A Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca a Roma, un tempo si poteva leggere la commovente epigrafe funebre di un giovane rapito agli amici da una febbre crudele; era di carattere gentile ed amabile; pieno di talento, conosceva le erbe e sapeva svelare i segreti della natura a quelli più vecchi di lui; non contento di aver esplorato la Germania, era venuto in Italia spinto dalla sete di conoscenza. Ma la natura matrigna, che non ammette che si carpiscano i suoi segreti, lo spazzò via, a soli ventinove anni. Quel "giovane meraviglioso" era il botanico tedesco Valerius Cordus, morto a Roma l'ultima settimana di settembre 1544 martire del suo amore per il sapere, il primo di una lunghissima serie di naturalisti periti per la scienza. Cresciuto tra le erbe fin dalla culla, come ricorda Plumier dedicandogli il genere Cordia, se il destino gli avesse concesso ancora qualche anno forse avrebbe cambiato la storia della botanica. ![]() Talis pater, talis filius Intorno al 1515, Heinrich Ritze (1485-1535) viveva nel villaggio di Simsthausen dove lavorava come cancelliere della vedova del langravio; fare lo scrivano non era ciò che sognava da ragazzo, quando frequentava la scuola latina di Marburg e i circoli umanistici dell'Assia. Poi si era iscritto all'università e aveva cominciato a farsi conoscere per i suoi versi in latino; aveva persino trovato uno splendido pseudonimo: Euricius Cordus, il bravo Enrichetto nato tardi (era l'ultimo di tredici figli). Ma mancavano i soldi per continuare gli studi; era stato costretto a tornare al paesello, si era trovato un lavoro, e a poco più di vent'anni si era sposato. Forse si sarebbe rassegnato, ma non voleva questo destino per i suoi figli, che intanto si stavano moltiplicando (ne ebbe in tutto otto). A loro voleva dare altre opportunità, e seguire di persona la loro educazione. Fu così che a quasi trent'anni Euricius Cordus tornò sui banchi dell'università di Erfurt e si laureò in lingue antiche e filologia. Insieme a due amici, il poeta Eobanus Hessus (che in realtà si chiamava Koch) e Joachim Camerarius il vecchio (che invece si chiamava Kammermeister) nel 1520 aprì una scuola latina a Erfurt. Non potevano scegliere un momento peggiore, con il paese scosso dalla Riforma luterana, alla quale tra l'altro tutti e tre avevano aderito con entusiasmo. La scuola chiuse presto i battenti e Euricius, per mantenere la famiglia, decise di diventare medico. Grazie a uno sponsor, partì per l'Italia e si laureò nella prestigiosa università di Ferrara, dove fece in tempo ad essere uno degli ultimi allievi del medico umanista Niccolò Leoniceno, all'epoca ultranovantenne. Dal suo maestro imparò soprattutto due cose: leggere gli antichi con spirito critico e studiare le piante dal vivo, non solo sui libri. Dopo aver lavorato per qualche tempo come medico cittadino a Braunschweig, nel 1527 il langravio Filippo di Assia lo chiamò a insegnare medicina a Marburg, nella prima università riformata. Qui Euricius divenne l'idolo degli studenti e lo zimbello dei suoi colleghi: che razza di professore era, uno che invece di spiegare Dioscoride e Galeno portava i suoi allievi a scarpinare in campagna a cercare piante nei boschi e nei fossi? Cordus, che era famoso per la ferocia dei suoi epigrammi, rispondeva letteralmente per le rime, finché i suoi nemici la ebbero vinta e lo espulsero dal Senato accademico. Dopo sette anni di insegnamento, fu costretto a lasciare l'università e trasferirsi a Brema, di nuovo come medico cittadino; qui morì un anno dopo, ad appena 49 anni. Una testimonianza diretta del suo metodo di insegnamento e del suo approccio alla botanica è la sua unica opera sulle piante, Botanologicon (ovvero "Dialogo sulle erbe"), sotto forma di dialogo tra lo stesso Cordus e quattro suoi ex allievi dei tempi di Erfurt. Insieme ai suoi ospiti visitiamo il piccolo orto dei semplici che il medico aveva creato accanto alla sua casa, e poi partecipiamo a un'escursione botanica per raggiungere il più ricco giardino che egli aveva allestito fuori città, una specie di orto botanico ante litteram. Per identificare le piante, uno degli ospiti ha portato due libri: Materia medica di Dioscoride e l'ultima novità editoriale, le prime due parti di Herbarum novae eicones di Brunfels. Prima a casa, dove fanno colazione, poi in giardino, quindi lungo il cammino, i cinque discutono dell'argomento preferito dei botanici del Rinascimento: la corretta identificazione delle piante di Dioscoride. Cordus è un grande filologo (e il più importante poeta satirico del Rinascimento tedesco), ma la sua conoscenza delle piante non è libresca: deriva dalla consuetudine quotidiana e amorevole. E' stato in Italia, e, a differenza di Brunfels, gli è chiaro che le piante che crescono in Germania non sono le stesse dei paesi mediterranei e non ha senso cercare di identificarle a forza con le piante di Dioscoride. Tanto meno bisogna fidarsi delle etichette dei vasi dei farmacisti, che spacciano tutt'altro sotto i nomi delle piante degli antichi. Purtroppo il suo libro, un dialogo dotto in latino, senza figure, non è mai diventato un bestseller come gli erbari illustrati di Brunfels e Fuchs; Cordus non è mai entrato nel canone dei "padri tedeschi della botanica"; ma oltre a questo piccolo libro, ha dato alla botanica un altro lascito: suo figlio Valerius, che fa capolino in qualche riga del Botanologicon. All'epoca ha quindici o sedici anni e suo padre lo descrive come «un ragazzo diligente e uno studioso osservatore». Fin da piccolissimo, ha dimostrato un ingegno precoce e, come dirà Plumier, è stato allevato tra le erbe fin dalla culla. E' il migliore allievo di Euricius che gli ha insegnato a padroneggiare perfettamente il latino e il greco (tanto che consegue il baccalaureato a sedici anni) ma soprattutto ad amare, studiare, osservare le piante. ![]() Un giovane geniale e una morte tragica Quando il padre muore, Valerius ha diciannove anni. Va a vivere a Lipsia da suo zio Johannes Ralla (uno degli interlocutori del Botanologicon); studia all'università, ma contemporaneamente lavora nella farmacia di famiglia, e impara tutto quello che c'è da imparare sulla preparazione dei farmaci e anche sulla chimica. Su suggerimento dello zio, scrive un prontuario delle ricette in uso nelle farmacie: per Valerius, è solo un passatempo, un'esercitazione, senza nulla di originale, ma suo zio lo stima tanto che attraverso alcuni amici lo fa pervenire a Norimberga, dove avrà l'onore di essere adottato come farmacopea ufficiale della città, la prima al di là delle Alpi. Nel 1539 Valerius si trasferisce a Witteberg, per completare gli studi e laurearsi in medicina. Tra i suoi insegnanti, c'è anche Filippo Melantone. Contemporaneamente, tiene lezioni in cui commenta Dioscoride; sono molto brillanti e attirano numerosi studenti, anche dall'estero. Uno di loro è il francese Pierre Belon (1517-1564), che ha appena due anni in meno e diventa un amico. Molti anni dopo la morte di Cordus, sulla base degli appunti di qualche allievo, Gessner pubblicherà questi Commentari insieme alla Historia stirpium. Il giovane è assetato di sapere e non tralascia la chimica, tanto che nel 1540 è il primo a sintetizzare l'etere. Si interessa di mineralogia e geologia, ma la sua vera passione sono le piante. Nei momenti di sospensione dell'attività didattica, da solo o in compagnia di amici-allievi come Belon, perlustra la Germania centrale e meridionale, per raccogliere campioni di minerali ma soprattutto per studiare le piante dal vivo, nel loro ambiente naturale. Abbiamo visto che lo faceva anche Bock, ma il suo era un approccio da autodidatta, per così dire d'istinto. Invece Valerius ha una conoscenza perfetta delle lingue classiche, conosce a memoria i testi di Dioscoride e soci, ed è dotato di una strabiliante memoria fotografica: gli basta aver letto la descrizione di una pianta per riconoscerla la prima volta che la vede. Ha una mente filosofica e fin da bambino è abituato a osservare, confrontare, dedurre. Non è interessato solo alle virtù medicinali delle erbe, ma alle piante di per sé e, come avrebbe detto Teofrasto, è alla ricerca di un metodo "proprio" per studiarle. Entro il 1542, ha messo insieme un manoscritto in quattro libri, suddivisi in 446 capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a una specie. Nel 1544 si laurea in medicina e parte per l'Italia (dove era già stato due anni prima per seguire corsi a Padova e Ferrara), deciso ad estendere le sue ricerche alla penisola, per verificare se le piante descritte da Dioscoride trovano una più stretta corrispondenza nella flora mediterranea. Vuole anche incontrare i botanici italiani e imparare dalle loro esperienze all'avanguardia. Viaggia con uno dei suoi professori di Wittenberg, il medico e astronomo Hyeronimus Schreiber, e due allievi francesi, uno dei quali molto probabilmente va identificato in Pierre Belon. Visitano molte città, tra cui Padova, Venezia, Bologna e Firenze; a Bologna si trattengono a lungo, per fare visita a Luca Ghini. Verso la metà di settembre sono a Siena, da dove intendono raggiungere Roma attraversando la Maremma. E' una zona notoriamente insalubre, infestata dalla malaria, ma anche ricca di piante particolari, dunque irresistibile per Valerius che si addentra dove non dovrebbe. E' così che molto probabilmente contrae la malaria; forse è già ammalato quando viene ferito a una gamba dal calcio di un cavallo. E' una brutta ferita e la febbre sale rapidamente; i suoi compagni con grande fatica riescono a trasportarlo a Roma, dove sono accolti da altri amici della comunità tedesca. Valerius sembra riprendersi, tanto che Schreiber e i due francesi decidono di proseguire per Napoli; ma quando rientrano a Roma, scoprono che il loro amico è morto. Dopo una battaglia con le autorità pontificie (come luterano eretico il suo cadavere rischia di essere gettato nel Tevere) possono infine farlo seppellire a Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca. Il loro strazio e la consapevolezza di quanto sua irreparabile per la scienza la perdita