Il medico alsaziano Gustav Mülhenbeck per quasi trent'anni esplorò la flora della sua regione, condivise generosamente le sue raccolte, si fece un nome come esperto di crittogame. Tuttavia non scrisse mai nulla di botanica, e la morte gli impedì di scrivere l'opera sui funghi che progettava. Il suo vero lascito è un enorme erbario, perfettamente montato e accuratamente classificato secondo gli standard dell'epoca, oggi parte dell'erbario dell'Università di Strasburgo. A ricordarlo provvede anche il variabile genere Muehlenbeckia, di cui almeno una specie (o forse due) è coltivata anche nei nostri giardini. Un raccoglitore generoso, modesto e instancabile Con oltre mezzo milione di esemplari, l'erbario dell'Università di Strasburgo è uno dei più grandi d'oltralpe. Oltre alla collezione generale ed erbari specifici per la flora alsaziana e le crittogame, conserva separatamente anche una serie di erbari storici. Tra i più importanti l'erbario H. G. Mülhenbeck, risalente alla prima metà dell'Ottocento e qui depositato dalla Société Industrielle de Mulhouse. A crearlo fu l'alsaziano Henri Gustave Mulhenbeck (in tedesco Heinrich Gustav Mülhenbeck, 1798-1845), medico di professione e botanico e micologo per passione. Nato a Sainte-Marie-aux-Mines, una cittadina mineraria a ridosso dei Vosgi e rimasto presto orfano, Mülhenbeck studia medicina e chirurgia a Strasburgo e Parigi, dove si laurea nel 1822. La scoperta della botanica avviene negli anni universitari a Strasburgo, quando è allievo di Christian Gottfried Nestler, che gli trasmette la passione per le erborizzazioni, le crittogame e gli erbari. Da diversi anni, Nesteler affianca Jean-Baptiste Mougeot nella creazione di una grande collezione di exsiccata di crittogame (Stirpes cryptogamae vogeso-rhenanae) i cui fascicoli di cento esemplari o centuriae sono via via pubblicati anche in una versione a stampa a partire dal 1810. Il giovane allievo viene coinvolto nelle ricerche e stringe amicizia con Mougeot che sarà per lui un punto di riferimento e un modello di vita: proprio come più tardi Mülhenbeck, egli si divideva infatti tra la medicina e le scienze naturali, e per più di sessant'anni percorse instancabilmente i Vosgi alla ricerca di fossili e piante. Simile è anche la vita di Mülhenbeck, quando, fresco di laurea, si stabilisce come medico generico a Guebwiller, una cittadina ai piedi del Ballon d'Alsace all'imbocco della Valle del Florival. Nell'agosto 1823 così scrive proprio a Mougeot: "Percorrendo la valle per visitare i malati, si trova la strada meno lunga grazie alla diversità dei prodotti di Flora"; e una volta a casa, nel proprio gabinetto medico "non si può trovare società migliore dell'erbario, che è dunque il mio migliore amico e diventa di giorno in giorno più caro: si tra tranquilli con lui!". Nel tempo libero, le passeggiate si allungano per esplorare la flora delle colline calcaree dei dintorni, dove scopre diverse piante segnalate per la prima volta nella regione. Non che il giovane dottore sia un asociale. Nel 1828 viene iniziato alla loggia massonica La Parfaite armonie di Mulhouse, dove incontra un medico dalle idee progressiste, Pierre Paul Jaenger, che più tardi aderirà alle idee socialiste di Fourier. La loggia è soprattutto l'espressione della borghesia imprenditoriale della città, un importante centro tessile, i cui membri, quasi tutti protestanti calvinisti di idee liberali, negli anni napoleonici avevano avuto un ruolo di primo piano nella vita politica locale e ora, negli anni della restaurazione, promuovono iniziative economiche, educative, assistenziali. Nel 1825 viene fondata la Societé industrielle de Mulhouse (SIM); tra i 22 soci fondatori, 12 sono membri della loggia. L'obiettivo principale della SIM è "fare passere l’industria dallo stato empirico al rango di una vera scienza"; per perseguirlo, nel 1829 la società si doterà di un Comitato di scienze naturali (Comité des sciences de la Nature), che con gli anni diventerà una vera e propria società scientifica, con tre sezioni dedicate alla botanica, all'ornitologia e alla paleontologia. Mülhenbeck ne diventa il segretario e nel 1831 è tra i membri fondatori della Société médicale du Haut-Rhin. Ormai molto riconosciuto nella sua professione, nel 1833 egli si traferisce a Mulhouse, dove vive ed esercita fino alla morte. Si interessa di storia locale e nei primi anni '30 pubblica diversi articoli sulla Revue d'Alsace. Anche se la botanica non è mai dimenticata, per qualche anno passa un po' in secondo piano. Ritorna prepotentemente al centro della sua vita grazie all'amicizia con Wilhelm Philippe Schimper, che nel 1836 pubblica insieme a Philipp Bruch il primo dei sei volumi di Bryologia europea; i due lo coinvolgono nelle loro ricerche; Mülhenbeck erborizza con loro, condivide le sue raccolte e nel 1839 li accompagna in una lunga escursione attraverso le Alpi; nel 1844, sarà di nuovo con loro nei Grigioni. Con Schimper, Bruch e Mougeot, ormai anziano ma sempre attivo, scopre diverse specie di muschi precedentemente mai segnalate in Svizzera, appartenenti alla flora nordica, da considerare relitti della flora preglaciale. Esplora anche l'area di Basilea e comunica diversi ritrovamenti a Carl Meissner e Karl Friedrich Hagenbach, che lo cita ripetutamente nel secondo volume di Tentamen florae basileensis. Come Schimper, oltre che ai muschi, si interessa ai fossili e alla paleontologia, ma non scrive nulla né di questi argomenti né di botanica, accontentandosi di condividere generosamente le sue raccolte con amici e corrispondenti. Progetta invece di scrivere un libro sui funghi e inizia addirittura a farne disegnare e dipingere un gran numero; ma il progetto non si concretizzerà, perché muore prima dei cinquant'anni, nel 1847. Un genere variabile... con qualche confusione Della sorte delle illustrazioni di funghi, che dopo la sua morte secondo Kirschleger furono acquistate dal banchiere Édouard Vaucher, non sappiamo nulla. Rimane invece come maggiore lascito proprio "l'amico erbario". Mülhenbeck non aveva mai cessato di arricchirlo fin da quando, studente universitario, partecipava alle prime escursioni con Nestler e Mougeot; alla sua morte, contava ben 20.000 esemplari, accuratamente montati e classificati secondo il sistema che andava alla maggiore ai suoi tempi, quello di de Candolle. Le sue raccolte personali erano considerevoli, molto l'ottenne con scambi con altri botanici, ma soprattutto non lesinò spese per acquistare esemplari messi in vendita da altri raccoglitori. Così quell'erbario, che nel 1857 Kirschleger, autore di Flore d'Alsace, definì "magnifico", oltre a specie della flora dell'Alsazia e della Svizzera o più un generale europea, comprende anche exsiccata di piante esotiche: tra le altre, piante raccolte in Algeria da Bové; in Medio Oriente da Boissier, Kotschy e Pinard ; nel Caucaso da Hohenacker; in varie parti dell'Asia da Helfer; in Indonesia da Kollman; in Sudafrica da Ecklon, Zehyer e Drège; in Australia da Preiss; nelle Americhe da Hartweg, Hostmann, Blanchet e von Martius. In tal modo costituisce un'importante testimonianza dell'attività di alcuni dei principali raccoglitori della prima metà dell'Ottocento. Alla morte di Mülhenbeck , l'erbario fu messo in vendita dagli eredi; con un notevole sforzo finanziario e ricorrendo a una sottoscrizione, riuscì ad aggiudicarselo per 10.000 franchi la Societé industrielle de Mulhouse; ospitato in un'intera stanza della sede dell'istituzione, il prezioso lascito riuscì a superare indenne le vicissitudini e i bombardamenti di due conflitti mondiali, finché, non avendo né le risorse finanziarie né le strutture per assicurarne l'adeguata conservazione, la società decise di depositarlo presso l'Università di Strasburgo. Nel 2007 ne è iniziata la digitalizzazione, compito non facile vista l'ingentissima mole. Come tappa preliminare, si è provveduto all'inventario delle famiglie e dei generi rappresentati, inizialmente sotto la nomenclatura usata dallo stesso Mühlenbeck. Si passerà poi all'allineamento con la nomenclatura attuale, anche allo scopo di scegliere le famiglie o i generi da digitalizzare in modo prioritario. A ricordare il medico alsaziano, oltre al gigantesco erbario, ha provveduto da tempo la dedica di alcune piante, come il muschio Bryum muehlenbeckii, e il genere Muehlenbeckia. A dedicarglielo nel 1841, dunque quando Mühlenbeck era ancora in vita, fu uno dei suoi corrispondenti, lo svizzero Carl Meissner, professore di botanica dell'Università di Basilea, che così scrive: "Ho dedicato questo genere al chiarissimo amico Gustav Mühlenbeck, dottore in medicina, medico a Mulhouse, esploratore e osservatore instancabile della flora alsaziana, specie di quella crittogamica, autore di un'opera micologica che sarà presto pubblicata". Meissner scrisse tra l'altro una monografia sulle Polygonaceae e pubblicò molte piante australiane. E infatti creò il genere a partire da due specie del continente australe, M. australis, originaria della Nuova Zelanda, e M. adpressa, originaria dell'Australia meridionale. Oggi al genere sono assegnate circa 25 specie distribuite tra la Papuasia e l'Australasia e dall'nord America subtropicale al Sud America. La sua caratteristica saliente è la variabilità: raccoglie infatti erbacee perenni, arbusti eretti più o meno legnosi, liane tanto rampicanti quanto tappezzanti. Tutte hanno radici rizomatose, ma differiscono in tutto il resto: nella forma delle foglie, dotate o meno di picciolo, sempreverdi o decidue; nelle dimensioni dei fiori, verdastri e insignificanti in alcune specie, relativamente vistosi in altre; alcune specie sono dioche, altre ginodioche, altre monoiche. Nei nostro giardini la più coltivata è M. complexa, anche se non di rado è commercializzata sotto il nome arbitrario di M. axillaris. Le due specie, in effetti, entrambe originarie della Nuova Zelanda (M. complexa è presente anche in Tasmania e nell'Australia meridionale), si assomigliano, anche se non al punto di confondersi. M. axillaris è una tappezzante bassa che forma densi tappeti anche di un metro di diametro, espandendosi sia tramite rizomi sia radicando ai nodi. In estate produce masse di minuscoli fiori bianco crema, portati in gruppi fino a tre all'ascella fogliare. M. complexa ha fusti volubili molto più sottili, che possono ricedere o arrampicarsi sulle rocce o sulla vegetazione circostante e forma molti rami che tendono a intrecciarsi strettamente. Porta foglie picciolate sempreverdi (possono però cadere negli inverni più rigidi), lucide, più o meno arrotondate, ma variabili nella forma e nelle dimensioni anche sulla stessa pianta. I piccoli fiori a stella, raccolti in spighe lunghe circa 2 cm che emergono all'ascella dei rami, sono profumati e seguiti da bacche traslucide. Ottima come ricadente da muretti, è adatta anche alla coltivazione in vaso. Forse perché limitatamente rustiche, le Muehlenbeckia da noi non hanno finora manifestato le potenzialità invasive delle sorelle Fallopia e Reynoutria. Ma non è ovunque così: in California M. complexa è diventata così problematica da essere sottoposta a programmi di eradicazione. Per un approfondimento sulle specie neozelandesi, in tutto cinque, due delle quali endemiche, nonché su qualche altra specie interessante o curiosa, si rinvia alla scheda.
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In questa storia si incontrano due misteri a prima vista senza connessioni. Il primo: chi era lo sfuggente "signore di Reynoutre" cui il botanico olandese Maarten Houttuyn dedicò il genere Reynoutria? Il secondo: chi ha creato o commissionato i bellissimi Libri picturati A16-30, uno dei massimi capolavori dell'illustrazione botanica del Rinascimento? E ancora: c'entra qualcosa Carolus Clusius? E come sono finiti alla Staatsbibliothek di Berlino? Le risposte convergono verso un luogo, un'epoca e una persona: le Fiandre meridionali della seconda metà del Cinquecento e il nobile Charles de Saint Omer, il primo mecenate di Clusius. Sulle tracce dei Libri picturati: Berlino, anni 30 Prima storia e primo mistero. Nel 1777 ad Amsterdam il botanico olandese Maarten Houttuyn pubblica il settimo tomo del secondo volume della sua Natuurlyke historie. Nel capitolo dedicato all'annuale acquatica Callitriche verna (oggi si chiama Callitriche palustris subsp. palustris) riassume quanto ne hanno scritto i botanici preceedenti e, a proposito di Mathias de Lobel, scrive: "E' stata descritta e raffigurata sotto il nome Stellaria da Lobel, il quale dice che il signore di Reynoutre, un grande amante delle piante a lui noto, non badò a spese per fare raffigurare dopo la vita piante tanto straniere quanto autoctone, tra cui questa specie". Nell'ottavo tomo, pubblicato lo stesso anno, si ricordò del signore di Reynoutre per dedicargli il nuovo genere Reynoutria con queste parole: "Per un certo signore di Reynoutre, che, secondo la testimonianza di Lobel, ha dato grandi servizi alla scienza delle erbe, come ho già segnalato". Houttuyn non ne sa di più; e continuano a non sapere altro molti siti, in cui si legge "in onore del Barone van Reynoutre (sec. XVI), grande amante delle piante" oppure "in onore del Barone van Reynoutre (sec. XVI) che, secondo Lobelius, era un appassionato estimatore delle piante". Genaust ne sa anche meno: "Nome di Houttuyn per una Polygonacea dell'Asia orientale; etimo non chiaro". Seconda storia anche più misteriosa, nonché intricata. Nel 1941, in seguito a pesanti bombardamenti, viene deciso di evacuare i più preziosi manoscritti della Biblioteca nazionale di Berlino, tra cui l'inestimabile raccolta nota come Libri picturati: ben 144 volumi di migliaia di illustrazioni di piante, animali, persone, provenienti dalle collezioni personali del re di Prussia. La raccolta viene smembrata in lotti che vengono trasportati in diversi luoghi ritenuti sicuri. Uno viene inizialmente ricoverato nel castello di Fürstenstein in Slesia, quindi nel 1943 nuovamente trasferito nel monastero benedettino di Grüssau (oggi Krzeszów). Poi per anni e anni non se ne sa più nulla. Solo nel 1977 lo zoologo Peter Whitehead ritrova i manoscritti nella Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, dove erano stati portati nel 1947 senza che la notizia fosse trapelata in Occidente, e dove si trovano tuttora. I Libri picturati della Jagellonska possono essere divisi in due nuclei principali, di data e provenienza diversa; i volumi A32-A38 contengono materiali iconografici relativi all'esplorazione del Brasile olandese promossa da Giovanni Maurizio di Nassau Siegen, che ne fu governatore dal 1636 al 1644; quando tornò in Europa, il principe, in cambio di titoli e proprietà, ne fece dono all'elettore Federico Guglielmo di Prussia che incaricò di selezionarli e riunirli in volume il suo medico personale Christian Mentzel; questi, nel volume A 38, noto come Miscellanea Cleyeri, incluse anche rappresentazioni etnografiche e acquarelli di piante asiatiche che gli erano state inviate dal suo corrispondente Andreas Cleyer. Il mistero riguarda le origini e la vicenda degli altri volumi del lotto, i Libri picturati A16-31. Al contrario di quelli "brasiliani", non hanno né titolo né frontespizio, né ci sono ex-libris o altre note di possesso. I 15 volumi in folio contengono oltre 1400 acquarelli di piante e animali; lo stile dei disegni e dettagli delle annotazioni rimandano alle Fiandre della seconda metà del Cinquecento; la rilegatura però risale a circa il 1660 o anche dopo, ed alcune immagini furono presumibilmente inserite in un secondo tempo. Chi abbia dipinto gli acquarelli, chi abbia ordinato o messo insieme la raccolta, quale mano abbia scritto le note che accompagnano molte immagini, per quali vie il manoscritto sia giunto a Berlino, è ancora oggetto di dibattito, anche se, come vedremo, orami sono noti glie elementi essenziali. La qualità delle immagini è eccezionale e si tratta