre nella grafia del cognome del celebre medico si alternano le due forme Brasavola / Brassavola), un'orchidea che Robert Brown ribattezzò in suo onore nel 1813, quando stabilì il genere staccandolo da Epidendrum. Proprio come il suo dedicatario, pioniere della ricerca sperimentale, degli orti botanici e degli erbari, nonché di audaci operazioni chirurgiche (si dice che sia stato il primo a praticare una tracheotomia), anche la Brassavola ha giocato un ruolo pionieristico nella storia della coltivazione delle orchidee. Nel 1698 B. nodosa fu la prima orchidea ad essere importata e coltivata in Europa: dalla nativa Curaçao, grazie alle navi della Compagnia delle Indie occidentali, approdò a De Hortus, l'appena inaugurato orto botanico di Amsterdam, come attesta il catalogo redatto da Caspar Commelin, e vi fiorì la prima volta nel 1715. Con i suoi delicati fiori bianchi e il soave profumo citrato che inizia a diffondersi verso sera, si guadagnò il soprannome di "Signora della notte" e inaugurò l'inarrestabile passione per le orchidee. Linneo la descrisse in Systema naturae, assegnandola al genere Epidendrum, da cui sarà separata, appunto, per opera di Brown. Il genere Brassavola comprende una ventina di specie, tutte americane (dal Messico fino al Brasile, passando per le Antille), epifite o litofite, con uno pseudobulbo allungato da cui nasce un'unica foglia carnosa. I fiori, solitari o raccolti in racemi, bianchi o bianco-verdastri, colpiscono per le forme singolari: il labello cuoriforme di B. nodosa oppure i lunghissimi sepali e petali di B. cucullata che la fanno assomigliare a un insetto stravagante. Sono proprio queste forme estrose ad aver suscitato l'interesse degli ibridatori. Com'è noto, nella famiglia delle Orchidaceae è possibile ottenere ibridi fertili anche incrociando generi diversi, purché non troppo lontani geneticamente; è quello che, avviene per esempio, incrociando Brassavola con Laelia e Cattleya (i tre generi appartengono alla medesima sottotribù); ecco allora x Brassocattleya, i meravigliosi ibridi tra Brassavola e Cattleya; x Brassolaelia, ibridi tra Brassavola e Laelia; x Brassolaeliocattleya, che discendono da tutti e tre i generi. x Ryncovola è invece un ibrido tra Brassavola e Ryncholelya. Altre notizie nella scheda.
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Riscoprire l'antichità e viaggiare per studiare la natura dal vivo: sono le due vie maestre percorse dai medici-botanici del Rinascimento; compreso Prospero Alpini che in Egitto vede all'opera l'antica tecnica di impollinazione delle palme e ne deduce la differenziazione sessuale delle piante dioiche. Grande esperto di piante medicinali esotiche e quarto ostensore dei semplici dell'Orto padovano, dona al suo nome all'esotico (e speziato) genere Alpinia. Dalle palme d'Egitto all'orto di Padova La palma da dattero (Phoenix dactilifera) è un noto esempio di specie dioica, con piante maschili (che producono il polline) e femminili (che danno i frutti). L'impollinazione naturale è effettuata dal vento, ma già in Mesopotamia, almeno 4000 anni fa, si scoprì che la produttività e la qualità dei frutti viene accresciuta con l'impollinazione artificiale. Presso i Babilonesi e gli Egizi, i rami fioriti degli esemplari maschili venivano tagliati e legati sugli esemplari femminili; quello di impollinatore di palme doveva essere un mestiere alquanto pericoloso, visto che occorre arrampicarsi su piante mediamente alte tra i 15 e i 20 metri. L'antichissima pratica era ben nota agli scrittori antichi di cose naturali, come Teofrasto e Plinio, anche se la loro comprensione del fenomeno era parziale. In ogni caso, benché la tecnica fosse rimasta ininterrottamente in uso, in Europa anche quelle limitate conoscenze vennero dimenticate almeno fino al Rinascimento. Tra il 1580 e il 1584, Prospero Alpini, un altro botanico legato al fecondo ambiente padovano, soggiornò in Egitto come medico di Giorgio Emo, console veneziano al Cairo. Ebbe così modo di osservare gli impollinatori delle palme al lavoro e dedusse correttamente che le piante da dattero femminili davano frutto solo se avveniva un mescolamento tra rami maschili e femminili, in modo che la polverina prodotta dai fiori maschili (noi oggi diremmo il polline) cospargesse i fiori femminili. Queste osservazioni gli permisero di essere tra i primi botanici a riconoscere la differenziazione sessuale delle piante. Il libro che Alpini ricavò dal soggiorno in Egitto, De plantis Aegypti liber (1592), contiene la descrizione - accompagnata da