di quella giovane vita traspare dalla lapide funeraria, che purtroppo non esiste più ma ci è stata tramandata da un viaggiatore secentesco: "Per Valerius Cordus di Simsthausen in Assia, figlio di Euricio, medico e poeta. Con il suo carattere innocente, il suo talento e la sua straordinaria gentilezza si guadagnò l'ammirazione di tutti i medici. Lui giovane spiegava a quelli più vecchi i misteri della natura e le virtù delle piante. Dopo aver vagato per la Germania, poiché la sua sete di conoscenza non poteva essere soddisfatta, venne in Italia dove fu tenuto in molto onore, ma era appena arrivato a Roma quando fu spazzato via da una febbre crudele al culmine dei 29 anni, mentre le lacrime degli amici scorrevano per l'insostituibile perdita per la scienza". Seguono alcuni distici che chiamano in causa la natura matrigna gelosa dei suoi segreti e il crudele dio Apollo. Una sintesi della breve vita di colui che possiamo considerare il primo martire della botanica nella sezione biografie. ![]() Un'opera pionieristica e la nascita della fitografia Che la perdita per la scienza fosse gravissima è innegabile. Per fortuna, benché giovanissimo, Valerius aveva già scritto molto, ma le sue opere (ad eccezione di Dispensatorium pharmacorum omnium, la farmacopea scritta per Norimberga) vennero pubblicate più di vent'anni dopo la sua morte. Il manoscritto di Historia stirpium venne inviato a Gessner, che ne capì immediatamente il valore e si diede da fare perché fosse stampato; ma purtroppo accettò la proposta dell'editore Rihelius, che deteneva le tavole dell'erbario di Bock, di accompagnare il testo con circa 250 illustrazioni; dato che molte piante non erano mai state descritte in precedenze e Gessner non le conosceva, egli commise molti errori nell'associare le figure al testo; errori che più tardi vennero ingiustamente attributi all'autore anziché al curatore. Nonostante ciò, l'importanza dell'opera di Cordus non sfuggì a grandi botanici come Tournefort e Haller: per il primo egli fu "il primo a eccellere nella descrizione delle piante"; per il secondo fu "il primo a rompere con la dipendenza dalle povere descrizioni degli antichi e a descrivere nuovamente le piante dal vero". Secondo il botanico statunitense Spargue, che ne fu in un certo senso lo scopritore dopo secoli di oblio, "supera di gran lunga Bock per l'esattezza e la natura dettagliata delle sue descrizioni, che ne fanno il vero padre della fitografia". In effetti Cordus, invece di prendere a modello le descrizioni di Dioscoride, come avevano fatto tutti i botanici prima di lui, inventò un metodo del tutto innovativo, che non teorizzò in modo esplicito, ma che è possibile ricavare dalle sue descrizioni. In primo luogo, egli presenta ciascuna pianta dal punto di vista di un osservatore che abbia davanti a sé non un campione di erbario, ma una pianta viva, un esemplare maturo, o almeno nel momento della fioritura; e torna ad osservarla nel momento della fruttificazione, non trascurando mai frutti e semi. La descrizione inizia con la parte più cospicua, più evidente per l'osservatore: per le piante erbacee, prima le foglie, poi il fusto; per le piante con fusto significativo, prima il fusto poi le foglie. Il terzo elemento è il fiore, di cui indica la stagione di fioritura e descrive con precisione analitica calice e corolla. Passa poi al frutto e ai semi, descritti sempre in modo molto preciso, annotando ad esempio il numero di celle, le linee di deiscenza, il numero e la forma dei semi. L'ultimo elemento è quasi sempre la radice, che l'osservatore non vede senza estrarre la pianta dal terreno; è il contrario di quanto facevano gli antichi che partivano proprio da quella, di solito la parte della pianta più importante dal punto di vista erboristico. Per le piante erbacee, se gli è noto, non manca di indicare se sono perenni, biennali o annuali; inoltre aggiunge elementi come il colore, il gusto, l'odore (secondo suo padre, una caratteristica essenziale per il riconoscimento). Benché Valerius avesse lavorato per anni in una farmacia e fosse un esperto di farmaci, le informazioni sulle proprietà officinali sono ridotte al minimo: è chiara la sua intenzione di emancipare la botanica descrittiva dagli usi pratici. Lo schema è applicato sia alle piante nuove (in tutto 66) sia a quelle descritte dagli antichi, di cui non copia mai le descrizioni, come aveva fatto invece lo stesso Bock. Cordus dedicò particolare cura all'osservazione e alla descrizione delle infiorescenze; fu il primo dopo Teofrasto a distinguere le infiorescenze centrifughe (con fioritura dal centro verso l'esterno) e centripete (con fioritura dall'esterno verso il centro), fornendo una descrizione molto precisa delle complesse infiorescenze delle umbellifere. Fu il primo a chiamare corimbo l'infiorescenza di diverse comuni composite, e descrisse con precisione le brattee (anche se il nome non esisteva ancora). Esaminò e descrisse una dozzina di felci (tra l'altro, è il primo a descrivere Matteuccia struthiopteris). A proposito della felce maschio Dryopteris filix-mas scrive: "Cresce copiosamente sulle rocce umide, anche se non produce né fusti, né fiori, né semi. Ma si riproduce da sola per mezzo della polvere che si sviluppa sulla pagina inferiore delle foglie, come tutte le felci". Egli è infatti il primo a capire a grandi linee il meccanismo di riproduzione delle felci e che quella "polvere" è qualcosa di diverso dai semi. In Historia stirpium le piante sono distinte in erbacee (I e II libro), arbustive e arboree (III e IV libro. Dato che nel primo libro sono esaminate "Diverse erbe" e nel secondo "Piante la cui storia è stata trasmessa in modo inesatto dagli antichi, o sono state omesse del tutto", ne consegue che specie, che oggi assegneremmo alla stessa famiglia, o anche allo stesso genere, si trovano separate. Ciò nonostante Greene, che ha studiato molto attentamente i raggruppamenti interni dell'opera di Cordus, dimostra che egli aveva individuato, anche se non esposto in modo esplicito, diversi gruppi naturali, basati fondamentalmente sulle strutture del fiore. E' una grande novità che anticipa di oltre un secolo gli sviluppi della botanica; Cesalpino, che scrive parecchi decenni dopo ed è l'autore del primo tentativo di classificazione delle piante, ignorerà quasi del tutto i fiori, e si baserà invece sui frutti e sui semi (il cui legame con i fiori di cui sono la trasformazione gli era molto meno chiaro che a Cordus); e infatti Greene conclude il suo esame della "tassonomia implicita" di Cordus con queste parole: "Cesalpino, della fine del XVI secolo, è considerato il fondatore della Botanica sistematica. Ma se Valerius Cordus avesse potuto vivere altri ventinove anni, è facile pensare che il grande italiano avrebbe perso i suoi allori". ![]() Cordia, un genere mille usi Come molti botanici del Rinascimento, anche Valerius Cordus deve il suo ingresso nella nomenclatura botanica a padre Plumier, che come sempre sa trovare le parole giuste: "Valerius Cordus di Simsthausen in Assia nacque dal medico e famosissimo poeta Euricius Cordus. Fu sommo commentatore di Dioscoride e felicissimo indagatore di piante precedentemente sconosciute. Fu infiammato dall'esempio di tanto padre, che fin dalla culla volle educarlo tra erbe e fiori". Poi validato da Linneo, il genere Cordia, della famiglia Boraginaceae, comprende circa 250 specie di alberi e arbusti distribuiti nella fascia tropicale e subtropicale di America, Africa, Asia e Oceania. E' presente in vari ambienti, con molte specie notevoli per diverse ragioni. Alcune specie arboree trovano impiego come alberi da legname; quello più pregiato, detto bocote, ricavato da diverse specie messicane e centro americane, è caratterizzato da una piacevole trama zebrata e da proprietà acustiche che lo fanno apprezzare per la costruzione di strumenti musicali; impieghi simili ha il legname di C. dodecandra, noto come ziricote. Molte specie producono frutti eduli, consumati crudi, cotti o come sottaceti, come è il caso di C. dichotoma, una specie asiatica e australiana di ampia diffusione i cui frutti immaturi sottaceto sono una specialità di Taiwan. Il loro nocciolo ha proprietà medicinali, come varie parti di altre specie di questo versatile genere. Non mancano neppure gli usi ornamentali: sono piante dal bel portamento ordinato con vistose fioriture, anche se purtroppo adatte solo ai climi più miti. Forse la più bella, o per lo meno quella che più si fa notare, è C. sebestena, un alberello originario di un'area che va dalla Florida al Centro America, caratterizzato da rutilanti fiori rosso aranciato. Di grande impatto estetico anche due arbusti con fiori bianchi provenienti dagli Stati Uniti meridionali, C. boissieri e C. parviflora, notevoli per la resistenza alla siccità e la prolungata fioritura. Qualche approfondimento nella scheda.