senza dubbio di una delle più importanti collezioni di acquarelli naturalistici del Rinascimento; eppure hanno attirato l'attenzione degli studiosi solo dopo il loro "miracoloso ritrovamento" (la definizione è di Whitehead). Unica eccezione il bibliotecario tedesco Hans Wegener che negli anni '30 lavorava nel dipartimento dei manoscritti della Biblioteca statale di Berlino; studiando attentamente le immagini, notò che diverse avevano una stretta affinità con le xilografie di opere di Carolus Clusius stampate da Plantin tra il 1574 e il 1576; trovò corrispondenze anche con xilografie della prima edizione del Kruydtboeck di Lobel (1581) e con la prima parte di Rariorum plantarum historia di Clusius (1601). Osservò poi che nelle annotazioni erano citate regioni come la Provenza e città come Salamanca, Montpellier e Marsiglia, tutte località visitate da Clusius; c'erano parecchi riferimenti a località fiamminghe, e in particolare a Moerkerke, dove Clusius trascorse un lungo periodo nel castello di Charles de Saint Omer. Comparivano anche i nomi dei fratelli Laurin, di Jacobus van den Eede di Bruges e del farmacista di Anversa Peeter van Coudenberghe, tutti noti amici di Clusius. Sulla base di tutti questi elementi, Wegener giunse a una conclusione che gli sembrava tanto chiara quanto inappuntabile: a predisporre quella raccolta non poteva essere stato che il grande botanico fiammingo, e in un suo articolo del 1936 fin dal titolo non esitò a definire il manoscritto Das grosse Bilderwerk des Carolus Clusius, ovvero "La grande opera pittorica di Carolus Clusius". Inoltre, nel catalogo della biblioteca dell'elettore compilato nel 1668, individuò la menzione di "XVI tomi tam Animalium quam Plantarum ex Bibliotheca Cancellarii Weinmanni" (16 tomi sia di animali sia di piante, provenienti dalla biblioteca del cancelliere Weinmann). Si trattava senza dubbio dei Libri picturati A16-31, giunti a Berlino o come dono del cancelliere di Kleve Daniel Weinmann o come acquisto di Federico Guglielmo. Molto rimaneva da scoprire, ma ostacoli burocratici prima, lo scoppio della Seconda guerra mondiale poi gli impedirono di continuare le ricerche. Clutius versus Clusius? No, Saint Omer! Il ritrovamento dei manoscritti riaccese l'interesse degli studiosi. Nel 1989, Whitehead, van Vliet e Stearn pubblicarono un'accurata descrizione dell'intero lotto, in cui distinsero segmenti risalenti a periodi compresi tra il XVI e addirittura il XIX secolo. Per quanto riguarda i Libri picturati A16-30 (A31 non fa parte della serie, perché fu prodotto nel XVII secolo ed è per lo più costituito da copie di disegni di piante dei volumi A18-A30), suggerirono che i contenuti dei volumi fossero stati riordinati e fatti rilegare da un altro medico di Federico Guglielmo, Johann Elsholz. Il volume A16 contiene immagini di pesci e mammiferi, A 17 di uccelli, A18-30 circa 1500 acquarelli di piante, relativi a 1860 taxa (alcuni fogli raffigurano infatti più di una specie). In genere accettavano la conclusione di Wegener che Clusius avesse avuto un ruolo chiave nella creazione della raccolta, ma pensavano anche che non tutti i disegni fossero stati commissionati o ispirati da lui. A puntare in tutt'altra direzione pensò la storica statunitense Claudia Swan che in un saggio del 1995 sostenne che la raccolta non andava attribuita a Clusius, ma a Clutius, ovvero non a Charles de l'Ecluse, ma al suo amico Dirck Outgaertsz. Cluyt, primo hortulanus dell'orto botanico di Leida. L'ipotesi di Swan non ha trovato seguito, ma ebbe il merito di riaccendere il dibattito. In un saggio pubblicato l'anno successivo, la storica dell'arte belga Helena Wille respinse in poche righe la tesi di Swan, per suggerire una propria ipotesi diversa da quella del "libro di Clusius". Le evidenze raccolte da Wegener dimostravano senza dubbio che c'era un legame tra Clusius e la raccolta, "ma ciò che non significava che egli fosse colui che l'aveva commissionata". Sappiamo che Clusius possedeva una biblioteca, una piccola raccolta di curiosità, un erbario, ma non una collezione di acquarelli; inoltre, sempre squattrinato com'era, non avrebbe certo potuto permettersela. Non avendo né un giardino proprio, né adeguate risorse finanziare, la soluzione ideale per studiare piante esotiche e averne le illustrazioni per i suoi libri era ricorrere a un mecenate appassionato di piante. Quando viveva in Austria, l'aveva trovato nel nobile Boldiszar de Batthyani, che l'aveva più volte invitato nel suo castello ungherese e aveva fatto dipingere piante per lui. Un mecenate c'era anche nelle Fiandre, e lo abbiamo già incontrato: Charles de Saint Omer, membro di una delle più illustri casate del paese, appassionato di piante, amico di Clusius, che aveva ospitato sia a Bruges sia nel suo castello di Moerkerke. Anzi, lo abbiamo già incontrato due volte, sotto nomi diversi. I Saint Omer erano originari dell'Artois, ma alcuni rami avevano signorie nelle Fiandre, e il nostro poteva indifferentemente chiamarsi in francese Charles de Saint Omer, in fiammingo Karel van Sint Omaars, ma anche, usando i titoli nobiliari com'era d'uso per un gentiluomo, Charles de Saint Omer, detto di Moerbeke, signore de Moerkercke, Dranoutre (ovvero Ranoutre o Reynoutre), o ancora Mijnheer de Reynoutre. Ovvero il personaggio citato da Lobel, che ci ha già informato che il nobiluomo non aveva lesinato spese per fare ritrarre le sue amate piante. Anzi è proprio sulla base di puntuali corrispondenze tra alcuni acquarelli dei Libri picturati e le corrispondenti immagini del Kruydtboeck di Lobel (1581), nel cui testo viene esplicitamente citato Mijnheer de Reynoutre, che Wille dimostra il ruolo di Charles de Saint Omer come committente della collezione. Inoltre, individua il probabile autore degli acquarelli, o almeno di buona parte di essi, nel valente pittore Jacques (o Jacob) Corenhuyse, membro della Gilda di San Luca di Bruges. Una lettera, inviata nel 1595 a Clusius da Carlo di Arenberg, un altro gentiluomo appassionato di piante, le permette infine di trovare un anello di collegamento tra Charles de Saint Omer, morto nel 1569, e il cancelliere Weinmann che quasi un secolo dopo fece giungere i volumi a Berlino. Arenberg informa il botanico di aver acquistato "le livre de feu Monsieur Ranoutre", (il libro del fu signor Ranoutre), che come abbiamo visto è uno dei tanti modi per designare il defunto Charles de Saint Omer. La lettera era stata già pubblicata qualche anno prima da un archivista, che però non aveva identificato il personaggio. Wille osserva che è comprensibile: il fatto stesso che fosse designato in modo diversi dimostra che "questo eminente amante delle piante era stato davvero dimenticato". Dalla lettera di Arenberg, la studiosa belga ricava un ultimo dettaglio importante: Clusius è stato direttamente coinvolto nella confezione dei Libri picturati, non come committente, ma come esperto: è sua la mano che ha scritto le annotazioni che accompagnano molti acquarelli. Queste dunque le sue conclusioni: "Abbiamo in realtà a che fare con il catalogo dipinto della collezione di oggetti naturali riuniti nello studio e nel giardino di Karel van Sint Omaars, successivamente riordinato e integrato da Karel van Arenberg, anch'egli grande amante delle piante, dipinto per la maggior parte da Jacques van Corenhuyse e annotato da Clusius". Mijnherr de Reynoutre svelato L'articolo di Wille ha costituito la base per gli studi successivi, che, seppur discostandosi dalle sue conclusioni in alcuni particolari, ne hanno sostanzialmente confermato l'impianto. Di particolare importanza i contributi di Luis Ramón-Laca, che nel 2011 sulla base dei marchi della carte ha dimostrato che la maggior parte degli acquerelli formavano già una raccolta nel XVI secolo; su 1400 fogli, più di 1100 utilizzano una carta prodotta a Fabriano a partire dal 1554. In 625 di questi fogli gli acquerelli sono accompagnati da annotazioni "di una mano professionale", mentre i restanti in genere non sono terminati e spesso corrispondono a xilografie delle opere di Clusius. Le due serie differiscono anche per lo stile: da una parte ci sono acquarelli molto realistici, dipinti dal vivo, quasi sempre annotati, dall'altra disegni molto più schematici, per lo più non terminati e tratti da esemplari d'erbario. Nel 2008 Florike Egmond, una specialista di Clusius di cui ha curato la pubblicazione dell'epistolario, ha fatto il punto sullo stato delle ricerche in un ampio articolo in cui, dopo aver demolito la tesi di Swan con un'ampia argomentazione, analizza in modo puntuale i luoghi e le persone citati nelle annotazioni, la corrispondenza tra le immagini e opere a stampa coeve, le informazioni in nostro possesso su Charles de Saint Omer, le sue collezioni e la sua relazione con Clusius e con i possibili artisti coinvolti, per concludere con un approfondimento sul contesto culturale in cui è nata l'opera, il circolo umanistico di Bruges. E così conclude: "La conclusione appare inevitabile: il nucleo centrale dei Libri picturati A16-30 [...] fu messo insieme e posseduto da Charles de Saint Omer con l'assistenza e la consulenza di Clusius negli anni '60 (probabilmente tra il 1562-63 e il 1568). Clusius stimolò o forse innescò l'interesse di Saint Omer per gli oggetti naturali ed è probabile che lo abbia incoraggiato a far pubblicare i suoi acquarelli botanici [...]. Un considerevole numero di acquarelli appartenenti a questo nucleo sono stati probabilmente dipinti da Corenhuyse e possibilmente da Van der Bosch. Le annotazioni della 'mano professionale' su un gruppo di 625 acquarelli botanici in tutta probabilità sono state fatte da Clusius. Nel corso del XVI secolo alla collezione sono state fatte aggiunte, certamente da Aremberg, possibilmente da Clusius stesso, e probabilmente da altri". Contrariamente a Wille, non ritiene però che i Libri picturati 16-30 siano un catalogo del giardino e della Wunderkammer del castello di Moerkerke, ma piuttosto "una specie di enciclopedia di casa, in cui potevano essere inclusi dipinti, copie di opuscoli su animali curiosi e piante esotiche inviate a Saint Omer, a Clusius o a uno dei loro amici". Nel 2008 l'editore Brill ha pubblicato lo spettacolare volume Drawn after Nature: The Complete Botanical Watercolours of the 16th-Century Libri Picturati, che contiene tutte le immagini botaniche dei Libri picturati 18-30, introdotte da un team internazionale cui si devono anche numerosi saggi che indagano la storia, il contesto e il valore artistico e scientifico di quello che ormai potremmo chiamare "il libro di botanica di Charles de Saint Omer". E' dunque ora di conoscere meglio questo appassionato di piante che ha rischiato di essere totalmente dimenticato. Charles de Saint Omer (1533-1569) alias Karel van Sint Omaars alias Mijnherr de Reynoutre, era il secondogenito di Josse (Joos) de Saint Omer, signore di Oudeneem, Merris e Dranouter, e di Anna van Praet, dama di Moerkerke. Tra i suoi antenati troviamo uomini d'arme e di potere, come il bisnonno Josse, consigliere e ciambellano ordinario prima di Carlo il Temerario poi dell'imperatore Massimiliano d'Asburgo. Dopo aver forse frequentato l'università a Lovanio, intraprese il mestiere delle armi che però presto dovette abbandonare a causa della salute malferma. Molto ricco e colto, si ritirò a vivere nella tenuta e nel castello di Moerkerke non lontano da Bruges, che aveva ereditato dalla madre (morta nel 1559), dove si dedicò agli studi umanistici, forse alla poesia, e soprattutto alle scienze naturali. Possedeva anche una casa a Bruges, dove in genere trascorreva i mesi invernali, ma Moerkerke era la residenza principale della famiglia. Conosceva diverse lingue: il francese, la sua lingua madre, il fiammingo, il latino, e probabilmente aveva qualche nozione di greco, tedesco e italiano. Come ha sottolineato Florike Egmond, faceva parte del circolo umanistico di Bruges ed era strettamente legato ai fratelli Mathias e Guido Laurin (o Laurinus), che condividevano i suoi interessi naturalistici. Si sposò due volte, prima con Françoise de Blois, detta Trèslong, poi con Anne d'Oingnies, ma non ebbe figli. Della sua vita personale in realtà conosciamo pochissimo. Sappiamo invece qualcosa di più sulle sue collezioni e soprattutto sul suo giardino. Nel castello di Moerkerke c'erano una biblioteca, con opere in greco, latino, francese e italiano, e due gabinetti di curiosità, uno attiguo alla camera del signore, l'altro alla camera della moglie; il primo conteneva oggetti considerati più maschili, come una collezione di armi, il secondo le vere e proprie rarità, compresi "un cofanetto con dentro quattro libri di erbe dipinte", "l'inizio di un libro degli uccelli", "l'inizio di un libro sui pesci e altri animali", "una scatola di minerali". come leggiamo nell'inventario che fu redatto dopo la sua morte. In base al contratto matrimoniale, gli oggetti contenuti nel gabinetto di Anne rimasero di sua proprietà anche dopo la morte del marito. I futuri Libri picturati probabilmente furono venduti dopo la sua morte nel 1577, fino a finire nelle mani di Arenberg, ma non conosciamo i passaggi intermedi. Quanto al giardino, era considerato uno dei più raffinati della regione. E' ricordato anche da Lodovico Guicciardini che ebbe modo di visitarlo e nella sua Descrizione dei Paesi Bassi scrive: "Anche il signor Carlo di Sant'Omero nella signoria di Moerkerke, a un miglio e mezzo da Bruges, ha un giardino con innumerevoli varietà eccellenti e mille altre cose belle che faranno sì che questo luogo, ma anche il Signore, sia famoso e lodato per sempre". Forse esisteva già in precedenza, ma Charles lo rimodellò secondo il gusto del tempo, avvalendosi dei consigli (e delle piante) di Clusius. Si trovava all'esterno della corte superiore del castello, sui lati sud ed est, ed era diviso in due parti: il giardino di piacere e il giardino delle erbe; inoltre c'era un grande frutteto. Nel giardino delle erbe si coltivavano piante sia autoctone sia esotiche, alcune delle quali procurate da Clusius: "sedotto dall'amore per le piante dell'illustre signore di Dranoutere" dalla Spagna gli inviò semi attraverso il comune amico Guido Laurinus; nel 1566 gli donò semi di pepe brasiliano (Schinus terebinthifolia) di cui Saint Omer riuscì a coltivarne un esemplare che fiorì nell'autunno dello stesso anno; gli donò anche uno dei due germogli di Aloe americana che aveva prelevano in un giardino di Valencia e aveva portato con sé nelle Fiandre. E' probabile dunque che ci fosse qualche struttura per proteggere le esotiche dai rigori invernali. Dall'inventario dei beni risulta che nei gabinetti di Charles e Anne c'erano anche "un couffre pour y mectre les semences" (un cofanetto per riporre i semi) e 'ung grand ormaire pour garder sementes', un grande armadio per conservare i semi. Questi ultimi venivano raccolti e conservati per riseminarli nel giardino, ma anche per scambiarli con altri collezionisti, come sappiamo dalla corrispondenza di Clusius. Vengono menzionati anche i nomi dei due giardinieri che si occupavano l'uno del giardino, l'altro del frutteto, rispettivamente Paul de Witte e Zegher de Wever. Inoltre, a Moerkerke c'era anche un piccolo zoo, con animali da fattoria ma anche qualche rarità esotica o curiosa. Secondo la testimonianza di Lobel, Charles de Saint Omer coltivava piante esotiche anche nel giardino della sua casa di Bruges: nel suo Kruydtboeck infatti egli scrive che intorno al 1567 vi cresceva il grano dei turchi, cioè il mais, quasi introvabile nei Paesi Bassi. Per concludere, due parole su Charles de Saint Omer come mecenate di Clusius. Il botanico dovette incontrarlo prima di partire per la Spagna, come si evince dal già citato invio di semi. Al suo ritorno in patria, venne ospitato da Saint Omer dal settembre 1565 al novembre 1567. Egli poté così dedicarsi alla stesura della sua prima opera, la traduzione