illustrazioni di buona qualità - di una cinquantina di specie medicinali, coltivate e spontanee, usate nella farmacopea egiziana del tempo. E' celebre soprattutto per contenere la prima illustrazione europea della pianta del caffè; del caffè e del suo consumo Alpino parla anche in altro testo dedicato all'Egitto, Aegyptiorum libri quatuor (1591), che contiene informazioni etnologiche, storiche e archeologiche. Alpini era nato a Marostica nel 1553 e si era formato all'Università di Padova, sotto la guida di Guilandino; anzi fu proprio l'esempio del maestro a spingerlo ad accompagnare Emo al Cairo. Rientrato in patria nel 1584, le sue opere sull'Egitto attirarono l'attenzione dei Riformatori dell'ateneo padovano, che nel 1594 lo nominarono lettore dei semplici, la cattedra che era stata di Guilandino ed era vacante dal 1568. Alla morte di Giacomo Cortuso, nel 1603, gli succedette nell'incarico di prefetto dell'Orto botanico di Padova e ostensore dei semplici, riunendo nuovamente le due cattedre (come il suo maestro prima di lui). Il prestigioso incarico, che mantenne fino alla morte nel 1616, fece di Alpini una figura riconosciuta nella medicina e nella botanica europea del primo Seicento; come i suoi predecessori, intrattenne rapporti e scambi di piante con importanti botanici, come Gaspard Bauhin e Camerarius il giovane; incrementò l'importanza dell'orto di Padova come centro di studio e diffusione di piante esotiche, alle quali nel 1614 dedicò De plantis exoticis. Ebbe fama europea anche come medico. La sua attenzione di medico-botanico si rivolse in particolare alle specie medicinali, soprattutto esotiche (egizie, ma anche cretesi); si interessò tuttavia anche alla flora locale: sul monte Grappa raccolse una nuova Campanula, che chiamò C. pyramidalis minor; Linneo la ribattezzò in suo onore C. alpini (assegnata a un altro genere e riunita a un'altra specie, il suo nome attuale è Adenophora liliifolia). Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. Dal Medioevo, una spezia magica Decisamente poco fortunato con le dediche linneane, il nostro buon medico di Marostica. Infatti nel 1753 Linneo gli dedicò anche un genere Alpinia, che tuttavia qualche anno dopo confluì nell'affine Renealmia, per opera del figlio di Linneo, Carlo il giovane. Ma qualche anno più tardi, a rendere omaggio a Alpini pensò, questa volta in via definitiva, un altro medico-botanico, lo scozzese William Roxburgh, grande esperto di flora indiana. La sua scelta fu quanto mai felice, perché cadde su un genere esotico - come quelli che amava Alpini - che comprende molte piante medicinali. Alpinia Roxb. è il genere più vasto della famiglia dello zenzero, le Zingiberaceae (cui appartiene anche Renealmia, un genere dell'America tropicale), con circa 250 specie; fino a qualche anno fa ne comprendeva circa 400, ma in seguito a una recente revisione tassonomica ne sono stati separati diversi nuovi generi. Native delle aree tropicali e subtropicali dell'Asia, dell'Australia e delle isole del Pacifico, sono grandi erbacee rizomatose, prive di vero fusto, ma con pseudofusti formati dalle guaine fogliari sovrapposte, che arrivano ai 3 metri (sono noti esemplari giganti di alcune specie, alti fino a 8 metri). I rizomi di alcune specie, estremamente aromatici, trovano impiego in erboristeria e in cucina, come spezie. Dal mio punto di vista, la più affascinante di tutte è A. galanga, ovvero la galanga, una spezia quasi mitica che compare in tutti i ricettari medievali come ingrediente del forte vino speziato dalle proprietà medicamentose, l'ippocrasso. Sebbene sia nota anche come zenzero tailandese - la radice fresca è un ingrediente della cucina thai - il suo aroma solo superficialmente può essere accostato a quello dello zenzero: è molto più rotondo, muschiato, meno aggressivo. Nel Medioevo gli si attribuiva la virtù magica di tenere lontani gli spiriti maligni. Caduta in disuso, fino a epoca recente è stata introvabile da noi (oggi è possibile trovare la radice fresca in rete o in negozi specializzati in prodotti alimentari; come del resto già in epoca medievale, è molto costosa). Anni fa, immaginate con quanta eccitazione, mi capitò di acquistarne radici essiccate (cioè esattamente la spezia usata nel Medioevo) nel bazar di Aleppo. E vi posso assicurare che è vero, l'ippocrasso preparato con la galanga è un'altra cosa. Altre specie di Alpinia, tuttavia, sono interessanti, anche come piante ornamentali, tanto che alcune sono state introdotte nei giardini tropicali di tutto il mondo. Di alcune di loro si