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Come Brunfels, anche Hieronymus Bock, il secondo "padre della botanica tedesca", fu un fervente sostenitore della Riforma, divenendo anche predicatore e pastore. Ma la sua vera vocazione erano le piante: dal tempo di Teofrasto, è stato il primo a studiarle dal vivo, a provare a classificarle, a descrivere non ciò che ne dicevano i libri ma ciò che vedeva con i suoi occhi. Con i suoi estesi viaggi nella Germania meridionale, nelle Ardenne e in Svizzera, raccolse molte piante native mai descritte in precedenza; il suo New Kreütter Büch, scritto su sollecitazione di Brunfels, è il più innovativo degli erbari tedeschi del primo Cinquecento, grazie alle eccellenti descrizioni e all'abbozzo di una classificazione naturale. Pubblicato per la prima volta nel 1539 senza figure, fu ripubblicato nel 1546 con le illustrazioni del valente pittore David Kandel. Nel 1552 seguì la prima edizione latina con la prefazione di Gessner. E mentre la sua fama cresceva, Bock assumeva nuovi nomi: dapprima, modestamente, si firmò Hieronymus Herbarius, poi con il suo nome, infine con lo pseudonimo classicheggiante Hieronimus Tragus. Nello stemma della sua famiglia c'era un'ortica; chissà se fu questa la ragione che spinse Plumier a dedicargli l'urticante genere Tragia? ![]() Una vocazione botanica Nel 1533 Hieronymus Bock, che all'epoca viveva a Hornbach in Palatinato, ricevette una visita inaspettata. Si trattava di Otto Brunfels che, avendo sentito parlare dei suoi viaggi e dei suoi studi sulle piante, si era sobbarcato il viaggio da Strasburgo per vedere il suo giardino e le sue collezioni. Egli capì subito che quel patrimonio di conoscenze andava messo a disposizione di tutti e sollecitò Bock a scrivere un erbario in lingua tedesca. Secondo quanto racconta lo stesso Bock nella prefazione all'edizione latina del suo libro, è questa l'origine di New Kreütter Büch. Forse senza l'incoraggiamento del più celebre collega, che pubblicò anche un suo saggio in appendice al secondo volume di Herbarum vivae eicones, le due ricerche sarebbero rimaste una passione da praticare nel tempo libero e non si sarebbero trasformate in una delle opere più importanti della botanica rinascimentale. Sappiamo molto poco della giovinezza e delle formazione di Bock; nato in Palatinato intorno al 1498, fu educato in un monastero, dove i genitori avrebbero voluto prendesse i voti, ma egli riuscì a convincerli di non avere alcuna vocazione. Nel 1519 risulta immatricolato all'Università di Heidelberg, ma con ogni probabilità non completò gli studi; è possibile che abbia assistito alla cosiddetta "Disputa di Heidelberg", durante la quale Lutero espose le sue tesi teologiche, e che in questa occasione abbia aderito alla Riforma. Sicuramente nel 1522 iniziò a lavorare come rettore della scuola di Zweibrücken, la residenza del conte palatino Luigi II di cui divenne consigliere e medico personale (benché non avesse mai conseguito la laurea). Il conte gli affidò anche la direzione del suo giardino; fu probabilmente in questo modo che Bock incominciò ad interessarsi di piante. Durante i nove anni trascorsi a Zweibrücken, prese a studiarle in natura facendosi una fama come "herbarius", esperto di erbe. Nel 1532 Luigi II morì, lasciando un erede bambino; il potere passò a Federico II che all'epoca era vicino al cattolicesimo o, per lo meno, non desiderava inimicarsi l'imperatore Carlo V; alla sua corte non c'era posto per un fervente luterano come Bock. Intanto il protestantesimo aveva trovato terreno fertile nel monastero benedettino di Hornbach; l'abate Johann Kindhäuser, vicino ai riformati, offrì a Bock un beneficio come canonico di St Fabian, praticamente una sinecura per trattenerlo in Palatinato. Come predicatore laico e maestro, gli fu concesso di abitare con la sua numerosa famiglia (aveva dieci figli) nella Kooperatorhäusl, la residenza dei collaboratori esterni. Fu poco dopo essersi trasferito qui che Bock ricevette la visita di Brunfels da cui abbiamo preso le mosse. Nel 1536 Hornbach passò ufficialmente alla Riforma; i monaci lasciarono l'abbazia e Bock divenne il parroco luterano della chiesa cittadina, incarico confermato nel 1539 dal primo sinodo ufficiale della Chiesa regionale del Palatinato. Gli anni trascorsi in questa cittadina, posta al confine tra il Palatinato, l'Alsazia e la Svizzera, furono molto produttivi per Hieronymus herbarius (così amava firmarsi all'epoca) che ne approfittò per esplorare la flora della Germania meridionale, delle Ardenne e delle Alpi svizzere; erano viaggi faticosi e difficili, come racconta egli stesso nella prefazione del suo libro, duranti i quali, per non dare nell'occhio, si muoveva travestito da contadino; portava con sé un libretto su cui annotare le sue osservazioni e un cesto per riporre le piante da trapiantare nel suo giardino per studiarle con più agio. Fu dunque sulla base di un intenso lavoro sul campo che poté completare il New Kreütter Büch, pubblicato a Strasburgo nel 1539. Nel 1548, con l'Interim di Augusta, si aprì una fase di incertezza particolarmente acuta nel Palatinato, con il ritorno al cattolicesimo di diversi monasteri; tra questi l'abbazia di Hornbach, dove l'amico di Bock Kindhäuser dovette lasciare il posto al cattolico Johann Bonn von Wachenheim, che obbligò i canonici luterani a sottomettersi o a rinunciare al beneficio. Bock lasciò Hornbach e trovò un nuovo protettore in Filippo II di Saarbrücken che lo volle come medico personale; da Saarbrücken Bock inviò ai suoi ex-parrocchiani una lettera dai toni appassionati che è il suo unico scritto religioso rimastoci. Tuttavia già nel 1552, in seguito al trattato di Passau, poté ritornare a Hornbach come pastore e predicatore luterano. Qui morì poco più di un anno dopo, nel febbraio 1554. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Un libro di erbe rivoluzionario Tre circostanze contribuirono a fare del New Kreütter Büch un libro assai diverso, e anche molto più innovativo, rispetto sia a Herbarum novae eicones di Brunfels sia a De historia stirpium di Fuchs. In primo luogo, rispetto ai due colleghi, Bock era molto meno colto: abbiamo visto che si era iscritto all'università, ma non aveva completato gli studi. La sua formazione era quella ricevuta in convento e anche la sua sapienza medica era dovuta più alla pratica che allo studio libresco; dunque, rispetto agli altri due "padri" sentiva molto meno l'autorità (e l'influsso) dei classici; probabilmente, anche la sua padronanza del latino era modesta. Così scelse di scrivere in tedesco, anzi in dialetto alto tedesco (il suo libro è considerato anche un importante documento linguistico): il suo pubblico ideale non erano i dotti, ma le persone comuni. E' una scelta perfettamente coerente con l'adesione alla Riforma: sono gli stessi anni in cui Lutero traduce la Bibbia in tedesco e vengono aperte scuole popolari (una delle prime è quella di Brunfels a Strasburgo) per diffondere l'alfabetizzazione e permettere a tutti di accedere direttamente ai testi sacri. In secondo luogo, il suo interesse per le piante non si limitava alle specie officinali: amava e voleva conoscere il maggior numero possibile di piante. Mentre Brunfels studiava la flora tedesca convinto di ritrovare in essa le piante degli antichi, e pubblicò molto malvolentieri le indegne plantae nudae introdotte dal suo illustratore, Bock era consapevole che si trattava di una flora diversa, e voleva esplorarla e farla conoscere ai suoi conterranei, convinto che il buon Dio facesse crescere in ogni paese quanto era necessario per la sopravvivenza e la salute, senza bisogno di importare costose droghe straniere. In terzo luogo, Bock era una persona di mezzi limitati, talvolta precarie, con molti figli a carico, e quando scrisse il Kreütter Büch non poteva contare né su un protettore né su un editore disposto ad assumersi il rischio: una costosa edizione illustrata non era neppure pensabile. Dunque le sue descrizioni dovevano essere così precise da bastare al riconoscimento senza l'ausilio delle figure; d'altra parte, questa scelta corrispondeva a un convincimento profondo: "Chi ha un giardino e un giardiniere, non ha bisogno di illustrazioni". Come avevano fatto gli antichi, nel suo nuovo erbario Bock evita di descrivere le piante più comuni, quelle più coltivate nei giardini e nei campi: sono note a tutti e per farle riconoscere basta il nome. Dedica invece la massima cura a ritrarre con le parole quelle selvatiche o di più recente introduzione. Per la prima volta nella storia, queste descrizioni sono frutto di un'attenta osservazione dal vivo, che spesso segue la vita della pianta in tutte le sue fasi; ecco come viene descritto il verbasco (una new entry assoluta nella letteratura botanica): "Una cosa veramente notevole di questa pianta è la sua radice lunga, spessa e corta, di durezza legnosa. Le sue foglie, specialmente le prime, spuntano vicino al suolo, sono piuttosto larghe e lunghe, di aspetto biancastro e lanoso, più o meno come quelle dell'helenium [Inula helenium]. Soltanto il secondo anno spunta lo stelo, pieno di un midollo bianco all'interno, come quello del sambuco, e talvolta raggiunge l'altezza di un uomo, rivestito di foglie che gradualmente diventano più piccole e più strette man mano che si avvicinano alla cima. I fiori, gialli, lanosi, e dolcemente profumati, hanno cinque foglie [si tratta dei petali] e coprono completamente lo stelo da dove nasce alla cima; quando cadono ciascuno di essi è seguito da un globo lanoso pieno di semi non dissimili da quelli del papavero". Come si vede, la descrizione è mirabilmente precisa, ma prolissa, in mancanza di una terminologia tutta da inventare, e deve continuamente ricorrere a paragoni con piante più note (o, almeno, già descritte). Dall'osservazione diretta delle piante discende anche la scelta di respingere l'ordine alfabetico, artificiale e fonte di confusione, per cercare di disporre le piante in un ordine "naturale": "Nel descrivere le piante, ho cercato il più possibile di tenerle insieme nel modo in cui la natura sembra collegarle per la somiglianza di forma". E' il primo emergere del concetto di classificazione; Bock segue la tradizionale tripartizione delle piante in alberi, arbusti ed erbe, ma all'interno di ciascuna categoria cerca di raggruppare le piante in base alla somiglianza di forma; è il primo a individuare le labiate, le crucifere e le composite. Nella prima edizione del New Kreütter Büch egli descrive 478 specie, quasi tutte native della Germania o introdotte da lungo tempo; nella prefazione vanta di averle viste o sperimentate tutte di persona. La prima in assoluto è l'ortica: una pianta umile, a cui Bock è legato perché compare nello stemma della sua famiglia; ma è anche una pianta pura, aggiunge spiritosamente: dopo aver provveduto alle necessità naturali, nessuno sporca le sue foglie. Seguono le labiate (la somiglianza è data dal fusto squadrato e dalla disposizione delle foglie; del resto, nella tassonomia popolare Lamium album è accostato all'ortica con nomi come ortica bianca o falsa ortica), quindi le altre piante erbacee; poi gli arbusti; infine gli alberi. Il successo del libro fu buono, ma limitato dalla mancanza di illustrazioni; solo nel 1546 uscì una seconda edizione accresciuta e