dei Coloquios dos simples di Garcia da Orta (Aromatum et simplicium aliquot medicamentorum apud Indos nascentium historia, 1567). Ma per il suo lavoro di "consulente botanico" riceveva, oltre a vitto e alloggio, anche un salario di 200 lire. Principale frutto dei due anni di coabitazione e collaborazione con Saint Omer, come già sappiamo furono i Libri picturati, che però non vennero né completati né stampati, sia per la morte precoce del nobiluomo, a soli 36 anni, sia per la situazione politica delle Fiandre spagnole, in rivolta dal 1566. Secondo Jacques de Groote, che nel suo sito ha raccolto una grande massa di informazioni su Charles de Saint Omer, egli si ricordò del suo protetto lasciandogli in eredità i suoi libri greci e latini, anche se probabilmente Clusius non riuscì mai a recuperarli (secondo altri, si trattava di libri suoi che aveva lasciato a Moerkerke). Quanto al botanico, nella sua prima opera così ricorda il suo primo protettore: "Un uomo non solo espertissimo in materia di piante e che fece dipingere le piante stesse, gli uccelli e i quadrupedi con eccezionale abilità in colori vivaci, ma anche molto interessato alla natura di ogni sorta di cose meravigliose". Reynoutria, un pericolo venuto da Oriente Ed eccoci ritornati a Reynoutria, il genere dedicato da Houttuyn al signore di Reynoutre, ovvero a Charles de Saint Omer, separandolo da Polygonum. Una scelta presto messa in discussione: nel 1848 la sua Reynoutria japonica fu riclassificata come Polygonum sieboldii, per poi essere inserita nel genere Fallopia. Le ricerche filogenetiche basate sul DNA ne hanno invece confermato l'indipedenza, anche se vari autori continuano a considerarlo una sezione del genere Fallopia. Ne è derivata una certa confusione terminologica, con la stessa pianta denominata da autori diversi Polygonum, Fallopia o Reynotria. Inteso come genere indipendente, Reynoutria comprende cinque specie accettate, tutte originarie dell'Asia orientale, più un ibrido naturale, R. x bohemica, originato dall'incrocio tra R. japonica e R. sachalinensis. La specie più nota (o famigerata) è R. japonica, originaria di Giappone, Cina e Corea; portata in Europa dal Giappone da von Siebold, incominciò ad essere commercializzata negli anni '40 dell'Ottocento. Entro il 1850, Siebold ne donò un esemplare ai Kew Gardens; il dono fu molto apprezzato e determinò il successo della pianta, che piaceva ai giardinieri perché i suoi fusti assomigliavano ai bambù e "facevano oriente", senza contare che era facile da coltivare e cresceva dappertutto. Verso la fine del secolo si era naturalizzato in varie parti d'Europa, ma dato che nel nostro continente (e in America) non si riproduce per seme, non causava problemi. Le cose sono cambiate nel Novecento, quando la creazione di infrastrutture, i movimenti di terra e le inondazioni ne hanno scatenato le potenzialità invasive. Basta infatti un frammento di rizoma perché attecchisca e incominci a formare una colonia, che diventerà così fitta da escludere ogni altra pianta, inclusa l'erba. Oggi è inserita nella lista delle piante aliene invasive più aggressive e difficili da controllare. E' tuttavia molto bella; chi l'apprezza, può ripiegare sulla cultivar 'Variegata', con foglie cuoriformi spruzzate di giallo, di crescita rapida, ma non considerata invasiva. Lo sono invece anche le altre due specie ampiamente introdotte in Europa. R. sachalinensis, una specie simile alla precedente ma di dimensioni molto maggiori, fu originariamente introdotta (1864) dall'orto botanico di San Pietroburgo per poi diffondersi soprattutto verso la fine dell'Ottocento, quando una prolungata siccità ne favorì l'impiego come foraggio. Introdotta in Italia nel 1897 come ornamentale a Roma, oggi è presente in quasi tutte le regioni settentrionali, in Toscana e in Lazio. Presenta gli stessi problemi di R. japonica e si espande soprattutto lungo i corsi d'acqua, per il trasporto da parte della corrente dei rizomi delle piante che crescono lungo gli argini. L'ibrido tra le due specie R. x bohemica era già coltivata nei giardini inglesi nel 1872, ma è stata individuata e descritta per la prima volta solo nel 1983, per la Repubblica ceca (da cui l'eponimo); è infatti difficile da distinguere dai genitori, con cui è stata a lungo confusa. E' dunque problematico determinare con precisione la data della sua introduzione. Oggi in Italia anch'essa è classificata come aliena invasiva in quasi tutte le regioni dell'Italia settentrionale e in Toscana. Ha probabilmente potenzialità invasive anche R. multiflora (nota anche con il sinonimo Pleuropterus multiflorus), che, a differenza delle altre specie, tutte erbacee perenni decidue, è una rampicante; diffusa dalla Cina all'Indocina, è una specie officinale, uno dei tonici più importanti della medicina traduzionale cinese. Da queste specie aggressive sembra distinguersi R. compacta, una specie di piccole dimensioni con fiori femminili rossastri e fiori maschili biancastri, talvolta coltivata come ornamentale. L'ultima specie, R. cilinervis, originaria della Cina e della Corea, sembra non sia mai stata introdotta nei giardini occidentali. E, viste le sue parentele, verrebbe da aggiungere: per fortuna! Il nome di Gabriele Falloppio probabilmente è noto anche a chi non ha particolari conoscenze né di anatomia umana, né di storia della medicina, per aver prestato il suo nome alle trombe uterine o tube di Falloppio. Egli fu infatti un grande anatomista, il primo ad aver descritto con precisione l'apparato sessuale femminile, tanto che si devono proprio a lui anche termini come placenta e vagina. Ma le sue scoperte riguardano anche molte altre parti del corpo umano, e in particolare la testa e i suoi organi. Professore prima a Ferrara, poi a Pisa, infine per un decennio a Padova, fu anche un medico ricercato da pazienti altolocati. Era un grande sperimentatore e, anche se i suoi contributi che hanno fatto la storia riguardano soprattutto l'anatomia, era un buon conoscitore dei "semplici" e aveva una notevole fama come farmacologo, tanto che dopo la sua morte precoce uno stampatore veneziano pubblicò sotto il suo nome un ricettario con 400 "segreti", sicuro che avrebbe attirato l'interesse di un vasto pubblico. Che l'opera sia davvero di Falloppio è discusso, ma è certamente un documento interessante e curioso. Non è invece certo, ma assai probabile che Adanson pensasse a lui creando il genere Fallopia, che tra le sue dodici specie annovera due piante native della nostra flora e una notissima rampicante ornamentale, forse fin troppo esuberante. La breve vita di grande anatomista Il 9 ottobre 1562 moriva a Padova, a soli 39 anni, uno dei più illustri professori dello studio, l'anatomista Gabriele Falloppio (1523-1562). A stroncarlo fu una malattia polmonare, la tisi secondo alcuni, una pleuropolmonite secondo altri. Nato a Modena da un uomo d'arme di pessima fama morto di sifilide che lo lasciò orfano quando aveva solo dieci anni, dal padre ereditò solo una salute malferma e una situazione economica precaria che lo costrinse ad abbandonare gli studi. La famiglia lo spinse ad abbracciare lo stato ecclesiastico, contando che ereditasse il beneficio di uno zio canonico; così a 19 anni fu ordinato sacerdote, ma presto abbandonò una carriera che gli garantiva qualche entrata ma per la quale non aveva alcuna vocazione. Fin da bimbo l'aveva infatti trovata nella medicina: si racconta che a soli sei anni già annotasse mentalmente i decorsi di un'epidemia di peste. Incominciò a studiare anatomia, farmacologia, botanica da autodidatta, quindi la sua formazione proseguì nell'ambito del Collegio medico di Modena, dove divenne allievo di Niccolò Machella. Avido lettore e proprietario di una biblioteca notevole per l'epoca, Machella era un medico erudito e dalle posizioni eterodosse, uno dei principali animatori dell'accademia informale che si riuniva presso la bottega dello speziale Antonio Grillenzoni, cui partecipavano anche umanisti come il celebre filologo Ludovico Castelvetro. Gli accademici dibattevano con grande libertà e spirito critico di letteratura e scienza, ma anche - più pericolosamente - di religione, tanto che nel 1543 furono costretti a sottoscrivere un formulario di accettazione dei dogmi della chiesa cattolica. Tra il firmatari il ventenne Falloppio, accusato di essere "un pessimo eretico luterano". Falloppio si perfezionò nella dissezione di animali e raggiunse una tale abilità nel 1544 il suo maestro gli affidò la pubblica dissezione anatomica del cadavere di una giovane donna impiccata come criminale. Ottenne anche la licenza di praticare la chirurgia, ma intorno al 1545 il miglioramento della situazione economica della famiglia gli permise di trasferirsi a Ferrara per studiare anatomia e medicina con Gianbattista Canano e Antonio Musa Brasavola. Forse seguì come uditore anche le lezioni di Gianbattista da Monte e Matteo Realdo Colombo a Padova, ma non ne abbiamo la certezza. E' probabile che già affiancasse i suoi maestri come dimostratore di anatomia e per l'anno 1547-48, sebbene non avesse ancora conseguito la laurea, fu incaricato di insegnare "la scienza delle erbe, delle piante e delle altre cose che nascono dalla terra", ovvero di commentare Dioscoride. L'anno successivo fu chiamato ad insegnare medicina all'Università di Pisa, incarico che mantenne fino al 1551. Il duca Cosimo I gli permise di sperimentare veleni e oppiacei sui condannati, fino a provocarne la morte, per poi anatomizzarli, cosa che gli procurò pressi i posteri l'accusa di aver praticato la vivisezione. Meno discutibili le sue ricerche sulla causa e le possibili cure della sifilide, di cui fu tra i primi a comprendere correttamente l'origine contagiosa. Nel fecondo ambiente del recente ateneo pisano, Falloppio allargò i suoi interessi alle scienze naturali e strinse amicizia con Luca Ghini, il fondatore del primo orto botanico, e il suo allievo Bartolomeo Maranta. Ci è noto che erborizzò nelle campagne pisane, alla ricerca delle piante degli antichi. Fu così che riconobbe nella salsapariglia la Smilax di Dioscoride e prese a utilizzarla anche per curare la sifilide. La sua competenza di "simplicista" era tale che, dopo la morte di Ghini, Maranta inviò a lui il manoscritto del suo Methodi cognoscendorum simplicium, pregandolo di verificarne l'esattezza e di correggerlo. All'epoca Falloppio era già a Padova, dove nel 1551 fu chiamato a reggere la doppia cattedra di "Lettura dei semplici e chirurgia, con l'obbligo di anatomia", anche se avrebbe conseguito la laurea solo l'anno dopo (si addottorò a Ferrara con Brasavola nell'ottobre 1552). Per dieci anni, tenne lezioni seguitissime, in cui profondeva la sua competenza nei campi dell'anatomia, della chirurgia, della medicina generale, della farmacologia e più in generale delle scienze naturali; così nel 1555 trattò del morbo gallico, ovvero della sifilide, nel 1556 delle acque termali e dei tumori, nel 1557 di metalli e fossili, di fratture e lussazioni, nel 1558 delle ulcere provocate o meno dal morbo gallico e dei purganti, nel 1560 del libro di Ippocrate sulle ferite alla testa, nel 1561 del primo libro di Dioscoride, nel 1562 (l'ultimo della sua vita) nuovamente di morbo gallico e ulcere. Avendo fatto della "sua meravigliosa scientia prove soprahumane", come scrive un biografo contemporaneo e conterraneo, F. Panini, divenne un medico noto e ricercato. Tra i suoi pazienti più illustri, il papa Giulio II, Alfonso II e Isabella d'Este, il duca di Parma Ottavio Farnese, il tipografo Aldo Manuzio che guarì di una malattia agli occhi. Uomo noto per la sua gentilezza, la pacatezza, la rettitudine morale, i poveri li curava gratis, fin da ragazzo, quando addirittura chiedeva la carità per loro. Forse intorno al 1554 (non conosciamo con precisione la data) nella sua vita entrò Melchiorre Guilandino; non era raro che Falloppio ospitasse e aiutasse gli studenti indigenti e meritevoli, ma nel medico tedesco, coetaneo, con alle spalle una travagliata storia familiare, fondamentalmente autodidatta, trovò un alter ego e un inseparabile compagno di vita, con il quale amava erborizzare sui colli euganei. Il legame tra i due giovani medici non mancò di suscitare la malignità di Mattioli, un tempo amico di Falloppio; quando Guilandino osò criticare i suoi Commentari a Dioscoride, a suo parere con il consenso e la complicità di Falloppio, non potendo attaccare direttamente quest'ultimo, troppo celebre e prestigioso, l'irascibile senese incominciò a diffondere insinuazioni scurrili sulla loro relazione, che, se fossero giunte alle orecchie dell'inquisizione, avrebbero potuto diventare molto pericolose. Lo stesso Falloppio , a malincuore, consigliò l'amico di accompagnare in Oriente il bailo veneziano in partenza per Costantinopoli. Quando seppe che Guilandino era stato catturato da corsari turchi ed era prigioniero ad Algeri, mise insieme 200 scudi e, nonostante la salute traballante, non esitò a partire per la Grecia per consegnare il riscatto. Sappiamo che soffriva di una debolezza polmonare, probabilmente da identificare come tubercolosi. Mano a mano che il suo fisico si indeboliva diventò sempre più difficile per lui far fronte ai tanti impegni, ed in particolare alle lezioni nelle stanze fredde e umide dell' ateneo patavino; fin dal 1556-57, tramite un altro amico, Ulisse Aldrovandi, entrò in trattative segrete con l'Università di Bologna per trasferirsi in quell'ateneo. Ma le trattative andarono per le lunghe e solo nel 1562 sembrò certa la sua nomina per l'anno accademico 1562-63; ma prima che potesse assumere la cattedra bolognese, all'inizio di ottobre si ammalò di una forma acuta di "mal di punta" che in meno di una settimana lo portò alla morte. Sconsolato, Guilandino (che da un anno, certo anche grazie all'interessamento del suo compagno, era diventato prefetto dell'orto botanico) pose sulla sua tomba una commossa epigrafe: «Falloppio, in questa tomba non verrai sepolto da solo / con te viene sepolta anche la nostra casa». Nel 1589, alla morte di Guilandino, le ossa di Falloppio vennero traslate nella sua tomba "da una mano pietoso". Grandi scoperte anatomiche e ricette pratiche Intorno al 1557 Falloppio incominciò a esporre le proprie scoperte anatomiche in un trattato che pubblicò a Venezia nel 1561 con il titolo Observationes anatomicae. Si tratta della sua unica opera edita in vita. Consapevole dell'importanza delle sue scoperte, che in molti casi superavano e correggevano quelle dello stesso Vesalio, temendo che qualcun altro se ne attribuisse il merito, si affrettò a pubblicare il suo trattato senza figure (certo pensava a una seconda edizione illustrata, ma ne fu impedito dalla morte); è però stato scritto che le sue descrizioni sono così accurate e precise da rendere quasi superflue le immagini. La sua scoperta più famosa è certamente quella delle trombe uterine, comunemente note come trombe o tube di Falloppio. Da lui prende il nome anche il legamento inguinale, o legamento di Falloppio. Oltre agli organi riproduttivi di entrambi i sessi, studiò molte altre parti del corpo umano, e in particolare l'anatomia della testa e dei suoi organi. Diede importanti contributi alla conoscenza dell'anatomia dell'orecchio e dell'occhio, diede un'accurata descrizione dei muscoli del capo e del collo, analizzò la struttura dei denti e descrisse il processo di sostituzione dei denti da latte con quelli permanenti, dimostrò la funzione dei muscoli intercostali, descrisse accuratamente i nervi oculo-motori, l'ipoglosso e il trigemino. Notevoli furono anche i suoi contributi alla medicina generale e alla farmacologia, ma li conosciamo solo in modo indiretto, attraverso numerose opere postume, non scritte direttamente da lui, ma basate sugli appunti presi durante le sue lezioni dai suoi allievi e forse su sui manoscritti. La più nota di queste opere "indirette" è probabilmente De morbo