parla nella scheda. Medico papale, ma anche poeta, Castore Durante inventa una formula vincente per il suo Herbario, che per circa duecento anni sarà un'opera di riferimento per medici e farmacisti. Guadagnandosi anche la dedica del genere Duranta da parte di Linneo, con la mediazione del solito Plumier. Versi mnemonici e xilografie pirata Tra gli amici e corrispondenti di Cortuso, con il quale scambiava poesie piene di elogi reciproci, troviamo anche la poliedrica figura di Castore Durante, archiatra papale e poeta bilingue. Autore di traduzioni in ottave dell'Eneide e di poemi sacri in italiano e latino, si fece una fama di medico e erborista, ovvero semplicista nel linguaggio del tempo, che lo portò a Roma come archiatra e titolare di una cattedra di "semplici" all'Archiginnasio. Frutto di vent'anni di pratica medica e di ricerche (più libresche che sul campo) è il suo Herbario nuovo (1585) che nel panorama dell'editoria botanica del tardi Rinascimento si distingue non per la dottrina o le novità scientifiche - si tratta essenzialmente di un'opera compilativa - ma per la singolare veste editoriale che gli assicurò un successo duraturo. In primo luogo è un'opera agile, volutamente divulgativa che per lo più condensa in una singola colonna la trattazione di ciascuna delle quasi novecento sostanze presentate, in uno stile chiaro e gradevole. Ma soprattutto ad attirare i curiosi, oggi come allora, sono i versi latini che aprono ciascuna voce, sintetizzando in poche righe, pensate per essere apprese a memoria, le virtù di ciascun semplice. Seguono, poi in lingua italiana - altra singolarità del libro è dunque di essere bilingue - i nomi (in greco, latino, italiano e talvolta altre lingue, compreso l'arabo), una succinta descrizione ("forma"), indicazioni sull'habitat ("loco"), le virtù, distinte in "di dentro" e "di fuori" (noi oggi diremmo per uso interno e esterno). Durante fu attento alle novità che arrivavano dal Mediterraneo orientale e dalle Indie; ad esempio, fu tra i primi a dedicare una voce al tabacco, da lui chiamato erba di Santa Croce, dal nome del cardinale Prospero di Santa Croce, nunzio apostolico in Portogallo, che nel 1561 ne riportò a Roma alcuni semi, probabilmente di Nicotiana rustica. Come i suoi contemporanei, anche Durante non manca di elogiare la pianta come panacea di tutti i mali e la celebra in versi latini, che vennero poi anche ripresi e ripubblicati in una miscellanea edita ad Amsterdam. Un elemento di successo del libro furono sicuramente le xilografie che accompagnano ciascuna voce, stilizzate e essenziali - spesso si tratta di plagi semplificati di tavole del Kreüterbuch di Fuchs e dei Ragionamenti di Mattioli - ma proprio per questo di sicuro effetto decorativo. Furono realizzate dall'incisore Leonardo Parasole, originario di Norcia, ma attivo a Roma, dove dirigeva una bottega di incisori-tipografi nella quale lavoravano i suoi fratelli, ma anche due notevoli artiste, sua moglie Girolama e sua cognata Isabella (o Elisabetta). E' purtroppo infondata la notizia, ampiamente ripresa dalla rete, che Leonardo Durante abbia realizzato le xilografie su disegni della moglie Isabella (che, come si è visto, in realtà era sua cognata) o che quest'ultima abbia realizzato le xilografie della terza edizione. Dico purtroppo, perché se l'informazione fosse stata vera si sarebbe trattato di una delle prime illustratrici botaniche. Ma torniamo all'Herbario nuovo; dopo la prima edizione, uscita a Roma nel 1585, fu più volte ristampato da editori veneziani; dopo oltre ottant'anni dal sua uscita, ne venne approntata una seconda edizione - sempre a Venezia - curata da uno speziale veneziano, che integrava molte piante esotiche giunte in Europa nel frattempo (come ribes, tè, cacao); una terza edizione ci porta addirittura al 1718, segno del duraturo successo dell'opera, che nel Cinquecento era stata tradotta anche in tedesco e in spagnolo. Quanto a Durante, il medico-poeta nel 1586 bissò il successo con il Tesoro della sanità, un manuale di consigli igienici e ricette di medicina popolare che in parte tocca anche la botanica, dato che la seconda parte è dedicata agli alimenti giovevoli o nocivi. E' un altro testo divulgativo semplice e chiaro, che ebbe undici edizioni nel Cinquecento e ventiquattro nel Seicento, affermandosi come prontuario di facile lettura. Durante, nato nel 1529, era già in età avanzata al momento di questi successi editoriali, immediatamente dopo i quali si ritirò a Viterbo, dove morì nel 1590. Altre notizie nella biografia. Duranta, grappoli