Due passioni si intrecciano nella vita di Giovanni Battista Balbis, botanico piemontese che fu il quinto curatore dell'orto di Torino: le piante e la politica. E se la seconda lo deluse e gli costò ben tre esili, mai venne meno l'amore per le prime. Nella sua vita non ci sono viaggi in paesi lontani e flore esotiche, ma brevi percorsi a zigzag che lo portano ora al di qua ora al di là delle Alpi, trascinato dalle onde della storia; ci sono le flore locali che, instancabile camminatore, esplora appassionatamente in tanti teatri: le Alpi marittime dell'adolescenza e della prima giovinezza; le campagne e le colline torinesi della maturità; le sponde del Ticino del momento più buio della sua esistenza; il lionese della vecchiaia. Senza dimenticare i due orti botanici che fece rinascere, prima a Torino poi a Lione. Botanico di fama europea, fu onorato da colleghi del calibro di Willdenow, de Candolle e Cavanilles con la dedica di un genere. L'unico valido oggi è il piccolo genere Balbisia Cav., che ammanta delle sue spettacolari fioriture le più aride praterie d'altura del versante occidentale delle Ande tra Perù e Cile. Primo tempo: il giacobino Chi conosce la Vita di Alfieri, sa quanto provinciale, chiusa, bigotta e oppressiva fosse l'atmosfera politica e culturale degli Stati sardi di fine Settecento. Possiamo dunque immaginare con quanto entusiasmo gli intellettuali piemontesi accogliessero le notizie che arrivavano da Parigi, tanto più che i legami culturali con la Francia erano fortissimi (basti pensare che le classi colte sabaude parlavano correntemente il francese, e non l'italiano). A Torino nacquero immediatamente diversi circoli giacobini; uno dei più accesi si riuniva a casa del medico Ferdinando Barolo; i suoi membri, repubblicani, sognavano di abbattere casa Savoia e di unirsi alla Francia rivoluzionaria. Nel 1793, in stretto contatto con il rappresentante francese a Genova, Jean Tilly, i diversi gruppi si unificarono e elaborarono un piano di insurrezione, che avrebbe dovuto scattare nella primavera del 1794, in concomitanza con l'offensiva francese; tuttavia, notizie della congiura giunsero alla polizia sabauda, che arrestò il Barolo il quale crollò immediatamente denunciando i suoi compagni. Molti furono arrestati, ma altri riuscirono a salvarsi riparando in Francia. Tra loro anche il giovane botanico Giovanni Battista Balbis, che iniziava così il primo dei suoi tre esili. Balbis (1765-1831) era nato a Moretta, nel circondario di Saluzzo, da dove si era spostato a Torino per studiare presso il prestigioso Collegio delle Province - dove fece amicizia con il medico e storico Carlo Botta, un altro dei congiurati del 1794; studiò poi medicina all'Università di Torino, divenendo l'allievo prediletto di Carlo Allioni. Si innamorò così della botanica, accompagnando lo stesso Allioni, Bellardi e Dana in molte escursioni. Studiò poi le specie vegetali che crescono nei pressi delle Terme di Valdieri, oggetto della sua prima pubblicazione; nel 1792, un lungo viaggio lo portò - munito delle lettere di raccomandazione del maestro - in giro per l'Italia a visitare molte personalità della scienza del tempo, tra cui Volta e il botanico napoletano Domenico Cirillo. Nel 1793, tornato a Torino, entrò appunto a far parte del gruppo giacobino guidato da Barolo. Nel maggio del 1794 fu uno dei numerosi fuorusciti piemontesi che andavano radunandosi in Francia. Balbis, che si era laureato in medicina nel 1785 e fin dal 1788 aveva ottenuto l'aggregazione all'ordine dei medici, si arruolò nell'esercito francese come medico militare. Nel 1796 lo troviamo nelle file dell'armata d'Italia, comandata dal giovane generale Bonaparte. Poté tornare a Torino solo verso la fine del 1798, quando i francesi costrinsero Carlo Emanuele IV alla fuga e occuparono la capitale, proclamando la Repubblica piemontese. Insieme all'amico Botta e all'avvocato Luigi Colla, fu uno dei venti membri del governo provvisorio. L'esperienza fu brevissima (già ad aprile dell'anno successivo, di fronte alla ripresa della guerra, il direttorio lo sciolse, affidando i pieni potere all'ambasciatore Musset), ma è significativa dell'adesione di Balbis agli ideali rivoluzionari, in nome dei quali, insieme ai suoi compagni, il 12 dicembre 1798 aveva giurato “odio eterno alla tirannide, amore eterno alla libertà, all'eguaglianza e alla virtù”. Ma nuvole nere si addensavano sulla giovane repubblica; assente Napoleone, che era in Egitto, le cose si misero male per l'esercito francese; travolto dagli austro-russi, nel maggio 1799 dovette sgombrare la regione. I Savoia ritornarono sul trono e Balbis prese una seconda volta la via dell'esilio, ancora speso nei ranghi dell'armata d'Italia con il grado di vice capo-medico. Questa volta l'esilio fu molto breve: già nel giugno 1800, con la gloriosa battaglia di Marengo, Napoleone ripristinò il potere francese e venne proclamata la Repubblica subalpina. Nei primi anni repubblicani, Balbis fece parte della cosiddetta "cabale des médicins", un influente gruppo di intellettuali e scienziati di tendenza repubblicana che cercò di sfruttare la militanza politica e le relazioni personali con i vertici dell'amministrazione francesi per rinnovare l'insegnamento e le istituzioni scientifiche non solo in campo medico. Fu in questo contesto che nel 1801 egli fu chiamato a succedere a P.M. Dana come direttore dell'orto botanico torinese. Sul piano politico, presto subentrò la disillusione: la Repubblica subalpina si rivelava sempre più un fragile paravento dell'occupazione francese; nel 1801 l'esercito piemontese venne incorporato in quello francese, quindi passò in mani francesi anche l'amministrazione, mentre il francese sostituiva l'italiano negli atti pubblici e il franco diveniva la moneta ufficiale. Infine, l'11 settembre del 1802 il Piemonte cessava di esistere come stato e veniva annesso alla Francia. D'altronde, il potere sempre più autocratico di Napoleone rendeva chimerici gli ideali giacobini cui Balbis aveva giurato fedeltà nel 1798. Secondo tempo: il botanico della flore locali Rimanevano le piante. Lasciata da parte la politica, Balbis dovette rimboccarsi le maniche per rilanciare l'orto botanico che aveva trovato in uno stato deplorevole, soprattutto per la mancanza di denaro, Sfruttando i suoi trascorsi di medico militare dell'Armée riuscì a ottenere aiuti e finanziamenti dal generale Menou, amministratore capo del dipartimento del Po. Sulla scia del suo maestro Allioni, egli operò efficacemente per reinserire l'istituzione piemontese nella rete degli orti botanici europei, con un fitto programma di scambi, grazie al quale, alla fine del suo mandato, il giardino era giunto a comprendere 1900 specie. All'attività gestionale, affiancò un'intensa esplorazione della flora piemontese; l'amico Colla racconta come ai torinesi fosse diventata familiare la figura di Balbis che percorreva i dintorni della città, attorniato a volte da un centinaio di studenti, che facevano a gara per presentargli la pianta più rara; a tutte sapeva dare un nome e a guisa d'oracolo rivelare proprietà botaniche e virtù curative. Teatro delle sue scorribande furono anche le Alpi piemontesi, che perlustrò in compagnia del giardiniere capo Molineri. In corrispondenza con molti dei maggiori botanici europei, fu ammesso come membro corrispondente di diverse società scientifiche; fu membro dell'Accademia delle Scienze di Torino e dal 1811 presidente della Società Agraria di Torino. Alla flora delle campagne torinesi dedicò Elenco delle piante crescenti nei dintorni di Torino (1801), cui seguì Miscellanea botanica (1805-1808), dedicata soprattutto alla flora alpina; altri contributi sulla flora piemontese comparvero negli atti dell'Accademia delle scienze. Per i suoi studenti, nel 1808 pubblico anche Flora torinese, un agile manualetto in cui presenta succintamente 1234 specie; antenato di un tascabile, Colla ebbe a definirlo "flora portabile". Molte furono le piante alpine da lui segnalate per la prima volta; vorrei ricordare almeno la più rara e preziosa, Phyteuma cordatum Balbis, un endemismo delle Alpi marittime presente sia sul versante italiano sia su quello francese. In Italia si trova in poche stazioni a cavallo tra le province di Cuneo e Imperia. Ma se Balbis si era ormai estraniato dalla politica, quest'ultima non aveva ancora finito di fare i conti con Balbis, Caduto Napoleone, i Savoia tornavano sul trono. E il re Vittorio Emanuele I non poteva tollerare che i vecchi giacobini che avevano cospirato contro la sua famiglia mantenessero onori e posizioni di potere, fossero pure scienziati di fama internazionale. Nel 1814 Balbis venne privato della cattedra di botanica, della direzione dell'orto e persino cacciato dall'Accademia delle scienze. A soccorrerlo fu il chimico Evasio Borsarelli, direttore dell'Orto Sperimentale della Reale Società di Orticoltura, che lo ospitò nella sua piccola casa della Crocetta, allora in aperta campagna. Qui Balbis divise il suo tempo tra la coltivazione di piante rare, la sistemazione del suo immenso erbario (che conta oltre 18.000 esemplari) e le cure mediche prestate agli indigenti. Fu anche l'occasione per leggere con attenzione (lui linneano ortodosso formatosi alla scuola di Allioni) le opere di Jussieu, de Candolle, Robert Brown; e se prima respingeva il "sistema naturale", ne comprese le ragioni, tanto da tenerne conto nelle opere successiva. Poco dopo Domenico Nocca, professore di botanica all'Università di Pavia e direttore del locale orto botanico, gli chiese di aiutarlo a classificare la flora del territorio patavino. Il risultato della loro collaborazione fu Flora Ticinensis, un'opera in due volumi usciti rispettivamente nel 1816 e nel 1821. Nel 1819 Balbis fu chiamato a dirigere l'orto botanico di Lione; era il suo terzo esilio, questa volta volontario. Nella città francese, proprio come aveva fatto a Torino, riorganizzò quel giardino e seppe circondarsi di altri appassionati, con i quali nel 1822 diede vita alla Societé linnéenne de Lyon, di cui divenne il primo presidente. Anche a Lione continuò la sua indagine della flora locale, pubblicando Flore Lyonnaise (in due volumi, 1827-1828, con un supplemento 1835). Ormai lontano dalla politica attiva, continuava a seguire gli eventi italiani attraverso la corrispondenza con gli amici (in particolare Colla, cui lo univano i trascorsi giacobini e la passione per le piante); dopo il fallimento dei moti del 1821, prestò generosamente aiuto a molti fuoriusciti. Negli anni lionesi, fecondo fu anche il rapporto con l'allievo prediletto Carlo Giuseppe Bertero, che gli inviò molte piante dalle Antille. Ormai malato, nel 1830 chiese l'esonero da ogni incarico e rientrò a Torino, dove morì l'anno successivo. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Balbisia, quando fioriscono i deserti La fama europea di Balbis è testimoniata dalle molteplici dediche che ricevette da prestigiosi botanici europei. Furono ben tre quelli che crearono in suo onore un genere Balbisia. Il primo fu Willdenow, direttore dell'orto botanico di Berlino e celebre tassonomista, nel 1803, con Balbisia elongata (famiglia Asteraceae). Il nome oggi non è più valido, trattandosi di un doppione per una specie già descritta da Linneo, Tridax procumbens (L.) L.; ma la dedica dovette essere cara a Balbis, probabilmente in ragione del prestigio del creatore, se nel monumento funebre che gli venne eretto nel Cimitero di Torino venne ritratta proprio questa pianta. Nel 1804 fu la volta di Cavanilles, direttore dell'orto botanico di Madrid. Questo è il genere Balbisia valido anche oggi, ne parlo sotto. Infine, poco dopo la morte di Balbis, anche de Candolle (corrispondente e amico personale) volle ricordarlo con Balbisia berteroi (famiglia Asteraceae), oggi Robinsonia berteroi; un nome non valido per la regola della priorità, ma interessante perché associa il nome di Balbis a quello dell'allievo Bertero, che esplorò dapprima le Antille, quindi il Cile. E proprio dal Cono Sur viene Balbisia Cav., appartenente alla piccola famiglia sudamericana delle Vivianiaceae (un tempo, Ledocarpaceae; nella classificazione AGP IV è invece assegnato a Francoaceae). Questo genere comprende una decina di specie di arbustini o erbacee perenni semilegnose assai ramificate con foglie minute e grandi fiori terminali molto vistosi con cinque petali lievemente imbricati, solitamente di un brillante colore giallo. Distribuito lungo il versante occidentale delle Ande dal Perù al Cile vive in praterie aride d'altura al di sopra di 2000 m. Fa eccezione B. peduncularis, un endemismo delle montagne costiere del Cile settentrionale che si spinge fino alla costa e con le sue fioriture spettacolari trasforma in un tappeto dorato i margini del deserto di Atacama. Qualche approfondimento nella scheda. Anche se andino e non alpino, sarebbe sicuramente piaciuto a Balbis, grande esploratore della flora delle Alpi, come ci ricordano lo specifico del delizioso Dianthus balbisii (il garofanino di Balbis) e la sottospecie di Primula auricola subsp. balbisii.
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E' una vita sempre in viaggio quella di Vitaliano Donati, nato a Padova e morto in mare prima di toccare le sponde dell'India. Studioso eclettico e poliedrico, con interessi che spaziavano dalla fisica alla mineralogia alla botanica all'archeologia, oltre ad essere stato il secondo curatore dell'Orto botanico di Torino, gli si deve il primo nucleo di quello che diventerà il Museo egizio di quella città. Nel campo delle scienze naturali, nel suo importante trattato sulla storia naturale dell'Adriatico, fu tra i primi a postulare che i coralli non sono piante, come generalmente si credeva, ma animali. Nelle numerose spezioni che costellano la sua carriera di scienziato ricercatore, unì la capacità di analizzare l'ambiente naturale in modo scientifico e integrato con un'originalità di pensiero che ne fece un innovatore. Due generi lo ricordano: Vitaliana Sisler, oggi - ma dopo molte discussioni - non più valido, e Donatia Forster. In comune l'appartenenza alle piante "a pulvino", capaci di vivere in habitat estremi formando densi cuscinetti di fusticini a raggiera. Un giovane naturalista amante dei viaggi Il 20 febbraio 1761, insieme a centinaia di altri reperti, lasciano il porto di Alessandria d'Egitto per iniziare il lungo viaggio verso Torino tre sculture che raffigurano la dea Iside-Hator, la dea Sekhmet e il faraone Ramses II. A spedirle nella capitale sabauda è l'eclettico Vitaliano Donati, direttore dell'orto botanico di Torino, ma anche appassionato egittologo che le ha scoperte nel tempio della dea Mut presso Karnak. Insieme agli altri oggetti, le tre statue andranno a costituire il primo nucleo del futuro Museo Egizio di Torino. Quando Donati fu spedito in Egitto ad “acquistare qualche antichità e Mumia delle più conservate”, aveva già alle spalle una lunga carriera di ricercatore sul campo che non lasciava accumulare la polvere sulle scarpe. Nato nel 1717 a Padova, dove si era laureato in medicina, manifestando però una vocazione più per la storia naturale che per l'arte medica, iniziò i suoi viaggi ancora studente, quando percorse l'Italia settentionale per esplorarne la geologia e la flora e visitò l'Istria insieme al conte Gian Rinaldo Carli, unendo già lo studio delle piante a quello dei monumenti antichi. Nel 1743 accompagnò a Roma il suo maestro, il fisico G. Poleni, membro della commissione per il consolidamento della cupola di San Pietro; nella speranza di ottenere una cattedra universitaria, Donati