gallico tractatus, pubblicato a Padova nel 1563, che contiene anche la prima descrizione di un antenato del preservativo inventato dallo stesso Falloppio. Per passare all'argomento che più interessa questo blog, ovvero la botanica farmaceutica, la "materia medica" come si chiamava allora, le sue lezioni sui purganti furono pubblicate nel 1565 come De simplicibus medicamentis purgantibus tractatus. Ma forse il lascito più curioso è una raccolta di ricette, pubblicata inizialmente dallo stampatore veneziano Marco di Maria nel 1563 sotto il titolo Secreti diversi, et miracolosi e poi ripubblicata nel 1565 in edizione ampliata, con le ricette riordinate e riviste da alcuni allievi di Falloppio; il libro ottenne abbastanza successo da essere successivamente ristampato tre volte entro il 1602 da altri tipografi. La curiosa opera, che dovrebbe presentare le ricette messe a punto e sperimentate da Falloppio in vent'anni di carriera medica, raccoglie 400 "segreti", divisi in tre libri. Il primo, dedicato al "modo di fare cerotti, unguenti, pillole e altri medicinali", è quello più propriamente medico; vi compaiono ad esempio rimedi contro la peste, per combattere o prevenire la quale vengono anche suggeriti gli alimenti più opportuni. Falloppio prescrive ricette per curare le malattie polmonari, cui egli stesso era soggetto, il mal di testa, il mal di denti, i calcoli renali. Non mancano antidoti contro il morso dei serpenti e ricette per eliminare i vermi, curare la rogna, guarire le ferite da taglio. Molte le ricette per curare la sifilide, di cui, come abbiamo già visto, Falloppio era uno specialista. Il secondo libro è dedicato a "diverse sorti di vini e acque molto salutifere". Vi troviamo un vino "per il core, et per molti altri casi, miracoloso, et salutifero" che, oltre a fluidificare il sangue, combatte la malinconia e un altro che facilita e mantiene le gravidanze; acque per guarire le malattie della pelle e una per sciogliere i calcoli renali, a base di varie erbe tra cui la sassifraga. Infine il terzo libro, dedicato a "secreti di Alchimia, et altri dilettevoli, e curiosi", esce dalla medicina vera e propria per occuparsi dell'igiene della persona e della casa, con ricette per cacciare mosche, zanzare, pulci e pidocchi, trucchi per lavare e pulire i vestiti, pomate cosmetiche per la pelle, ricette contro la calvizie, per rendere i capelli biondi o migliorare la memoria. Tra la chimica, l'alchimia e la magia, le ricette per preparare il sale d'ammonio, l'acqua borica, il cinabro, l'ambra e il corallo, trasformare il piombo in oro, trovare il cadavere di un annegato. Potrebbe invece risalire alle esperienze degli anni di Pisa il metodo per estrarre oppio finissimo per fare dormire: "con un poco di questo farai dormire uno quanto tu vuoi, ma ci bisogna buona discretione". Non sappiamo quanto di queste ricette risalga davvero a Falloppio; alcuni studiosi considerano il libro del tutto spurio, altri lo ritengono almeno in parte risalente all'esperienza del medico modenese, che però qui si rivolge non ai dotti o agli studenti di medicina, ma alle persone comuni, alla ricerca di rimedi pratici con ingredienti semplici e facili da reperire. Per il suo ampio ventaglio di argomenti, la raccolta è comunque un documento significativo della pratica medica e farmacologica del tempo. Rampicanti assai esuberanti, con qualche confusione Nel 1763, nel secondo volume di Familles de plantes Michel Adanson separò da Polygonum il nuovo genere Fallopia. Benché egli non fornisca alcuna indicazione sull'origine della denominazione, si ritiene generalmente abbia così voluto rendere omaggio a Gabriele Falloppio, il cui cognome latinizzato era appunto Fallopius, con una sola p. Esplicita è invece la dedica al nostro del secondo genere Fallopia (Malvaceae), creato da Loureiro nel 1790: "L'ho nominato in memoria del celebre Gabriele Falloppio, professore di botanica a Padova". Per la legge della priorità, il genere di Loureiro è illegittimo, mentre è valido quello di Adanson (famiglia Polygonaceae). Valido ma con una storia piuttosto travagliata. Nell'Ottocento, i botanici per lo più lo includevano in un più ampio genere Polygonum: così fecero sia Meissner nel 1856 sia Bentham e Hooker nel 1880. Il genere è stato universalmente accettato solo nella seconda metà del Novecento, a volte inteso in senso più ristretto, a volte in senso più ampio, a includere anche l'affine Reynoutria. Le analisi basate sul DNA hanno confermato sia l'indipendenza di Fallopia, sia la sua stretta affinità con Reynoutria e Muhelenbeckia, con le quali forma un'unica clade nota con la signa RMF (Reuynoutria, Muhelenbeckia, Fallopia). Sono noti anche ibridi intergenerici con Reynoutria (x Reyllopia) e Muhelenbeckia (x Fallenbeckia). La situazione è comunque ancora fluida. Per fare solo due esempi POWO riconosce Reynoutria e Fallopia come generi indipendenti, mentre INaturalist include tutte le specie di Reynoutria in Fallopia. Senza dimenticare i botanici che ancora optano per un vastissimo Polgygonum. Da qui incertezze di denominazione: ad esempio. il poligono giapponese è classificato come Reynoutria japonica nell'edizione più recente di Flora d'Italia, ma è ancora denominato Fallopia japonica in molti libri e repertori. Qui, seguendo la linea prevalente, considereremo Fallopia e Reynoutria come generi separati. Ne ricordiamo le differenze principali: Fallopia comprende specie rampicanti, annuali o perenni, con infiorescenze ascellari ad asse semplice; i fiori hanno perianzio carnoso e stimmi capitati; i frutti sono talvolta muniti di ali. Reynoutria comprende specie non rampicanti con infiorescenze ascellari ad asse ramificato; i fiori hanno perianzio sottile e stimmi flabellati; i frutti non sono alati. Purtroppo, i due generi hanno in comune una caratteristica spiacevole: varie specie dell'uno come dell'altro, introdotte nei giardini come ornamentali, si sono rivelate aliene invasive di straordinario successo e difficili da combattere, anche se da questo punto di vista Reynoutria ha la fama del peggiore. Fallopia in senso stretto comprende una dozzina di specie originarie dell'emisfero boreale (Eurasia, Nord America, Africa settentrionale), ma largamente introdotte anche altrove. Sono per lo più liane e rampicanti noti per il grande vigore e la rapida crescita, decidui, tanto annuali quanto perenni. Il genere è soprattutto eurasiatico, con nove specie, e centro di diversità in Cina con cinque specie, tre delle quali endemiche; due specie sono nordamericane; una di amplissimo areale si spinge anche in Africa. E' F. convolvulus, diffusa dalla Macaronesia all'Asia orientale, passando per il Nord Africa e l'Europa; è presente anche in tutte le regioni italiane, dove cresce come infestante delle culture di cereali e negli ambienti ruderali; è già citata negli erbari del rinascimento, incluso quello di Mattioli. Si ritiene tuttavia non sia originaria del nostro territorio, ma vi sia giunto in un'epica molto antica. Della flora italiana fa parte anche l'eurasiatica F. dumetorum, ugualmente presente in tutte le regioni eccetto la Sardegna; come la precedente è un'erbacea annuale e cresce preferenzialmente sulle siepi e ai margini delle foreste di latifoglie decidue. Sono invece largamente coltivate F. aubertii e F. baldschuanica, la prima di origine cinese, la seconda proveniente dall'Asia centrale, che POWO tratta come specie diverse, mentre molte fonti autorevoli le considerano sinonimi. Il problema non è semplice, trattandosi di specie altamente variabili. F. aubertii fu raccolta nel 1899 nel Tibet cinese dal padre missionario francese Georges Aubert, che ne inviò i semi al Muséum national di Parigi, che la distribuì già l'anno successivo; nel 1907 fu descritta da Louis Henry come Polygonum aubertii e riclassificata nel 1971 dal botanico ceco Holub come F. aubertii. Fallopia baldschuanica fu invece raccolta per la prima volta nell'attuale Turkestan nel 1883 da August von Regel che la introdusse nell'orto botanico di San Pietroburgo e l'anno successivo la pubblicò come Polygonum baldschianicum; il nome deriva dal toponimo latino Baldschuan, una località della zona orientale del kanato di Bukhara. Anch'essa fu riclassificata come F. baldschuanica da Holub nel 1971. Se si tratta della stessa specie, la priorità spetta a questa denominazione, mentre F. aubertii è sinonimo. F. baldschuanica è rampicante estremamente vigoroso, capace di crescere anche di 30 cm al giorno, raggiungendo un'altezza di 15 metri. E' in grado di coprire rapidamente una facciata (perciò la chiamano Consolazione dell'architetto), ma si arrampica anche su alberi e altri rampicanti, ed è difficile da rimuovere per le radici molto forti. In Italia è stata introdotta per la prima volta in Piemonte nel 1900; oggi è presente in tutto il territorio nazionale tranne la Calabria, è naturalizzata nella maggior parte delle regioni e classificata come alloctona invasiva in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Campania. F. aubertii, se si tratta di un'entità diverse, è molto simile; forse la principale differenza sono le infiorescenze pelose anziché glabre, e forse un vigore appena minore. Sono piante di grande bellezza (al momento della fioritura si trasformano in una cascata di fiori candidi), ma può essere imprudente coltivarle, a meno di controllarne strettamente la crescita. All'inizio della botanica inglese c'è - e non poteva essere diverso - un plantsman, un uomo di piante. Non un botanico accademico, ma un barbiere-chirurgo che era forse soprattutto un giardiniere. Era anche un collezionista che nel suo giardino di Holborn coltivava piante esotiche, che fu tra i primi a far conoscere: tra di esse, la patata e la bella di notte Mirabilis jalapa. Nella storia della botanica, è celebre soprattutto come autore di The Herball, or General Historie of Plants che rimase il testo di riferimento in Inghilterra per tutto il Seicento (e oltre), ma gli attirò anche accuse di plagio che ne hanno screditato la figura agli occhi dei posteri. Nonostante queste polemiche, Plumier e Linneo vollero ricordarlo con il genere Gerardia, oggi non più accettato, come non lo sono la maggior parte dei piccoli generi, che, modificando un poco il nome linneano, vennero creati da altri botanici; a ricordare in modo indiretto Gerard rimangono solo due piccoli generi di Orobanchaceae africane, Gerardiina e Graderia (anagramma di Gerardia). Il primo catalogo di un giardino John Gerard (1545-1612) divide con William Turner l'onore di essere uno dei padri fondatori della botanica inglese. Ma mentre Turner era un medico con una formazione accademica e aveva persino studiato in Italia, dove era stato allievo di Ghini, Gerard è un tipico plantsman, un uomo di piante, una persona che ha imparato a conoscere (e ad amare) le piante coltivandole con le sue mani. Era un barbiere-chirurgo, una formazione professionale che non si acquisiva frequentando un corso universitario, ma con l'apprendistato in bottega; ma poi per molti anni fu un giardiniere, e forse anche un vivaista e un progettista di giardini. In tal modo riunì in sé le due figure che, in un'Inghilterra dove ancora non esistevano né cattedre universitarie di botanica né orti botanici, si dividevano l'interesse per lo studio più o meno empirico delle piante: da una parte medici, chirurghi, farmacisti, dall'altra giardinieri, vivaisti, collezionisti e proprietari di giardini. La sua biografia è in molte parti oscura, come ben si conviene a un contemporaneo di Shakespeare. Ci è noto che nacque a Nantwich nel Cheshire, ma nulla sappiamo dei genitori; nell'antiporta dell'Herball, Gerard fece stampare lo stemma dei Gerard of Ince, rivendicando - a torto o ragione - origini nobili. Frequentò la scuola del vicino villaggio di Willaston e nel 1562, diciassettenne, si trasferì a Londra per iniziare l'apprendistato presso Alexander Mason, un barbiere-chirurgo di Londra che aveva un'ampia clientela e per due volte fu Maestro della Compagnia. Sette anni dopo, nel 1569, come d'uso, fu ammesso alla Compagnia e poté praticare la professione. Poi abbiamo un buco di otto anni, che forse riempì viaggiando come chirurgo di bordo sulle navi della Company of Merchant Adventurers di Londra che commerciavano sulle rotte del Baltico. Nei suoi scritti vanta infatti di aver viaggiato e fa riferimento a Scandinavia, Polonia, Estonia e Russia. Entro il 1577 fu assunto come sovrintendente dei giardini di William Cecil, primo lord Burghley; dunque nel frattempo in qualche modo si era qualificato come herbarist, ovvero esperto di piante e giardini (da non confondere con herbalist, erborista ed esperto di piante medicinali, anche se una cosa non esclude l'altra). Lord Burghley, custode del sigillo reale, due volte segretario di stato, gran tesoriere, era niente meno che l'uomo politico più vicino alla regina Elisabetta, quindi il più potente del regno; patrono delle arti, era interessato all'orticultura e i suoi giardini, che considerava la più grande delle sue felicità, erano ricchi di piante rare e dettavano la moda. Lavorare per lui - Gerard fu al suo servizio per un ventennio, fin quasi alla morte del ministro - oltre a dargli grande reputazione professionale, permise al nostro chirurgo-giardiniere di entrare in contatto con personaggi di primo piano come Lancelot Browne, il medico personale della regina, e George Baker, Maestro della compagnia dei barbieri chirurghi, che poi firmeranno due delle lettere prefatorie dell'Herball. Era a tutti gli effetti un membro riconosciuto del circolo di appassionati che ricercavano e scambiavano piante rare. Tra i suoi contatti troviamo "colleghi" come Master Huggens, curatore del giardino di Hampton Court, Master Fowles, curatore del giardino reale di Saint James e abile coltivatore di meloni zuccherini, il botanico fiammingo Mathias de L'Obel, curatore del giardino di lord Zouche, e i farmacisti James Garrett, Hugh Morgan e Richard Garth, proprietari di ben giardini nella City. Garth, che importava piante dal Sud America, era amico di Clusius, e forse lo presentò a Gerard (il botanico visitò Londra tre volte tra il 1571 e il 1581). Curare i giardini dell'uomo politico più influente d'Inghilterra, che fu anche segretario di stato, ovvero ministro degli esteri, garantì a Gerard un accesso privilegiato alle piante esotiche che giungevano nel paese grazie a mercanti, diplomatici ed avventurieri. Ad esempio, nell'Herball, a proposito di Lillie of Constantinople (variamente identificato come Lilium martagon o L. chalcedonicum) scrive "fu inviato al mio onorevole e buon signore il lord Tesoriere d'Inghilterra, insieme a molti altri bulbi e fiori rari e delicati da Master Harbran, ambasciatore a Costantinopoli". Anche se scritto in modo scorretto, identifichiamo nel personaggio William Harborne, mercante e diplomatico, che rappresentò Elisabetta presso la corte ottomana dal 1582 al 1588. Lord Burghley possedeva due giardini: quello della residenza ufficiale londinese, nello Strand, e quello della tenuta di campagna, a Theobalds nello Hertfordshire. Di quello londinese conosciamo la pianta: si trovava a nord della casa e delle sue dipendenze e comprendeva un labirinto a spirale, un parterre con quattro quadranti e un vasto frutteto. Di quello di Theobalds ci è giunta invece solo una descrizione molto più tarda, addirittura di fine Settecento, quando aveva già subito molte trasformazioni, soprattutto dopo che era diventato di proprietà reale e Giacomo I ne aveva fatto la sua residenza; sappiamo che era molto vasto, comprendeva un lago con isolotti, labirinti, canali e nove giardini a nodi, almeno qualcuno dei quali potrebbe risalire all'epoca di lord Burghley e Gerard. Il ministro teneva molto alla tenuta di campagna, che doveva rappresentare anche visivamente la potenza e la gloria d'Inghilterra ed essere degna di ospitare la regina, che in effetti la visitò