illustrata con 568 incisioni del valente pittore David Kandel. Nel 1551 fu seguita dall'edizione latina (la traduzione è di David Kyber) sotto il titolo De stirpium […] commentariorum libri tres, con la prefazione di Conrad Gessner; contiene 806 piante, ancora in gran parte native della Germania; il capitolo sulla vite è famoso perché contiene la prima menzione del Riesling. Abbiamo già visto che Bock aveva pubblicato i suoi primi contributi sotto lo pseudonimo Hieronymus herbarius; per il Kreütter Büch usa il suo vero nome, per De stirpium lo nobilita nel classicheggiante Hieronymus Tragus, dal gr. tragos, "caprone", l'equivalente del tedesco Bock. Per concludere, lascio la parola a Frank J. Anderson che di Bock ha scritto: "Era un dilettante, largamente un autodidatta; eppure le sue acquisizione hanno avvicinato lo studio delle piante alla scienza più di quanto avesse fatto chiunque altro dai tempi di Teofrasto". ![]() Euphorbiaceae... urticanti A celebrare il più grande, ma anche il più modesto e defilato dei tre padri della botanica tedesca non ci sono generi lussureggianti come Fuchsia o Brunfelsia; chissà perché padre Plumier ha voluto onorarlo con un genere di piante che non si distinguono per la bellezza, ma piuttosto per essere armate di dolorosissimi peli urticanti. Sarà un'allusione indiretta alla scelta controcorrente di Bock di far iniziare il suo erbario con l'umile ma pura ortica, emblema della sua famiglia ma forse anche simbolo della sua personalità di uomo schivo e alieno dai compromessi? Il genere Tragia, della famiglia Euphorbiaceae, creato appunto da Plumier e validato da Linneo, è distribuito nella fascia tropicale e temperata delle due Americhe, in Asia, nella penisola arabica, in India e nell'Australia settentrionale, soprattutto in ambienti aridi o ai margini delle foreste asciutte. Comprende circa 150 specie, di aspetto piuttosto variabile; sono suffrutici o erbe erette, ma soprattutto liane volubili, con fusti, foglie e frutti coperti di peli urticanti. I fiori, raccolti in racemi o tirsi, hanno sepali giallo-verdastri e sono privi di corolla; quelli femminili sono seguiti da capsule pelose con tre loculi. Insomma, piante da trattare decisamente... con i guanti, visto che il contatto con il loro peli è considerato particolarmente doloroso. Negli Stati Uniti, dove è presente almeno una decina di specie, chiamano le Tragia noseburn, "brucia naso", perché, piccole e insignificanti, passano inosservate ed è facile pungersi senza neppure vederle. In compenso, diverse specie hanno proprietà medicinali; tra di esse la più notevole è T. involucrata, un'erbacea eretta con foglie ovoidali, nota come "ortica indiana", usata nella medicina ayurvedica come febbrifugo e antimicrobico. Nel 1919 Pax e Hoffmann separarono da Tragia alcune specie africane, creando il genere Tragiella; oggi comprende quattro specie distribuite tra l'Africa tropicale e meridionale. Anch'esse hanno stelo munito di peli urticanti, ma si distinguono per la presenza di brattee cospicue, per varie particolarità dei fiori e per i frutti trilobati con pericarpo legnoso. Per qualche notizia in più su Tragia e Tragiella si rimanda alle rispettive schede. Nel 1768 il naturalista svizzero Albrecht von Haller creò il genere Tragus (Poaceae), senza spiegarne l'etimologia. Alcuni pensano che si tratti di un altro omaggio al nostro Bock / Tragus, ma è molto più probabile che Haller intendesse alludere alle foglie appuntite e bordate di peli, che possono ricordare le orecchie di una capra. La forma Tragus è davvero insolita per un nome celebrativo e capre e caproni sono di casa nei nomi botanici: basti pensare a Salsola tragus, per l'odore pungente come quello di un caprone, o ancoraTragacantha, per una pianta spinosa e puzzolente, oppure Salix caprea, il "salice delle capre". Insieme a Hieronymus Bock e Leonhart Fuchs, Otto Brunfels è uno dei tre "padri della botanica tedesca" (o, secondo alcuni, della botanica tout court). E' vero che, in area tedesca, il suo Herbarum Vivae Eicones è il primo a superare gli erbari figurati di tradizione medievale, messi insieme con il copia-incolla. Ma se il volume segna una tappa nella storia della botanica, non è tanto per i suoi testi (anch'essi ben poco originali) quanto per le incisioni di Hans Weiditz , il primo a ritrarre le piante dal vero e a farle vivere sulla pagina stampata. Il primo vero illustratore botanico della storia avrebbe meritato un genere celebrativo, ma così non è; invece a celebrare Brunfels, per volontà di Plumier e Linneo, c'è il magnifico genere Brunfelsia. ![]() Come si confeziona un prodotto editoriale di successo Come ho raccontato in questo post, il mercato editoriale tedesco aveva scoperto precocemente le potenzialità economiche degli erbari figurati, con una vivace produzione di Kräuter Bücher in lingua tedesca, assai apprezzati da un pubblico relativamente vasto di "illetterati", ovvero di persone che non conoscevano il latino. Costruiti con il copia-incolla riprendendo testi e immagini dalla tradizione manoscritta medievale, non brillavano certo per originalità. Il primo a capire che il mercato era pronto per qualcosa di nuovo fu probabilmente l'editore di Strasburgo Johann Schott, tanto più che aveva sotto mano la persona giusta per scrivere il testo; da qualche anno si era infatti trasferito in città il teologo Otto Brunfels che, oltre ad aver aperto una scuola per i ragazzi, era un poligrafo che aveva già pubblicato per lui due libri di biografie, l'una dedicata agli uomini illustri dell'Antico e del Nuovo testamento, l'altra ai medici celebri. Non era un medico (lo sarebbe diventato poco dopo), ma, oltre ad essere un eccellente latinista, si interessava di botanica ed era aggiornato sulle ultime tendenze che arrivavano dall'Italia. Per altro, più che sul testo, l'avveduto Schott puntava sulle immagini; e anche per quelle aveva la persona giusta: il pittore e incisore Hans Weiditz, figlio di un affermato scultore locale e allievo di Albrecht Dürer. Le xilografie del suo nuovo erbario non sarebbero state l'ennesimo rifacimento di miniature medievali, ma, per la prima volta in assoluto, avrebbero ritratto le piante dal vivo, secondo il nuovo stile naturalistico imposto appunto da Dürer. Che nelle intenzioni di Schott le immagini fossero l'elemento più importante si vede fin dal titolo: Herbarum vivae eicones, ad naturae imitationem, summa cum diligentia et artificio effigiatae, ovvero "Immagini vive delle erbe, effigiate con la massima diligenza e virtuosismo, in modo da imitare la natura". Un titolo che equivale a uno spot pubblicitario. Grazie a quelle immagini senza precedenti, Herbarum vivae eicones di Brunsfeld segnò una tappa fondamentale nella storia della botanica, tanto che Julius von Sachs nella sua Geschicte der Botanik scelse la sua data di pubblicazione, il 1530, come anno di inizio della storia della botanica moderna e proclamò l'autore, insieme a Bock e Fuchs, padre della botanica. Un titolo quanto meno esagerato, anche se l’autore ha i suoi meriti e il libro ne ha ancora di più. Da teologo, a botanico e medico Quando arrivò a Strasburgo, Brunfels era sulla trentina, ma aveva già alle spalle una vita travagliata, vissuta nel fuoco della passione per il rinnovamento religioso e morale, ma anche civile e politico annunciato dalla Riforma. Figlio di un bottaio, giovanissimo si laureò in filosofia e teologia, quindi si fece monaco, prima nella certosa della città natale Magonza, poi in quella di Königshofen nei pressi di Strasburgo. Qui poté frequentare gli ambienti umanistici e pubblicare i suoi primi scritti, dedicati a problemi morali e teologici sulla scia di Erasmo da Rotterdam. La Riforma protestante lo vide in prima fila, schierato al fianco di Lutero ma ancora di più di Ulrich von Hutten, il leader della guerra dei cavalieri. Le sue posizioni erano dunque decisamente radicali e lo costrinsero prima ad abbandonare il monastero, poi a diventare una specie di pastore itinerante, in conflitto non solo con la Chiesa cattolica ma anche con Zwingli e lo stesso Lutero. Negli anni caldi della nascita della Riforma, tra il 1519 e il 1524 egli scrisse copiosamente di argomenti morali e teologici, che spesso avevano anche risvolti politici: in particolare, denunciò l'arbitrarietà delle decime, anche se non fino al punto di invitare i contadini a non pagarle; la sconfitta della guerra dei cavalieri e la morte di von Hutten (che difese ancora dopo la sua scomparsa contro le critiche di Erasmo, ai suoi occhi un opportunista che non aveva avuto il coraggio di schierarsi apertamente con la Riforma) lo spinsero a moderare le sue posizioni e soprattutto ad abbandonare la polemica religiosa, per tornare a Strasburgo. Città libera dell'Impero, ma in posizione decentrata, e dominata dalle posizioni conciliatrici di Martin Butero, rispetto alla Germania poteva essere un asilo abbastanza sicuro e quasi un'oasi di tranquillità. Come ho già accennato, negli otto anni in cui visse a Strasburgo, forse anche in connessione con la professione di maestro, scrisse di molti argomenti, anche se Herbarum vivae eicones rimane la sua opera di maggior impegno. Divisa in tre parti, uscite rispettivamente nel 1530, nel 1532 e nel 1536, si concluse solo dopo la morte dell'autore, avvenuta nel 1534. Non sappiamo se Brunfels si fosse già interessato di botanica in precedenza, magari fin dagli anni in cui era monaco certosino; ma, a parte la raccolta di biografie di medici pubblicata da Schott, non aveva mai scritto nulla né di medicina né di piante medicinali. Ma si appassionò tanto all'argomento che, benché avesse ormai superato la quarantina, andò a Basilea a studiare medicina e, dopo essersi laureato nel 1532, si trasferì a Berna come medico della città. Qui morì nel 1534. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Quando le immagini prevalgono sul testo E' molto probabile che Herbarium vivae eicones come lo leggiamo oggi non corrisponda affatto al progetto che aveva in mente Brunfels quando iniziò a scriverlo. Sulla scorta delle indicazioni degli umanisti italiani, in particolare dei medici dello Studio ferrarese Niccolò Leoniceno e Giovanni Manardo, che invitavano ad abbandonare Plinio per riscoprire Dioscoride nella sua veste originale, e a verificare l'identificazione delle piante dal vivo, l'ex teologo si proponeva di superare i vecchi erbari tedeschi attingendo direttamente alle fonti antiche, prima tra tutte la Materia medica di Dioscoride. Probabilmente intendeva presentare le piante in ordine alfabetico, dando la precedenza o forse l'esclusiva alle specie medicinali citate dagli antichi. Per identificarle correttamente, anche lui, seguendo l'esempio di Leoniceno e Manardo, percorreva le campagne attorno a Strasburgo cercando di identificare le piante mediterranee nominate da Dioscoride nella ben diversa flora del centro Europa, ovviamente incappando in identificazioni forzate o arbitrarie. e le cose non andarono come avrebbe voluto, la colpa (o il merito) fu di Hans Weidnitz. Il pittore doveva essere uno spirito indipendente (e intraprendente) e prese l'iniziativa di ritrarre dal vivo anche piante non previste dall'autore, non solo mai citate da Dioscoride o Plinio, ma spesso pure prive di proprietà officinali. Insomma, vere e proprie erbacce. Brunfels le avrebbe espunte volentieri, o almeno relegate in un'appendice, ma l'editore premeva perché il lavoro procedesse in fretta, e, mano a mano che le matrici erano pronte, venissero stampate le xilografie con i testi relativi. Così l'ordine previsto da Brunfels saltò, e le specie vennero disposte in un ordine casuale, dettato dalle esigenze editoriali. Per Brunfels fu sicuramente uno smacco, tanto che si scusa addirittura con i lettori di aver inserito queste piante nel corpo del testo e le chiama spregiativamente “plantae nudae”, indegne di essere illustrate perché non coperte dal prestigio di una designazione autorevole. Eppure sono proprio le spregevoli piante nude a rendere interessante il libro di Brunfels ai nostri occhi: su 258 specie o varietà illustrate, quelle mai descritte in precedenza sono 47, e sono le uniche per le quali il supposto "padre della botanica" scrive ciò che vede con i suoi occhi o ha saputo dai suoi informatori, e non ciò che riprende diligentemente dalle fonti antiche. Per scoprire i loro nomi e sapere qualcosa dei loro eventuali usi, senza alcuna spocchia intellettuale, egli si rivolse infatti agli erboristi e anche alle «vecchiette espertissime» che «non conoscono le piante grazie ai libri, ma sono stati ammaestrati dall'esperienza». E sicuramente non gli spiacque che l’editore prendesse l’iniziativa di affiancare all'edizione latina una versione tedesca, il Contrafayt Kreüterbuoch (ovvero “Libro d’erbe illustrato”), con l’aggiunta di una cinquantina di illustrazioni originali. Oggi si tende sostanzialmente a ridimensionare il valore storico dell’opera di Brunfels, giudicata un lavoro sostanzialmente compilatorio, mentre non si manca di sottolineare l’altissima qualità delle illustrazioni di Hans Weiditz (1497-1537 circa). Probabilmente si deve a lui la maggior parte delle immagini dei primi due volumi dell’Herbarum Vivae Eicones, anche se fu assistito da altri pittori e da uno o più incisori. Weiditz, come abbiamo già visto, scelse con una certa autonomia le piante da ritrarre; le disegnò e le dipinse da vivo, non in modo idealizzato, ma estremamente realistico tanto che in alcune tavole vediamo fiori appassiti, foglie strappate o mangiate dagli insetti. Da questo punto di vista, le sue immagini sono abbastanza lontane dalle future convenzioni dell’illustrazione botanica che rappresenta le piante non in modo individuale, ma ideale; invece troviamo già le piante decontestualizzate, disposte sul foglio bianco staccate dal loro habitat; in alcuni esemplari sono presentati diversi stati della vita della pianta ritratta, con fiori e frutti insieme. Nel 1930 a Berna, in un volume appartenuto a Felix Platter, furono ritrovati settantasette acquarelli di piante dipinte da Weiditz: si tratta di una parte degli originali da cui furono tratte le xilografie dei volumi di Brunfels. Rispetto a queste ultime, sono ancora più notevoli per virtuosismo e naturalismo; gli incisori non di rado le adattarono alla pagina, spesso disponendole in posizioni innaturali e le riprodussero con un tratto piuttosto sottile, senza chiaroscuro; inoltre le dimensioni delle xilografie sono molto variabili, dalla pagina piena a pochi centimetri, con il testo che si dispone intorno in modo a volte un po' disordinato. Probabilmente, erano previste copie di lusso acquarellate a mano, di cui gli originali di Weiditz costituiscono il modello per i colori. Le illustrazioni di Weidnitz imposero un nuovo standard, tanto che furono immediatamente piratate: nel 1533 l’editore Egenolph ne fece copiare alcune (invertite e ridotte nelle dimensioni) per illustrare il Kreutterbuoch di Eucharius Rösslin; Schott gli fece causa e l’editore rivale fu costretto a desistere (ne ho parlato in questo post). Qualche anno più tardi, esercitarono una notevole influenza sugli artisti che illustrarono De historia stirpium di Fuchs. ![]() Fiori profumati, fiori cangianti A far entrare Brunfels nella terminologia botanica con la dedica di uno dei suoi generi americani fu il solito padre Plumier, che con tono lievemente apocalittico sottolinea il ruolo di precursore del botanico-teologo: «Per primo in Germania cercò di strappare la botanica medica, quasi estinta, da profondissime tenebre». E ciò resta vero non solo per il pionieristico Herbarum vivae eicones, ma anche per aver stimolato e incoraggiato altri botanici a seguirlo sulla stessa strada: fu lui a persuadere Hieronymus Bock a pubblicare il suo erbario tedesco, sobbarcandosi un viaggio a piedi da Strasburgo a Hornbach per convincerlo di persona; in appendice a Herbarum vivae eicones, pubblicò i primi scritti dello stesso Bock e di Fuchs; e fu certo l’interesse suscitato dal libro di Brunfels a spingere Euricius Cordus a scrivere e pubblicare il suo Botanologicon. Validato da Linneo nel 1753, il genere Brunfelsia, della famiglia Solanaceae, comprende una cinquantina di specie di piccoli alberi e arbusti, più qualche liana, diffuse esclusivamente nell'America tropicale, dalle Antille all'Argentina. Hanno grandi fiori profumati tubolari, con corolla piatta, lievemente zigomorfi, con cinque grandi lobi, simili a quelli delle petunie (i generi sono piuttosto affini e appartengono alla medesima tribù, quella delle Petunieae). Come molte piante di questa famiglia, contengono sostanze medicinali e alcaloidi, le cui proprietà sono state scoperte e sfruttate dalle culture indigene; tuttavia diverse componenti sono tossiche e possono causare problemi sia all'uomo sia agli animali domestici. Diverse specie di Brunfelsia sono coltivate per il grande valore ornamentale nei paesi a clima mite. Le più note sono B. americana e B. pauciflora. B. americana è un piccolo albero originario delle Antille, dove lo vide e lo descrisse padre Plumier; sempreverde, ha grandi fiori solitari dapprima bianchi poi giallo crema, che si aprono di notte diffondendo un forte profumo che gli ha guadagnato il soprannome di “signora della notte”. Da noi è però più coltivata l’arbustiva B. pauciflora, originaria del Brasile, che al momento della fioritura dà spettacolo con le sue corolle in tre colori. Infatti i suoi fiori hanno la curiosa particolarità di cambiare colore: al momento dell’apertura sono viola purpureo, quindi lavanda, infine, poco prima di appassire, bianchi. Ecco perché gli inglesi la chiamano yesterday-today-tomorrow, “ieri, oggi, domani”. Nessuna delle due specie è rustica. Garantisce invece una buona resistenza al freddo B. australis, che come dice il nome specifico ha una distribuzione più meridionale (dal Brasile meridionale all’Argentina); è simile a B. pauciflora, ma con portamento più compatto e fiori più piccoli, anch'essi in tre colori. Qualche approfondimento nella scheda. Nel settembre 1534, il medico portoghese Garcia de Orta, figlio di una coppia di ebrei espulsi dalla Spagna e costretti alla conversione forzata, sbarca a Goa. A spingerlo a venire in India, da una parte, l'angosciosa situazione dei marrani, gli ebrei convertiti; dall'altra la curiosità per quel mondo esotico, ma in qualche modo familiare, visto che ne sono originarie molte droghe che usa nella sua professione. Si stabilisce a Goa, diventa il medico di fiducia di maggiorenti indiani e portoghesi, commercia in spezie e gioielli, impara dai suoi numerosi corrispondenti i principi delle medicine unani e ayurvedica, fa esperimenti e coltiva un orto botanico di acclimatazione. Frutto di trent'anni di vita e di ricerche nel subcontinente il suo originalissimo Colóquios dos simples e drogas he cousas medicinais da Índia segna il primo vero incontro tra la botanica europea e la flora indiana. Ma, come il suo autore, sarà vittima dell'intolleranza religiosa: dodici anni dopo la sua morte, l'Inquisizione sottopone Garcia de Orta a un processo postumo e ne condanna le spoglie al rogo e i libri all'Indice. Se nonostante tutto, i Colóquios hanno lasciato un segno nella storia della botanica e nella conoscenza delle piante indiane è merito di Corolus Clusius, che li scoprì durante un viaggio in Portogallo e li tradusse in latino. Un medico di origini ebraiche scopre l'India Il 12 marzo 1534, al comando di Martim Afonso de Sousa, ammiraglio dei mari delle Indie, una squadra di cinque navi salpa da Lisbona alla volta di Goa. A bordo, nelle vesti di medico personale dell'ammiraglio e di medico capo della flotta, il dottor Garcia de Orta. Ha poco più di trent'anni, e potremmo considerarlo un uomo arrivato: è molto reputato nella sua professione e da qualche anno tiene lezioni di filosofia naturale all'Università della capitale. Eppure quando don Martim Afonso gli propone di accompagnarlo in India, non esita a lasciare tutto per seguirlo. Dietro quella scelta, almeno due ragioni. Una è il fascino dell'India, ancora quasi inedita per gli Europei, se si pensa che Vasco da Gama è sbarcato sulle sue coste appena nel 1497. Inedita, ma in un certo