accettò di partire per il Regno di Napoli e di Sicilia per raccogliere esemplari per un istituendo museo pontificio di storia naturale alla Sapienza; ma, saputo che a Messina infuriava la peste, cercò una destinazione più salubre. Memore delle scorribande giovanili in Istria, scelse la costa orientale adriatica e tra il 1743 e il 1749 nel corso di cinque viaggi visitò nuovamente l'Istria, quindi Morlacchia, Dalmazia, Bosnia, Erzegovina, Albania settentrionale, alternando i soggiorni nelle principali città costiere (Spalato, Zara, Sebenico) all'esplorazione delle regioni interne. Fu il primo scienziato a erborizzare sul monte Velebit. Il rapporto scientifico che nel dicembre 1745 inviò a Roma dalla croata Knin (o Tenin) fu pubblicato nel 1750 a spese del conte Carli con il titolo Della storia naturale marina dell'Adriatico. Importante è la parte dedicata ai coralli nei quali secondo Donati "la natura fa passaggio dalle piante agli animali". Mentre i suoi contemporanei li consideravano piante (e tra le piante saranno ancora annoverati a fine secolo in Flora Danica), egli comprese che i "rami" avevano una funzione fondamentalmente di supporto, mentre la forma di vita specifica era costituita da una miriade di polipi, esseri di natura animale. Altrettanto innovativi furono i suoi studi sui meccanismi riproduttivi del genere Fucus, in cui studiò tutte le fasi, dimostrando che la riproduzione delle piante marine non differiva da quella delle specie terrestri. Furono soprattutto le pagine sui coralli a dare fama europea a Donati, tanto da venire tradotte in inglese già nel 1751 nelle Philosophical transactions con il titolo New discoveries relating to the history of coral e nel 1752 in tedesco. Nel 1758 seguì in Olanda una traduzione francese dell'intera opera, Essai sur l'histoire naturelle de la mer Adriatique. Fu probabilmente questa risonanza a spingere Carlo Emanuele III a chiamare Donati a Torino; nel 1750 fu nominato professore di botanica e storia naturale, nonché direttore dell'Orto botanico (il secondo, dopo Bartolomeo Giuseppe Caccia). Da botanico-naturalista a archeologo La carriera universitaria e gli altri impegni istituzionali (era membro del Tribunale del protomedicato), non spensero la passione di Donati per i viaggi e la ricerca sul campo. Nel 1751 il re lo mandò in Val d'Aosta e in Savoia a valutarne le potenzialità minerarie e a redigere una mappatura dei giacimenti e degli impianti di estrazione. Il suo itinerario toccò la Valle di Susa, il Moncenisio, la Val d'Isère, la Valle d’Aosta, il Piccolo San Bernardo, il Faucigny e il lago di Ginevra. Le sue note non si limitano alla mineralogia, ma integrano anche la botanica, il clima, le strutture geomorfologiche, l'attenzione agli aspetti umani. L'anno successivo fu inviato nel Faucigny per individuare le cause di una frana. Nel 1755 visitò le montagne e le coste dell'area di Genova, raggiungendo la Sardegna; nel 1757 tornò nuovamente a studiare le cave di marmo in Val di Susa. In queste attività di ricerca, Donati si avvale sempre della strumentazione migliore disponibile all'epoca e si dimostra uno scienziato acuto, originale, e capace di integrare tra loro le scienze naturali e umane; costante rimane anche l'interesse per l'archeologia. Come direttore dell'Orto botanico di Torino, da una parte ampliò le collezioni, portandole a circa 1200 specie; dall'altra, fu probabilmente su sua iniziativa che incominciarono ad essere stampati e riuniti in volume i disegni e acquerelli con i quali il giardiniere e valente disegnatore F. Peyrolery andava documentando le specie dell'orto, primo nucleo di quella che diverrà l'Iconographia Taurinensis. Nel 1759, quando probabilmente già pensava di tornare a Padova ad assumervi una più prestigiosa cattedra universitaria, il re di Sardegna gli fece la proposta dei sogni: dirigere un viaggio di scoperta e esplorazione in Oriente, alla ricerca di esemplari per due futuri musei reali, uno di storia naturale, l'altro di antichità. Nel corso del viaggio Donati avrebbe dovuto esplorare Egitto, Arabia, Palestina, quindi spostarsi in India e fare ritorno circumnavigando l'Africa, rientrando poi nel Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra. Con la sua passione per i viaggi, Donati non poteva certo rifiutare, tanto più che anche i finanziamenti furono generosi. Oltre a Donati, il gruppo comprendeva inizialmente il naturalista Gioanni Battista Ronco, il disegnatore Christian Wehrlin, il giardiniere Paolo Cornaglia: insomma, una spedizione scientifica di tutto rispetto, una delle più ambiziose dell'epoca. Ma i guai iniziarono quasi subito. Il giardiniere giunse a Venezia, dove avrebbero dovuto imbarcarsi per il Levante, già gravemente malato (morirà poco dopo) e fu sostituito da un giovane collega veneto di cui non conosciamo il nome; inoltre Ronco impose la presenza della sorella Marianna, di cui vantava l'abilità di disegnatrice. Il gruppo giunse a Alessandra d'Egitto presumibilmente il 18 luglio. Poco dopo Ronco, nel tentativo di prendere il comando della spedizione e di impadronirsi delle risorse finanziarie, fece imprigionare Donati nella casa consolare olandese, da cui venne liberato grazie all'intervento di vari membri del corpo diplomatico. Giunta la notizia a Torino, la spedizione così come era stata concepita si sciolse: Wehrlin e probabilmente il giardiniere rientrarono a Venezia, mentre i Ronco facevano perdere le loro tracce e riuscivano ad espatriare in Francia. Donati rimase da solo in Egitto, proseguendo le sue ricerche con l'aiuto di collaboratori indigeni, tra cui spicca Stefano Aspahan, apprendista medico, interprete e guida che lo seguì fedelmente fino alla morte. Partito da Alessandria d'Egitto nel gennaio 1760, Donati visitò il Cairo, Giza e Farsut, risalì il Nilo e fece scavi a Karnak, dove scoprì le tre statue da cui è iniziato il nostro raccolto. Il suo viaggio lungo il fiume proseguì fino alla cataratta di Assuan, di cui tracciò la topografia. Rientrato al Cairo per Natale, ne ripartì subito per il monte Sinai, dove visitò i monasteri copti e studiò le antiche iscrizioni. Nel 1761 visitò Palestina e Siria; nel febbraio 1762 si imbarcò a Masqat su una nave turca che doveva condurlo sulle coste del Malabar; ma durante la traversata si ammalò e morì. Grazie soprattutto alla dedizione di Aspahan, si salvarono almeno una parte delle collezioni e il prezioso Giornale di viaggio, che giunge fino all'arrivo a Masqat, ricco di osservazioni archeologiche e naturalistiche. Una sintesi di questa vita intensa nella sezione biografie. Vitaliana, la primula d'oro L'edizione olandese del saggio di Donati (Essai sur l'histoire naturelle de la mer Adriatique, 1758) include una lettera di Lionardo Sesler, medico e botanico dell'orto di Padova che era stato compagno di Donati in alcuni dei suoi viaggi nell'alto Adriatico. Qui non solo Sesler elogia e sostiene le teorie dell'amico sulla natura animale e sulla "fruttificazione" del Fucus, ma gli rende omaggio dedicandogli una nuova specie da lui recentemente scoperta sulle falde del monte San Pellegrino nel Bellunese. La chiama Vitaliana "seguendo l'orme dell'incomparabile Carlo Linneo, omnium naturalium rerum lumen fulgentissimum". In effetti, Linneo in Species plantarum 1753 aveva reso omaggio a Donati battezzando questa stessa specie Primula vitaliana. Il nuovo genere di Sesler avrà vita travagliatissima. Nel 1835 Bertoloni in Flora italiaca provvide a assegnare alla sua unica specie il nome binomio Vitaliana primulaeflora; ma già nel 1827 Lidl ne aveva negato l'indipendenza, assegnandolo a Douglasia. Da allora, è stato ora considerato indipendente, ora inserito in Primula, Douglasia, Gregoria, Androsace. I più recenti studi molecolari hanno dimostrato che tanto l'europea Vitaliana quanto l'americana Douglasia sono annidati nel genere Androsace. Quindi oggi la nostra vitaliana (nome comune) è ufficialmente Androsace vitaliana (L.) Lapeyr. E' una bellissima perenne rupicola a cuscinetto dai fiori dorati che in Italia possiamo ammirare sia sulle Alpi sia sull'Appennino; è presente anche nei Pirenei e nel Massiccio centrale e in poche stazioni dei Balcani. Donatia, dalla tundra magellanica alla Nuova Zelanda Queste vicissitudini non hanno privato Donati del giusto riconoscimento di un genere botanico. Oltre ad aver lasciato il suo nome di battesimo come nome comune e nome specifico a Androsace vitaliana, a ricordarlo è anche il genere Donatia J.R. Forst. & G. Forst. Anche le due specie che ne fanno parte sono piante a cuscinetto, o per dirla alla latina a pulvino, con profonde radici che riescono a abbarbicarsi alle rocce e sottili rametti che si irradiano a raggiera, formando densi cuscini che trattengono l'umidità e gli elementi nutritivi formati dalla decomposizioni dei residui di foglie e fiori degli anni precedenti, assicurando alla pianta un substrato nutritivo autoprodotto; come la vitaliana vivono in climi estremi, ma per trovarle dobbiamo andare letteralmente alla fine del mondo. Al ritorno dal secondo viaggio di Cook, Johann Reinold Forster esaminò e classificò una specie raccolta da Banks e Solander lungo le coste dello stretto di Magellano in occasione del primo viaggio, denominandola Donatia fascicularis. Non conosciamo i motivi della dedica a Donati, ma come si è detto era figura ben nota e apprezzata in Europa. Assegnato da alcuni a una famiglia propria (Donatiaceae) è generalmente annoverato nella piccola e interessante famiglia delle Stylidiaceae, diffusa tra il Sud Amrica meridionale e l'Australia. Comprende due sole specie. La prima è D. fascicularis, un endemismo cileno, una minuscola perenne a pulvino delle tundre magellaniche, dove si è adattata alle temperature estreme, al forte vento e alle abbondantissime precipitazioni (fino a 5000 mm annui); dai cuscinetti di foglie coriacee, simili a muschio, sbocciano piccoli fiori stellati bianchi a sei petali. Benché ciascuna pianta sia relativamente piccola, si raggruppano in vaste formazioni che ricoprono ampie aree, formando densi tappeti. La seconda, D. novae-zelandiae, vive nelle regioni alpine e subalpine della Nuova Zelanda e della Tasmania. Qui forma cuscini di minute foglioline verdi i quali possono raggiungere un metro di diametro, punteggiati di minuscoli fiori bianchi. Qualche notizia in più nella scheda. Entrambe le specie sono assai graziose, ma purtroppo di difficile coltivazione, dato il particolarissimo ambiente in cui vivono; talvolta possibile vederle nei giardini botanici alpini. Le avventure del grande botanico-esploratore Odoardo Beccari, celebre soprattutto per aver scoperto la pianta con l'infiorescenza più grande del mondo, Amorphophallus titanum, iniziano sotto il segno di lord Brooke, l'arcinemico di Sandokan, grazie alla cui protezione poté espolorare il Borneo sdettentrionale. I suoi viaggi lo portarono, nell'arco di un ventennio, anche in Malaysia, Indonesia e Corno d'Africa, dove fu coinvolto negli esordi del colonialismo italiano. Fu ancora un membro della famiglia Brooke, la rani Margareth, a convincerlo a scrivere il brillante Nelle foreste di Borneo, che, tradotto in inglese, gli assicurò fama europea. Tra i suoi più avidi lettori, anche Emilio Salgari, che ne trasse lo sfondo e molti particolari per il ciclo di Sandokan. Entusiasta e coraggioso viaggiatore in gioventù, nell'età matura Beccari si specializzò nello studio delle palme, di cui divenne uno dei massimi esperti mondiali. Lo ricordano decine di nomi specifici di piante e animali, e ben quattro nomi di generi botanici: Beccarianthus, Beccariella, Beccarinda, Beccariophoenix. Primo viaggio: nel regno di Sarawak La vocazione di esploratore e viaggiatore senza paura per Odoardo Beccari, giovane botanico fiorentino fresco di laurea, nasce dall'incontro con il marchese Giacomo Doria, presidente della Società geografica italiana, appena rientrato da un viaggio in Persia. Entrambi condividevano la passione per la natura (Doria era stato allievo del padre David, quando questi insegnava a Savona) e progettarono immediatamente una spedizione in qualche luogo inesplorato. Su consiglio di John Ball, celebre naturalista e alpinista, scelsero il regno di Sarawak, in Borneo. Per conoscere meglio la fauna e la flora del sud est asiatico, nel febbraio 1865 il ventiduenne Beccari si spostò a Londra, a studiare le collezioni indiane del British Museum e del giardino botanico di Kew. Qui, oltre a naturalisti come Hooker o Darwin, conobbe sir James Brooke, il leggendario rajah bianco di Sarawak. che, ormai anziano e malato (sarebbe morto tre anni dopo, nel 1868) era in patria per curarsi. Brooke prontamente scrisse lettere commendatizie in cui raccomandava i naturalisti italiani al suo reggente e futuro successore. All'inizio di aprile Beccari partì da Southampton alla volta di Alessandria d'Egitto, dove incontrò Doria e suo fratello Giovanni Battista, a sua volta diretto in Giappone. A giugno giunsero a Kuching, la capitale di Sarawak. All'inizio furono ospiti di Charles Brooke, il Tuan-muda (il"giovane principe"); poi si sistemarono in una piccola casa, con alcuni servitori, acquistando anche un sampan. Ben presto Doria e Beccari cominciarono a esplorare la foresta profonda che all'epoca circondava Kuching; intenzionato a conoscere da vicino quel nuovo mondo, Beccari si fece costruire una grande capanna nella foresta del Gunon Mattang, a circa 300 m sul livello del mare. Ma presto la salute di Doria cominciò a deteriorarsi, così che il geografo nel marzo 1866 fu costretto a rientare in Italia. Dopo aver accompagnato l'amico a Singapore, Beccari tornò a Sarawak e si stabilì nella capanna, ribattezzata "Vallombrosa", deciso a completare da solo il programma di esplorazione. Fino alla fine dell'anno fu il quartier generale da cui mosse per escursioni sulle montagne circostanti mettendo insieme una collezione straordinaria. Sul monte Poe scoprì una nuova specie di Rafflesia, che in onore del suo protettore battezzò R. tuan-mudae. Dedicò poi il 1867 all'esplorazione dell'interno, toccando anche aree mai visitate dai bianchi; si mosse in genere lungo i fiumi, ma anche a piedi, quando doveva superare rapide o penetrare nella foresta densa; corse più volte rischi mortali, come quando, persa la bussola, vagò per due giorni senza cibo in una foresta disabitata. Fino ad allora la sua salute era stata eccellente, ma verso la metà dell'anno contrasse la malaria e più tardi l'elefantiasi; perciò, benché avesse pianificato una nuova spedizione nell'interno, nel gennaio 1868 lasciò Kuching per rientrare in Italia. Qui aveva comunque il suo daffare a riordinare le enormi collezioni di esemplari naturalistici (oltre 4000 esemplari botanici, spesso costituiti da singole specie, molte delle quali ignote alla scienza) e etnografici, che in parte affidò al Civico museo di storia naturale di Genova, fondato e diretto da Doria. Nuova Guinea e dintorni Ma la vita del botanico da scrivania non si addiceva all'avventuroso Beccari. Nel 1870 fu contattato dalla Società geografica italiana e dalla compagnia di navigazione Rubattino, intenzionata ad acquistare la baia di Assab; venne così coinvolto negli esordi del colonialismo italiano, visitando insieme a Orazio Antinori e Arturo Issel la baia di Assab e il paese di Bogos, dove raccolse una notevole collezione di piante. Rientrato in Italia, incominciò a progettare una seconda spedizione malese, che prese avvio alla fine di novembre 1871. Il suo nuovo compagno era un altro ex allievo di David, il conte Luigi Maria d'Albertis. La prima tappa fu Giava, dove i due viaggiatori