otto volte tra il 1572 e il 1592. Per il palazzo e gli appartamenti egli si affidò ai migliori artigiani e per il giardino appunto a Gerard, che disegnò il giardino formale in stile francese, a quanto pare ispirandosi ai giardini di Fontainebleau (non come li vediamo oggi, ma quelli rinascimentali della corte di Francesco I e Caterina de' Medici); ci saranno stati dunque almeno una fontana, giochi d'acqua, uno stagno, parterre a nodi. Con un protettore così influente, la fortuna di Gerard era fatta. Grazie a un'ampia rete di contatti e alla generosità del suo signore, che non di rado gli donò le piante rare che egli coltivava per lui, John Gerard creò anche un proprio giardino, situato a Fetter Lane nel quartiere di Holborn, alla periferia occidentale di Londra (anche questo terreno e il cottage annesso dovevano essere di proprietà del generiso lord Burghley). Ricchissimo di piante rare, quello di Holborn era anche un giardino sperimentale, dove Gerard tentava - a volte con successo, a volte meno - la coltivazione di specie esotiche. Ed è come esperto di esotiche che nel 1586 il Collegio dei medici di Londra gli affidò la gestione del proprio giardino, all'epoca situato a Knightrider Street,a sud della cattedrale di St Paul. Negli annali della Compagnia si legge: "John Gerard, chirurgo, ha promesso che si prenderà cura del giardino della Compagnia, e consente di rifornirlo con tutte le piante più rare a un prezzo ragionevole". Quali fossero queste "piante più rare" non sappiamo, ma sicuramente egli avrà attinto al giardino-vivaio di Holborn, che invece ci è noto grazie al catalogo che Gerard pubblicò nel 1596. Si tratta niente meno del primo catalogo di un giardino giunto fino a noi: gli unici precedenti sono De hortis Germaniae di Conrad Gessner (1561) che, anche se contiene un elenco di piante consigliate, non è il catalogo di un giardino, ma una rassegna di giardini; e Hortus Lusatiae di Johannes Franke (1594), che però, insieme alle specie coltivate nei giardini della Lusazia, tratta anche piante selvatiche. Preceduto da una dedica "Agli eccellenti e diligenti indagatori delle piante", e intitolato semplicemente "Catalogus horti Johannis Gerardi londinensis", l'opuscolo di 24 pagine elenca in ordine alfabetico, da Abies e Zyziphus, circa ottocento specie, indicate con il nome latino; solo la voce Iucca è corredata da un breve testo sull'origine e le caratteristiche della piante. A concludere la lista, una dichiarazione di Mathieu de L'Obel: "Attesto che le erbe, le stirpi, gli arbusti, i suffrutici, gli alberetti recensiti in questo catalogo, in gran parte anzi quasi tutti li ho visti a Londra nel giardino di John Gerard, chirurgo e botanico più che ottimo (infatti non germogliano, spuntano e fioriscono tutti nello stessa stagione, ma in vari tempi dell'anno). 1 giugno 1596". Era un'opera alla buona, pensata per gli amici (che saranno stati anche clienti, se quello di Gerard era anche un vivaio), piena di refusi. Nel 1599, quando Gerard aveva già pubblicato l'Herball e la sua fama aveva travalicato i confini dei circoli di appassionati, ne pubblicò una seconda edizione ampliata e corretta, con il più pomposo titolo Catalogus arborum fruticum ac plantarum tam indigenarum quam exoticarum, in horto Ioannis Gerardi civis et Chirurgi Londinensis nascentium e la dedica a sir Walther Raleigh. In una copia, presumibilmente passata per le mani di L'Obel, la dichiarazione finale è cancellata da un rabbioso tratto di penna, ed è seguita dalla nota manoscritta "Questo è falsissimo. Mathias de l'Obel". Entrambe le edizioni, di cui ci sono giunte pochissime copie, sono state ripubblicate nel 1876 dal botanico Benjamin Daydon Jackson, precedute da una biografia di Gerard (basata su ricerche accurate e ancora largamente valida); i nomi latini di Gerard sono accompagnati da quelli volgari tratti dall'Herball e dai nomi botanici in uso a fine Ottocento e talvolta da brevi note e citazioni tratte sempre dall'Herball. In questo modo, incrociando il laconico elenco con quanto Gerard stesso dice nell'erbario, ci premette una visita guidata nel favoloso giardino di Holburn, dove egli coltivava letteralmente di tutto, comprese piante di alto fusto. Moltissime era specie native, raccolte da Gerard nelle sue frequenti erborizzazioni, o introdotte in Inghilterra da secoli; tra di esse c'erano ovviamente le piante officinali ricercate da medici e farmacisti, piante aromatiche (pescando qua e là, troviamo molte salvie, il basilico a foglia grande e a foglia piccola, il cerfoglio, Anthriscus cerefolium, che egli dice di aver seminato una sola volta, perché successivamente si seminava da sé, e così via), molte orticole, di cui Gerard ricercava le varietà più nuove e produttive, come una barbabietola molto grande e vivacemente rossa che gli fu portata "attraverso i mari" dal cortese mercante Master Lete, o ancora rare, come la melanzana che nel suo giardino riuscì a fiorire, ma non a fruttificare per il sopraggiungere dell'inverno. Moltissimi erano gli alberi da frutto: trenta varietà di pruni, dieci di peschi, albicocchi, meli, ma anche un corniolo a frutti bianchi, gelsi bianchi e gelsi neri, un fico nano molto produttivo, un arancio e un melograno. Grande era la varietà di piante ornamentali: spiccano le numerosissime bulbose (anemoni e ranuncoli, Allium, gigli, crochi, narcisi, scille, iris, giacinti, Muscari, ornitogali e asfodeli, Fritillaria meleagris e F. imperialis, nonché tulipani "in numero e varietà di colori infiniti", nonostante fossero arrivati in Inghilterra da pochissimi anni); e poi peonie, garofani (compresa una varietà gialla "mai vista né sentita in queste contrade", portatagli dalla Polonia ancora dal servizievole Lete), varie specie di primule, sedici varietà di rose semplici e doppie, campanule e violette, e via elencando. A suscitare il massimo orgoglio di Gerard erano le novità esotiche, che era riuscito a procurarsi grazie agli amici farmacisti o a mercanti inglesi che operavano all'estero, come il già citato Nicholas Lete (membro della Compagna della Turchia, importava piante dal Mediterraneo orientale ed è citato anche da Parkinson come "ricco mercante e amante di tutti i bei fiori") e John Franqueville (che, sempre secondo Parkinson, possedeva il negozio di fiori "più grande che ora fiorisce in questo paese"); come abbiamo già visto, diverse specie gli furono donate dal suo signore lord Burgley; altre gli arrivarono da un altro gentiluomo appassionato di piante, lord Zouche, che nella sua tenuta di Hackney possedeva un giardino che univa le funzioni di giardino di piacere e di physic garden e, come abbiamo già visto, era presieduto da da Mathias de L'Obel. Più volte è citato anche "il mio caro amico Robin", ovvero il giardiniere del re di Francia Jean Robin, che gli inviò tra l'altro semi di Periploca graeca, Epimedium alpinum, Fritillaria meleagris, Geranium lucidum. Corrispondeva anche con l'ormai anziano Camerarius, citato per l'invio di Poterium spinosum, che prosperò per due anni e poi morì "per qualche accidente". Per i giardini inglesi d'epoca elisabettiana, il Mediterraneo era ancora un giacimento di inesplorate ricchezze floricole. Per procurarsene il maggior numero possibile, Gerard spedì in Grecia il domestico William Marshall, che a Lepanto raccolse per lui un ramo di Platanus orientalis con tanto di frutti; a Zante invece trapiantò in grandi vasi diverse piante di fico d'India, che arrivarono sane, salve e verdeggianti a Londra, dove Gerard dispiegò grandi sforzi e grande denaro "per proteggerle dalle ingiurie del nostro freddo clima" e riuscì infine a fare fiorire. Introdotta in Europa dagli Spagnoli dal Messico nei primissimi tempi della conquista, evidentemente Opuntia ficus-indica in mezzo secolo aveva già fatto in tempo a naturalizzarsi sulle coste mediterranee. E lo stesso avevano fatto i Tagetes, che Gerard crede originari della Tunisia e portati in Europa all'epoca della presa di Tunisi da parte di Carlo V. Non sono le sole americane: a Holborn Gerard coltivava "pomi d'amore" (ovvero pomodori) a frutti rossi e gialli, e due tipi di patate: la patata comune o spagnola, ovvero la batata Ipomoea batatas, e la patata bastarda, ovvero quella che per noi è la vera patata, Solanum tuberosum, che sembra sia stato il primo a coltivare in Inghilterra. Erano novità anche il "grande fiore del sole" ovvero il girasole Helianthus annuus e la "meraviglia del Perù", ovvero Mirabilis jalapa, che all'epoca creava sensazione con i suoi fiori di diverso colore sulla stessa pianta; Gerard possedeva anche due pianticelle del nordamericano Liquidambar styraciflua, forse uno delle prime settembrine (Symphyotrichum novi-belgii), non si fece mancare i tabacchi Nicotiana rustica e Nicotiana tabacum, e tentò di coltivare il "cero del Perù" Cereus peruvianus che gli fu portato "dalle coste della Barbaria", ma soccombette ai primi freddi. Nel 1593 ricevette una pianta che gli fu indicata erroneamente come cassava e come tale l'avrebbe pubblicata nell'Herball; si trattava invece di Yucca gloriosa. Un best seller che ha fatto discutere Negli ultimi anni del secolo, Gerard (per altro ignoriamo se, tra tanti impegni, praticasse ancora l'attività di chirurgo) fece carriera nella corporazione dei barbieri e chirurghi. Nel 1595 entrò a far parte della Court of Assistants, ovvero del comitato direttivo, nel 1597 fu nominato Custode minore (Junior Warden), nel 1598 entrò a far parte del collegio che esaminava i candidati all'ammissione alla professione ed infine nel 1607 completò l'ascesa come Maestro della Compagnia. Il suo contributo maggiore alla corporazione fu probabilmente la proposta di istituire un Physic Garden, ovvero un giardino dove gli apprendisti potessero studiare le erbe medicinali; nel 1596 gli fu anche commissionato di "cercare un posto migliore per un frutteto di quello di East Smithfields o Fetter Lane". Ignoriamo se però il giardino venne effettivamente creato. Sappiamo invece che nel 1604 la regina Anne (consorte di Giacomo I) concesse a Gerard, citato come chirurgo e erborista del re, l'affitto di un terreno a giardino adiacente Somerset House, a condizione che lo rifornisse di erbe, fiori e frutti. In quegli anni era ormai famoso come autore di The Herball, or Generall historie of plantes, che per oltre un secolo sarebbe stata l'opera di riferimento in Inghilterra. L'idea della pubblicazione non risaliva a lui, ma all'editore John Norton che nel 1596 commissionò al medico Robert Priest una nuova traduzione di Stirpium historiae pemptades sex di Dodoens, che a sua volta era la versione latina del suo Cruydeboeck che nel 1578 era già stato tradotto da Henry Lyte sotto il titolo A Niewe Herball. Vedendo il successo di quest'ultimo, Norton pensava ci fosse un mercato per una nuova traduzione accompagnata da illustrazioni di qualità, e si era accordato con l'editore Nicholaus Bassaeus per affittare le matrici xilografiche di Eicones plantantum di Tabernaemontanus, uscito a Francoforte nel 1590. Tuttavia, prima di completare il lavoro Priest morì e l'editore chiese a Gerard di completare l'opera. Egli dovette lavorare abbastanza in fretta; uno dei suoi biografi, R. H. Jeffers, suggerisce che egli lavorasse già a un proprio erbario, forse fin da quando era entrato al servizio di lord Burghley. La poderosa opera (un in foglio di 1392 pagine, più preliminari e indici, illustrato da 1292 xilografie) poté essere stampata entro il 1597, nonostante gli enormi problemi tecnici - e gli enormi costi. L'editore aveva visto giusto: benché non fosse certo per tutte le tasche, l'erbario di Gerard fu un immediato successo: fu ristampato due volte e nel 1633 ne fu predisposta una seconda edizione, affidata al farmacista Thomas Johnson. Diviso in tre sezioni o libri, ciascuno dedicato a un gruppo di piante (il primo a graminacee, giunchi, iris, bulbose; il secondo alle erbacee alimentari, medicinali e profumate; il terzo a alberi, arbusti, fruttiferi, rose, eriche, muschi, coralli e funghi), e in 167 capitoli, l'erbario tratta un migliaio di piante. Ogni capitolo ha un titolo, dato dal nome volgare della pianta (o del gruppo di piante affini) ed è suddiviso in paragrafi contraddistinti da un titoletto, secondo una struttura ricorrente: i tipi; la descrizione, eventualmente suddivisa in più paragrafi numerati, se i tipi sono più di uno; il luogo (l'habitat, l'origine, ma anche, per le piante da lui stesso coltivate, da chi l'ha ottenuta o i luoghi in cui l'ha vista), l'epoca di fioritura, i nomi (in latino, nei classici, nelle lingue volgari), la natura, secondo la teoria degli umori, le virtù (ovvero le proprietà medicinali e gli usi). Ogni capitolo è solitamente illustrato da almeno due xilografie, con il nome delle specie in latino e in inglese. Era una struttura familiare al pubblico inglese, perché era già stata adottata nel rifacimento di Lyte, ma l'opera si qualificava come del tutto nuova per i chiari caratteri di stampa, gli elaborati capilettera e l'apparato iconografico; non solo le xilografie sono molto più numerose, ma, come abbiamo visto, non derivano dall'opera di Dodoens, ma da quella di Tabernaemontanus, le cui immagini però a loro volta raramente erano originali; provenivano infatti dalle opere di Fuchs, Brunfels, Mattioli e dei botanici fiamminghi pubblicati da Plantin, ovvero lo stesso Dodoens, L'Obel e Clusius. Solo 16 sono nuove. Quanto ai testi, che attirarono a Gerard l'accusa di plagio, la questione è complicata, e per dirimerla non basta sentire una sola campana. Partiamo da quanto ne dice lo stesso Gerard. Nella prefazione egli scrive: "Il dottor Priest, uno del nostro Collegio di Londra, ha (come ho saputo) tradotto l'ultima edizione di Dodonaeus, con l'intenzione di pubblicarla; ma essendo stato preceduto dalla morte, la sua traduzione è parimenti andata perduta; infine, io stesso, uno dei minori fra tanti, ho ritenuto di portare all'attenzione del mondo il primo frutto dei miei propri lavori". Egli dunque, pur riconoscendo il precedente di Priest, non ammette di averne utilizzato la traduzione e presenta l'opera come propria e indipendente. La seconda campana è quella di Mathias de L'Obel, ed è anche quella che ha suonato più forte, imponendosi come vulgata. L'Obel era stato amicissimo di Gerard e, come abbiamo visto, testimoniò questa amicizia nella nota finale del Catalogo del giardino di Holborn, poi cassata nella seconda edizione, quando l'amicizia si trasformò in rancore. Il motivo è spiegato in un'opera postuma, Stirpium illustrationes, un'antologia di scritti basati su un manoscritto terminato da L'Obel poco prima della morte (1616) e pubblicato molti anni dopo (1655). Egli racconta che, mentre in tipografia sia stava componendo il testo di Gerard, vi capitò il farmacista Garrett che, data un'occhiata alle bozze, si accorse che erano piene di errori. Lo fece notare a Norton, che incaricò L'Obel di rivedere il testo. Il fiammingo non solo rilevò più di mille errori, ma soprattutto si accorse che molte parte erano copiate da opere sue o di Clusius. Quando Norton fece presente la cosa a Gerard, questi si giustificò dicendo che L'Obel, essendo fiammingo, non capiva bene l'inglese ed aveva equivocato. L'editore, avendo già investito molto denaro, decise di pubblicare il testo così com'era e Gerard si affrettò a completare la terza parte, che in effetti è la più breve e appare affrettata. La terza campana è quella di Thomas Johnson, il curatore dell'edizione del 1633, che aggiunse alla trattazione di Gerard altre 800 piante e 700 illustrazioni; per lo più si tratta di specie esotiche come il banano Musa × paradisiaca. Nella prefazione incluse una biografia di Gerard (non sempre esatta; ad esempio, riferisce che egli morì nel 1607 anziché nel 1612) e riassunse le vicende editoriali dell'erbario, precisando che l'iniziativa del volume venne dall'editore che affidò la traduzione delle