azzurri per i climi miti La grande diffusione dell'Herbario di Durante giustifica l'omaggio che volle tributargli Plumier nel suo Nova plantarum americanarum genera, dedicandogli la Castorea (nome quindi ricavato non dal cognome, ma dal nome di battesimo del medico umbro). A sua volta Linneo, nel 1754, riprese la dedica, ma fissò il nome del genere in Duranta, sulla base del cognome, secondo la regola da lui stesso stabilita. Duranta è un genere di circa 20 specie di arbusti e piccoli alberi della famiglia Verbenaceae, originari dell'America subtropicale e tropicale, dalla Florida all'Argentina. Alcune specie sono state introdotte nei giardini come piante ornamentali, per le fioriture, bianche o viola, e le bacche, arancio brillante o giallo dorato. Per questa via, soprattutto D. erecta, la specie più nota e coltivata, si è naturalizzata nella fascia tropicale, tanto da essere considerata invasiva in Australia, Cina, Sud Africa e in alcune isole del Pacifico. Questa specie (nota anche con il sinonimo D. repens) è un piccolo arbusto dal portamento variabile - talvolta eretto, talvolta strisciante, talvolta arboreo - originario del Centro America, con piccole foglie ovali persistenti; dall'inizio dell'estate all'autunno, all'apice dei fusti porta lunghe pannocchie di fiori viola chiaro o blu con margine bianco; molto decorative anche le bacche dorate, che persistono per settimane (sono però tossiche, come anche le foglie). Qualche notizia in più, soprattutto sulle cultivar selezionate negli Stati Uniti e in Australia, nella scheda. Almeno nei confronti di un collega il supponente e iracondo Mattioli si espresse solo con elogi, tanto da dare il suo nome a una pianta che proprio questi aveva scoperta. Inaugurò così un costume destinato a grande fortuna. Quel botanico è Cortuso, medico e erborista così abile da aver trovare una cura a base d'erbe capace di sconfiggere la peste. E la pianta è la bellissima e rarissima Cortusa. Un grande "semplicista" alla testa dell'Orto padovano Il primo botanico ad essere celebrato in età moderna con il nome a una pianta ci riporta all'Orto botanico di Padova e al bilioso Mattioli. Si tratta di Giacomo Antonio Cortuso, terzo curatore di quella istituzione. Rampollo di una nobile famiglia cittadina, si dedicò alla professione medica; i racconti del tempo ce lo descrivono come uomo energico, grande conoscitore delle piante medicinali e medico eccellente. Quando nel 1575 scoppiò una delle ricorrenti epidemie di peste (in due anni causò 50.000 morti a Venezia e 12.000 a Padova), mentre i suoi colleghi pensavano solo alla propria pelle, riuscì a salvare il bestiame del Vicentino e del Padovano facendolo trasportare lontano dai luoghi infetti; contrasse la malattia e non solo riuscì a guarire se stesso, ma anche una figlia e una nipote, spostandole in campagna e curandole con infusi di varie erbe. Le sue preziose conoscenze botaniche e farmaceutiche le aveva acquisite sul campo, probabilmente come autodidatta, sperimentando diversi semplici e perlustrando il territorio della Repubblica veneta alla ricerca di vecchie e nuove piante. In una di queste spedizioni, in Valstagna, scoprì appunto la pianta destinata a rimanere per sempre legata al suo nome; ne sperimentò le virtù medicinali e la diffuse tra i botanici con cui era in corrispondenza, tra cui Mattioli, che volle onorarlo dando il nome di cortusa alla nuova specie. Botanico appassionato ("semplicista famoso dei tempi nostri", lo definisce Mattioli) non era un teorico - scrisse in effetti pochissimo - ma un ricercatore che coltivava personalmente le piante officinali nel suo orto privato e ne sperimentava le proprietà medicinali su stesso e suoi propri pazienti. Le numerose botteghe di speziali di Venezia, ancora il maggior crocevia delle rotte verso il Mediterraneo orientale, garantivano inoltre l'accesso a numerose semplici esotici, di cui proprio l'orto padovano fu spesso il centro di diffusione in Europa. Per molti anni Cortuso fu in corrispondenza con i più bei nomi della botanica europea, ai quali comunicava le proprie scoperte e con i quali scambiava semi e esemplari; tra gli altri, oltre ovviamente a Mattioli, Aldrovandi, Clusius, Pena, Gessner, i fratelli Bauhin, Lobelius, Dodoens. I carteggi tra questi scienziati forniscono molte informazioni preziose sulla botanica del tardo Rinascimento e sull'introduzione di nuove specie; ad esempio, grazie a una lettera di Cortuso a Clusius scopriamo che egli fu il primo a piantare un cedro del Libano in Europa, oppure, grazie