visitarono l'orto botanico di Bogor e il monte Gedeh. Ripartitono quindi alla volta della Nuova Guinea, che raggiunsero nel marzo 1872, dopo brevi soste a Flores, Timor, Banda e Ambon. Qui si ripeté in qualche modo quello che era avvenuto a Sarawak: dopo un inizio promettente, che li portò nell'isola di Sorong, quindi a Dorei e Andai, nella Guinea Occidentale, d'Albertis si ammalò gravemente e Beccari, in mezzo a mille difficoltà si ingegnò di riportarlo ad Ambon. Mentre il marchese rientrava in Italia a bordo della corvetta italiana Vettor Pisani, Beccari continuò il lavoro sul campo, visitando oltre ad Ambon le isole Aru (durante il viaggio contrasse il vaiolo) e Kei (qui il sampan su cui era imbarcato fece naufragio, ma per fortuna sia le attrezzature sia le collezioni si salvarono). La tappa successiva fu Celebes (oggi Sulawesi), di cui Beccari esplorò l'area sudoccidentale per tre mesi fino al febbraio 1874, spostandosi poi nell'area di Kendari nella costa sudorientale dove rimase circa sei mesi, dedicandosi soprattutto a rilievi topografici. Infatti la regione non solo era relativamente povera di piante, ma soprattutto infestata dai pirati sul mare e dai cacciatori di teste via terra. Ad agosto una nave olandese, che era stata inviata appositamente a cercarlo, essendosi sparsa la voce che la sua vita era in pericolo a causa dei pirati, lo portò a Makassar, dove ricevette una graditissima lettera dal marchese Doria, in cui lo informava che la città di Genova aveva accettato di contribuire a una seconda spedizione in Nuova Guinea con una sovvenzione di 15.000 lire. Dopo un breve soggiorno a Giava, a ottobre Beccari dava inizio al suo secondo viaggio in Nuova Guinea. Dapprima si fermò per circa tre settimane nell'isola di Ternate, nelle Molucche, dove raccolse ricche collezioni botaniche e zoologiche, nell'intenzione di farne la sua base per l'esplorazione della Nuova Guinea. Capito ben presto che era impossibile, tornò ad Ambon dove affittò un piccolo veliero, la Deli, con un equipaggio di 10 uomini, ingaggiando anche 8 portatori e un ragazzo come aiutante per la raccolta di piante e animali. La seconda spedizione in Nuova Guinea si protrasse da gennaio a agosto 1875. Usando come base la nave, l'esploratore visitò Sorong (dove scoprì anche un fiume non indicato nelle carte), l'isola di Wagei, quindi si mosse in direzione di Dorei lungo la costa occidentale della Baya di Geelvink; il resto della primavera fu dedicato all'esplorazione di altre isole della baia. All'inizio di giugno giunse a Dorei, dove incontrò la corvetta Vettor Pisani, cui affidò le sue collezioni, per partire verso i monti Arfak, stabilendo la sua base a Hatai, a 1500 m sul livello del male al centro della catena montuosa. Aveva progettato di dedicare almeno due mesi alla sua esplorazione, ma lo scoppio di un'epidemia di beri beri tra l'equipaggio (c'erano già stati due morti) lo costrinse a rinunciare. Quando ad agosto la Deli rientrò a Ternate, la malattia aveva ucciso buona parte dell'equipaggio. I risultati scientifici di questa seconda spedizione furono eccezionali soprattutto per le raccolte zoologiche (le sole specie di uccelli erano più di 2000) e le collezioni etnologiche, che includevano ogni tipo di oggetto usato dai nativi. Importanti furono anche i rilievi topografici che più tardi permisero al geografo Guido Cora di disegnare mappe di varie regioni. Il suo amore per la natura spicca nelle pagine che nelle lettere inviate dalla Nuova Guinea dedicò alla vita degli uccelli, in particolare al giardiniere bruno Amblyornis inornata, di cui descrisse con ammirazione e poesia le "capanne e giardini". Relativamente meno ricche le raccolte botaniche (al contrario di Borneo e Sumatra, dove Beccari opererà successivamente, in Nuova Guinea gli endemismi sono meno numerosi). Prima di lasciare la Nuova Guinea, Beccari ricevette il permesso di unirsi alla nave olandese Soerabaja che avrebbe effettuato ricerche barometriche e dal novembre 1875 alla fine di gennaio 1876 percorse la costa settentrionale della Nuova Guinea, esplorandone le baie e gli arcipelaghi, per poi raggiungere Ambon. Rientrato quindi a Ternate, a marzo si spostò a Giava, per imbarcarsi per l'Italia, dove rientrò dopo quattro anni e mezzo d'assenza, ricevendo molti onori. L'infiorescenza gigante di Sumatra Non bastarono certo a trattenerlo a casa. Dopo nemmeno un anno partì di nuovo, questa volta insieme a Enrico d'Albertis, cugino del suo precedente compagno. Concepita più come un viaggio di piacere che come spedizione scientifica, questa crociera iniziata nell'ottobre 1877 li portò in India, a Singapore, ancora a Kuching, quindi in Australia, Tasmania e Nuova Zelanda. Nel viaggio di ritorno, Beccari si separò da d'Albertis a Singapore per raggiungere Giacarta e Bogor, dove avrebbe preparato una spedizione a Sumatra. Lasciata Giava a maggio, all'inizio di giugno era a Padang, da dove, proprio come aveva fatto in Borneo e Nuova Guinea, si spostò nel cuore della foresta primaria del monte Singalong, un vulcano estinto alto quasi 2900 metri. Qui, al limite tra le coltivazioni e la foresta, all'altezza di 1700 m si fece costruire una capanna, che chiamò "Bellavista", dove visse tre mesi esplorando le pendici della montagna; esplorò poi la regione tra Padang e Bangok, dove giunse a novembre. Il bottino botanico raccolto soprattutto sul Singalang fu eccezionale (oltre 1000 esemplari); la scoperta più nota è quella di Amorphopallus titanum. Come egli stesso raccontò, ad agosto scoprì quello che inizialmente scambiò per il tronco di un albero ricoperto di licheni; avendo poi capito che si trattava del gambo di una foglia gigantesca di una Aracea, macchiettato di chiaro, promise un premio a chi gliene avrebbe portato un fiore. Dopo una mese la sua attesa fu premiata: per portarglielo, il mostruoso fiore fu legato a un palo e trasportato a spalle da due uomini. Come Rafflesia arnoldii è il fiore individuale più grande del mondo, Amorphophallus titanum è l'infiorescenza più grande, può raggiungere i 3 m e ricorda un gigantesco fallo (il nome significa "fallo privo di forma dei titani"); la foglia può raggiungere i 6 m e una superficie di 15 m di diametro. Beccari ne spedì fiori e tuberi al marchese Bardo Corsi Salviati che coltivava piante esotiche nelle serre della sua villa di Sesto Fiorentino; i bulbi però furono trattenuti alla dogana di Marsiglia e perirono; i semi invece raggiunsero il destinatario e germinarono. L'anno successivo il marchese spedì i piccoli tuberi a vari orti botanici europei, tra cui i Kew Botanical Gardens. Mentre le piante "fiorentine" morirono tutte, la pianta di Kew, coltivata in una serra e costantemente immersa in una vasca di acqua tiepida, riuscì a prosperare e dopo dieci anni giunse a fioritura (un evento ancora oggi eccezionale: A. titanum fiorisce ogni 7-10 anni, anche se alcuni esemplari fioriscono ogni 2-3 anni). Ma torniamo a Beccari che rientrò in Italia alla fine di dicembre 1878. La sua avventura malese era finita, ma lo attendeva ancora un viaggio in Africa; questa volta fu lo stesso ministro degli esteri a convocarlo e a inviarlo nuovamente nella baia di Assab (novembre 1879-gennaio 1880). Fu l'ultima tappa della sua ventennale carriera di naturalista-esploratore. Da allora fino alla morte, dopo una breve e burrascosa parentesi come direttore del giardino dei semplici di Firenze, dedicò le sue attività al riordino delle collezioni, agli affari di famiglia (fu tra i pionieri della produzione del Chianti) e allo studio delle piante tropicali, diventando un esperto di palme di fama mondiale. Su suggerimento dell'amica Margareth Brooke (la moglie del Tuan-muda Charles) che soggiornava spesso in Italia, a Bogliasco, e fu più volte ospite di Beccari in Toscana, raccontò le sue avventure malesi in un bellissimo libro di viaggio, Nelle foreste del Borneo (1902) che grazie alla traduzione inglese divenne poi un bestseller anche fuori d'Italia; molte delle fotografie che lo accompagnano erano state scattate dalla stessa rani Margareth. Tra i più avidi lettori dei resoconti di Beccari e di questo libro, anche Emilio Salgari, che ne trasse l'ispirazione e gli scenari per il ciclo di Sandokan (dove James Brooke, primo protettore di Beccari, diventa il cattivo per eccellenza). Altri particolari sulla avventurosa e intensa vita di Beccari nella sezione biografie. Dalle foreste asiatiche agli altipiani del Madagascar A quello che è considerato (insieme a Parlatore) il più grande botanico italiano del secondo Ottocento (e certo il più noto all'estero) furono dedicate numerose specie di piante e animali, a cominciare da quella Tulipa beccariana Bicchi (oggi T. saxatilis Siebold ex Spreng.) che il professor Bicchi, direttore dell'orto botanico di Lucca, gli dedicò quando era ancora adolescente. A ricordarlo sono i nomi di ben quattro generi botanici tuttora validi (altri tre sono invece ritenuti sinonimi): Beccarianthus, Beccariella, Beccarinda, Beccariophoenix. Il genere Baccarianthus, della famiglia Melastomataceae, fu creato nel 1890 dal botanico belga C.A. Cogniaux, in Handleiding tot de Kennis der Flora van Nederlandsch Indië, sulla base di B. pulchra, raccolta da Beccari a Sarawak. E' un genere di piccoli alberi poco noti distribuiti nelle foreste pluviali di Filippine e Papua-Nuova Guinea (oltre all'unica specie del Borneo). Hanno foglie coriacee, con venature molto evidenti, e fiori bisessuali relativamente vistosi raccolti in racemi apicali. Ben poche notizie sono riuscita a reperire, sintetizzate nella scheda. Il genere Beccariella, della famiglia Sapotaceae, fu creato sempre nel 1890 dal botanico francese J.B.L. Pierre, specialista di flora asiatica. Comprende una trentina di specie di alberi sempreverdi delle aree tropicali e subtropicali del Pacifico occidentale, soprattutto dall'Indonesia e la Malaysia all'Australia settentrionale. Hanno foglie coriacee, lucide, a volte cospicuamente tomentose; sia le foglie sia i fusti contengono un lattice che può risultare irritante; alcune hanno frutti relativamente grandi, come la curiosa Beccariella sebertii, originaria della Nuova Caledonia, i cui frutti dalla dimensione di grosse olive sono totalmente ricoperti da un fitto tomento vellutato color ruggine che ricorda la pelliccia di un animale. Qualche approfondimento nella scheda. Il genere Beccarinda, della famiglia Gesneriaceae, creato dal botanico tedesco C.E.O. Kuntze nella sua Revisio Generum plantarum (1891), comprende sette specie di erbacee perenni o suffrutici, litofite o terrestri, diffuse tra Cina, Myanmar e Vietnam. La specie più nota è la graziosa B. tonkinensis, con foglie ovate e irsute che ricordano quelle delle violette africane e fiori tubiformi e lobati lilla chiaro. Qualche notizia in più nella scheda. Se questi tre generi, tutti appartenenti alla flora del sudest asiatico, sono un omaggio all'attività di esploratore e ricercatore sul campo di Beccari che tanto contribuì a farla conoscere, l'ultimo genere è legato al suo contributo allo studio delle palme, in particolare con Palme del Madagascar (1912). E' infatti endemico proprio del Madagascar Beccariophoenix, creato dai francese Jumelle e Perrier de la Bathie nel 1915, che comprende due-tre specie, ormai rare in natura ma apprezzatissime in coltivazione; sono alte palme spettacolari, piuttosto simili nell'aspetto alla palma da cocco, che possono egregiamente sostituire per la maggiore rusticità. B. alfredii è stata scoperta solo di recente, nel 2002, quando Alfred Razafindratsira, osservando una fotografia di Beccariophoenix scattata sull'altopiano attorno a Andrembesoa, fu colpito dal fatto che esso crescesse in un'area così distante e così diversa sul piano ecologico dalla costa e dalle foreste litoranee in cui abitualmente crescono le altre specie; due anni dopo, una spedizione ritrovò questa e un'altra stazione, confermando che si trattava di una nuova specie, subito battezzata alfredii in onore dell'acume del suo "scopritore". Qualche approfondimento nella scheda. Si devono alla penna di Giovanni Battista Ferrari, gesuita poligrafo e poliglotta, due delle più raffinate opere editoriali del Seicento, cui contribuirono, tra gli altri, artisti del calibro di Piero da Cortona e Guido Reni: Flora seu de florum cultura, uno dei primi trattati di giardinaggio, del 1633, seguito nel 1646 da Hesperides sive de Malorum aureorum cultura et usu, una monografia altrettanto pionieristica sugli agrumi, probabilmente la prima dedicata a un genere. Sfogliarle è una festa per gli occhi, leggerle uno squisito divertimento barocco. Con tante sorprese, come quel "fiore indiano violato scuro" che molti anni dopo verrà ribattezzato Ferraria crispa. Uno sponsor d'eccezione per un'opera straordinaria Nello stagnante panorama dell'Italia secentesca, la Roma dei papi faceva eccezione; non per particolare acume politico o politiche illuminate, ma per la febbre edificatoria che, alimentata da papi e cardinali, trasformò la Città eterna del XVII secolo in un immenso cantiere. E tra chiese e palazzi, si costruivano anche giardini. Anzi una villa fuori porta con giardini scenografici e un angolo segreto riservato alle piante "peregrine", le specie esotiche che arrivavano dalle "Indie", era uno status symbol, la misura del potere e del prestigio. Tra i più preziosi gli Horti Barberini, voluti dal Cardinale Francesco, nipote del papa Urbano VIII. Durante il pontificato dello zio egli fu senza dubbio il personaggio più influente della corte pontificia: come "cardinal nepote" era il segretario di Stato, e accumulò una incredibile quantità di titoli e cariche. Uomo colto, collezionista, cultore della letteratura, della musica e delle arti (tra i suoi protetti anche Bernini), fece del suo palazzo alle Quattro Fontane - allora un'area suburbana - un punto nevralgico della cultura romana. Tra i suoi interessi non mancavano le scienze: creò un museo di scienze naturali e soprattutto trasformò i giardini del suo palazzo in una specie di orto botanico, ricchissimo di piante rare, che gli giungevano soprattutto grazie ai contatti allacciati in Francia durante varie missioni diplomatiche. Quali piante fiorissero in quel giardino ce lo racconta Giovanni Battista Ferrari, un gesuita di origini senesi che fece parte dell'entourage di Francesco Barberini. Orientalista di una certa fama, grazie alla protezione dei Barberini (Francesco, ma anche suo fratello Antonio), Ferrari ebbe libero accesso ai giardini della nobiltà romana e incominciò ad appassionarsi di floricoltura. Si costruì così una cultura enciclopedica sull'argomento, che trasfuse in una vasta opera, Flora seu de florum cultura, pubblicata in latino nel 1633, poi, visto il successo anche europeo, tradotta in italiano e ripubblicata nel 1646 con il titolo Flora overo cultura dei fiori. Alla sua progettazione, contribuì senza dubbio Cassiano dal Pozzo, che, al servizio del cardinal Barberini, lo accompagnò in molte missioni all'estero e esercitò una specie di ruolo informale di Ministro della Cultura di Urbano VIII. Cassiano era a sua volta un grande collezionista d'arte, incluse le tavole botaniche; fu lui, probabilmente, a concepire la parte iconografica di Flora e a mettere in contatto Ferrari (di cui divenne intimo amico) con i più importanti artisti del tempo. Fece anche da tramite con l'ambiente dei Lincei, di cui era membro. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una delle opere editoriali più prestigiose del tempo, un sontuoso in quarto in quattro volumi, con 101 calcografie, che ritraggono piante di giardini, attrezzi, grandi vasi con composizioni floreali e soprattutto molte specie di piante. E' allo stesso tempo un manuale che fornisce informazioni pratiche sull'allestimento di un giardino e sulla coltivazione delle piante, un catalogo delle specie più apprezzate, un ricettario con curiose indicazioni, una guida sui più bei giardini romani, un'opera letteraria. Volendo unire l'utile al dilettevole, Ferrari ha infatti arricchito il suo testo con sette favole allegoriche che mettono in scena gli dei dell'Olimpio e raccontano metamorfosi alla maniera di Ovidio. Ciascuna favola è illustrata da una tavola disegnata da tre tra i maggiori artisti attivi a Roma in quel momento: Guido Reni, Piero da Cortona e Andrea Sacchi (nell'edizione italiana, si aggiungerà Giovanni Lanfranco). La maggior parte delle incisioni si deve a J.F. Greuter. A finanziare la prestigiosa e costosissima opera furono ovviamente i Barberini (cui Ferrari rende ripetutamente omaggio). Le meraviglie barocche di Flora Sfogliamo dunque Flora. Ad aprire il volume è una spettacolare tavola di Piero da Cortona che fa da frontespizio e celebra la gloria della dea Flora. Dopo un'erudita introduzione, seguono indicazioni sull'ubicazione ideale del giardino, sulle siepi che dovranno difenderlo, sulla disposizione delle aiuole e dei sentieri. A illustrare questo capitolo, 7 piante di giardini, incluso un labirinto. Scopriamo come dobbiamo scegliere il cane da guardia (meglio nero: di notte fa più paura ai ladri, e più facilmente li coglierà alla sprovvista), come innaffiare, come disporre i fiori e quando raccoglierli, e così via. Se vi siete mai chiesti perché nei giardini abbondano limacce e bruchi, Ferrari ce lo spiega attraverso la prima e più divertente delle sue favole, dedicata all'improbabile coppia formata dal pigro giardiniere Limace e da suo fratello Bruco, impenitente scalatore di muri e ladro di piante, che un'irata Flora trasforma in Lumaca e Ruca. A completare il primo libro, una rassegna degli arnesi da giardino, indicazioni sui concimi e le terre - qui Ferrari include un excursus sui principali giardini privati romani - e la seconda favola, in cui Flora imbandisce un banchetto floreale agli dei. Per chi, come me, è affascinato dalla storia delle piante, le maggiori sorprese giungono però dal secondo libro. Ferrari vi passa in rassegna i fiori ornamentali indigeni e esotici più ricercati nei giardini del tempo. Scopriamo che i più alla moda erano le bulbose, in una stupefacente quantità di specie e varietà: narcisi (non meno di 36 tipi), crochi, colchici, corone imperiali, tulipani (solo due: a Roma, evidentemente non si erano ambientati), fritillarie, iris, gigli, Orchis, ornitogali, giacinti (altra super star, non meno di 25), ciclamini, anemoni (anch'essi in numerose varietà), ranuncoli, asfodeli, mughetti. A confronto, poche le erbacee perenni (peonie, Lychnis chalcedonica, l'esotica Lobelia cardinalis, sotto il nome di Trachelio americano, numerosi garofani). Piacevano invece le rampicanti: la curiosa Passiflora (Granadiglia), in cui si riconoscevano gli strumenti della passione di Cristo e soprattutto i gelsomini. Gli arbusti si riducono praticamente alle rose. Pochi gli alberi da fiore, soprattutto esotici: peschi e ciliegi doppi, la mimosa, il sommacco, Schinus molle. Se in questi casi le esotiche sono riconoscibili con i loro nomi, più spesso sono celate sotto l'etichetta ingannevole di generi già noti. Sotto il nome di Narciussus indicus riconosciamo così, anche grazie alle dettagliate illustrazioni, Sprekelia, Amaryllis belladonna, Crinum, Haemanthus; e capiamo che, in fondo, indicus vuole dire esotico: se Sprekelia arriva davvero dalle Indie - ovvero dal Centro America - le altre sono sudafricane, giunte a Roma con un tortuoso viaggio attraverso l'Olanda e la Francia. Ugualmente, sotto l'etichetta Hyacinthus si celano non solo Hyacinthoides non-scripta, ma anche Scilla peruviana e varie specie di Muscari. Gelseminum indicum flore Phoeniceo è chiaramente Campsis radicans. Non si sbilanciò invece Ferrari nel nominare il fiore destinato a immortalarlo nella denominazione botanica: è semplicemente Flos indicus e violaceo fuscus, "Fiore indiano violato iscuro". Ne giunse a Roma da Parigi un bulbo mezzo rinsecchito; l'abilissimo appassionato Tranquillo Romauli riusci, in due anni, a portarlo a fioritura. E, come scopriremo tra poco, anche questo fiore indiano non è indiano per niente. Il terzo libro è dedicato alla coltivazione delle piante da fiore: prima una parte generale (molto dettagliato il capitolo sulla lotta agli animali "maggiori" e "minori" che infestano i giardini, soprattutto i topi, da combattere in ogni modo, incluso cacciandoli con una speciale balestra; utile anche un gatto, ma sarà bene sceglierlo tigrato); poi indicazioni specifiche sulla coltivazione delle specie elencate nel libro precedente. A conclusione, un catalogo delle piante esotiche coltivate negli Horti Barberini: molte le abbiamo già incontrate, si aggiungono alcune piante officinali, come la Moringa o il tamarindo, un "fagiolo del Brasile", l'albero del corallo americano (Erythrina corallodendron). Completano il libro una pianta del giardino di Palazzo Caetani di Cisterna e due favole, una dedicata a Flora e alla Luna, l'altra che scomodo addirittura Nettuno per ornare gli Horti Barberini. Il quarto libro è una miscellanea di meraviglie di gusto barocco: le meraviglie dell'arte (che insegna a disporre i fiori, a conservarli, a imitarli, a forzarne la fioritura, a alterarne la forma, il colore, il profumo), ma ancora più le meraviglie della natura stessa, che a sua volta supera l'arte che si è illusa di superarla. Espressione di questa meraviglia è la Rosa della China, che (oh stupore!) nell'arco di una giornata muta il colore dei propri fiori dal bianco al carnicino al rosso. Avrete già capito che si tratta di Hibiscus mutabilis; Ferrari ci informa che i semi erano arrivati a Roma dall'India circa dieci anni prima, avevano prosperato e se ne coltivavano tre tipi: una forma semplice, una doppia e una stradoppia. E tra le tante tavole dedicata alla "Regina delle rose", ce n'è anche una che ne rappresenta i semi visti al microscopio (probabilmente la prima nella storia dell'illustrazione botanica). Nel giardino delle Esperidi Visto il notevole successo dell'opera, probabilmente ancora su suggerimento di dal Pozzo, Ferrari decise di scriverne un'altra, dedicata questo volta agli agrumi, immancabili inquilini dei giardini barocchi e delle loro arancere. Fu un'altra opera enciclopedica, con la stessa formula della precedente: un testo che unisse notizie erudite, favole mitologiche, puntigliose descrizioni delle piante e indicazioni per distinguerne i tipi, dettagliate istruzioni di coltivazione, informazioni di ogni genere sugli usi e gustose curiosità; un apparato iconografico affidato agli artisti più in voga. Il gesuita si mise alacremente al lavoro, ma a venirgli meno fu proprio il finanziatore. Nel 1644 Urbano VIII morì. Seguì la disgrazia di Francesco Barberini, che, messo sotto inchiesta per i modi in cui aveva ingrandito il patrimonio familiare, dovette andarsene in esilio in Francia. Non fu facile per Ferrari trovare un altro finanziatore. Attraverso il pittore Poussin, cercò anche inutilmente di ottenere il sostegno del re di Francia. Alla fine, riuscì a pubblicare Hesperides, sive De malorum aureorum cultura et usu libri IV nel 1646, a spese dell'editore Hermann Scheus. Frutto di un lavoro durato almeno dieci anni, l'opera è forse il primo trattato dedicato a un singolo genere (ovvero a Citrus, cui appartengono gli agrumi). L'apparato iconografico è ancora più sontuoso di quello di Flora: i disegni dai cui furono tratte le incisioni che illustrano le favole mitologiche o raffigurano sculture, bassorilievi, arancere si devono a François Perrier, Nicolas Poussin, Pietro Paolo Ubaldini, Francesco Albani, Andrea Sacchi, Francesco Romanelli, Filippo Gagliardi, Guido Reni, Domenico Zampieri (Domenichino), Giovanni Lanfranco, Girolamo Rainaldi; il frontespizio è di Pietro da Cortona. Non sono firmate le incisioni che raffigurano i fiori e i frutti dei numerosissimi agrumi e arnesi da innesto. Il primo libro, De aditu ad Hesperides ("Ingresso alle Esperidi"), di grande erudizione, è dedicato al mito di Ercole nel giardino delle Esperidi, di cui si ricostruisce la presenza nella letteratura e nell'arte; a conclusione una favola allegorica sul trasferimento delle ninfe Esperidi in Italia. Nei tre libri seguenti gli agrumi vengono classificati in tre grandi gruppi, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sotto la protezione di una delle ninfe Esperidi: i cedri nel secondo libro, Aegle sive malum citreum; i limoni nel terzo, Artehusa sive malum limonium; le arance nell'ultimo, Hesperthusa sive malum aurantium. La medesima struttura ricorre in ciascun libro: prima una discussione sui vari tipi, e gli svariati nomi, dell'agrume trattato, cui segue un minuzioso catalogo delle specie e varietà, illustrate da tavole di eccezionale fattura artistica e grande valore scientifico. Solitamente in alto è riprodotto un ramo con foglie, talvolta fiori, e un frutto maturo, in basso il frutto in sezione; a legare il tutto, un cartiglio in forma di nastro con il nome latino. Talvolta possono esserci anche frutti immaturi, il frutto visto dal basso, o dall'alto, per mostrarne alcune particolarità. Per gli appassionati di agrumi, è un documento eccezionale delle numerosissime varietà che si coltivavano nel Seicento. Seguono poi indicazioni sulla coltivazione, il trapianto, gli innesti, la lotta alle malattie, gli usi (con tanto di ricette) anche presso altri popoli (con una messe di curiose notizie etnografiche). Secondo il gusto barocco per il bizzarro, larghissimo spazio è dedicato alle forme mostruose, che erano particolarmente ricercate dai collezionisti e venivano anche volutamente create attraversi esperimenti di incroci. Al solito, la loro origine è attribuita a mitologiche metamorfosi. Ritiratosi Ferrrari nella natia Siena, dal Pozzo cercò di coinvolgerlo in un terzo lavoro sui pomi, ma il gesuita, ormai stanco e anziano si sottrasse. Morì nel 1655. Quale notizia sulla sua vita nella sezione biografie. Quel fiore indico che non viene dall'India L'illustrazione del flos indicus e violaceo fuscus (con la descrizione che ne dà Ferrari) è la prima attestazione nella letteratura scientifica europea di questa pianta che, come si è detto, era arrivata a Roma dalla Francia. Si rifanno a Ferrari (e non a una conoscenza diretta) il Gladiolus indicus e violaceo fuscus di Robert Morison (Plantarum historiae universalis, 1680) e il Narcissus indicus flore saturate purpureo di Olof Rudbeck (Reliquiae rudbeckianae, 1701). Il primo botanico a studiare dal vivo la curiosa bulbosa, e riconoscerne l'appartenenza a un nuovo genere fu l'olandese Johannes Burman, grande studioso della flora sudafricana, che nel 1761 le dedicò un articolo, comparso negli Atti dell'Accademia Leopoldino-Carolina, dandole il nome di Ferraria. Ma qualche tempo prima aveva comunicato la sua intenzione di creare la nuova denominazione a Philip Miller, che nel 1759 (sia in Figures of Plants sia nella settima edizione di The Gardeners Dictionary) descrisse la pianta, riconoscendo la paternità del nome a Burman. Ecco perché la denominazione completa del genere è Ferraria Burm. ex Mill. Il genere Ferraria, della famiglia Iridaceae, comprende 10-18 specie di cormofite diffuse in aree aride dell'Africa centrale e meridionale. Il maggior numero di specie si concentra lungo la costa occidentale del Sud Africa, preferibilmente in suolo sabbioso. Con l'eccezione di F. glutinosa, che vive nell'Africa tropicale meridionale con estati calde e umide e inverni freddi e aridi, vivono nella zona con piogge invernali e estate arida: in queste condizioni, fioriscono alla fine dell'inverno, poi perdono le foglie e vanno in riposo. I fiori della Ferraria sono davvero particolari: a forma di stella a sei punte, a volte con petali arricciati, hanno colori insoliti (crema, marrone chiaro, bruno, bruno-porpora) e sono spesso macchiettati. Inoltre molte specie emanano un odore sgradevole, che è stato descritto come simile a quello della melassa o dello zucchero caramellato con sentori di decomposizione. Non vi stupirà scoprire che (come le conterranee Stapeliae) queste specie sono impollinate da insetti sarcofaghi. Va detto, però, che per essere un genere così piccolo, Ferraria ha sviluppato strategie di impollinazione differenziate. F. ferrariola ha tepali dai colori delicati, giallo pallido o verde azzurro, quelli esterni con marcature più scure, vere e proprie "guide del nettare" che insieme al profumo dolce con sentori di violetta e di vaniglia attirano irresistibilmente le api. F. divaricata e F. variabilis, pur avendo colori smorti, dal bruno pallido al bruno scuro, uniforme o maculato, non hanno odore; i loro impollinatori sono varie specie di vespe. F. uncinata sembrerebbe invece essere impollinata da due specie di coleotteri. Qualche informazione in più su questo genere indubbiamente affascinante nella scheda. Bartolomeo Maranta, terzo esponente del Rinascimento botanico napoletano, ebbe una vita travagliata e segnata, suo malgrado, dalle polemiche, tanto da essere preso di mira dall'Inquisizione. Più fortunata la sua vita postuma. Ammirati dalla sua opera, notevole e originale nel pur ricco panorama della botanica italiana del tardo Cinquecento, Plumier prima e Linneo poi gli dedicarono un genere destinato a diventare una delle più popolari piante d'appartamento: Maranta, genere tipo della famiglia Marantaceae. Un metodo per riconoscere i semplici Maestro di Gian Vincenzo Pinelli, amico e collaboratore di Ferrante Imperato, il botanico Bartolomeo Maranta del vivace circolo botanico napoletano del tardo Rinascimento fu in un certo senso il teorico. Nato a Venosa, si formò come medico all'università di Napoli, raggiungendo un'altissima reputazione professionale (si dice che fosse in grado di diagnosticare una malattia solo dall'aspetto del paziente, prima ancora di sentirgli il polso) tanto che sarebbe stato nominato medico di corte di Carlo V (forse tra il 1535 e il 1539). Per approfondire le conoscenze botaniche, presumibilmente tra il 1550 e il 1554 si spostò a Pisa per studiare con Luca Ghini. Dal veneratissimo maestro, Maranta apprese le basi della scienza botanica e un approccio innovativo, basato, più che sulla lettura filologica di Teofrasto, Plinio e Dioscoride, sull'osservazione diretta delle piante e delle loro proprietà mediche. Il soggiorno pisano gli fruttò la stima del maestro, che lo considerò il più brillante dei suoi allievi, tanto da lasciargli in eredità le sue carte e il suo erbario. Frutto del soggiorno pisano furono anche l'amicizia con Gabriele Falloppio (altro professore dello studio di Pisa) e con Ulisse Aldrovandi, suo compagno di studi, con il quale intrattenne un'importante corrispondenza epistolare per tutta la vita. Tornato a Napoli nel 1554, divenne il maestro di Gian Vincenzo Pinelli, che gli mise a disposizione l'orto botanico della Montagnola; fu qui, sul campo, che Maranta poté mettere alla prova quanto appreso da Ghini. Il risultato fu Methodi cognoscendorum simplicium libri tres, "Tre libri del metodo per riconoscere i semplici". Il suo non è né l'ennesimo commento a Dioscoride - gli immensi Discorsi di Mattioli avevano ormai esaurito questo filone di ricerca - né un erbario o un prontuario con i semplici ben disposti in ordine alfabetico. Lo potremmo piuttosto considerare il