Pemptades di Dodoens al dottor Priest, ma questi morì "subito prima o immediatamente dopo aver finito la traduzione"; a questo punto qualcuno "che conosceva sia il Dr. Priest sia Mr. Gerard" diede il manoscritto a questo ultimo. L'innominato sarà senza dubbio l'editore Norton. Si pose però un problema; dato che le xilografie erano tratte dal testo di Tabernaemontanus, e non da quello di Dodoens, furono necessari adattamenti per far collimare testo e immagini. Sempre secondo Johnson, fu questo il motivo che spinse Gerard ad abbandonare l'ordine e la classificazione di Dodoens, per adottare quella di L'Obel. Inoltre, in molti casi non riuscì ad identificare correttamente le immagini e diede loro una didascalia errata. Dunque, tanto L'Obel quanto Johnson accusano Gerard di essere un plagiario. La loro versione è senz'altro adottata da Anne Pavord che scrive "In effetti, Gerard piratò la sua [di Priest] traduzione, riordinò i materiali per adattarli alla pionieristica organizzazione di Lobelius, e poi presentò il libro come proprio" e lo definisce senza mezzi termini "un plagiario e un truffatore". Insiste poi sul fatto che non era né uno studioso né un botanico, ma un praticone, capace persino di prendere per vera la storia dell'albero delle oche o barnacle, che "spunta tra marzo e aprile; le oche si formano tra maggio e giugno e raggiungono la pienezza del piumaggio un mese dopo". Eppure riconosce che, oltre a far conoscere molte nuove piante che era riuscito a procurarsi per primo grazie ai suoi molti contatti, sapeva scrivere descrizioni vivide e, includendo indicazioni molto precise sui luoghi dove crescevamo le piante, "ha contribuito alla graduale costruzione di una mappa della flora britannica e alla comprensione della sua distribuzione". Completamente opposta la posizione di Sarah Neville, che ha intitolato un capitolo del suo Early Modern Herbals and the Book Trade "John Norton and the Redemption of John Gerard". Per Neville, bisogna fare la tara alle accuse tanto di L'Obel quanto di Johnson. Quando scrisse il suo atto d'accusa, il fiammingo era ormai un vecchio amareggiato che aveva mal digerito che, pur pieno d'errori e approssimativo, l'Herball di Gerard fosse diventato un best seller, mentre il suo dotto e innovativo Stirpia adversaria nova era riuscita a stento, in vent'anni, a vedere un migliaio di copie. Quanto a Johnson, sminuire il suo predecessore era il modo migliore per valorizzare e distinguere il proprio contributo, senza dimenticare la rivalità tra i barbieri-chirurghi e i più colti farmacisti. Ma soprattutto, al di là della credibilità di L'Obel e Johnson, accusare Gerard di plagio è anacronistico; tutti gli erbari del tempo erano largamente intertestuali. Non solo le xilografie transitavano disinvoltamente da un volume all'altro, ma capitava spesso che "le opere scritte da scrittori precedenti fossero il punto di partenza di quelle successive". Mentre le piante da descrivere aumentavano vertiginosamente ed era necessario riorganizzare continuamente le informazioni, per i primi botanici "copiare era più la norma che l'eccezione". La maggioranza dei botanici e degli editori del Cinquecento "riprendevano il materiale dei loro predecessori, mantenendo le informazioni che ritenevano rilevanti e scartavano o respingevano il resto". Ed era anche normale "denigrare il lavoro degli altri e citare i loro errori per giustificare i propri lavori che li aggiornavano e li correggevano". E così conclude: "John Gerard era dunque un ladro, un plagiario? Il passato e la botanica scolastica l'hanno spesso raccontato così; ma ora il tempo e studi più approfonditi sugli agenti che producevano e vendevano gli erbari nella Londra della prima età moderna sembrano raccontarla in modo diverso". Aggiungo solo un particolare: una delle lettere dedicatorie che precedono il testo dell'Herball è scritta da L'Obel, che si esprime in termini affettuosi ed lusinghieri nei confronti di Gerard. Se davvero avesse scoperto la soperchieria del barbiere-chirurgo, si può pensare che avrebbe impedito che la lettera fosse pubblicata. Che Gerard avesse attinto a piene mani alla sua opera è un fatto, ma sembra che la collera del fiammingo sia scoppiata con qualche ritardo. Gerardia & friends, un rompicapo tassonomico Accettiamo dunque l'invito di Neville di non giudicare il passato con l'occhio e la morale di oggi. Del resto, non l'hanno fatto i tantissimi che ancora nel Settecento consideravano il libro di Gerard un testo di riferimento, lo lasciavano in eredità tra gli oggetti più preziosi, lo citavano a loro volta. Né lo fecero il padre Plumier e Linneo, che vollero onorarlo con il genere Gerardia. Le vicende di questo genere linneano, oggi non più accettato, sono complicate, e hanno lasciato una traccia nella storia della botanica, generando ben sei altri generi, due soli dei quali oggi validi. Tutto inizia con Plumier che, creando il genere Gerardia in Nova plantarum americanarum genera offre una sintetica biografia di Gerard, limitandosi ai fatti oggettivi, senza esprimere giudizi di merito: "L'inglese John Gerard (come riferisce Johnson nella prefazione dell'edizione emendata), nato a Nantwich nella contea del Cheshire, donde si trasferì a Londra, dove si dedicò alla chirurgia, nella quale progredì tanto da essere eletto maestro di quella corporazione. Pubblicò a Londra nel 1597 una storia delle piante inglesi con le stesse figure di Tabernaemontanus e parecchie di Lobelius, e solo 16 nuove". E' interessante notare che, benché non lo sia affatto, al francese Plumier l'Herball apparisse una flora inglese; del resto, l'attenzione alla flora nativa, almeno dell'area londinese, che Gerard ricercava e raccoglieva nelle sue erborizzazioni, è uno dei meriti dell'opera. Linneo cita già il genere Gerardia in Critica botanica (dove si limita a collegarlo a Gerardus Joh. aglus 1597) e lo ufficializza nella prima edizione di Species plantarum, ma all'unica specie di Plumier (Gerardia tuberosa, oggi Stenandrium tuberosum) fa seguire incongruamente altre specie che non corrispondono alla sua stressa diagnosi. Ciò indusse Bentham a ricreare un nuovo genere Gerardia (1846) limitato a questo secondo gruppo, creando in tal modo una confusione che di fatto è stata risolta invalidando entrambi i generi; quello di Linneo è sinonimo di Stenandrium (Acanthaceae), quello di Bentham di Agalinis (in passato Scrophulariaceae, oggi Orobanchaceae). Il genere Gerardia nel senso di Bentham però fu accettato per decenni e nel frattempo ne furono separati diversi piccoli generi affini, che, riprendendone e modificandone il nome, divennero di fatto omaggi indiretti a Gerard. Iniziamo dai tre oggi non più validi: Dargeria (1843), creato da Ducaisne ricorrendo a un anagramma, sinonimo di Leptorhabdos (Orobanchaceae); Gerardianella, creato da Klotzsch nel 1861, sinonimo di Micrargeria (Orobanchaceae); Gerardiopsis, creato da Endlicher nel 1895, sinonimo di Anticharis (Scrophulariaceae). Veniamo infine ai due generi validi, iniziano da Graderia, stabilito da Bentham nel 1846, contemporaneamente al suo Gerardia. Anche questo nome si basa su un anagramma. Come la maggior parte dei generi fin qui citati, appartiene alla famiglia Orobanchaceae e comprende quattro specie con distribuzione discontinua. G. fruticosa è infatti endemica dell'isola di Socotra, mentre le altre specie vivono nell'Africa meridionale. Sono erbacee perenni o suffrutici con i fusti che emergono da un rizoma legnoso, con foglie opposte o alternate e fiori solitari con calice campanulato e corolla tubolare con cinque ampi lobi arrotondati. Il frutto è una capsula appiattita. Sono considerate emiparassite perché, pur essendo in grado di effettuare la fotosintesi, ricavano nutrienti da altre piante. Le loro radici posseggono infatti piccoli austori con i quali si attaccano alle radici di altre piante, assorbendone acqua e sali minerali. Concludiamo con Gerardiina, stabilito da Endlicher nel 1897, ancora un piccolo genere della famiglia Orobanchaceae; gli sono assegnate due sole specie dell'Africa tropicale, G. angolensis, diffusa dal Burundi al Sudafrica nord-orientale, e G. kundelungensis, endemica dello Zaire. Sono erbacee annuali o perenni, con foglie opposte intere e fiori raggruppati in infiorescenze racemose, con calice pentalobato e corolla campanulata, stretta alla base, quindi dilatata e divisa in cinque lobi. Il frutto è un capsula ovoidale, talvolta più lunga del calice. La dedica del genere Klattia, il terzo dei tre arbustivi della famiglia Iridaceae, è senza sorprese: ad aggiudicarsela è stato un tassonomista tedesco, specialista appunto di queste piante, nonché di Asteraceae. Operosissimo, pubblicò una quarantina tra articoli e contributi, collaborando anche ad alcune tra le maggiori opere del tempo, come la Flora brasiliensis di von Martius o il Conspectus floræ Africæ di Durand e Schintz. Eppure non era un botanico di professione, e quando gli venne offerta una cattedra universitaria la rifiutò. Per qualche anno gestì una scuola privata, poi insegnò scienze naturali in varie scuole della sua città natale, Amburgo, fin quasi all'ultimo istante della sua vita. Insegnante per necessità, botanico per passione Se il destino non avesse giocato con lui in modo crudele, forse Friedrich Wilhelm Klatt (1825-1897), anziché insegnante e botanico, sarebbe diventato pittore. Nato in una famiglia povera di Amburgo e presto orfano del padre, fin da studente mostrò un notevole talento artistico; incoraggiato dai suoi insegnanti, nel 1842 inviò i suoi migliori disegni ad una mostra che metteva in palio borse di studio per i giovani artisti più promettenti. Ma, prima dell'inaugurazione, nella notte tra il 4 e il 5 maggio scoppiò il grande incendio che imperversò fino al giorno 9 e distrusse un terzo della città, inclusi i locali che ospitavano la mostra e le opere di Klatt. Anche le sue speranze andarono in fumo: il diciassettenne Klatt così abbandonò i sogni artistici, completò gli studi liceali e si volse all'insegnamento. Nel 1854 insieme a un fratello assunse la gestione di una scuola per ragazzi, che fu chiusa in seguito alla guerra franco-prussiana del 1870; egli però continuò ad insegnare scienze naturali in varie scuole femminili e maschili della sua città. Nel frattempo aveva incominciato a farsi conoscere come botanico dilettante. Fece le sue prime raccolte nei dintorni di Amburgo e lungo la costa del mare del Nord, ma era anche interessato alle piante esotiche e incominciò a frequentare l'orto botanico di Amburgo e il suo erbario. Nel 1854 il suo fondatore, Georg Christian Lehmann, gliene affidò la cura e lo incoraggiò ad approfondire lo studio della tassonomia. Nel 1856 Klatt pubblicò su "Linnaea" il suo primo lavoro scientifico, la trattazione della famiglia Pittosporeae (oggi Pittosporaceae) nell'ambito di Plantae muellerianae, ovvero la pubblicazione delle raccolte australiane di Ferdinand von Mueller. Nel 1860, come esecutore testamentario del suo mentore Lehmann, si occupò della vendita dell'erbario del professore, che fruttò una notevole cifra ma comportò anche la dispersione della collezione. A Klatt rimasero solo gli esemplari di Primulaceae, una delle famiglie su cui aveva concentrato i suoi studi tassonomici, insieme a Asteraceae e Iridaceae. E proprio a queste ultime dedicò il suo lavoro forse più noto, l'importante Revisio Iridearum, uscito su "Linnaea" tra il 1863 e il 1866. La pubblicazione della prima parte gli guadagnò la laurea honoris causa dall'Università di Rostock, che qualche anno dopo gli offrì una cattedra universitaria; egli però la rifiutò, non desiderando allontanarsi da Amburgo, dalla famiglia e dalla moglie cui era affezionatissimo. In questi anni il suo interesse si divideva ancora tra la flora locale e quella esotica che poteva studiare nei ricchi erbari delle università tedesche. Tra il 1860 e il 1865 pubblicò sia una flora della Germania settentrionale sia una flora del Granducato di Lauenburg e nel 1868 una flora crittogama di Amburgo. Tuttavia, in seguito divenne sempre più uno specialista di flora esotica; dei suoi oltre 40 scritti, gran parte si concentrano sulle già citate famiglie Iridaceae e Asteraceae, Oltre a pubblicare varie monografie su particolari generi (tra gli altri, Sisyrinchium, Androsace, Lysimachia, Freesia, Iris, Bellis), scrisse la sezione Iridaceae di Flora Brasiliens di von Martius (1871), di Conspectus floræ Africæ di Durand e Schintz (1895) e di Symbolae ad floram Brasiliae centralis cognoscendam di Warming (1872-73), quella delle Iridaceae e delle Compositae di Botanik von Ostafrika aus von der Decken's Reisen (1879). Tra i suoi principali contributi sulle Iridaceae, vanno ricordate anche le aggiunte e le correzioni al sistema di Baker (Ergänzungen und Berichtigungen zu Baker's Systema Iridacearum, 1882) e Determination and description of Cape Irideae (1885), dedicato alle Iridaceae raccolte in Sudafrica da Templeton e conservate nell'erbario MacOwan. Anche se non divenne mai esclusivo, a partire dagli anni '80 il suo interesse si spostò sempre più verso le Asteraceae, cui complessivamente dedicò una quindicina di scritti, che, a partire dell'esame di numerosi erbari, spaziano dall'Africa orientale tedesca e al Madagascar all'Australia, ma soprattutto si concentrano sul centro e sud America (Brasile, Messico, Guatemala, Colombia, Costa Rica); proprio alle composite americane dedicò il suo ultimo scritto (Amerikanische Kompositen aus dem Herbarium der Universität Zürich, 1896). Klatt scambiava esemplari e corrispondeva con molti botanici tedeschi, con Kew (che visitò in uno dei suoi rari viaggi all'estero) e con Asa Gray. Estremamente preciso e scrupoloso, quando gli veniva inviato un esemplare da determinare, gli tornava utile l'antico talento del disegno; soprattutto se si trattava di esemplari tipo, li disegnava in dettaglio, eventualmente inviando copia del disegno e delle proprie osservazioni ai colleghi che consultava per giungere a un'identificazione corretta. Illustrò di propria mano la sua monografia del genere Lysimachia, In quarant'anni di instancabile attività, Klatt pubblicò 21 generi, 6 dei quali tuttora validi, e quasi 1300 specie, circa 300 delle quali attualmente accettate. Membro di moltissime società scientifiche, egli rimase fino alla fine un professore di liceo. E proprio mentre si accingeva a fare lezione in una delle sue classi fu colpito dall'infarto che in breve lo portò alla morte, nel marzo 1897. Il suo notevole erbario venne posto in vendita e successivamente donato, parte all'Erbario Gray di Harvard, parte all'Istituto botanico dell'Università di Amburgo. Rare Iridaceae sudafricane In Revisio Iridearum, Klatt si era anche occupato delle singolari Iridaceae arbustive del Capo all'epoca note; ne descrisse cinque specie, e le assegnò tutte al genere Witsenia; tra di esse una specie raccolta da Ecklon e Zeyher e conservata nell'erbario di Berlino, che egli presentò come propria, ma che in realtà era già stata pubblicata in modo illegittimo all'inizio del secolo da Ker Gawler come Witsenia partita. Nel 1877 Baker, nell'ambito del suo Systema Iridacearum, come avviene ancora oggi, le distribuì invece nei tre generi Witsenia, Nivenia e Klattia, creato appunto in onore del professore tedesco, con K. partita come unico rappresentante. Anche se il dedicatario e la motivazione della dedica sono evidenti, purtroppo Baker non li esplicitò. Oggi al genere Klattia sono assegnate tre specie; a K. partita si sono infatti aggiunte K. stokoei e K. flava, in precedenza considerata una varietà di K. partita. Tutte sono endemiche della Provincia del Capo occidentale, dove crescono in siti umidi sui pendii rocciosi delle montagne di arenaria. Tutte sono estremamente rare. K. partita è limitata ai pendii più freschi esposti a sud, ai margini delle paludi, intorno a 600 metri di altitudine della penisola del Capo, delle