a una citazione di Mattioli, a cui ne donò un ramo fiorito, sappiamo che i primi lillà europei, provenienti dall'Impero ottomano, fiorirono a Padova nel 1565. Già anziano, nel 1590, alla morte di Guilandino, Cortuso fu nominato curatore dell'Orto botanico di Padova. Nonostante l'età avanzata, resse l'incarico con competenza e energia: fece circondare il giardino con un muro circolare per proteggerlo dalle alluvioni; migliorò il sistema di irrigazione introdotto dal suo predecessore; soprattutto arricchì le collezioni, avvalendosi della sua estesa rete di corrispondenti. Secondo il Dizionario biografico degli italiani avrebbe anche compiuto numerosi viaggi in Italia, Slovenia, nelle isole dell'Egeo per cercare nuove piante, notizia che non mi sembra molto credibile, considerando che resse l'incarico tra i settantasette e i novant'anni. Fu onoratissimo dai botanici del suo tempo, che ne stimavano l'eccezionale competenza nel campo delle erbe medicinali. Qualche approfondimento nella biografia. Cortusa o Primula? Mattioli, tanto pronto alla polemica, si dimostrò invece sempre amichevole e rispettoso nei confronti di Cortuso, uomo molto generoso che non lesinava a colleghi e amici piante e i lumi tratti dalle sue esperienze. Nell'edizione dei Discorsi che ho consultato, Mattioli lo cita, sempre in termini elogiativi, quasi trenta volte. A partire dall'edizione del 1568, inoltre, volle includere la descrizione della pianta scoperta dal padovano, battezzandola in suo onore "cortusa", nome con il quale da allora la pianta fu conosciuta e descritta in molti testi botanici del tempo. A sua volta, a fine Seicento Plumier dedicò a Cortuso uno dei suoi nuovi generi americani; ma giustamente Linneo (Species plantarum, 1753) riprese la denominazione di Mattioli, anzi unì i due botanici italiani nel nuovo nome binomiale: Cortusa matthioli, la cortusa di Mattioli. Bramato graal degli escursionisti botanici delle nostre Alpi, la cortusa è una graziosa primulacea delle aree fresche e ombrose, dai 700 ai 2000 metri, con grandi foglie basali lobate e uno scapo fiorale eretto che porta un'ombrella di graziose campanelline rosa carico. Benché diffusa in un'ampia area (dalle Alpi ai Carpazi, alla Russia, alla catena dell'Himalaya alla Cina e al Giappone), da noi è piuttosto rara. Infatti le Alpi sono l'estremo lembo del suo areale; la si trova in poche stazioni in Trentino, Veneto e Piemonte. Del resto, già rara era al tempo del suo scopritore che, come riporta Mattioli, l'aveva vista unicamente in Valstagna. La sua presenza in poche aree non contigue fa pensare che sia un relitto della flora preglaciale, che si sarebbe conservata in piccole enclaves protette non soggette a glaciazione. A questa pianta dalla bellezza semplice corrisponde uno status tassonomico complicato. Primo problema: Cortusa è un genere a sé? Il mondo scientifico è diviso: recenti studi basati sul DNA dimostrerebbero che va incluso nel genere Primula (Plant list e Plants of the world si allineano; la nostra è Primula matthioli), ma in molti testi è ancora Cortusa matthioli e non si è giunti a una conclusione unanime. Secondo problema: se è un genere, quante specie ne fanno parte? le risposte al quesito sono ancora più incerte: si va da un'unica specie (C. matthioli appunto, con numerose varietà e/o sottospecie) a una quindicina di specie (molte delle quali asiatiche). E' dall'analisi dei taxa russi e cinesi che si attendono le risposte alle due domande. Vista l'importanza storica della denominazione tradizionale, sarebbe un peccato che colui che fu il primo moderno a dare il nome a una pianta perdesse il suo genere (anche se il suo nome rimarrebbe almeno nei nomi comuni italiano, cortusa, e francese, cortuse). Come sempre, qualche notizia in più nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. Un oscuro domestico italiano, grazie all'occhio clinico che gli permette di riconoscere al volo le piante, diventa l'aiutante di tre illustri botanici: E. J. Smith, Afzelius e Sibthorp. Morto a soli 25 anni in seguito a un misterioso incidente, conoscerà un'inattesa fortuna postuma, prestando il suo nome a uno dei principali generi della flora australiana. E non solo a quello... Un misterioso incidente e una leggenda metropolitana "Poor Borone is no more!" ("Il povero Borone non c'è più"). Con queste parole inizia l'accorata lettera con la quale il botanico John Sibthorp riferisce all'amico Edward James Smith la morte del suo assistente, il giovane Francesco Borone. Abbiamo già incontrato questo nome nel post dedicato