primo trattato di botanica generale. Destinato ai medici, cerca di definire un metodo per riconoscere i semplici citati dagli autori classici (primo fra tutti Dioscoride) o comunque usati nella pratica medica. Grazie a una profonda conoscenza del mondo vegetale, Maranta prende in esame tre criteri, a ciascuno dei quali è dedicato uno dei tre libri. Il primo analizza i nomi e i modi in cui possono aiutare (o talvolta ostacolare) l'identificazione delle piante: troviamo così denominazioni tratte da personaggi reali o mitologici, dal luogo di provenienza, dalle caratteristiche morfologiche o dalle proprietà officinali; i nomi tramandati dai classici o di nuova coniazione; si analizzano gli equivoci che nascono dallo stesso nome attribuito a piante diverse o al contrario dai molti nomi con cui è designata la stessa specie. Il secondo libro è dedicato alla descrizione delle piante, sempre intesa come chiave di riconoscimento; Maranta è ben consapevole che le descrizioni degli autori classici sono spesso parziali e inutilizzabili. Ma soprattutto è attento - sono per noi le pagine più affascinanti - alle infinite variazioni di una stessa specie: la stessa pianta si mostra sotto un aspetto diverso nel corso dell'anno e nelle diverse fasi dello sviluppo; una pianta giovane e vigorosa è diversa da una pianta senescente e in declino, una coltivata è diversa da una spontanea; l'aspetto è influenzato dal terreno, dall'esposizione, dalle contingenze stagionali. Più specificamente medico il terzo libro, dedicato alle proprietà officinali delle piante, anche in questo caso nella consapevolezza che le nozioni tratte dagli antichi vanno verificate alla luce dell'esperienza. Secondo le sue stesse dichiarazioni, Maranta avrebbe scritto i Methodi libri tres su sollecitazione di Ghini (con il quale mantenne un'assidua corrispondenza dopo essere tornato a Napoli); prima di pubblicarlo, avrebbe voluto sottoporlo al giudizio del maestro ma questi nel 1556 morì improvvisamente. Maranta ripiegò su un altro amico, Gabriele Falloppio, che nel frattempo si era trasferito a Padova, dove aveva la cattedra di medicina, anatomia e botanica. Solo dopo l'approvazione di quest'ultimo, pubblicò la sua opera, che uscì nel 1559 a Venezia, preceduta dalla dedica a Pinelli e dal carteggio con Falloppio. Nonostante Maranta nel suo testo si pronunci sempre con grande prudenza, evitando toni polemici, nella piena consapevolezza dell'enorme difficoltà della materia, che ha tratto in errore anche gli studiosi più grandi, l'iracondo Mattioli insorse. Già ingelosito dal fatto che le carte di Ghini fossero andate a Maranta anziché a lui, attaccò con violenza il medico venosino, reo di aver identificato in modo diverso da lui un tipo di felce, la lonchite. Ma il calmo e avveduto Maranta non era il tipo da farsi trascinare in polemiche sterili; così non esitò a scrivere un'Epistula excusatoria (insomma, una lettera di scuse); pace fu fatta e i due divennero amici. Un'avventura peggiore toccò a Maranta nel 1562, quando fu arrestato e trattenuto nelle carceri dell'Inquisizione sospettato di simpatie luterane. Liberato dopo qualche mese, da quel momento si dedicò soprattutto alla critica letteraria. Tuttavia nel 1568, come scrive in una lettera all'amico Aldrovandi, lo ritroviamo a Roma dove era impegnato a impiantare un orto botanico (forse per il Cardinale Branda Castiglioni). L'anno dopo però tornò a Napoli, dove su richiesta del protofisico, sulla base delle ricerche condotte con l'amico Ferrante Imperato, scrisse Della Theriaca e del Mitridato, che gli creò la fama di specialista di antiveleni. Pubblicato postumo nel 1571, anche questo libro era destinato a suscitare roventi polemiche con i medici di Padova. Ma Maranta era già morto da qualche mese. Oltre che illustre botanico, fu anche un fine letterato e un esperto d'arte. Qualche notizia in più nella biografia. Maranta: tuberi alimentari e foglie spettacolari I Methodi libri tres di Maranta non erano certo fatti per diventare un bestseller. Privi di immagini, con quasi 400 pagine fitte di informazioni e osservazioni in un latino brillante ma complesso, arrivarono comunque a una seconda edizione (uscita l'anno stesso della morte dell'autore, con il titolo Novum herbarium sive methodus cognoscendorum omnium simplicium). Grazie a questo testo sapiente e singolare, il nome di Maranta rimase noto ai botanici delle generazioni successive. Nel Settecento, lo svizzero Albrecht von Haller ebbe persino a proclamarlo "l'oracolo dei botanici". Plumier nel 1704 gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, dedica confermata da Linneo in Genera Plantarum (1753). Il genere Maranta, che ha anche dato il nome alla famiglia delle Marantaceae, è nativo dell'America tropicale (centro e sud America, Antille). Comprende 40-50 specie di erbacee perenni rizomatose con grandi foglie sempreverdi intere e piccoli fiori tubolari con tre petali. Due sono le specie più note, per motivi molto diversi. La prima è M. arundinacea, nota con il nome di arrowroot, dai cui tuberi si ricava una fecola alimentare, conosciuta con lo stesso nome; nativa del Messico, dell'America centrale e meridionale, delle Antille, dove è coltivata fin dalla preistoria, è stata introdotta e si è naturalizzata in moltissimi paesi tropicali, dall'Africa all'Asia orientale. Utilizzata in questi paesi nell'alimentazione ordinaria, per la sua eccellente digeribilità da noi è soprattutto impiegata per preparare alimenti leggeri per bambini o ammalati. La seconda è M. leuconeura, una delle più popolari piante da appartamento. Non è coltivata per i fiori, bianchi o violacei e insignificanti, ma per la bellezza delle grandi foglie, caratterizzate da nervature vivacemente colorate che spiccano, talvolta simili a piume, sullo sfondo di colore contrastante o isolano grandi macchie di colore. Curioso è il portamento di queste foglie: nelle ore diurne sono abbassate e distese, in quelle notturne si raddrizzano e si ammassano l'un l'altra. Poiché in quest posizione evocherebbero mani giunte in preghiera, nei paesi anglosassoni sono note come Prayer Plant. Il movimento delle foglie , ovviamente accelerato, è ben apprezzabile in questo video. Sul mercato sono disponibili molte cultivar che si distinguono per i colori e le diverse forme delle variegature. Qualche informazione in più nella scheda. Nel Cinquecento la creazione dei primi orti botanici imprime una svolta allo studio delle piante. Accanto a quelli pubblici, nati in ambito universitario, come quelli di Pisa e Padova, anche giardini privati ebbero talvolta un ruolo nella (ri)nascita dell'interesse per la botanica. Ne è un esempio il giardino della Montagnola, creato a Napoli da Gian Vincenzo Pinelli intorno alla metà del XVI secolo, grazie al quale si formò un vivace circolo di studiosi e appassionati. Un giardino e una corrispondenza internazionale Il nome di Gian Vincenzo Pinelli è noto agli studiosi di Galileo e ai bibliofili. Trasferitosi a Padova dal 1558, attratto da quella celebre università, vi creò una immensa biblioteca che, almeno in parte, venne acquistata dal cardinal Borromeo andando a costituire uno dei fondi più importanti della Biblioteca ambrosiana; raccolse attorno a sé un importante circolo di intellettuali, fu il primo ospite di Galileo che poté avvalersi della sua notevole collezione di volumi di ottica; fu in corrispondenza con il fior fiore degli intellettuali europei. Ma prima di tutto questo, nella sua giovinezza napoletana, Pinelli fu veramente un "giovane meraviglioso". Di salute cagionevole, aggravata da un grave incidente a un occhio, fin da bambino si dedicò attivamente allo studio, acquisendo una cultura vastissima e poliedrica. Le cospicue risorse economiche della famiglia (il padre era un mercante genovese trasferitosi a Napoli per meglio curare i propri interessi commerciali) gli permisero di avere i migliori maestri: il filosofo e letterato napoletano Gian Paolo Vernaglione per la cultura classica e le lingue latina e greca; il celebre compositore fiammingo Filippo de Monte per la musica. I suoi interessi includevano anche le scienze: i problemi di vista lo spinsero a studiare ottica; le piante medicinali esotiche che affluivano al porto di Napoli, uno dei principali del Mediterraneo, lo avvicinarono alla medicina e botanica. Fu così che intorno alla metà del secolo il giovanissimo Pinelli fece impiantare in una proprietà della famiglia fuori delle mura della città, sulla collina dei Miracoli in località Montagnola, un giardino botanico privato, sul modello di quello che pochi anni prima Ghini aveva creato a Pisa. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva specie sia medicinali sia ornamentali, ed era ricco di essenze rare ed esotiche. Forse grazie a Ghini, Gian Vincenzo entrò in contatto con il suo allievo prediletto, Bartolomeo Maranta, che rientrato a Napoli da Pisa intorno al 1555, divenne il suo maestro di medicina e botanica, nonché il curatore del giardino. In realtà, fu un arricchimento reciproco: se Pinelli si giovò della grande competenza di Maranta, quest'ultimo fu stimolato dalle intelligenti conversazioni con il dotatissimo allievo. La frequentazione quotidiana del giardino della Montagnola permise al botanico di mettere alla prova le conoscenze apprese alla scuola di Ghini e di creare un vero e proprio metodo per il riconoscimento dei semplici, esposto in Methodi cognoscendorum simplicum libri tres (1559), che volle dedicare a Pinelli (al tempo ventitreenne). Maranta non era il solo frequentatore di quel favoloso giardino; un altro abituè fu il farmacista Ferrante Imperato che ne ottenne esemplari per la sua collezione e rese omaggio a Pinelli nella prefazione della sua Historia naturale, dove lo celebra come fondatore della scuola naturalistica napoletana. Tuttavia nel 1558 Gian Vincenzo riuscì finalmente a convincere il padre a lasciarlo partire per Padova. Non sappiamo quale sorte avesse il giardino dopo la sua partenza; pare che per qualche tempo fosse affidato alla cura di Maranta che tuttavia a sua volta lasciò Napoli a più riprese (e per un certo periodo, nel 1562, subì anche il carcere dell'Inquisizione). Probabilmente, lontani il proprietario e il curatore, il giardino languì e fu abbandonato. Non di meno, anche a Padova Pinelli continuò a interessarsi di scienze naturali; oltre alla ricchissima biblioteca, considerata la maggiore del tempo, creò anche una collezione di antichità e di storia naturale; anche la casa padovana aveva un giardino ricco di piante rare. Soprattutto, fu l'animatore di una rete di studiosi europei, che consentì di collegare gli esponenti dell'umanesimo e della ricerca scientifica italiana con gli studiosi d'oltralpe. La sua stessa casa - meta irrinunciabile degli intellettuali stranieri in visita in Italia - divenne in un vero centro di smistamento da cui transitavano lettere, libri, pacchi di reperti. Ad esempio, Imperato si rivolse a lui per far pervenire un pacco (che conteneva tra altri esemplari una collezione di semplici essiccati) al botanico tedesco Camerarius; e a Pinelli fece spesso ricorso per procurasi reperti rari per il suo museo. Fu sempre Pinelli a mettere in contatto Clusius con Imperato e Aldrovandi. Anche Gessner e i fratelli Bahuin furono tra i suoi contatti. Dopo aver fondato in giovinezza un giardino, nella maturità Pinelli fu dunque uno dei principali tramiti tra la botanica italiana e quella europea. Questi i suoi meriti botanici; qualche informazione in più sulla vita del poliedrico erudito, che fu cultore di molte materie ma non scrisse neppure un libro, nella sezione biografie. Pinellia, un drago verde dalla Cina Al fervore di studi della Napoli rinascimentale, seguì una lunga pausa. Bisognò attendere il Settecento perché rifiorissero gli studi di botanica e addirittura il 1807 perché Napoli avesse il suo orto botanico. Per una singolare coincidenza, sorse proprio in località Montagnola, dove 250 anni prima Pinelli faceva coltivare il suo orto dei semplici. Se ne ricordò Michele Tenore, primo prefetto dell'orto napoletano, nell'agosto del 1839, quando creò un nuovo genere, staccandolo da Arum. Nella comunicazione all'Accademia reale delle scienze si dichiara deciso a imitare l'esempio dei botanici di tutte le nazioni che quasi ogni giorno creano nomi in onore dei "più distinti cultori della scienza delle piante". Quindi aggiunge: "Di simili omaggi noi scrittori della Penisola mostrar ci dobbiamo più teneri, come quelli che meno frequenti occasioni avendo di tributarli, una schiera non meno numerosa d'illustri nomi negli annali della scienza registrati troviamo, che ne attendono tuttora il meritato favore". La sua scelta cadde dunque su Pinelli, di cui Tenore ricorda i meriti come fondatore del giardino della Montagnola, prima istituzione di questo tipo in Napoli. Nacque così il genere Pinellia della famiglia Araceae. Pinellia è un piccolo genere endemico dell'Asia orientale (Cina, Corea, Giappone) che comprende nove specie, con centro di biodiversità in Cina. Alcune di esse sono relativamente conosciute anche da noi come piante ornamentali, prima fra tutte la famigerata P. ternata. Famigerata perché questa erbacea, per quanto bella e gradevole, si dimostra fin troppo espansiva e volonterosa, tanto da essere ormai considerata una pericolosa infestante. Così, l'anno scorso l'orto botanico di Torino ha chiamato a raccolta amici, studenti, volontari per eradicarla dalle sue aiuole. Eppure in Cina è una specie di notevole importanza etnobotanica, utilizzata nella medicina tradizionale nel trattamento di svariate malattie. Più controllabili e (a mio parere) più attraenti altre specie: in particolare la giapponese P. tripartita, con foglie trifogliate con venature molto evidenti e uno spadice lunghissimo, verde acido, che le ha guadagnato il nome di Green Dragon. Notevole anche il fogliame di P. pedatisecta, che forma una grande ventaglio di lunghe foglioline lanceolate, di aspetto molto esotico. Un po' meno diffusa è la piccola P. cordata, che in alcune varietà ha foglie a freccia o cuoriformi piacevolmente marmorizzate. Qualche approfondimento nella scheda. La prima immagine a stampa (1599) di una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, immortala il Museo di Ferrante Imperato, farmacista napoletano, collezionista, studioso di scienze naturali con particolari interessi per la geologia, creatore di un immenso, misterioso e sfortunato erbario. A fine Settecento, l'ancor più sventurato botanico napoletano Domenico Cirillo gli dedicherà il genere Imperata. Un grande museo napoletano Nel Cinquecento, con la rinascita degli studi naturalistici, inizia anche il collezionismo dei naturalia, oggetti più o meno rari e curiosi tratti dai tre mondi della natura (minerali, animali, piante). Le prime collezioni private, note come "Teatri della natura", furono create da scienziati, medici e farmacisti. Nate a scopo di studio, furono comunque segnate dal gusto del meraviglioso, dell'esotico e dello stravagante. Quale aspetto potessero avere lo vediamo dall'illustrazione che apre l'Historia naturale di Ferrante Imperato, creatore di un celebrato museo presso la sua abitazione napoletana (che si trovava in piazza santa Chiara, nei pressi di palazzo Gravina, e non nello stesso palazzo, come si dice in molti siti). L'immagine ci mostra tre pareti della sua "camera delle meraviglie"; su quella di sinistra, e in parte su quella di fondo, illuminata da una grande finestra, una elegante scaffalatura in legno custodisce scatole, sacchetti e boccette; sulla parete di fronte, una libreria con imponenti volumi in folio; nella parte alta delle scaffalature, uccelli impagliati; la parete di fondo e il soffitto sono letteralmente tappezzati di animali, soprattutto marini, tra tutti spicca un coccodrillo. In primo piano, sulla destra un giovane (probabilmente Francesco, figlio di Ferrante Imperato) mostra la collezione a due visitatori, elegantemente vestiti alla spagnola. Sul fondo, un po' in disparte, un quarto personaggio, che potrebbe essere un terzo visitatore o lo stesso Ferrante Imperato (è vestito con la stessa pomposa eleganza dei "turisti", ma non porta la spada, privilegio dei nobili). Insieme a quelli allestiti da Ulisse Aldrovandi a Bologna e da Francesco Calzolari a Verona, il museo napoletano di Imperato era noto in tutta Europa ed era meta di numerosi visitatori. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva dodicimila reperti tratti dai tre regni della natura (minerali, fossili, pietre preziose e gemme, terre, coloranti, conchiglie, animali imbalsamati, pesci e animali marini essiccati, oli, inchiostri, profumi, balsami e resine, erbe secche e semi) e alcuni artificialia, oggetti curiosi creati dall'uomo, che Imperato parte aveva raccolto personalmente nei suoi viaggi nel sud d'Italia, parte aveva acquistato alla fiera di Francoforte - che a quanto pare frequentò assiduamente -, parte aveva ottenuto come dono o in scambio da altri membri della grande rete che raccoglieva i naturalisti europei. Fondato probabilmente intorno al 1566 - come si deduce dal contratto con gli stipettai che realizzarono i mobili - nacque dapprima dalla stessa professione di farmacista. Lo speziale-farmacista, un professionista che non aveva formazione universitaria ma un vasto sapere pratico, acquisito dopo un lungo apprendistato regolato dagli statuti della propria corporazione, preparava le medicine prescritte dai medici, partendo dai semplici: non solo erbe, spezie e altri prodotti di origine vegetale come resine e balsami, ma anche minerali e persino alcuni animali (la carne di serpente era un ingrediente indispensabile della celebre teriaca). La sua bottega includeva perciò un vero e proprio laboratorio, con mortai, alambicchi e altre attrezzature per pestare, impastare, distillare i preparati "galenici". Non si vendevano solo droghe medicamentose, erbe medicinali e preparati farmaceutici, ma anche quei prodotti che in futuro spetteranno al droghiere: spezie alimentari; candele, cera, miele, zuccheri e conserve; carta, inchiostro e colori per la pittura; insetticidi e veleni per i topi; profumi, acque distillate e belletti... Non stupisce dunque che due farmacisti di successo come Imperato e Calzolari abbiano trasformato le loro botteghe in veri e propri musei. Le due istituzioni erano piuttosto simili: entrambe si trovavano al primo piano, sopra il negozio, comprendevano una galleria di ritratti di scienziati illustri e la vera e propria camera delle meraviglie; quello di Imperato comprendeva anche un terrazzo con un piccolo giardino botanico pensile. Sia Calzolari sia Imperato erano inseriti nel circuito dei naturalisti europei e italiani, da cui ricevettero molti materiali per le loro collezioni, e godevano di un notevole prestigio personale. Ma mentre il veronese si accontentò di essere un farmacista, Imperato nutriva maggiori ambizioni; la sua bottega era un vero e proprio laboratorio, in cui lui stesso e altri studiosi potevano condurre ricerche e esperimenti. Celebre la sua collaborazione con Bartolomeo Maranta, il cui frutto fu Della theriaca et del mithridato libri due, firmato dal solo Maranta ma nato dal sodalizio scientifico tra i due. Come naturalista, l'interesse principale di Imperato andava ai minerali e alla geologia: osservatore attento del territorio campano, studiò gli affioramenti geologici, descrisse con esattezza le serie stratigrafiche osservate nelle cave di pozzolana, comprese e spiegò correttamente la natura dei fossili, il ruolo delle acque nel modellamento nel terreno, l'origine della salinità marina. Espose le sue ricerche in un vasto trattato, Dell'Historia naturale, pubblicato nel 1599 a cura del figlio Francesco, in cui studiò terre, acque, aria, minerali, metalli, erbe e animali soprattutto dal punto di vista della loro utilità per l'uomo. Alle citazioni degli autori del passato vi affianca i risultati delle sue osservazioni, spesso in dissenso con le idee ricevute e ricche di intuizioni corrette. Un erbario leggendario e sfortunato A fare la parte del leone nel trattato sono le terre, i minerali, i metalli. A animali e piante, forse per non entrare in competizione con ammirati studiosi come Mattioli, Imperato dedicò solo gli ultimi due libri; vi compiono una manciata di piante per lo più officinali, nuove, di identificazione discussa o poco note. Ad esempio, vi troviamo una delle prime segnalazioni della melanzana rossa (Solanum aethiopicum). Eppure la botanica rientrava tra gli interessi principali del poliedrico studioso e il suo erbario costituiva uno dei punti di forza del Museo. Ci sono giunte informazioni contrastanti sulla sua consistenza: le piante, sistemate su fogli di carta di formato in folio con un particolare trattamento che conservava i colori naturali, erano raccolti in grandi volumi, dieci secondo alcune testimonianze, 80 secondo altre. Dopo la morte di Imperato (avvenuta dopo il 1615), il figlio Francesco ne custodì l'eredità, incrementando addirittura le raccolte. Le generazioni successive tralasciarono invece il museo: le collezioni furono abbandonate e disperse, probabilmente anche in seguito all'epidemia di peste che devastò Napoli nel 1656. Nel Settecento i 9 volumi superstiti del grande erbario pervennero a Sante Cirillo, medico, botanico, membro della Royal Society, che li trasmise al nipote, il grande botanico Domenico Cirillo. Costui partecipò attivamente alle vicende della Repubblica partenopea; dopo il crollo della repubblica e il rientro dei Borbone, fu arrestato, processato e condannato a morte. Il giorno stesso della sua esecuzione, il governo borbonico permise a una folla di fanatici sanfedisti di saccheggiarne la casa, distruggendo molti scritti e materiali scientifici di inestimabile valore, incluso l'erbario di Imperato. Fortunosamente, si salvò un solo volume, che pervenne a uno storico locale, Camillo Minieri Riccio, e nella prima metà dell'Ottocento fu venduto alla Biblioteca nazionale di Napoli, dove è oggi custodito. Il volume superstite, di 536 pagine, comprende 442 esemplari. Supponendo vera l'informazione secondo la quale l'erbario originariamente fosse composto da 80 volumi, e ipotizzando che ciascun volume fosse di dimensioni analoghe, si arriverebbe alla favolosa cifra di 35.000 esemplari secchi. Per capirne l'enormità basti pensare che il coevo erbario di Cesalpino (del 1563) contiene 768 esemplari e quello di Caspar Bauhin (il più grande dell'epoca) ne raccoglieva circa 4000. Anche se la cifra fosse fantasiosa, e fosse da accettare l'ipotesi più prudente di 10 volumi, l'erbario rimarrebbe comunque il più imponente del suo tempo. Testimonianze dell'epoca ci dicono che era ricco di piante esotiche, ottenute da altri studiosi o acquistate a grande prezzo; Imperato avrebbe addirittura finanziato un viaggio in India per procurarsene alcune. Per maggiori informazioni sulla vita di Imperato, si rimanda alla biografia. Imperata, una bella invasiva Parti dell'erbario di Cirillo sfuggirono alla devastazione sanfedista e passarono al botanico Vincenzo Petagna (1730–1810). Mescolati ad essi, si trovano circa 170 esemplari di provenienza sconosciuta, che in base a recenti analisi potrebbero aver fatto parte dell'erbario di Imperato. Alcuni di essi sono storicamente importanti, perché costituiscono i tipi su cui si basò Cirillo per stabilire denominazioni binomiali, alcune delle quali ancora accettate. Fu proprio su uno di questi esemplari (da lui denominato Imperata arundinacea, oggi I. cylindrica) che Cirillo stabilì il genere Imperata, dedicato all'illustre predecessore, pubblicato nel secondo volume di Plantarum rariorum regni neapolitani (1788-1792). Imperata è un piccolo, ma diffuso genere di erbe tropicali e subtropicali (famiglia Poaceae). Sono erbe perenni rizomatose, con steli solidi, eretti e infiorescenze setose, cui si deve il nome comune inglese satintail "coda di raso". Oggi le si attribuiscono undici specie, diffuse nelle Americhe, in Asia,in Africa, in Micronesia e in Papuasia, dopo il distacco di altre specie, assegnate a generi affini (Miscanthus, Saccharum, Lagurus, Cinna). La specie più nota, I. cylindrica, è ubiquitaria: originaria dell'Asia, del Sud Africa e delle isole del Pacifico, è stato introdotta nell'Europa meridionale e in America, dove spesso si è naturalizzata, diventando a volte invasiva. Nei paesi originari è invece una specie di estrema utilità: è estesamente utilizzata per consolidare aree litoranee sabbiose e altri terreni franosi; gli steli secchi sono utilizzati per ricoprire i tetti, intrecciare tappeti e borse, fare la carta. Alcune cultivar sono coltivate per il valore ornamentale; la più diffusa nei giardini è la giapponese I. cylindrica 'Red Baron', con foglie rosse. Qualche informazione in più nella scheda. Imperato è anche ricordato da una specie di zafferano, Crocus imperati, endemismo presente esclusivamente nell'Italia centrale e meridionale. Se pensate che le calceolarie si chiamino così perché i loro singolari fiori assomigliano a una pantofola, in latino calceolus, non sbagliate. Ma molto probabilmente, il vecchio Linneo (e prima di lui il padre Feuillée) volle fare un gioco di parole e prendere due picconi con una fava: chiamò quel genere di piante sudamericane Calceolaria non solo per la forma dei loro fiori, ma per rendere omaggio a un altro protagonista della botanica rinascimentale, il farmacista veronese Francesco Calzolari. Esplorando il Giardino d'Italia Parlare di Francesco Calzolari vuol dire parlare del Monte Baldo. Il Baldo è un massiccio montuoso che separa il lago di Garda e la provincia di Verona dal Trentino, il bacino del Mincio da quello dell'Adige, celebre per la grande varietà floristica, che gli ha guadagnato il soprannome di Hortus Italiae, il giardino d'Italia. E' una sorta di orto botanico naturale in cui si susseguono almeno quattro fasce floristiche e climatiche: la fascia mediterranea, estesa lungo le rive del Garda, con la coltivazione dell'olivo e degli agrumi e essenze tipicamente mediterranee, come il leccio, l'alloro, il rosmarino, lo scotano; la fascia montana caratterizzate da boschi di faggio, tiglio, carpino nero, abete bianco, larice e peccio, e più in alto, oltre i 1000 metri, praterie ricche di erbe; la fascia boreale, dominata dal pino mugo e caratterizzata da fioriture vistose e dalla presenza di molti endemismi, come l'anemone del Baldo, Anemone baldensis; la fascia alpina, la più elevata, con la vegetazione rupestre delle cime più alte, tra i 2000 e 2200. La varietà di altitudine, esposizione e suolo crea un'infinità di microclimi e nicchie ecologiche più o meno vaste, ciascuna con una flora caratteristica; ma facciamolo raccontare da Francesco Calzolari stesso: "Cotanta è poi nello stesso monte la varietà dei luoghi e delle cose, che troppo lungo sarebbe tutte con ordine ricordarle. Imperciocchè vi sono valli non picciole in esso di vivo masso, erte, e inchinate, e scheggiose, e forte sparute; così viceversa praterie di pascoli assai pingui ed ampie, smaltate di varia spezie d'erbe e di fiori, e alcune di loro piane ed ombrose, ed altre inchinate ed apriche. [...] E per non dilungarmi lascio da parte le frondose e folte selve di faggi, di querce e d'elci, e alcune di soli castagni, et altre in cui vengono i silvestri pini, i larici e gli altissimi abeti. Del resto che dirò del variare dell'aria e del cielo! Cose mirabili certamente! conciossiachè quelli che tutta cotesta montagna van discorrendo, provan dell'aere, anche a brevi intervalli, grande variazione; per modo che sembra a parecchi di aver cambiato clima, non che paese, e ciò perché questa parte è volta al levar del sole, quella al cadere; alcuna dal sole è abbruciata, ed altra a perpetua ombra soggiace. Qua il sito è freddo in tutta la state per neve e per gielo; là poi per calore divampa. A certe altre parti quasi per tutto l'anno v'ha una temperatura da primavera; per la quale la diversità di luoghi e di siti la cotanto diversa copia di piante in questo terreno germoglia, che non più in nessun altro d'Italia." Di questo orto botanico naturale, Francesco Calzolari si autonominò esploratore e prefetto. Erede di una ben avviata farmacia che sorgeva proprio sulla piazza delle Erbe di Verona, allievo e amico di Luca Ghini, sulle pendici del Baldo andò a cercare le erbe medicinali che altri coltivavano negli orti botanici, con le quali mise a punto una teriaca, elogiata da Mattioli. In contatto con molti dei bei nomi della botanica rinascimentale italiana, organizzò molte spedizioni di esplorazione scientifica della montagna, la più celebre delle quali avvenne nel 1554 e vide la partecipazione, insieme a Calzolari, di Ulisse Aldrovandi, Luigi Anguillara e Andrea Alpago. Una dozzina di anni dopo (1566) l'esperienza si tradurrà nel più noto scritto di Calzolari, Il viaggio di Monte Baldo, una specie di guida floristica del massiccio montuoso, con un puntiglioso elenco delle sue specie e della loro localizzazione. E' un'operina di appena 16 pagine, famosa per essere la prima flora locale in cui si indica l'habitat di ogni specie; qui e nelle sue lettere, il farmacista veronese nomina ben 450 specie diverse che crescevano tra Verona e la cima del Baldo. Una ricchezza che permane: nel bel sito del Parco naturale del Monte Baldo ne sono fotografate e descritte 104. All'esplorazione del monte Baldo (un'area ricca anche di fossili e particolari formazioni geologiche) risale anche la passione di Calzolari per la raccolta di oggetti naturalistici. Nel corso degli anni egli mise insieme un'imponente collezione che sistemò al primo piano della sua abitazione, sopra il negozio di speziale, un vero e proprio museo suddiviso in tre locali: il primo conteneva i ritratti dei più importanti scienziati e medici del suo tempo; il secondo vasi e alambicchi per la distillazione; il terzo, il museo vero e proprio, con spezie, piante, minerali, fossili e curiosità naturali di vario tipo sistemati in teche bene ordinate o appesi scenograficamente al soffitto. Visitato e ammirato dagli scienziati in visita a Verona, il Museum Calceolarium fu uno dei più importanti gabinetti di curiosità del Rinascimento italiano, accanto al Teatro della Natura di Aldrovandi, al Museo allestito a Napoli da Ferrante Imperato, alle collezioni naturalistiche del Granduca di Toscana. Al Baldo è legata anche la pagina più tragica della vita del farmacista veronese: mentre su "alte et asprissime pendici" del monte era alla ricerca di erbe rare per la farmacia paterna, il figlio maggiore, Angelo, a soli 28 anni morì in seguito a uno dei primi incidenti alpinistici ricordati dalla letteratura, dopo venti giorni di penosa agonia. Altre informazioni sulla vita di Calzolari nella sezione biografie. Calceolariae, scarpette dai colori del sole Il genere Calceolaria fu creato da un sacerdote francese, Louis Feuillée, che tra il 1708 e il 1711 esplorò l'America meridionale. Nell'Histoire des plantes medicinales qui sont les plus en usages de l'Amérique meridionale, descrisse due specie cilene: Calceolaria salviae (probabilmente da identificare con C. integrifolia) e C. foliis scabiosae (presumibilmente