Hottentot Holland Mountains e delle Lagenberg mountains; vive per lo più in habitat protetti, ma le sue popolazioni sono in diminuzione. Molto rara K. flava, ristretta a piccole popolazione con forse meno di 1000 individui, dalle Hottentots Holland Mountains a Bain's Kloof, in gole e lungo corso d'acqua dove le nubi e le precipitazioni estive sono frequenti; rarissima K. stokoei, un endemismo del Kogelberg, di cui si conoscono appena una decina di popolazioni con un totale di circa 250 individui. Poiché la loro sopravvivenza dipende dalla disponibilità di acque sotterranee, sono a rischio a causa dell'estrazione di queste ultime. Piuttosto simili tra di loro, tutte sono arbusti sempreverdi con caudice legnoso sotterraneo, fusti semplici o irregolarmente ramificati, lunghe foglie lanceolate raccolte a ventaglio. I fiori, riuniti in dense infiorescenze e protetti da grandi brattee, sono tubolari e ricordano un po' un pennello; quelli di K. partita sono blu, quello di K. lutea gialli e quelli di K. stokoei rosso aranciato. Producono nettare con una bassa concentrazione di zucchero, appetito dai loro tipici impollinatori, gli uccelli nettarinidi come la nettarinia ventrearancio Anthobaphes violacea. Come Wistenia, hanno fama di essere di difficile coltivazione. Tra il 1683 e il 1685, il farmacista e pittore di origine tedesca Heinrich Claudius prese parte a due spedizioni nel Namaqualand (Sudafrica); durante la seconda, comandata dal governatore van der Steel in persona, fu incaricato di illustrare il diario della spedizione. Le sue illustrazioni della flora sudafricana, tra le primissime a raggiungere l'Europa, attirarono l'attenzione dei collezionisti. Tra di essi anche il sindaco di Amsterdam Nicolaes Witsen, che, non sappiamo se in Europa o a Città del Capo, fece copiare diverse tavole botaniche di Claudius per includerle nella sua collezione di illustrazioni botaniche, il cosiddetto Codex Witsenii. Secondo Boerhaave aveva dimensioni favolose, ma solo pochissimi dei disegni originali che ne facevano parte sono giunti fino a noi, seguendo vie alquanto tortuose. La botanica (per qualche tempo fu anche commissario dell'orto botanico di Amsterdam) non fu per altro che uno dei tanti interessi del multiforme Witsen, non solo uno dei più grandi collezionisti del suo tempo, ma anche uomo politico, diplomatico, cartografo, esperto di costruzioni navali, nonché amico e corrispondente dello zar Pietro il grande. A ricordarlo il singolare genere sudafricano Witsenia, uno dei tre arbustivi della famiglia Iridaceae. Uno zar eccentrico e un sindaco dai molteplici interessi Nel marzo 1697, il giovane zar Pietro, all'epoca venticinquenne, si imbarcò per quella che è passato alla storia come "Grande ambasciata". La missione aveva un obiettivo diplomatico che non si realizzò (costruire una grande alleanza antiturca), ma anche obiettivi non certo minori agli occhi di Pietro, che furono conseguiti con successo. Egli infatti desiderava anche acquistare armi e attrezzature militari e ingaggiare specialisti che lo aiutassero a modernizzare il suo paese; a cuore gli stava soprattutto la creazione di una flotta all'altezza dei migliori standard europei. Una delle tappe principali del suo viaggio fu dunque la Repubblica delle Province unite, dove giunse ad agosto, dopo aver incontrato il duca di Curlandia e aver stretto un'alleanza con il re di Prussia. Desideroso di apprendere di persona le tecniche di costruzione navale, accompagnato da dodici volontari e vestito con abiti comuni, prima ancora di raggiungere la frontiera olandese Pietro si separò dalla delegazione ufficiale, che proseguiva più lentamente alla volta di Amsterdam, e si imbarcò per Zaandam, dove si trovavano importanti cantieri navali. La mattina stessa del suo arrivo, fu riconosciuto dal fabbro Gerrit Kist che aveva lavorato a Mosca, e lo convinse ad affittargli una stanza nella sua casetta di legno, tuttora conservata. Quindi, per otto giorni, sotto il nome di Pëtr Michailov, lavorò come carpentiere in uno dei cantieri. Tuttavia, la sua presenza non passò certo inosservata, tanto più che Pietro era un gigante di oltre 2 metri. Stufo delle crescenti attenzioni, egli scrisse al sindaco di Amsterdam e direttore della VOC (Compagnia olandese delle Indie orientali) Nicolaes Witsen (1641-1717) che gli consigliò di spostarsi a Amsterdam dove avrebbe potuto lavorare lontano da occhi indiscreti in uno dei moli della compagna. Così lo zar lasciò Zaandam e il 27 agosto assistette in incognito all'arrivo della delegazione russa, con la quale visitò il municipio e l'orfanatrofio e il giorno seguente i cantieri della VOC. Intanto Witsen si era dato da fare e aveva convinto i vertici della Compagnia ad autorizzare Pietro a lavorare nel cantiere di Oostenburg, dove appositamente per lui sarebbe iniziata la costruzione di una nuova fregata. Così, dal 30 agosto, per 4 mesi, il "mastro Pietro", come amava farsi chiamare, lavorò come apprendista carpentiere nel cantiere della VOC; contemporaneamente, c'erano anche gli incontri ufficiali (il 10 settembre andò ad Utrecht per incontrare lo statolder Guglielmo, che dal 1689 era anche re d'Inghilterra), le visite culturali, gli stages presso esperti, la campagna acquisti di studiosi e artigiani da attirare in Russia. A organizzare molte di queste attività fu Witsen, con il quale lo zar corrispondeva da tempo, tanto da considerarlo un amico personale. Del resto, il borgomastro era noto come il massimo esperto di affari russi dell'Europa occidentale. Nel 1664 aveva vistato la Russia come membro di un'ambasceria e si era trattenuto nel paese per tre anni, spingendosi fino al mar Caspio. Durante i suoi viaggi, incontrò persone di ogni ceto, strinse utili relazioni e raccolse molti materiali etnografici; nel 1667, prima di rientrare in Olanda, fu ricevuto dal padre di Pietro, lo zar Aleksej Michajlovič. Nei vent'anni successivi, continuò a coltivare un grande interesse per la Russia che culminò tra il 1690 e il 1692 con la pubblicazione della prima carta della Siberia e di Noord en Oost Tartarye ("La Tartaria settentrionale e orientale"), un'ampia trattazione di geografia, etnografia, linguistica, flora e fauna di ciò che all'epoca si chiamava Tartaria, ovvero il vastissimo territorio situato tra il Mar Caspio e l'Oceano Pacifico; non la sola Siberia, dunque, ma il Caucaso, l'Asia centrale, l'Asia Interna, e oltre, fino alla Manciuria, la Mongolia, la Corea e lo stesso Giappone. Insieme a un resoconto del suo viaggio in Russia, ne inviò una copia allo zar Pietro, che però era molto più interessato al secondo campo di studio di Witsen: le costruzioni navali. Nel 1671 egli aveva infatti pubblicato la prima edizione di Aeloude and hedendaegsche Scheepsbouw en Bestier ("Cantieristica e gestione navale antica e contemporanea"), che presto divenne un'opera di riferimento. Lo zar iniziò a corrispondere con Witsen, che divenne di fatto il suo agente ufficioso in Olanda; ne seguì un ordine di navi da guerra ai cantieri navali di Amsterdam e un ukase sul commercio russo-olandese che garantiva alla Repubblica l'importazione di grano, legno, talco, catrame e pellami. Allo studio della cartografia e delle costruzioni navali il multiforme Witsen dedicava il tempo libero. Per tradizione familiare, era infatti una delle personalità più in vista dell'economia e della politica dei Paesi Bassi. Già il padre Cornelis Jan Witsen era stato sindaco di Amsterdam, membro del consiglio dell'Ammiragliato e direttore della Compagnia delle Indie Occidentali. A sua volta, Nicolaes fu borgomastro di Amsterdam per 13 volte (l'ultima nel 1705) e dal 1693 direttore della VOC; nel 1690 fu inviato come ambasciatore straordinario in Inghilterra, dove Guglielmo III si era appena insediato; nel 1702 fu coinvolto nelle trattative tra gli Stati generali olandesi e il re di Prussia. All'epoca, Amsterdam era il porto più trafficato d'Europa ed era il paradiso dei collezionisti; in città si contavano almeno una cinquantina di Wunderkammer, e ovviamente una delle più prestigiose era quella di Witsen, che aveva iniziato a raccogliere curiosità in gioventù durante il viaggio in Russia e continuò ad arricchire gli scaffali e i cassetti del suo gabinetto, avvantaggiandosi della sua posizione di direttore della VOC. Profondamente convinto che le conoscenze scientifiche giovassero agli affari, incoraggiò le ricerche degli agenti della compagnia; protesse Rumphius, il primo studioso della flora delle Molucche; incoraggiò i viaggi di Cornelis de Bruijn, che visitò e dipinse le rovine di Persepoli; promosse la spedizione di Willem de Vlamingh nell'Australia occidentale (1696-97). Dai suoi corrispondenti riceveva informazioni di prima mano, ma anche rarità di varia natura per il suo gabinetto di curiosità. De Brujn gli inviò i suoi disegni di Persepoli e Vlamingh una cassa di conchiglie, frutti e piante australiani, insieme a undici disegni del disegnatore e cartografo della spedizione Victor Victorsz. Negli anni '90, su suo incoraggiamento Herbert de Jager realizzò disegni della flora di Giava (che però nel 1695 vennero sequestrati dalla VOC, che temeva che la loro conoscenza potesse avvantaggiare mercanti rivali). Quella di Witsen, come apprendiamo dal catalogo dell'asta che fece seguito alla sua morte, era una collezione universale: c'erano monete antiche e reperti archeologici, pietre preziose, armi, curiosità etnografiche, oggetti laccati, porcellane e dipinti provenienti dall'Asia. Anche se il suo interesse principale andava alla geografia, all'etnografia e alla linguistica, non disdegnava le scienze naturali: nel suo gabinetto di curiosità c'erano pietre, minerali, fossili, conchiglie, coralli, preparazioni animali (tra cui un rospo del Suriname Pipa pipa sotto spirito), insetti, zanne di mammut, corna di ogni tipo (tra cui una zanna di narvalo, che secondo Witsen era all'origine del mito degli unicorni). Non risulta avesse un erbario, ma certamente possedeva una ricca collezione di illustrazioni botaniche che, secondo la testimonianza di Hermann Boerhaave, giunse a comprendere oltre 1500 tavole. Tuttavia esse non risultano nel catalogo d'asta. Ne conosciamo solo una selezione, però in modo indiretto ed enigmatico. Intorno al 1692, Witsen fece eseguire o piuttosto copiare, non sappiamo se a Città del Capo o in Europa, numerosi acquarelli di piante sudafricane, dipinte dal pittore tedesco Heinrich Claudius, che nel 1685 aveva partecipato come disegnatore ufficiale alla spedizione nel Namqualand diretta dal governatore de Steel. Ne risultò un manoscritto di tre volumi, noto come Codex Witsenii o Codex witsenianus; Witsen, che all'epoca era anche uno dei commissari dell'orto botanico di Amsterdam, lo affidò a Caspar Commelin perché identificasse le piante e ne redigesse il catalogo. Alla sua morte nel 1717, il codice rimase nelle mani di Commelin, che a sua volta morì nel 1731; il catalogo è andato perduto, mentre il Codice fu ceduto a Johannes Burman dalla vedova del figlio di Commelin. Burman ne trasse 92 delle illustrazioni del suo Rariorum africanarum plantarum Decades; altre furono tratte da altri codici, almeno uno dei quali, Herbarium witsenianum, appartenuto allo stesso Witsen. Quindi il codice passò al figlio Nicolaas Laurens; qualche anno dopo la morte di quest'ultimo, nel 1800, la biblioteca dei Burman venne messa all'asta e il codice fu acquistato da un acquirente ignoto e scomparve. Nel 1829 Johannes Andreas Truter, presidente della corte di Giustizia del Capo e membro della Società letteraria del Sudafrica, donò alla stessa un manoscritto, di cui si ignora come fosse venuto in possesso, oggi conservato presso l'Iziko South African Museum di Cape Town. Certamente era uno dei codici utilizzati da Burman, che ne annotò di sua mano diverse parti, e si ritiene generalmente facesse parte del Codex Witsenii. In tal caso, poiché include appena 59 illustrazioni botaniche, ne costituirebbe solo una parte. Altri disegni di Claudius, non sappiamo se passati per le mani di Witsen, sono conservati in diverse biblioteche sia in Europa sia in Sudafrica. Il manoscritto più consistente si trova all'Africana Museum di Johannesburg: consiste di 433 fogli di disegni, 343 dei quali di piante; 78 sono molto simili alle immagini dell'opera di Burman, di cui potrebbero costituire gli originali. Anche questo volume potrebbe dunque aver fatto parte del Codex Witsenii, ma ne ignoriamo del tutto le vicende. Un fiore singolare e dolcissimo Insomma, il codice Witsen rimane un enigma. Siamo più informati su un altro lascito botanico del borgomastro; nel 1705, quando era ancora in auge (proprio a quell'anno risale il suo ultimo mandato come sindaco; poi la sua stella politica si eclissò e si ritirò a vita privata, lasciando anche la direzione della VOC), fece recapitare all'Orto botanico di Amsterdam due pianticelle di caffè, provenienti da Batavia. Sistemate in serra e curate amorosamente, prosperarono, produssero frutti e semi. La coltivazione di pianticelle di caffè divenne così una specialità del giardino, che le vendeva a un prezzo variabile tra 17 e 26 guilder. Ad acquistarle erano i ricchi collezionisti, ma soprattutto erano destinate alle piantagioni americane. Qualche anno dopo pianticelle e semi da Amsterdam raggiunsero il Suriname; più tardi dal Suriname qualcuno le portò in Brasile. Nel 1715 il sindaco di Amsterdam (che non era più Witsen) ne inviò in dono diplomatico due pianticelle al re Sole; una fu trapiantata nel parco del castello reale di Marly, l'altra al Jardin des plantes di Parigi. Anch'esse prosperarono. Nel 1720, due pianticelle furono affidate al capitano de Clieu perché le portasse in Martinica; dopo un viaggio rocambolesco, riuscì a farne arrivare a destinazione solo una. La sopravvissuta si ambientò così bene che nell'arco di pochi anni la coltivazione del caffè si era estesa a tutte le Antille francesi e alla Guyana. Nel 1728, il governatore Nicholas Lawes introdusse alcune piante della Martinica in Giamaica. Sono le antenate del pregiato caffè Blue Mountain. Ecco perché all'orto botanico di Amsterdam affermano con orgoglio che tutto il caffè del Nuovo mondo discende dalle due pianticelle donate alle sue serre nel lontano 1705 da Nicolaas Witsen. Anche se probabilmente, da buon olandese d'adozione, anche lui amava il caffè, non fu per questo merito, ma come mecenate della scienza che Carl Peter Thunberg volle celebrarlo; nel dedicargli il genere Witsenia, infatti così scrive: "Gli ho dato questo nome in memoria del signor Witsen, borgomastro di Amsterdam, e sommo patrono e protettore delle scienze in generale". La pianta scelta da Thunberg sarebbe sicuramente piaciuta a Witsen, che amava gli aspetti più curiosi e bizzarri della natura. Questo genere monotipico, il cui unico rappresentante è W. maura: insieme a Nivenia e Klattia è infatti uno dei soli tre arbustivi della famiglia Iridaceae. Fu anche il primo del gruppo ad essere descritto: W. maura fu infatti inizialmente pubblicata da Linneo nel 1771 come Antholyza maura. E' una specie piuttosto rara che vive nelle aree costiere, basse e paludose, della Provincia del Capo occidentale, dalla penisola del Capo meridionale a Caledon. Il suo habitat tipico è il fynbos paludoso; purtroppo è seriamente minacciata dall'urbanizzazione e dalle specie aliene invasive. Inoltre, essendo di difficile coltivazione, è raramente coltivata anche nello stesso Sudafrica. E' un vero e proprio arbusto di ragguardevoli dimensioni; di portamento eretto o disordinatamente ricadente, può raggiungere un'altezza di 3 metri; le lunghe foglie lanceolate, verde-glauco e simili anche nella forma a quelle delle iris, sono raccolte a ventaglio e possono superare 1 metro di lunghezza. I fiori, che si aprono nei mesi invernali, sono molto vistosi: raggruppati in cime di 6-8 e lunghi fino a 85 cm, sono disposti in coppie tenute insieme da tre-cinque brattee e