senso anche familiare, visto che proprio dall'India parte la via delle spezie e proprio da lì arrivano molte delle sostanze che egli usa nel suo lavoro. Anzi, è stupito che i suoi conterranei vedano l'India solo come una fonte di guadagno, senza provare alcuna curiosità per quel mondo tutto da scoprire. La seconda ragione è più drammatica. Garcia de Orta è figlio di una coppia di conversos, ebrei che sono fuggiti dalla Spagna nel 1492 in seguito al decreto di espulsione dei re cattolici e nel 1497, per poter rimanere in Portogallo, si sono dovuti sottomettere alla conversione forzata. Hanno avuto la fortuna di trovare un protettore nel nobile Lobo de Sousa (il padre di dom Martim Afonso), grazie al quale Garcia ha potuto studiare nelle prestigiose università spagnole di Salamanca e Alcalá, e poi avviare una carriera di successo come medico e insegnante universitario. Ma è pur sempre un converso, anzi un marrano (un insulto che forse significa porco) che potrebbe cadere vittima di un pogrom come quello della Pasqua del 1506, quando a Lisbona la folla, istigata dai frati domenicani, massacrò quasi 2000 ebrei convertiti. E si vocifera che l'Inquisizione stia per essere istituita anche in Portogallo. A settembre la flotta getta l'ancora a Goa e Garcia de Orta sbarca per la prima volta nella terra che non lascerà più fino alla morte, trentaquattro anni dopo. Per quattro anni, accompagna il suo protettore in tutte le sue imprese: la cessione di Diu e la costruzione della sua fortezza; la devastazione dei porti del Samorin di Calcutta e dei suoi alleati; la guerra contro i corsari. Ogni volta che ne ha l'occasione, scende a terra, avido di scoperte: osserva ogni cosa, si informa sulle persone, i costumi, le lingue, impara tutto quello che può sulle piante e le tradizioni mediche locali. Un incontro molto importante è quello con il sultano di Ahmadagar, Buhran Nizam Shah, un principe tollerante, che si circonda di uomini di scienza e lettere senza badare alla loro origine; alla sua corte, Garcia da Orta conosce medici arabi e indiani, da cui apprende i principi delle medicine unani e ayurvedica. Nel 1538, quando l'ammiraglio viene momentaneamente richiamato in patria, il medico preferisce rimanere in India: la ama con tutto il cuore, ha ancora molto da scoprire, inoltre i suoi timori si sono concretizzati con l'istituzione dell'Inquisizione anche in Portogallo nel 1536. Si stabilisce a Goa, dove acquista una casa e esercita la professione medica, integrata con attività redditizie come il commercio di spezie e di pietre preziose. Ha molti clienti, sia tra i portoghesi sia tra gli indiani, ma anche incarichi ufficiali, come medico dell'ospedale cittadino e della prigione. Piante indiane e Inquisizione Da questo momento, troppo impegnato con le sue varie attività, Garcia de Orta non viaggia più, ma vivendo a Goa, il centro del commercio portoghese delle spezie, ha modo di incontrare persone di ogni genere e di accedere a molte fonti di informazione. Nelle botteghe multietniche del bazar (i mercanti sono indiani, arabi, persiani) trova oggetti curiosi, frutti esotici, spezie ed erbe medicinali. La sua rete di agenti commerciali e di corrispondenti gli spedisce piante e semi da altre regioni del subcontinente. Il dottore, che oltre al portoghese, all'ebraico e alle lingue classiche, parla bene anche l'arabo, si intrattiene con tutti, si interessa di tutto, ma soprattutto di medicina, spezie, piante: di ciascuna vuole conoscere il luogo di coltivazione, gli usi, gli effetti terapeutici. Nella sua casa c'è un piccolo museo di curiosità (che anni dopo farà la delizia del poeta Luis de Camões, suo intimo amico) e una fornita biblioteca, dove accanto ai classici che ha portato con sé dal Portogallo e ai testi arabi che ha acquistato in India, ci sono tutte le più importanti novità dei medici e dei naturalisti europei che si fa spedire dalla madre patria. Sul retro ci sono un piccolo orto-giardino dove coltiva le piante medicinali che sperimenta sui suoi pazienti e qualche albero da frutto. Nel 1541 Martim Afonso de Sousa ritorna a Goa come viceré, incarico che manterrà fino al 1546, e di nuovo vuole Garcia de Orta come medico personale. Anche i successori lo stimano e uno di essi nel 1548 gli assegna in enfiteusi l'isola di Mombain (qui più tardi sorgerà la città di Bombay, oggi Mumbai); il dottore ora può fare esperimenti molto più in grande nel curatissimo orto botanico o giardino di acclimatazione, dove coltiva piante di ogni provenienza. E' un personaggio estremamente stimato, con molti amici, tra cui appunto Camões, che arriva a Goa nel 1555, e il dottore Dimas Bosque, che vi giunge nel 1558 al seguito del nuovo governatore Constantino de Bragança. E' probabilmente questa rete di amici e protettori a tenere lontane dalla sua persona le ombre dell'Inquisizione. Dal canto suo, il dottore bada ad allontanare ogni sospetto: va a messa ogni giorno, ha relazioni cordiali con francescani, domenicani e gesuiti e assiste alle loro cerimonie pubbliche. Tuttavia, il pericolo si fa sempre più vicino. Nel 1548, le sorelle Isabel e Catarina, rimaste in Portogallo, vengono arrestate; rilasciate, fortunatamente possono raggiungerlo a Goa, insieme alla vecchia madre e alle rispettive famiglie. Ma proprio a Goa, nel 1557, si tiene un processo contro un gruppo di venti conversos accusati di praticare segretamente il giudaismo; poiché nella colonia non esiste ancora l'Inquisizione, vengono inviati a Lisbona dove una donna è arsa viva. E' la premessa per l'istituzione dell'Inquisizione anche a Goa, nel 1560 (a richiederla a gran voce è Francesco Saverio). Orta riesce probabilmente a ingraziarsi l'inquisitore Aleixo Dias Falcão, appena arrivato nell'isola; rassicurato dalla fama del dottore e dai suoi protettori altolocati, nel 1563 egli concede l'imprimatur alla pubblicazione di Colóquios dos simples. Egli ignora che in quel momento Garcia de Orta è già nella lista dei sospetti: nel 1561 a Lisbona è stato arrestato un suo nipote; rilasciato dopo lunga detenzione, ha fatto il nome dello zio e l'Inquisizione portoghese ha aperta un'inchiesta su di lui. Falcão viene a trovarsi in una situazione imbarazzante che forse spiega perché, fino alla morte di Gracia de Orta, avvenuta nei primi mesi del 1568, questi venga lasciato in pace. Ma pochi mesi dopo, sua sorella Catarina è nuovamente arrestata, processata, costretta alla confessione e bruciata viva in un autodafé; sottoposta a tortura, ha denunciato anche il fratello. Se il dottore è ormai irraggiungibile, non lo sono né le sue spoglie né la sua opera. Nel 1572 gli viene intentato un processo postumo, in cui è assolto; ma, processato nuovamente nel 1580, viene condannato: l'Inquisizione ordina di esumare il cadavere e di gettarlo alle fiamme insieme a tutte le copie reperibili dei Colóquios. Il suo nome diventa maledetto e la sua opera proibita. Per una sintesi della vita, si rimanda alla sezione biografie. ![]() Dialoghi sui semplici e le droghe dell'India In questo modo rischiò di scomparire l'opera che segna il primo incontro tra la botanica europea e le piante indiane: Colóquios dos simples e drogas e coisas medicinais da Índia, "Dialogo sui semplici, le droghe e la materia medica dell'India", che come ho anticipato Garcia de Orta pubblicò a Goa nel 1563. Era il frutto di un trentennio di studi ed esperienze sulla medicina, le spezie e le piante medicinali dell'India, anche se non sappiamo quando esattamente il medico portoghese abbia iniziato a scriverla. Quando venne data alle stampe, l'arte della tipografia era neonata a Goa, e il tipografo Ioannes de Endem commise tanti errori che per correggerli furono necessarie più di venti pagine di errata corrige, un record nella storia dell'editoria. Il libro è aperto dalla dedica al viceré Martim Afonso de Sousa, dall'introduzione di Dimas Bosque e da due poesie: una di un poeta locale non meglio noto, l'altra di Camões, la prima sua ad essere pubblicata: è una lirica encomiastica in cui il viceré è paragonato ad Achille e Garcia da Orta al centauro Chirone, suo maestro nell'arte medica e nella conoscenza delle erbe. Non mancano giochi di parole tra Orta, il cognome del dottore, e orta, che in portoghese significa giardino. Colóquio dos simples è un'opera originale da ogni punto di vista, a cominciare dalla lingua e dalla forma. Garcia de Orta decise di scriverla in portoghese, anziché in latino, una scelta che ne limitava la diffusione internazionale, ma allargava il pubblico potenziale dei lettori portoghesi ai non specialisti. La forma è quella del dialogo tra due personaggi: lo stesso Garcia de Orta e il dottor Ruano, che si immagina laureato ad Alcalá e appena giunto a Goa con l'intenzione di saperne di più sulle piante medicinali e le spezie indiane. Occasionalmente intervengono anche altri personaggi, tra cui la schiava Antonia, assistente di Orta, Dimas Bosque e un medico indiano. Si ritiene generalmente che entrambi i personaggi principali siano proiezioni dell'autore: Ruano è Orta al momento del suo arrivo in India, un giovane studioso con una preparazione ancora libresca, ma desideroso di apprendere, Orta è sempre lui, ma vecchio e ormai esperto di cose indiane dopo trent'anni di vita e pratica medica in India. Suddiviso in 59 dialoghi, di cui il primo funge da introduzione, Colóquios dos simples tratta in ordine alfabetico una settantina di sostanze medicamentose o semplici, 56 delle quali vegetali; si aggiunge qualche prodotto animale (l'ambra, il benzoino, l'avorio, le perle) o minerale (i diamanti e le pietre preziose). Molte sono allo stesso tempo familiari e esotiche: percorrendo la via delle spezie, raggiungono l'Europa da secoli, sono oggetto del commercio più redditizio (e i portoghesi sono qui proprio per assicurarsene il monopolio), ne parlano gli autori antichi, a cominciare da Dioscoride, Plinio e Galeno, oppure gli scrittori arabi. Tuttavia quelli che arrivano nelle botteghe degli speziali e nelle cucine dei ricchi sono semi, foglie, cortecce, radici essiccate; delle piante in sé, si sa poco o nulla. Orta è