C. tomentosa). Feullée aveva in mente la forma del fiore, simile a una babbuccia, ma intendeva anche rendere omaggio a Calzolari (la forma latina del cui cognome è Calceolarius). Nel 1770, in Sistema naturae, Linneo riprese e ufficializzò il nome, e il gioco di parole: a forma di pantofola / dedicata a Calzolari. Il genere Calceolaria, un tempo assegnato alla famiglia Scrophulariaceae, oggi appartiene a una famiglia propria (Calceolariaceae); molto vasto, comprende circa 250 specie americane, distribuite tra il Messico meridionale e la Terra del fuoco, e nettamente distinte in due gruppi: il primo, distribuito dal Messico al Perù, comprende specie tropicali, per lo più andine; il secondo, presente in Cile e Argentina, comprende specie rustiche delle regioni temperate e fredde; alcune specie di particolare fascino vivono nella fredda Patagonia e si spingono addirittura nelle isole Falkland; quelle più note sono erbacee, annuali e perenni, ma alcune sono arbusti alti anche 4 metri. Nei nostri giardini sono presenti soprattutto due gruppi di ibridi: le bizzarre e coloratissime Calceolariae erbacee, note come C. x herbeobryda, con vistosi fiori a palloncino nei colori più caldi e solari (giallo, arancio, rosso, mattone, talvolta bicolori, picchettati e screziati) coltivate soprattutto in vaso o in appartamento; i più alti e robusti ibridi arbustivi C. x fruticohybrida con fiori più piccoli, gialli, utilizzati per lo più come piante da aiuola. Purtroppo sono meno diffuse le perenni rustiche di origine cilena e argentina, alcune delle quali sono esigenti piante da collezionisti da riservare alle serre alpine, ma altre, almeno nel nord Italia, si adatterebbero molto bene alla coltivazione in giardino roccioso, purché protette dalle piogge invernali. Curiose e inconfondibili per la singolare forma dei fiori, le Calceolariae sono anche interessanti per alcune particolarità biologiche; il labbro inferiore della corolla di molte specie (circa l'80 % del genere) è dotato di tricomi ghiandolosi, detti eleofori, che secernono oli non volatili, ricercati come ricompensa dagli impollinatori, gli imenotteri del genere Chalepogenus. Le Calceolariae sono tra le poche angiosperme a utilizzare questa strategia di impollinazione e a produrre questo tipo di oli. Altre informazioni nella scheda. Il nome di Aldrovandi è di quelli che tutti hanno sentito nominare, ma pochi conoscono in modo diretto. L'immensa opera di colui che per quarant'anni a Bologna tenne la prima cattedra di storia naturale, più che nelle pochissime opere a stampa, in cui l'erudizione e le notizie più diverse soffocano i pochi risultati scientifici originali, trovò espressione essenzialmente nel "Teatro della natura", il più antico museo di storia naturale. Ma se la sua Syntaxis plantarum fosse stata pubblicata, forse la storia della botanica sarebbe in parte diversa. A ricordarlo una carnivora acquatica, diffusa in tutto il mondo, ma a rischio di estinzione. Il grande "Teatro" di un naturalista enciclopedico Bologna, 1549. Un gruppo di cittadini bolognesi incappa in un'accusa di eresia; tra di loro il nobile e colto Ulisse Aldrovandi, che si affretta ad abiurare. Ciò nonostante, è inviato a Roma dove è costretto a trattenersi in attesa del processo. Per passare il tempo, incomincia a interessarsi di archeologia ma soprattutto fa amicizia con un medico francese, Guillaume Rondelet, che si trova a Roma al seguito del cardinale di Tournon. Rondolet, padre fondatore dell'ittiologia, trascina il nuovo amico nelle sue scorribande nel mercato ittico; travolto dal suo entusiasmo, Aldrovandi (che fino ad allora aveva studiato diritto, matematica, logica, filosofia, ma anche medicina) incomincia ad appassionarsi di scienze naturali. Liberato da ogni sospetto d'eresia, quando finalmente rientra a Bologna, decide di completare gli studi medici e di approfondire la zoologia, la mineralogia, la botanica. Una decisione che sarà rafforzata l'anno successivo da un secondo incontro: quello con il grande Luca Ghini che nell'estate del 1551 trascorreva le vacanze a Bologna. Nasce così la vocazione di scienziato universale di Ulisse Aldrovandi, uno dei più illustri studiosi della natura del Cinquecento italiano. Presso l'ateneo bolognese fu lettore di logica dal 1554, insegnante di botanica medica dal 1556, e dal 1561, per quasi quarant'anni (fino al 1600) titolare della prima cattedra di scienze naturali (lectura philosophiae naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus). Si noti che, diversamente da quanto avveniva in quegli anni negli altri atenei, non era una cattedra di "materia medica", cioè di botanica applicata alla medicina, ma proprio l'insegnamento a tutto tondo delle scienze naturali. Un'altra novità si aggiunse almeno dal 1567, quando Aldrovandi prese a far seguire le lezioni accademiche da esercitazioni pratiche, basate sull'osservazione diretta di esemplari naturalistici ("mostrando realmente le cose, doppo il legger che haveva trattato nella lettione"). Nacque così il più antico museo di storia naturale: nel corso di un cinquantennio, Aldrovandi raccolse nella sua stessa casa un'imponente collezione di naturalia; proprio per il focus sul mondo naturale e gli intenti didattici, era ben diversa dai gabinetti principeschi e delle Wunderkammer che nascevano proprio in quegli anni. Con orgoglio, Aldrovandi ci informa che nel 1595 la sua collezione comprendeva 18.000 esemplari, tra cui 7000 piante essiccate "agglutinate" (cioè incollate) in quindici volumi, animali, minerali, pietre, 66 cassettiere con 4500 cassetti contenenti semi, frutti, gomme, fossili, oggetti esotici. Nella coscienza dell'importanza didattica dell'immagine, ma anche per colmare i "buchi" della collezione (un microcosmo che mirava a riprodurre, nel modo più completo possibile, il macrocosmo), Aldrovandi volle aggiungere 3000 splendidi acquarelli, raccolti in 17 volumi, e 5000 matrici xilografiche conservate in 14 armadi. Le matrici, realizzate con estrema accuratezza da artisti dotati, avrebbero dovuto andare a illustrare un'immensa Historia naturalis, che lo studioso bolognese continuò a scrivere per tutta la vita ma che, come vedremo meglio, pubblicò in ben piccola parte. Tutto questo, insieme ai volumi della ricca biblioteca e i suoi stessi manoscritti, andava a formare un mirabile "Teatro della natura" che divenne ben presto, oltre che uno strumento didattico, un'attrazione che richiamavano visitatori da tutta Europa: nel corso della vita dello scienziato, come risulta dal registro dei visitatori, furono più di 1500, sempre accolti con disponibilità e calore, secondo la testimonianza dell'olandese Hugo Blotius, bibliotecario imperiale, che la visitò ammirato nel 1572. Frutto di cinquant'anni di fatiche e di grandi spese (in una lettera al fratello, il naturalista dichiara di avervi investito tutto il proprio patrimonio), il "Teatro della natura" venne realizzato in primo luogo con una mirata attività di raccolta diretta. Fin dagli anni degli studi, Aldrovandi organizzò numerose spedizioni naturalistiche; le più celebri sono l'escursione dell'estate 1554, che, insieme a Calzolari e Anguillara, lo portò sulle pendici del monte Baldo, ancora oggi noto come "giardino d'Europa" per la grande varietà di vegetazione; e la grande spedizione del 1557, quando insieme ai suoi allievi percorse un ampio giro che, a partire dalle valli ravennati, lo portò fino ai monti Sibillini, quindi sulla via del ritorno lungo l'appennino marchigiano e romagnolo. Secondo Anna Pavord, questo viaggio segnò una tappa nella storia della botanica, perché fu la prima escursione naturalistica appositamente organizzata allo scopo di esplorare sistematicamente la flora di un'area specifica. Altri esemplari furono donati da sponsor e corrispondenti, in particolare i membri di quella stupefacente rete di studiosi che nel Rinascimento collegava tra loro i naturalisti europei e, nonostante le guerre e le infinite difficoltà di viaggi che avvenivano ancora a cavallo, in carrozza, ma spessissimo a piedi, produceva un incessante scambio di libri, semi, piante essiccate, minerali e... idee. Diverse piante esotiche erano coltivate nell'Orto botanico della stessa università di Bologna, che venne creato dal senato bolognese nel 1568 (quarto dopo Pisa, Padova e Firenze) su istanza di Aldrovandi che ne fu il curatore fino alla morte. Altre notizie sulla vita del grande studioso nella sezione biografie. L'eredità botanica di Aldrovandi In questo blog abbiamo incontrato già molti esempi di opere importanti e innovative che, mai pubblicate, rimasero manoscritte a coprirsi di polvere negli scaffali di una biblioteca. La sorte delle opere di Aldrovandi fu, forse, ancora peggiore. Nella sua vita scrisse moltissimo; le sue opere manoscritte ammontano a più di 300, per un totale di oltre 160 volumi. Solo 14 furono pubblicate. Genio universale e enciclopedico, Aldrovandi scrisse di molti argomenti, anche non attinenti alle scienze naturali (la sua prima opera a stampa, dedicata alla statuaria romana, è uno dei primi esempi della rinascita dell'interesse per l'archeologia); molte opere sono compilazioni antiquarie, che lasciano largo spazio alle favole e al gusto del meraviglioso; moltissimi sono cataloghi di vario tipo. Si tratta per lo più di lavori preparatori alla progettata Storia naturale, che avrebbe dovuto toccare tutti gli aspetti della natura. Come possiamo evincere dalle tre parti direttamente pubblicate dall'autore o dalla sua vedova (i volumi sugli uccelli, gli insetti e gli altri animali "senza sangue"), similmente alla quasi contemporanea Historia animalium di Gessner (che fu tra i corrispondenti del bolognese), essa si collocava a cavallo tra passato e futuro; da una parte c'è l'enciclopedismo, il tributo alla cultura antica, il gusto antiquario, che li infarciscono di citazioni e informazioni tratte in modo apparentemente acritico dagli autori del passato; dall'altra la ricerca diretta sulla natura che si traduce in preziose osservazioni sull'anatomia e la fisiologia di ciascun animale. Fu questa commistione di naturalismo e gusto antiquario che fece giudicare severamente Aldrovandi da Buffon, secondo il quale, sfrondandola di tutte le informazioni inutili e estranee, la sua opera si sarebbe potuta utilmente ridurre a un decimo. In effetti vi si riconosce una concezione della conoscenza diversa da quella del Settecento illuminista o dei nostri giorni: l'opera di un Aldrovandi o di un Gessner è espressione dell'ideale rinascimentale della copia, parola latina che indica l'abbondanza, la ricchezza, espressa iconograficamente dall'immagine della cornucopia. L'obiettivo dello studioso rinascimentale è quello di presentare, nel modo più esaustivo possibile, ogni possibile informazione sul proprio soggetto, quindi tutto ciò che è stato scritto, tutto ciò che si crede comunemente, oltre a tutto ciò che si è osservato con i propri occhi. Ecco perché ai dati naturalistici direttamente osservati e osservabili si affiancano in modo così massiccio informazioni culturali di ogni genere, comprese le favole e il meraviglioso. Già segnata da questa concezione, che sarebbe stata ben presto superata da Galileo e dalla sua scuola, la fama futura di Aldrovandi fu ancor più danneggiata dalla pubblicazione postuma di alcune opere in forma largamente alterata. E' il caso dell'unico lavoro edito dedicato al mondo vegetale, Dendrologia, pubblicato nel 1667 da Ovidio Montalbani, uno scrittore particolarmente incline al fantastico. E' a un'opera come questa (e alla celebre Monstruorum historia, pubblicata nel 1642) se allo scienziato bolognese è toccato di passare alla storia, oltre che come un pedante collezionista di citazioni antiquarie, come un credulone acriticamente convinto della reale esistenza di draghi, basilischi, sciapodi, cinocefali e sirene. Inedita rimase invece la maggiore opera botanica di Aldrovandi (che, consapevole del suo valore, ne raccomandò inutilmente la pubblicazione nel testamento), la Syntaxis plantarum. E' un manoscritto in due volumi, per un totale di più di 1000 carte, collocabile tra il 1561 e il 1600, che consiste in una raccolta di 1700 tavole sinottiche, in cui le piante vengono descritte, catalogate e confrontate tra loro in tabelle collegate a disegni. Ciascuna tavola è strutturata in base a un criterio di classificazione o "chiave" in ordine gerarchico, stabilendo classi, generi e specie, allo scopo di individuare categorie comuni alle "diciotto mila specie diverse" osservate da Aldrovandi. Molte tavole sono dedicate agli organi principali delle piante, per esempio i frutti, i semi, le radici, il fusto; quelle più complesse riguardano i fiori, con chiavi come il numero, il colore, le differenze esterne degli stami e delle antere. Altre si basano su caratteristiche fisiologiche, come il tempo della fioritura, sulla base del quale viene anche compilato un calendario mensile; le tavole in cui le piante vengono divise in base alla stazione in cui vivono e alla distribuzione geografica fanno di Aldrovandi un antesignano della fitogeografia. Come Cesalpino, un altro discepolo di Ghini, Aldrovandi giunge così a proporre un proprio sistema di classificazione. Egli divide le piante in "perfette" e "imperfette" e individua 17 gruppi, a partire dagli alberi per giungere agli "imperfecti" (piante senza semi, cioè in gran parte funghi), usando sei chiavi principali: natali loco, vivendo conditione, partium habitu, quantitate, discriminibus, naturae dotis, ovvero l'habitat, la forma biologica, l'aspetto delle parti, la quantità delle parti stesse, i caratteri distintivi, le doti di natura. Per singole categorie, egli porta esempi concrete di species. Alcuni studiosi lo ritengono l'antesignano anche del sistema binomiale: in effetti, nel suo erbario e nelle tavole acquarellate molte piante sono contrassegnate da un nome basato su genere e specie; del resto, Gaspard Bauhin, che per primo doveva divulgare questa innovazione, era stato uno dei suoi allievi. Infatti, anche se non furono mai pubblicate, le tavole sinottiche di Aldrovandi nacquero come strumento didattico utilizzato nelle sue seguitissime lezioni; per questa via hanno influenzato il successivo progresso della botanica grazie ai numerosi allievi che furono educati a quel metodo. Accanto a questo lascito immateriale, alla sua morte Aldrovadi lasciò quello concretissimo del suo Teatro; legò infatti per testamento il suo intero patrimonio scientifico, ovvero i manoscritti, la biblioteca e il museo, al Senato bolognese, a condizione che fosse conservato integro; che gli inediti fossero pubblicati; che l'accesso fosse libero a tutti. Il grande museo divenne così di proprietà della città e dell'Università e per tutto il Settecento continuò ad esserne una delle principali attrazioni. Nell'Ottocento varie collezioni furono smembrate tra diversi istituti universitari, finché nel 1907 l'insieme fu almeno in parte ricostruito in una sala di Palazzo Poggi. Perduti molti reperti più deperibili, rimangono scheletri, animali impagliati, fossili, minerali. Il preziosissimo erbario (ne sono rimasti quasi 5000 fogli), uno dei più antichi che ci sia pervenuto, è invece costodito presso l'Orto botanico: benché le piante non siano disposte secondo un criterio riconoscibile e le note si limitino al solo nome, senza indicazione del raccoglitore e del luogo di raccolta, è ragguardevole per l'antichità (fu iniziato probabilmente nel 1551), la vastità, la cura del montaggio. Sono invece custodite presso la Biblioteca Universitaria le tavole acquarellate; quanto alle matrici