a Afzelius che Borone accompagnò nel primo viaggio in Sierra Leone. Francesco (spesso chiamato familiarmente François) era un ragazzo milanese che Smith aveva incontrato a Milano durante il suo grand tour europeo. L'aveva assunto come domestico e l'aveva portato con sé in Inghilterra. Notandone il particolare acume nel riconoscimento delle piante, lo aveva avviato all'amore della botanica. In seguito, legato da sincero affetto al giovane italiano, che i contemporanei descrivono dotato di intelligenza naturale ("formato alla scuola della natura", dirà di lui la poetessa Elizabeth Cobbold), desideroso di apprendere, coraggioso, fedele e amabile, Smith decise di promuoverne l'ascesa sociale, inviandolo in Africa come assistente di Afzelius (un ruolo a metà tra il domestico e l'aiutante scientifico). Tuttavia in Sierra Leone Francesco si ammalò quasi subito; anche se superò la malattia, rimase soggetto a intermittenti attacchi di malaria. Poco dopo il rientro dall'Africa, nel 1794 Smith lo raccomandò al botanico di Oxford John Sibthorp che si accingeva a una seconda spedizione in Grecia, per completare la sua splendida Flora Graeca. Fu un viaggio complicato dalla guerra con la Francia, dalle precarie condizioni di salute dello stesso Sibthorp, persino da un'incursione di pirati. Ma niente faceva presagire l'improvvisa morte di "poor Borone". Dopo aver visitato l'Asia minore, diverse isole, la Grecia settentrionale e il monte Athos, alla fine di ottobre il gruppo dei botanici inglesi (formato, oltre che da Sibthorp e Borone, dal suo amico Hawkins e dai due servitori di quest'ultimo) si riposava ad Atene, prima di affrontare l'esplorazione del Peloponneso. Fin dalla partenza da Costantinopoli, all'inizio dell'estate, Borone soffriva di febbri intermittenti, ma sembrava si fosse rimesso e quel giorno era particolarmente allegro: durante la serata aveva cantato, accompagnato alla chitarra da uno dei servitori di Hawkins. Poco dopo mezzanotte, il gruppo fu svegliato dalle grida del giovane. Il servitore che dormiva nella stanza con lui fu il primo ad accorrere: Francesco era caduto dalla finestra della stanza e giaceva in strada. I soccorsi furono inutili; dopo pochi minuti morì. Come era potuto accadere? La finestra da cui il giovane era caduto era stretta e si apriva a quasi mezzo metro dal pavimento; per raggiungerla, prima aveva dovuto salire su una scatola che si trovava lì vicino. Secondo Sibthorp, tutto ciò doveva essere avvenuto nel sonno; un'altra possibilità è che, indebolito e confuso dalla febbre, avesse scambiato questa finestra con un'altra che dava sul terrazzo, di cui era solito servirsi. L'ipotesi di una morte volontaria non viene menzionata. In ogni caso, la tragica morte del giovane assistente botanico (aveva appena 25 anni) destò grande commozione, tanto che la poetessa Elizabeth Cobbold gli dedicò una poesia. Attorno al misterioso episodio è anche sorta una piccola leggenda metropolitana; nel 1895 il botanico Joseph Maiden nel suo Flowering Plants and Ferns of New South Wales, scrive che Borone trovò una pianta "di difficile accesso e nonostante gli avvertimenti del dottore [= Sibthorp], perse l'equilibrio e rimase ucciso". Il pur autorevole sito Jstor-Edit History invece scrive: "rimase ucciso in una caduta accidentale da una finestra presumibilmente mentre cercava di raccogliere una pianta". Ma il massimo lo raggiunge la scrittrice australiana Myrtle Rosa White che nel suo No Roads Go By sostiene che si uccise nel tentativo di raccogliere... una boronia, mentre studiava la flora dell'Australia occidentale. Devo queste notizie sulle leggende attorno alla morte di Borone all'eccellente blog del naturalista australiano Ian Fraser. Aggiungo al florilegio un sito italiano in cui leggo "Riceve il nome di Boronia in onore al suo scopritore: Pranis Borone, botanico italiano che morì a 26 anni" (Pranis sarà uno strano refuso per la versione inglese del nome, Francis). E pensare che per una volta abbiano un'autorevole fonte di prima mano, la lettera di Sibthorp a Smith, scritta subito dopo i fatti! Boronia, croce e delizia dei giardinieri Quanto a James Edward Smith, non solo scrisse un epitaffio in versi per il suo protetto, ma volle perpetrarne il nome offrendogli "l'unica gloria possibile per un botanico", come diceva Linneo. Poco dopo aver ricevuto la notizia della morte di Francesco, così scrive Smith a un amico, il botanico svizzero Edmund Duvall: "Voglio dedicargli un genere, come martire della botanica, e cercare di rendere giustizia ai suoi meriti