perfettamente consapevole di essere praticamente il primo studioso europeo ad averle viste nelle loro condizioni naturali; e, benché conosca bene i classici, proclama che la loro autorità viene meno di fronte all'esperienza diretta: "Inutile cercare di intimorirmi con Dioscoride o Galeno, io dico solo la verità e ciò che so". Altrettanta indipendenza di pensiero dimostra verso i botanici contemporanei, che in Europa discettano da lontano di ciò che non hanno mai visto. Dunque, anche se in Europa di molte piante si conosce il nome o i prodotti, Colóquios dos simples è un'opera di novità assoluta. Ovviamente ci sono le spezie e le sostanze aromatiche note fin dall'antichità e citate dagli autori classici: cannella, cardamomo, chiodi di garofano, zenzero, noce moscata, pepe, aloe, canfora, calamo aromatico, incenso, mirra; quelle che avevano raggiunto l'Europa solo nel Medioevo, di cui parlavano le fonti arabe: curcuma, galanga, sandalo, tamarindo; ma in molti casi, soprattutto per i frutti, quella di Garcia de Orta è la prima trattazione: carambola, giuggiola, mangostano, jackfruit, litchi, cocco delle Maldive, mango, neem. E anche quelle apparentemente note finalmente escono dalla leggenda e dal sentito dire. Ogni dialogo tratta una singola sostanza, o al più un gruppo di sostanze affini, e segue uno schema ricorrente, che possiamo esemplificare con la prima ad essere discussa, Aloe socotrina (Dialogo 2), forse da identificarsi con Aloe perryi Baker. Si inizia con il nome in varie lingue: prima latino e greco, quindi arabo, diverse lingue indiane, spagnolo, portoghese, turco, persiano. Si prosegue con la provenienza: è coltivata in vari luoghi, ma la migliore viene da Socotra. Seguono informazioni sul suo commercio, correggendo la falsa credenza che cresca ad Alessandria, dovuta al fatto che, prima che i portoghesi aprissero la via diretta con le Indie, la via delle spezie faceva capo a quel porto. A questo punto Orta ne discute l'uso medico, riportando sia quanto ne dicono le fonti arabe sia quanto ha appreso da altri medici sia ancora ciò che egli stesso ha sperimentato sui suoi pazienti. La pianta non viene descritta (e questa è l'eccezione, non la regola), ma se ne analizza il sapore e l'odore. Infine si discutono gli effetti collaterali, sui quali, in base alla sua esperienza, Orta si trova in accordo con Avicenna, e in disaccordo con Mesuè (ovvero Yuhanna ibn Masawayh). Nei dialoghi si inseriscono ogni sorta di digressioni, con informazioni sulla geografia, i popoli, i commerci, e aneddoti curiosi. Per la storia della medicina, è di particolare interesse il dialogo 17, in cui, a proposito del Costus, Gracia de Orta dà la prima descrizione clinica del colera. Era una malattia nuova per i medici portoghesi, che non sapevano come curarla; Orta raccolse informazioni sulle cure e le erbe usate dai medici locali, rivolgendosi anche ai loro pazienti portoghesi, visto che i medici indiani era poco inclini a svelare i segreti professionali, e le provò sui suoi pazienti, ottenendo risultati molto migliori di quelli dei colleghi. Eseguì anche un'autopsia su una delle vittime, la prima praticata in Asia da un medico europeo. ![]() Traduzioni, rifacimenti, plagi e giardini Pubblicati nella remota Goa in un'edizione infarcita di errori tipografici, in una lingua periferica e condannati all'oblio dall'Inquisizione, nonostante la loro importanza i Colóquios dos simples hanno rischiato di sparire dalla storia della scienza. Libro rarissimo, è stato preservato in meno di venti copie, nessuna delle quali si trova a Goa. Ma prima della condanna, qualcuna aveva fatto in tempo ad arrivare nelle biblioteche portoghesi. Appena un anno dopo la pubblicazione, una capitò nelle mani di Carolus Clusius, che stava visitando la penisola iberica come accompagnatore di un giovane Fugger. Capì immediatamente la sua importanza e decise di tradurlo in latino, la lingua internazionale della scienza. Tornato nelle Fiandre, lo pubblicò ad Anversa per i tipi di Plantin con il titolo Aromatum, et simplicium aliquot medicamentorum apud Indios nascentium (1567). Come spiega lo stesso Clusius nell'introduzione, non si tratta di una traduzione integrale, ma di un compendio e in un certo senso di un rifacimento: "Ho tradotto i Colloqui in latino, quindi li ho ridotti in epitome, scrivendo ogni capitolo in modo individuale e in un ordine più adatto di quello originale, espungendo diversi argomenti che non giudico importanti". In particolare, Clusius elimina la forma dialogica e trasforma il libro in un trattato; scarta le digressioni non rilevanti per la botanica e la medicina; aggiunge un indice dei nomi e le referenze bibliografiche degli autori citati; inoltre, per quanto riguarda l'origine geografica e le virtù medicinali delle piante, integra quanto più possibile il testo con notizie ricevute da altri informatori. Insomma, un libro tutto diverso, e decisamente più rispondente agli standard accademici; senza parlare dell'edizione: non c'è raffronto possibile tra la terremotata edizione dell'apprendista tipografo Joannes de Endem e la curatissima edizione plantiniana, corredata anche da una quindicina di xilografie. Non stupisce dunque che a circolare non sia stata l'edizione originale, ma l'epitome di Clusius; il botanico fiammingo continuò a lavorarci per tutta la vita, pubblicandone cinque edizioni successive, costantemente riviste e ampliate, e incluse quella finale nella sua ultima opera, Exoticorum libri decem (1605). Risalgono anche al testo di Clusius le traduzioni in lingue moderne, come quella italiana precoce di Briganti (1589). E' invece almeno in parte un rifacimento del testo originale di Orta il Tractado de las drogas y medicinas de las Indias Orientales del medico portoghese Cristóvão da Costa, più noto con il nome spagnolo Cristobal Acosta, pubblicato in lingua spagnola nel 1567. Acosta era vissuto a lungo in India e aveva conosciuto di persona Garcia de Orta. Anch'egli riorganizzò la struttura dei Colóquios, ne corresse gli errori, corredò il testo di illustrazioni e aggiunse la trattazione di semplici non contemplati nell'originale; ma il Tractado, in modo meno trasparente del lavoro di Clusius, non si presenta come un'epitome dei Colóquios, ma come un'opera a sé che "verifica" quanto scritto da Orta, come enuncia il sottotitolo: "Trattato delle droghe e delle medicine delle Indie Orientali [...] di Cristobal Acosta, medico e chirurgo che le vide con i suoi occhi: nel quale si verifica molto di ciò che è stato scritto dal dottor Garcia de Orta". Ecco perché molti commentatori parlano esplicitamente di plagio. In ogni caso, grazie a Clusius (che tradusse in latino ed incluse in Exoticorum libri decem anche il testo di Acosta) l'opera e il nome di Garcia de Orta furono conosciuti dai botanici europei, andando a costituire una fonte imprescindibile per gli studiosi successivi. Per leggere il testo originale, tuttavia, bisognò attendere il 1872 quando ne fu stampata la prima edizione moderna, che lo riproduce pagina per pagina ma corregge silenziosamente gli errori tipografici, e quindi non è un facsimile. Seguì tra il 1891 e il 1895 la prima edizione critica commentata. Ormai i tempi erano cambiati e il marrano Garcia de Orta poteva essere riconosciuto come una gloria nazionale. Nel 1998, in occasione dell'Expo di Lisbona, nel Parque das Nações è stato creato il Jardim Garcia d'Orta che ospita cinque giardini tematici con ecosistemi delle zone toccate dai navigatori portoghesi nell'età delle scoperte: la foresta temperata di Macao e dell'isola di Coloane; la vegetazione di Goa, dominata dai palmizi; la foresta tropicale umida di São Tomé e Príncipe; la flora della Macaronesia (Madera, Azzorre e Canarie); la flora semidesertica e le savane della costa orientale dell'Africa. Un piccolo giardino con lo stesso nome si trova anche a Panjim, la capitale del distretto nord di Goa. A rendere omaggio a Orta i botanici avevano pensato da un pezzo, dedicandogli successivamente tre generi: Garcinia, stabilito da Linneo nel 1753; Garciana, creato dal conterraneo Loureiro nel 1770 (oggi sinonimo di Phylidrum); Horta, stabilito dal brasiliano Vellozo e pubblicato nel 1829 (oggi sinonimo di Clavija). L'unico valido è dunque quello linneano; ma poiché Garcia da Orta deve condividerlo con un altro dedicatario, per saperne di più dovete aspettare il prossimo post. La vita di Andrès Laguna, medico umanista celebre per la prima (e mirabile) traduzione in spagnolo di Dioscoride, è caratterizzata da un continuo errare per le contrade d'Europa. A vent'anni, dalla nativa Spagna va a studiare a Parigi (una scelta forse obbligata per un converso nato da padri ebrei); poi lo troviamo a Londra, Gand, Ratisbona, Metz, Colonia, e, per molti anni in Italia, tra Bologna, Roma e Venezia. A quella Europa umanista e cristiana che sentiva come la sua vera madre dedicò anche un'accorata orazione che è allo stesso tempo un compianto e un invito alla pace, in un continente dilaniato dalle guerre e dagli scontri religiosi. Laguna condivideva l'anacronistico sogno di Carlo V di una monarchia universale; e quando capì che non era possibile, lui che per tutta la vita aveva scritto in latino, decise di servirsi della lingua di Castiglia per la sua edizione di Dioscoride, una delle più importanti della prima stagione del Rinascimento. E la dedicò al suo nuovo sovrano, il principe Filippo che di lì a poco sarebbe passato alla storia come Felipe II. ![]() Compianto per l'Europa che tormenta se stessa La sera del 22 gennaio 1543, all'Università di Colonia va in scena una commovente e mesta cerimonia. Nell'aula magna rivestita di drappi neri, illuminata da nere candele, avanza un uomo in cappa e cappuccio neri. E' il medico e umanista spagnolo Andrès Laguna. Invitato dall'arcivescovo della città a tenere una lezione magistrale, ha voluto questo apparato funebre per dare più forza alla sua orazione Europa heutentimorumene, "L'Europa che tormenta sé stessa". Di fronte a un attonito pubblico di notabili, presta la sua voce a un'Europa dilaniata da interminabili guerre