xilografiche, poche ci sono giunte: molte di esse andarono a alimentare le stufe durante la Seconda guerra mondiale. Grazie a un grande progetto dell'Università di Bologna, l'intero erbario (consultabile qui), tutte le opere a stampa e gli acquarelli sono stati digitalizzati e sono raggiungibili attraverso questo bellissimo sito, davvero un mirabile "Teatro della natura" virtuale. Androvanda, una pianta in pericolo Nel 1734, Gaetano Lorenzo Monti, botanico bolognese, presentò una memoria in cui, richiamandosi all'abitudine introdotta da Linneo di onorare gli studiosi più illustri con il nome di una pianta, deplorava che egli avesse dimenticato il grande Aldrovandi. Propose così di nominare Aldrovandia una pianta palustre (la pubblicazione avverrà solo qualche anno dopo in De Aldrovandia novo herbae palustris genere, 1747). Questa specie era già nota ed era stata descritta nel 1696 dal botanico inglese Plukenet, con il nome di Lenticula palustris. Linneo tenne conto dell'appunto di Monti e nel 1753 ne ufficializzò la denominazione, ribattezzando la pianta Aldrovanda vesiculosa (commise forse un piccolo errore ortografico). A. vesiculosa è l'unico rappresentante del suo genere (anche se altre specie forse sono esistite in passato); è un membro della famiglia Droseraceae, da cui differisce in quanto acquatica, ma come le cugine è carnivora; per diversi aspetti ricorda la più nota Dionaea, tanto che Darwin la definì "una Dionaea d'acqua in miniatura". E' un'erbacea priva di radici, che fluttua sulla superficie dell'acqua; le foglie, distribuite regolarmente lungo il fusto in piccoli verticilli a forma di ruota idraulica (da cui il nome inglese water wheel) e sorrette da piccioli con sacche d'aria che aiutano il galleggiamento, hanno lamina reniforme, che si chiude in due valve, dentellate sui bordi. Quando una preda si avvicina, si chiudono rapidamente, intrappolandola. La loro velocità di reazione (10-20 millisecondi) è considerata la maggiore del regno vegetale. La pianta vive in tutti i continenti, escluse le Americhe, ma è diventata sempre più rara a causa della restrizione dell'ambiente naturale e dell'inquinamento delle acque stagnanti ma pulite che predilige, ricche di anidride carbonica e povere di fosforo e di azoto. Se all'inizio del '900 era presente in 379 stazioni naturali note, nel corso del secolo queste si sono drammaticamente ridotte a sole 50, due terzi delle quali concentrate in un'area tra Polonia e Ucraina. In Italia un tempo doveva essere diffusa in un vasto areale; ne sono state recensite 17 stazioni, ma tutte si sono estinte nel corso dell'ultimo secolo: l'ultimo avvistamento, relativo al lago di Sibolla presso Lucca, risale al 1985. In vari paesi, sono in atto azioni per la tutela e la reintroduzione di questa rara specie; in Italia un progetto pilota ha preso avvio nelle regioni Piemonte e Lombardia; esemplari, provenienti dalla Svizzera, sono attualmente coltivati in due orti botanici: il Giardino botanico Rea di Trana, in provincia di Torino, e l'Orto botanico dell'Università di Pavia. Qualche approfondimento nella scheda. Il medico, filosofo e botanico rinascimentale Andrea Cesalpino è il primo a tentare una classificazione delle piante. Anche se a noi può sembrare bizzarra, è perfettamente coerente con la logica aristotelica e con le conoscenze del tempo, tanto che il suo De plantis è considerato il libro più importante della botanica prima di Linneo. A ricordarlo Caesalpina, un genere che per ironia è un vero rebus tassonomico. Strumenti per organizzare il caos Nel Cinquecento, l'afflusso sempre crescente di piante dall'Oriente e soprattutto delle Americhe aveva scompigliato le file della botanica: ormai essa assomigliava a un campo di battaglia in cui i soldati non sapevano più in quale ruolo dovevano combattere, tanto che qualcuno finiva nel posto sbagliato. L'immagine non è mia: si deve a Andrea Cesalpino, colui che per primo cercò di portare ordine in questo caos. Fin dal vecchio Dioscoride, due erano stati criteri seguiti per organizzare le piante negli Herbaria, i libri di botanica: il più comune era l'ordine alfabetico (in genere sulla base dei nomi greci, come in Mattioli e Fuchs); più raramente, le piante potevano essere raggruppate sulla base di criteri empirici privi di ogni rigore, per lo più connessi alle proprietà terapeutiche vere o presunte. Analogamente i vegetali erano disposti nelle aiuole dei nascenti orti botanici: ancora nel Seicento, in quello di Montpellier le troveremo schierate in ordine alfabetico, con tanto di etichetta con il nome greco. Cesalpino decise di seguire una strada del tutto innovativa: classificare le piante sulla base delle loro caratteristiche intrinseche. Lo fece armato di due strumenti interpretativi non sempre in accordo tra loro: la logica aristotelica e l'osservazione diretta del mondo vegetale, che aveva appreso dal maestro, il grande Luca Ghini. Da Aristotele - e dal suo allievo Teofrasto, l'unico che nell'antichità avesse già tentato questa strada - trasse il metodo, i procedimenti logici e molti concetti fondamentali: per classificare i componenti di un insieme, bisogna procedere per somiglianze e differenze, e per farlo in modo corretto occorre distinguere tra somiglianze sostanziali e accidentali (sono i concetti aristotelici di "sostanza" e "accidente"). Quali sono le proprietà sostanziali di una pianta? Quelle che permettono alla pianta di essere pianta, ovvero di esplicare le proprie funzioni vitali. Poiché le piante sono vive, esse sono dotate di ciò che Aristotele chiamava "anima vegetativa": il principio che governa ogni essere vivente e fa sì che si nutra, cresca, si riproduca. Per Cesalpino, due sono le funzioni essenziali delle piante: il nutrimento e la riproduzione; dunque, saranno gli organi che presiedono a queste funzioni a fornire i criteri di classificazione. La pianta attraverso le radici assorbe il nutrimento, che attraverso il fusto (in base a qualcosa di analogo alla circolazione del sangue, di cui come medico Cesalpino fu uno dei primi brillanti studiosi) giunge agli organi riproduttivi che grazie ad esso potranno esplicare la funzione più importante di ogni essere vivente: riprodursi. Poiché, come tutti i suoi contemporanei, Cesalpino ignorava del tutto la riproduzione sessuale delle piante, ne consegue che gli organi da osservare saranno non tanto i fiori, quanto i frutti e i semi. Degli altri organi della pianta (come le radici e le foglie) si terrà sì conto, ma solo per le classificazioni più minute, in particolare per distinguere specie affini. Saranno invece meri accidenti, da scartare come criteri di classificazione, non solo il gusto, l'odore, il colore (che variano in base al luogo in cui cresce la pianta, o addirittura tra piante selvatiche e coltivate), ma anche gli usi che ne fa l'uomo, comprese le proprietà farmaceutiche, che per secoli erano state il criterio di classificazione fondamentale. Ma prima di procedere alla classificazione, bisogna definire gli enti da classificare. Ancora una volta Cesalpino ricorre ad Aristotele, da cui riprende i concetti di specie (il singolo oggetto) e genere (il raggruppamento di oggetti che condividono caratteristiche simili). Mentre non usa ancora la parola genere nel significato attuale (i suoi generi sono gruppi molto più vaghi, che piuttosto corrispondono a famiglie o gruppi anche più ampi), egli fu il primo a definire la specie nel significato moderno, fornendo anche un criterio di verifica sperimentale: appartengono alla stessa specie piante che si assomigliano nella totalità delle loro parti (al di là delle piccole differenze accidentali) e queste caratteristiche rimangono invariate nelle piante nate dai semi. Il sistema di Cesalpino Come si sarà notato, il ragionamento di Cesalpino è totalmente deduttivo; procede cioè dall'alto verso il basso, dal generale al particolare (all'opposto del metodo induttivo, che procede dall'osservazione di casi particolari per giungere a conclusioni generali). Ciò significa anche che la sua classificazione ingabbia il mutevole mondo vegetale in una serie di categorie del tutto artificiali, che raramente corrispondono alla realtà (è stato notato che, tra i suoi gruppi, l'unico ad avere una corrispondenza con la realtà, confermato dalle ricerche successive, è quello delle Ombrellifere). Ma questo non annulla il valore pionieristico della sua opera: anche la classificazione di Linneo è del tutto artificiale; bisognerà attendere l'Ottocento perché le conoscenze dei botanici siano sufficienti per procedere a una credibile classificazione naturale. D'altra parte, misuriamo la strada intercorsa tra i due nel fatto che Cesalpino credeva che la sua classificazione fosse naturale e corrispondesse all'ordine dato da Dio all'Universo, mentre Linneo era ben consapevole dell'artificiosità della propria. Torniamo a Cesalpino, che espose i propri criteri di classificazione nei primi due libri del suo capolavoro botanico, De plantis, in sedici volumi (1583), cui segue la trattazione di 1500 specie, organizzate per gruppi sistematici. Il procedimento di Cesalpino segue la logica binaria (fu anche il primo a fornire delle chiavi di classificazione basate sull'opposizione dicotomica). In primo luogo i vegetali sono divisi in due grandi categorie, basate sull'organo che trasporta il nutrimento dalle radici ai frutti: piante legnose (questa categoria raggruppa gli alberi e gli arbusti); piante non legnose (questa categoria raggruppa i suffrutici e le erbacee). All'interno di ciascuno dei raggruppamenti principali, Cesalpino distingue poi cinque sottocategorie, in base al rapporto tra frutto e seme: frutto con un solo seme; semi ripartiti in due loculi; semi ripartiti in tre loculi; semi ripartiti in quatto loculi; semi ripartiti in più di quattro loculi. Ciascuna sottocategoria può a sua volta suddividersi in raggruppamenti minori, in base all'osservazione di caratteristiche particolari dei frutti e talvolta anche dei fiori (Cesalpino fu tra i primi a osservare la posizione dell'ovario, al di sopra o al di sotto degli altri organi fiorali); in totale, i gruppi sono 32, comprendendone anche uno riservato alle piante senza semi, in cui Cesalpino inserisce funghi, muschi e alghe. Ancora una volta mescolando intuizioni moderne e i limiti della scienza del suo tempo, egli era convinto che gli appartenenti a questo gruppo si riproducessero per generazione spontanea. Non diede invece alcuna importanza alle foglie (per la scoperta della fotosintesi bisogna attendere la fine del Settecento), cui attribuiva una semplice funzione di protezione dei frutti e dei semi. Il capolavoro di Cesalpino non ottenne il successo che meritava. Anche se un certo interesse per una classificazione sistematica delle piante si ritrova in alcuni sui contemporanei, la strada maestra percorsa dalla botanica del Rinascimento fu quella dei commenti a Dioscoride e degli erbari, destinati a medici e farmacisti, visto che la botanica continuava ad essere ancella della medicina. Oltre a questa situazione oggettiva, contribuì il fatto che il libro era stato stampato senza illustrazioni (erano state preparate le xilografie, ma, lo sponsor, il granduca di Toscana Cosimo era morto prima della pubblicazione e il figlio Francesco era meno disponibile a sostenere l'impresa); inoltre il linguaggio filosofico di Cesalpino risulta spesso oscuro e ostico. Esercitò tuttavia un notevole influsso su coloro che dopo di lui ne ripresero la strada (Caspar Bauhin, Ray, Pitton de Tournefort e lo stesso Linneo, che considerava Cesalpino il primo di tutti i botanici e annotò fittamente la sua copia di De Plantis). A Cesalpino (che nonostante la profonda cultura filosofica non era uno studioso libresco e aveva una notevole famigliarità con le piante) si deve anche uno dei primi e più importanti erbari, quello che approntò tra il 1555 e il 1563 per il cardinale Tornabuoni, il primo in cui le piante sono organizzate secondo criteri sistematici. Nella biografia altre notizie su questo importantissimo studioso. Il rebus di Caesalpinia E' davvero ironico che al pioniere della classificazione delle piante sia stato dedicato uno dei generi dalla storia tassonomica più travagliata. La creazione del genere Caesalpinia (che riprende la grafia latina del cognome Caesalpinus) si deve a Plumier e fu ufficializzata da Linneo nel 1753. Da allora si sono sussesseguite le dispute sui confini e la consistenza di questo genere, che nel corso di 250 anni si allargato e ristretto come una fisarmonica, tanto che alcune specie nel frattempo hanno cambiato nome più di trenta volte. Il gruppo Caesalpinia (una designazione informale proposta nel 1981 da Polhill e Vidal, per comprendere tutte le varie specie affini ora incluse, ora escluse dal genere) comprende alberi, arbusti, rampicanti e qualche erbacea della famiglia Fabaceae (ma si è anche proposto di inserirlo in una famiglia a sé, Caesalpinaceae) presenti nella zona tropicale di tutti i continenti. E' anzi proprio questa estensione, insieme alla difficoltà di individuare caratteristiche morfologiche distintive, ad aver determinato questo rebus. Nel senso più ampio, il genere è arrivato a comprendere fino 250 specie. Nell'ultimo trentennio, gli studi basati sempre di più sulla ricostruzione della storia evolutiva (filogenesi) attraverso le analisi del DNA, hanno ristretto sempre di più queste cifre. Il primo studio che va in questa direzione è proprio quello di Polhill e Vidal, i quali, nell'ambito di una revisione della tribù Caesalpineae, assegnarono al gruppo informale Caesalpinia 140 specie, distribuite in 16 generi. Vari studi che si sono susseguiti tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, hanno via via ristretto i confini del genere, fino a giungere alla drastica riduzione dello studio più recente (Gagnon et alii), che, partendo dall'esame dell'84% delle specie, giunge a conclusioni ben supportate e estremamente convincenti: il gruppo viene spezzettato in 26 generi certi e un ventisettesimo probabile; a Cesalpinia in senso stretto rimangono solo nove specie, tutte americane. E c'è anche una piccola rivincita di Cesalpino, che volle classificare le piante sulla base dei frutti: Gagnon e soci affermano infatti: "A livello di genere, i frutti sono altamente variabili e molto più utili dei fiori a fini tassonomici. Molti dei generi che abbiamo determinato qui possono essere differenziati basandosi sulle caratteristiche dei frutti". Tra le specie più note del vecchio genere Caesalpinia, probabilmente l'unica a conservare il suo nome è Caesalpinia pulcherrima, un arbusto originario delle Antille con spettacolari fioriture dal caldo colore aranciato. Diventa invece Erythrostemon gilliesii (= C. gilliesii), uno splendido arbusto coltivato anche da noi che molti si ostinano a chiamara Poinciana (un genere obsoleto che, diversamente da altri, non è stato resuscitato dall'équipe di Gagnon). Il pernambuco o pau brasil, l'albero che ha dato il proprio nome al Brasile, viene assegnato a un proprio genere monospecifico con il nome Paubrasilia echinata. Un'altra pianta tintoria abbastanza nota, C. spinosa, diventa Tara spinosa. Qualche notizia in più su Caesalpinia (o su quanto ne rimane) nella scheda. Fonte: E, Gagnon, A. Bruneau, C. E. Hughes, L. Paganucci de Queiroz, G. P. Lewis, A new generic system for the pantropical Caesalpinia group (Leguminosae), PhytoKeys 71: 1-160 (12 Oct 2016), http://phytokeys.pensoft.net/articles.php?id=9203 |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2024
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