quanto prima nella Botany of New Holland". Smith allude al suo A Specimen of the Botany of New Holland, il primo libro dedicato alla flora australiana che egli andava pubblicato in quegli anni. In realtà pagò il suo debito qualche anno dopo, in Tracts Relating to Natural History (1798). Per ricordare lo sfortunato Borone Smith gli dedicò il nuovo genere Boronia (famiglia Rutaceae), di cui descrisse quattro specie dell'Australia sudorientale, appena scoperte da White. Con 100-150 specie, è uno dei più vasti generi endemici dell'Australia; presente in quasi tutto il territorio australiano, con maggiori centri di biodiversità a sudest e sudovest, comprende arbusti di piccole e medie dimensioni che crescono in foreste aperte e boscaglie luminose, molto attraenti grazie alla miriade di fiorellini a quattro petali in colori pastello; 4-6 specie (alcune delle quali un tempo erano assegnate al genere Boronella) sono originarie della Nuova Caledonia. Una caratteristica peculiare delle Boronia è la presenza di oli aromatici nelle foglie (del resto, appartengono alla stessa famiglia degli agrumi) e, in alcune specie, nei fiori. Oltre a trovare impiego nella produzione di profumi e di aromi per l'industria alimentare, in Australia alcune specie sono coltivate per il mercato dei fiori recisi. La Boronia è considerata la croce e delizia dei giardinieri: tanto desiderabile per la bellezza delle fioriture, la grazia del portamento, il profumo, quanto difficile da coltivare; e proprio come il suo dedicatario, è destinata a vita breve. Tuttavia è sempre più frequentemente disponibile, e sta conoscendo un crescente successo anche sul mercato italiano. Altre notizie nella scheda. Indirettamente, all'oscuro domestico italiano è toccata anche la sorte di dare il nome a una città: Boronia, sobborgo di Melburne, così battezzata nel 1915 grazie alle Boronia coltivate dal Consigliere che propose la denominazione, vivaista e coltivatore di fiori recisi. Una scelta non casuale, perché la cittadina era al centro di un'area floricola e ancora oggi molte delle sue vie portano il nome di piante. Insomma, la fortuna postuma di Borone è inversamente proporzionale a quella avuta in vita. Per dare lustro al titolo regale appena conquistato, Vittorio Amedeo II fonda l'Orto botanico di Torino. Qualche anno dopo Carlo Allioni ne farà un'istituzione scientifica di prestigio europeo, guadagnandosi la stima di Linneo. A lui - tra i primi ad adottare la denominazione binomiale e più tardi autore di un'opera fondamentale della botanica illuminista - lo svedese dedicherà il genere Allionia. Un nuovo orto botanico per un nuovo re Nel 1703, allo scoppio della guerra di successione spagnola, Vittorio Amedeo II di Savoia, infido alleato di Luigi XIV, decide di cambiare campo e si schiera con l'Impero e l'Inghilterra. La vendetta del Re Sole non si fa aspettare: lo stato sabaudo è devastato, la capitale Torino subisce un terribile assedio. Ma la "volpe sabauda" dimostra di aver visto giusto: non solo i francesi sono disfatti nella battaglia di Torino (7 settembre 1706), ma alla fine della guerra, con la pace di Utrecht, i Savoia entrano finalmente nel salotto buono della storia, accedendo al sospirato titolo reale. Adesso che Torino è la capitale di un regno (dal 1713 al 1714 di Sicilia, quindi di Sardegna) deve dotarsi di tutte le strutture che danno lustro a una monarchia degna di questo nome, comprese le istituzioni scientifiche. Immancabile tra queste un Orto botanico, dove studiare e coltivare le piante utili, ma anche collezionare le nuove specie esotiche, vanto dei Giardini reali di Parigi o di Londra. D'altra parte l'esplorazione e la conoscenza delle risorse del territorio per ogni stato nazionale è sempre più importante dal punto di vista economico, demografico e strategico. Così nel 1729 nasce l'Orto botanico di Torino, diretto dapprima dal medico Bartolomeo Caccia (morto nel 1747) quindi da Vitaliano Donati (1717-1762), eclettico scienziato, viaggiatore ed esploratore che fu anche all'origine del Museo Egizio. Il terzo direttore sarà Carlo Allioni (1728-1804), che lo gestì per un quarantennio e lo inserì nel circuito dei maggiori orti botanici europei, trasformandolo in una reputata istituzione di ricerca e incrementando enormemente le raccolte (sotto la sua gestione le specie coltivate salgono da 317 a 4500). Una visita all'eccellente sito dell'Orto botanico di Torino offre un panorama delle collezioni coltivate nei suoi spazi (giardino, boschetto, alpineto e tre serre) e molte informazioni di