intestine e invita alla pace e alla concordia in nome della comune identità europea e cristiana. Il discorso di Laguna è uno dei primi in cui viene espressa un'idea di Europa intesa non come spazio geografico ma come entità politica e culturale con radici comuni, che per l'umanista cristiano Laguna sono l'antichità greco-latina e la religione cristiana. Questa visione umanista dell'Europa, che egli riprendeva da Erasmo e dallo spagnolo Juan Luis Vives, per il medico spagnolo era anche una concreta esperienza di vita. Nato a Segovia probabilmente nei primi anni del Cinquecento in una famiglia di ebrei convertiti, dopo aver iniziato gli studi in patria, poiché l'Inquisizione vietava ai conversos di conseguire la laurea nelle Università spagnole, era andato a studiare medicina a Parigi. Nella capitale francese, forse al momento l'ambiente più fecondo d'Europa, Laguna aveva incontrato grandi maestri, come Jacques Dubois (Jacobus Sylvius) e Jean Ruel, ed era diventato un tipico uomo universale del Rinascimento: medico, anatomista, botanico, filosofo, cultore delle lingue classiche, filologo e traduttore. Dopo un breve ritorno in patria e un viaggio in Inghilterra, si era spostato nelle Fiandre dove era entrato al servizio di Carlo V. Carlo era il suo sovrano (oltre che imperatore e duca delle Fiandre era anche re di Spagna), ma soprattutto in lui Laguna vedeva il nuovo Carlo Magno, colui che avrebbe ristabilito la monarchia universale e riunito la cristianità divisa, guidandola alla lotta contro i nemici esterni (in primo luogo l'Impero Ottomano), secondo l'ideologia imperiale formulata dal cancelliere dell'Impero, il cardinale umanista Mercurino Arborio di Gattinaria. La realtà era ben diversa; alle interminabili guerre tra Carlo V e Francesco I, che non aveva esitato ad allearsi con il sultano turco, si aggiungevano la frattura religiosa tra cattolici e protestanti, con il suo seguito di scontri sempre più sanguinosi. Lotte in cui Laguna si trovò coinvolto in prima persona quando l'imperatore lo inviò come ambasciatore a Metz, nel 1540. La città era la capitale del ducato di Lorena, di lingua francese, ma formalmente parte dell'Impero, una zona di confine in cui le idee riformate avevano incontrato largo seguito. Medico e anatomista già celebre, Laguna fu invitato ad assumere l'incarico di medico cittadino e rimase nella città lorenese per cinque anni, allontanandosi solo per venire a Colonia in occasione del celebre discorso. In Lorena, Laguna come medico affrontò la battaglia contro la peste e come agente imperiale cercò di combattere la diffusione del protestantesimo; i suoi rapporti con il duca di Lorena, la cui politica oscillava tra la fedeltà all'imperatore e l'avvicinamento alla Francia, si fecero tesi fino al punto di rottura; nel 1545, quando venne richiesta la sua consulenza in un processo di stregoneria contro due anziani accusati di aver causato una grave infermità al duca, dimostrò con un esperimento empirico l'infondatezza delle accuse; il suo parere non piacque né ai giudici (i malcapitati furono condannati) né al duca stesso, e poco dopo Laguna lasciò la città. La tappa successiva fu l'Italia. Il medico umanista incominciava forse a capire che quella dell'Impero universale era un'ideologia anacronistica, e che era giunta l'ora delle monarchie nazionali. L'Italia era per lui la patria dell'Umanesimo, dove avrebbe trovato manoscritti da studiare, colleghi con cui discutere, tipografie all'avanguardia; ma era anche uno dei più importanti domini della monarchia spagnola. La prima tappa fu Bologna, dove ottenne la laurea magistrale in medicina che ancora gli mancava. Visse poi soprattutto a Roma, dove fece parte dell'entourage dell'influente cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla, che lo introdusse presso i papi Paolo III e Giulio III, di cui divenne medico personale. Frequentò anche Napoli, nelle cui campagne raccolse piante officinali, e fu più volte a Venezia e a Padova. Fu forse il desiderio di seguire da vicino le vicende che portarono all'abdicazione di Carlo V che nel 1554 lo spinsero a lasciare l'Italia per le Fiandre, dove nel 1555, come vedremo meglio tra poco, pubblicò la sua celebre tradizione di Dioscoride, dedicata a quel principe Filippo d'Asburgo che presto sarebbe diventato il re di Spagna Filippo II. Seguendo il suo nuovo sovrano tornò infine in Spagna nel 1557, morendo però poco dopo, alla fine del 1559. Una sintesi della sua vita errabonda nella sezione biografie. ![]() Filologia e pratica medica Nella storia della botanica, Laguna (che fu anche prolifico autore di opere mediche, ma soprattutto di edizioni e di traduzioni di testi antichi, tra cui una influente epitome dell'opera omnia di Galeno) conta soprattutto per la mirabile traduzione di Dioscoride, Pedacio Dioscorides Anazabareo. Acerca de la materia medicinal y de los venenos mortiferos (1555). L'interesse di Laguna per l'opera di Dioscoride risale agli anni parigini, quando come abbiamo visto egli fu discepolo di Jean Ruel, autore di una importante traduzione in latino di Materia medica; un interesse che sicuramente lo accompagnò in tutte le sue peregrinazioni, e fu probabilmente anche una delle ragioni che lo spinsero a trasferirsi in Italia, dove erano usciti sia l'editio princeps del testo greco pubblicata da Manuzio (1499) sia i commentari di Mattioli (la prima edizione è del 1544). Anche se è possibile che avesse cominciato a lavorarvi da tempo, la traduzione prese corpo proprio negli anni italiani; e nella nuova atmosfera politica, significativamente Laguna decise che non sarebbe stata in latino, ma in spagnolo (o meglio, in castigliano): era una scelta politica, un contributo al progresso scientifico di quella che, ormai gli era chiaro, era e sarebbe rimasta la sua unica patria. Simbolicamente, la data di pubblicazione (1555) coincide con l'anno di abdicazione di Carlo V, ovvero con la presa d'atto da parte del vecchio imperatore del fallimento del suo progetto politico. Nella sua edizione di Dioscoride Laguna seppe unire allo scrupolo filologico e alla perfetta padronanza delle lingue classica la sua ampia esperienza di medico e di studioso dell'anatomia e delle piante medicinali. Come testo di partenza si basò sulla traduzione latina del suo maestro Ruel, ma la collazionò, oltre che con l'edizione aldina, con tutti i manoscritti che poté consultare, rilevando e correggendo circa 100 errori; la sua traduzione, chiara e precisa, è accompagnata da un ricco apparato di note in cui trasfuse il sapere che aveva accumulato in una vita divisa tra l'interpretazione dei testi antichi, la pratica medica e lo studio dal vivo della natura; sappiamo dal suo stesso racconto che erborizzava, visitava giardini, scambiava esemplari con altri naturalisti, creando anche una piccola collezione di oggetti naturali che portò con sé nei suoi spostamenti; soprattutto interrogava ogni possibile categoria di informatori sulla provenienza e gli effetti dei semplici: medici, mercanti, viaggiatori, addirittura donne di vita. E ciò che apprendeva, lo metteva alla prova sui suoi pazienti, convinto com'era che nulla potesse essere affermato con certezza se non era stato verificato sperimentalmente. Per gli studiosi di oggi, il suo Dioscoride è dunque una miniera di informazioni sulle tecniche mediche, la botanica applicata e la farmacologia del Cinquecento. Entro il XVIII secolo, in Spagna il Dioscoride di Laguna raggiunse 22 edizioni, un testo così popolare da meritare una citazione nel Don Chisciotte di Cervantes; sulle sue pagine si formarono i medici iberici che avrebbero studiato le piante del Nuovo Mondo (una realtà ancora quasi ignorata da Laguna, se non per poche piante viste per lo più come succedaneo più economico delle rare o perdute piante degli antichi). Veramente figlio del Rinascimento per lo scrupolo filologico e l'adozione di una prassi basata sulla verifica sperimentale, Laguna è invece piuttosto tradizionale per l'impostazione generale, ancora fedele alla teoria degli umori di Galeno. ![]() Un falso ibisco che arriva da lontano Particolarmente attento all'identificazione delle specie citate da Disocoride (per identificale correttamente aveva persino pensato di recarsi nell'impero ottomano, impresa da cui fu distolto dagli amici veneziani), Laguna descrisse anche per la prima volta alcune piante orientali che aveva potuto conoscere attraverso i suoi informatori. E' il caso di una Malvacea presente anche in Nord Africa, oggi Abelmoscus ficulneus, che nel 1786 Cavanilles chiamò in suo onore Laguna aculeata; il genere Laguna è oggi considerato sinonimo di Hibiscus. Ugualmente non valido è Lagunea, creato nel 1790 da Loureiro e riformulato come Lagunaea da Agardh, oggi sinonimo di Persicaria. Memore della proposta di Cavanilles, nel 1824 de Candolle denominò Lagunaria una sezione del genere Hibiscus; cinque anni dopo Reichenbach la elevava a genere. Lagunaria (DC) Rchb. è piccolo genere della famiglia Malvaceae, che comprende due specie native dell'Australia, Lagunaria patersonia, un albero endemico delle isole di Lord Howe e Norfolk e della costa del Queensland, e L. queenslandica, endemica del medesimo stato dell'Australia orientale. Abbastanza coltivato anche da noi in zone a clima mite, L. patersonia (spesso commercializzata con la grafia errata L. patersonii) è un bellissimo sempreverde con chioma piramidale e foglie verde oliva, che in estate si ammanta di grandi fiori rosa-lilla a stella. La colonna staminale prominente e i cinque petali ricurvi possono ricordare Hibiscus rosa sinensis, ma le foglie, intere, ovate, coriacee sono completamente diverse. Molto simile è l'altra specie, a lungo considerata una sottospecie con il nome L. patersonia susbp. bracteata, che si distingue per gli organi sessuali ancora più prominenti con nettari esterni al fiore e un diverso habitat: vive lungo i corsi d'acqua e nelle insenature costiere, mentre l'altra specie è tipica della foresta pluviale. Quale informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
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