approfondimento sulla storia e le attività dell'istituzione piemontese. Caro Carlo, ti scrivo.... Quando diventa direttore dell'orto botanico, Allioni ha già al suo attivo un'opera importante, Rariorum Pedemontium Stirpium. Specimen primum, del 1755, in cui le specie, ancora indicate con il nome polinomiale, sono accompagnate da dodici splendide tavole disegnate da Francesco Peyrolery. Il libro è anche all'origine della corrispondenza e si può dire dell'amicizia con Linneo. Infatti, dopo qualche esitazione, Allioni, incoraggiato dal danese Peter Ascanius in visita a Torino, ne invia un esemplare all'illustre collega, che gli risponde con una lettera colma da gentilezza ed apprezzamento scientifico. Per un ventennio le lettere dei due Carli viaggeranno da Torino a Uppsala e da Uppsala a Torino, accompagnando libri, pacchetti di semi, fogli di erbario, campioni di minerali e esemplari essiccati. Il Carlo svedese apprezza la flora alpina, il Carlo piemontese le piante esotiche che potranno arricchire le aiuole dell'Orto botanico. I due discutono dell'identificazione delle piante, ma si scambiano osservazioni anche sui minerali e gli animali, essendo entrambi naturalisti dai vasti interessi. Linneo non lesina le lodi al più giovane amico: a proposito di Auctarium Horti Tauriniensis (lettera dell'8 novembre 1774) giunge a dire che le descrizioni della flora italiana di Allioni superano ciò che è stato scritto prima di lui quanto nella notte la luce della luna supera quella delle piccole stelle. A sua volta, Allioni farà proprie le tesi di Linneo, adottando tra i primi la nomenclatura binomiale, tanto da essere soprannominato il Linneo piemontese. I curiosi possono ora leggere questa corrispondenza nel sito The linnean Corrispondence nell'originale latino, accompagnato da una sintesi in inglese. E ovviamente non poteva mancare la dedica di un nuovo genere: Linneo provvide nel 1759, nella decima edizione del Systema naturae, intitolando all'amico Allionia, una deliziosa Nyctaginacea del Nord America. Il capolavoro di Allioni è Flora Pedemontana, sive enumeratio methodica stirpium indigenarum Pedemontii, frutto di 25 anni di lavoro, pubblicata nel 1785 (due volumi di testo e un volume di tavole), in cui vengono descritte 2813 piante delle Alpi occidentali. Questo trattato - notevole anche per la cura editoriale - è considerato uno delle opere botaniche più significative dell'Illuminismo. Altre notizie su Carlo Allioni nella biografia. Allionia, allionii Allionia è un'annuale o perenne di breve vita dal portamento strisciante, originaria del Sud degli Stati Uniti (dalla California al Texas dal Nevada all'Oklaoma), dai graziosi fiori rosa vivo. Non sappiamo perché Linneo abbia scelto proprio questa pianta per onorare l'amico piemontese, ma possiamo proporre qualche ipotesi. Intanto ha proprietà medicinali, e Allioni era un medico insigne. Inoltre ha un fiore davvero particolare: in realtà si tratta di tre fiori separati che sembrano formarne uno solo. Un'allusione alla poliedrica attività del naturalista subalpino, botanico, zoologo, geologo? Infine il piemontese è descritto dai contemporanei come un uomo di grande modestia, che univa all'immensa scienza la semplicità di cuore: la bella ma modesta Allionia non potrebbe essere il suo ritratto vegetale? Nella scheda qualche approfondimento sul genere Allionia e sulle sue due specie. Nato e morto a Torino, Allioni non può essere considerato un botanico sedentario. Mentre i suoi contemporanei esploravano le Americhe, l'Asia, l'Africa, le isole del Pacifico e l'Australia, percorreva instancabilmente il piccolo stato sabaudo, esplorandone palmo a palmo le montagne. Così raccolse un erbario composto da 11.000 esemplari e descrisse circa 400 nuove specie. Forse memore della morte del suo predecessore Vitaliano Donati - perito in mare mentre si dirigeva a Goa - non attraversò il mare neppure per esplorare la flora sarda, delegando la raccolta al collaboratore Michele Plazza. Diverse tra le nuove specie descritte da Allioni lo ricordano nel nome specifico: Arabis allionii, Veronica allionii, Campanula allionii, Sempervivum globiferum subsp. allionii (già Jovibarba allionii), ecc. Tra di esse una perla per rarità e bellezza, la Primula allionii, un endemismo delle Alpi Marittime. Per goderne la bellezza, si può dare un'occhiata alla gallery dedicata alla specie e alle sue cultivar orticole sul sito dell'American Primrose Society. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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