hanno tepali, pubescenti all'esterno, nerastri nella metà inferiore e giallo brillante in quella superiore. Non passano certo inosservati! Un richiamo irresistibile per gli uccelli nettarinidi e per lo zuccheriere del Capo Promerops cafer, che impollinandoli si vedranno premiati dal dolcissimo nettare di questa singolare specie, il cui contenuto di zuccheri varia dall'11 al 13%. Nel quindicennio tra il 1798 e il 1812, lo scozzese James Niven fu un prolifico ed efficiente cacciatore di piante in Sudafrica. Prima al servizio di George Hibbert, poi di un consorzio che includeva il vivaio Lee e Kennedy e l'imperatrice Giuseppina, raccolse migliaia di semi e esemplari di erbario, introducendo nei giardini europei molte nuove specie, in particolare Ericaceae e Proteaceae. Nella realtà fu un giardiniere, poi un raccoglitore, infine forse un commerciante morto troppo presto; nel mito, chissà perché, la sua scarna biografia si colora di particolari da fantasiosi a melodrammatici. A ricordarlo il reale e bellissimo genere Nivenia, endemico della provincia del Capo occidentale, uno dei tre arbustivi della famiglia Iridaceae. Un raccoglitore prolifico e coscienzioso Nel fascicolo del 1827 della rivista di orticultura edita da Longman e curata da Loudon The Gardener's Magazine i lettori poterono leggere il necrologio di Mr. James Niven, morto il 9 gennaio di quell'anno, corredato da una breve biografia. Ancora oggi è il resoconto più ampio della vita di questo giardiniere e cacciatore di piante; a firmarlo è J. M., ovvero James Main, che doveva aver conosciuto Niven di persona, visto che entrambi per qualche tempo avevano lavorato per il ricco collezionista di piante George Hibbert. Eppure, come vedremo meglio più avanti, le notizie fornite da Main sono da prendere con beneficio d'inventario. Figlio di un tessitore di Penicuik, non lontano da Edimburgo, James Niven (1776-1827) dovette ricevere la relativamente accurata educazione garantita dalle scuole pubbliche scozzesi; poi probabilmente lavorò come ragazzo giardiniere presso vari giardini, finché diciannovenne completò il suo apprendistato presso l'orto botanico di Edimburgo, dove rimase per circa un anno. Nel 1796 si trasferì a Londra dove fu assunto come giardiniere a Syon House, la splendida proprietà del duca di Northumberland, sotto il capo giardiniere Thomas Hoy. In qualche modo dovette attirare l'attenzione di George Hibbert che decise di inviarlo in Sudafrica a caccia di piante. Secondo Nelson e Rourle che, in assenza di un diario di campo, hanno cercato di ricostruire i suoi movimenti sulla base delle sue note d'erbario, Niven dovette arrivare al Capo alla fine del 1798 o all'inizio del 1799, dato che il suo primo esemplare datato risale all'agosto 1799. Secondo Main, presto si impadronì tanto dell'olandese quanto del khoi, tanto da poter servire come interprete e guida alle truppe del generale Craig. E' il primo mito che troviamo in questa storia: almeno un anno prima che Niven vi arrivasse, Craig, dopo aver brillantemente diretto l'occupazione inglese della Colonia del Capo, sottratta alla Repubblica batava, ed esserne stato per due anni governatore, era stato destinato al Bengala e aveva lasciato il Sudafrica per Madras. E' molto probabile (anzi certo secondo Nelson e Rourle) che al Capo Niven abbia invece incontrato un altro botanico scozzese, William Roxburgh, che vi era arrivato da Calcutta nel 1798 insieme a suo figlio John; mentre il padre lasciò il paese alla fine del 1799, il figlio vi rimase fino al 1804 a raccogliere esemplari per l'orto botanico di Calcutta. Nelson e Rourle ipotizzano che, essendo conterranei e avendo interessi comuni, Niven e i Roxburgh abbiano botanizzato insieme, anche se è difficile da dimostrare, perché, al contrario di quelli di Niven, per gli esemplari dei due Roxburgh la località di raccolta è spesso indicata in modo molto generico; una prova indiretta è il fatto è che nel suo erbario Niven usò alcuni binomiali inediti di Roxburgh, Nel 1803, in seguito al trattato di Amiens, la colonia del Capo fu restituita alla Repubblica batava; Niven, che ora non poteva più muoversi liberamente nel paese, rientrò in Inghilterra, ma, sempre stando a Main, dopo solo tre mesi tornò in Sudafrica, al servizio di un consorzio che comprendeva il vivaio Lee & Kennedy e l'imperatrice Giuseppina. Anche questa notizia è imprecisa; secondo Nelson e Rourle, egli invece dovette tornare in Sudafrica nel 1805. Infatti per poter raccogliere nel paese tornato sotto controllo olandese era necessario un permesso; quest'ultimo venne rilasciato a Niven in data 3 aprile 1805, limitatamente alle piccole aree di Riebeek-Kaastel e Roodezand. Tuttavia già nel gennaio 1806 i britannici rioccuparono la colonia, e dal quel momento Niven potè muoversi liberamente; vi sarebbe rimasto per altri sei anni, fino al 1812. Durante i due soggiorni sudafricani, Niven esplorò gran parte della colonia del Capo; a nord si spinse fino al Kamiesberg, il massiccio più elevato del Namaqualand, dove raccolse Vexatorella alpina (pubblicata da Knight come Protea alpina); a est percorse le catene che corrono lungo la costa (monti di Riviersonderend, Langeberg e Outeniqua) e ancora più a est, attraverso la valle Langekloof, dove raccolse Protea tenax, raggiunse Kromme River e Gamtoos River, il punto più orientale dei suoi viaggi, Tuttavia raccolse la maggior parte degli esemplari in un raggio di 150 km da Città del Capo; i suoi luoghi di raccolta preferiti risultano i distretti di Tulbagh, le catene Drakenstein e Hottentots Holland e il monte di Worcester. I suoi committenti desideravano soprattutto semi e bulbi, Ciò significava esplorare ciascuna area almeno due volte: la prima durante la stagione di fioritura per identificare le specie e raccogliere esemplari d'erbario, la seconda qualche mese più tardi per raccogliere i semi. Per ritrovare con facilità le piante e identificarle con sicurezza, Niven creò per se stesso un erbario di campo: su ogni foglio di pesante carta grigiastra incollava più esemplari (mediamente tre) corredati da precise note sul luogo di raccolta, la stagione di fioritura, l'habitat, le caratteristiche ecologiche, talvolta il tipo di suolo. Le raccolte di Niven sono particolarmente importanti per due famiglie largamente presenti in Sudafrica, le Proteaceae e le Ericaceae. Grazie alle sue raccolte delle prime, George Hibbert ne poté vantare la più ampia collezione europea, Knight specializzarsi nella loro coltivazione, Salisbury e Brown pubblicare decine di nuove specie. Una delle più rare è Leucospermum grandiflorum, che nel 1799 fu raccolta sia da Roxburgh sia da Niven. Secondo Salisbury, che la descrisse in Paradisus Londinensis nel 1808, i semi raccolti da Niven furono seminati nella serra di Hibbert dove prosperarono. Anche per le Ericaceae (molte furono pubblicate da Henry Cranke Andrews nei sei volumi di The Heathery, le raccolte di Niven hanno grande importanza storica. Secondo Aiton, le specie di Erica introdotte da Niven in Gran Bretagna sono 31, un risultato notevole se si pensa che Masson nel corso dei suoi tre viaggi ne aveva già introdotte 86. E se i numeri sono inferiori, in compenso i dati relativi ai luoghi di raccolta e agli habitat sono di gran lunga più accurati rispetto a quelli del suo predecessore. Secondo la testimonianza del curatore dell'orto botanico di Edimburgo William McNab, che ebbe con lui molte conversazioni sull'argomento dopo il suo ritorno in Scozia, "il mio molto compianto amico James Niven certamente sapeva sulla natura e sulla coltivazione di questo genere più di ogni altro uomo che io abbia mai incontrato". Miti e affabulazioni Dopo il suo ritorno in patria, sempre stando a Main, Niven "abbandonò le sue attività botaniche e orticole" e ritornò a Penicuik, dove aprì un'attività (non sappiamo di che genere) insieme a un fratello. Nel 1817 sposò Alison Abernethy (lo sposo aveva 40 anni, la sposa 26), da cui ebbe 5 figli; nel 1827, ad appena 50 anni morì. Main non manca di aggiungere un particolare melodrammatico: non appena la sua bara lasciò la casa, la vedova morì all'istante, lasciando cinque piccoli orfani. Documenti alla mano, è un altro mito: forse davvero per il dolore la donna ebbe un infarto o un ictus, ma morì e fu sepolta quattro settimane dopo il marito. La situazione dei bambini era comunque difficile, e i loro tutori furono costretti a vendere l'erbario; l'acquirente fu il già citato William McNab; passato al figlio John, capo giardiniere dell'orto botanico di Edimburgo, poi al nipote William Ramsay McNab, l'erbario finì a Dublino quando il suo ultimo possessore ottenne la cattedra di botanica al Collegio reale d'Irlanda. Alla sua morte precoce nel 1889, la vedova fu costretta a mettere in vendita la biblioteca, gli strumenti scientifici e l'erbario del marito, che comprendeva anche quello di Niven. In parte fu acquistato dal Museo nazionale irlandese (oggi è custodito all'erbario di Glasnevin), in parte dai Kew Gardens. Una serie di duplicati, forse in qualche modo acquisiti da Harvey, si trovano invece al Trinity College. L'erbario, già diviso, fu ulteriormente smembrato, e in parte rimase sconosciuto fino agli anni '70 del Novecento, quando venne in un certo senso "riscoperto" e studiato da un altro specialista di Proteaceae ed Ericacae, Ernest Charles Nelson dell'erbario dell'orto botanico di Glasnevin a Dublino, che si è anche incaricato di sfatare alcuni dei miti che hanno offuscato la vera storia di James Niven, Ne rimane uno, forse il più diffuso e tenace. Tra i personaggi più noti dell'orticultura irlandese troviamo Ninian Niven (1799-1879), che ridisegnò Phoenix Park, diresse per qualche anno l'orto botanico di Glasnevin, per poi diventare un affermato vivaista e un famoso architetto di giardini, nonché per diversi anni segretario della Royal Horticultural Society. Non è chiaro per quali ragioni, contro ogni evidenza, nel loro Biographical Index of British and Irish Botanists (1889) Boulger e Britten asserirono che Ninian Niven era figlio del nostro James Niven. Eppure Ninian Niven era nato a Kelvin Growe, presso Glasgow e suo padre, che si chiamava anche lui Ninian, era uno dei giardinieri di Keir House vicino a Stirling e non fu mai un cacciatore di piante. Senza contare che nel 1799 il nostro Niven aveva appena 22 anni ed era giusto arrivato in Sudafrica. I registri parrocchiali di Penicuik non lasciano dubbi: James Niven, come già sappiamo, si sposò quasi vent'anni dopo e nessuno dei suoi cinque figli era ovviamente Ninian Niven. Stranamente questa leggenda orticola è dura a morire: nel Dictonary of British Biography si legge: "suo padre, anche lui Ninian Niven, era un giardiniere di Keir House presso Stirling, e visitò due volte il Capo di Buona speranza raccogliendo piante per George Hibbert e l'imperatrice Giuseppina". Per concludere, un altro mito cinematografico. Nel notevole film Proteus, del regista canadese John Greyson, che racconta in modo romanzato la storia di due prigionieri giustiziati per sodomia in Sudafrica, compare un botanico scozzese chiamato Virgil Niven, ispirato a James Niven. A dispetto del fatto che la tragica vicenda sia avvenuta nel 1735, quarant'anni prima della sua nascita. Iridaceae arbustive con fiori color cielo Il contributo di James Niven alla botanica e ai giardini britannici, da lui arricchiti di tante specie notevoli, è riconosciuto tanto da William Aiton, quando da Salisbury e Robert Brown, per una volta concordi. Lo ricordano gli eponimi di non molte specie sudafricane (Acmadenia nivenii, Erica niveniana, Serruria nivenii) e un genere ugualmente sudafricano, Nivenia. Glielo dedicò Ventenat sulla base di una delle molte specie da lui raccolte in Sudafrica e approdate alla Malmaison; in Decas Generum Novorum (1808) il botanico francese scrive: “questa specie è stata fornita dall’egregio Kennedy; perciò l’ho nominata dallo scopritore J. Niven, giardiniere inglese” (d'accordo, era scozzese, ma errore più errore meno...). Rispetto a questa laconica dedica, è ben più eloquente quella di Robert Brown per un secondo genere Nivenia (ovviamente non valido per la regola della priorità); dopo aver spiegato in che cosa il nuovo genere differisce da Paranomus di Salisbury, egli infatti scrive: "L’ho dunque nominato in onore di Mr. James Niven, un osservatore intelligente e un raccoglitore instancabile, con il quale i botanici sono indebitati di molte nuove specie delle due estese famiglie sudafricane delle Ericaceae e delle Proteaceae”. Nivenia Vent. è un piccolo genere della famiglia Iriaceae; insieme a Klattia e Witsenia, è uno dei soli tre generi della famiglia (tutti endemici del Sudafrica) a essere veri e propri arbusti sempreverdi, con fusti legnosi che producono vegetazione secondaria. Raggruppati nella sottofamiglia Niveoinioideae, tutti insieme comprendono appena quindici specie, contro le 1600 dell'intera famiglia (900 nel solo Sudafrica). Il genere più vasto del gruppo è proprio Nivenia, con undici specie accettate. Hanno tutte fiori azzurri e sono arbusti di medie dimensioni, con l'eccezione di tre specie a cuscino che crescono in habitat rocciosi aridi di montagna: N. levynsiae nelle Betty Bay-Kleimond Mountains, N. concinna al Viljoen Pass e N. fruticosa nel Lagenberg. Quest'ultima, di habitus quasi erbaceo e con un'infiorescenza poco vistosa di appena due fiori, fu la prima specie ad essere raccolta e descritta, da Peter Thunberg che la assegnò al genere Ixia. All'estremo opposto troviamo la specie più nota, l'unica coltivata al di fuori del Sudafrica, N. corymbosa, che cresce a Bain's Kloof e nelle montagne circostanti: gli esemplari più vecchi possono avere rami con un diametro di 4-5 cm lunghi anche tre metri. L'infiorescenza è un grande corimbo di circa 120 fiori in diverse tonalità di blu, che attirano folle di impollinatori, in particolare l'ape Amegilla fallax, dotata di una lunga ligula che le permette di raggiungere il nettare posto alla base del lungo tubo florale. A metà tra questi due specie estreme, si colloca la bella N. stokoei, un arbusto dal portamento arrotondato, che in aree protette può raggiungere il metro e mezzo, ma in aree aperte rimane molto più basso. Ha strette foglie lanceolate disposte a ventaglio che tradiscono immediatamente l'appartenenza alla famiglia, e fiori blu purissimo. E' un endemismo della Riserva della Biosfera Kogelberg. Tutte endemiche del Capo occidentale, spesso di aree estremamente limitate, purtroppo diverse specie di Nivenia sono in pericolo per la restrizione del loro habitat e anche per le conseguenze del cambiamento climatico. Tutte le sue undici specie sono incluse nella lista rossa delle piante sudafricane, due sono classificate come vulnerabili e cinque come rare. Nelle riviste inglesi a cavallo tra Settecento e Ottocento, ci si imbatte continuamente nel nome del ricchissimo mercante George Hibbert che nel suo giardino di Clapham possedeva una collezione di piante rare seconda solo a quella dei Kew Gardens; anzi la prima al mondo per le Proteaceae, le sue piante preferite. Nulla di strano che l'editore di una di quelle riviste, che era anche un pittore ed approfittò largamente di quelle raccolte per i suoi libri, lo abbia ringraziato con la dedica di una delle piante che fioriva nel suo giardino. Il problema è che il grazioso genere Hibbertia onora una persona che, dal punto di vista attuale, non merita di essere onorata: come collezionista e promotore dell'introduzione di nuove piante Hibbert fece molto per la botanica, è innegabile; tuttavia egli non solo doveva la sua ingentissima ricchezza allo schiavismo (in questo sarebbe in larga compagnia, a cominciare dai presidenti americani Washington e Jefferson) ma fu probabilmente il nome più in vista della lobby di mercanti, trafficanti e piantatori che cercò di bloccare l'approvazione della legge che mise fine alla tratta degli schiavi in Inghilterra; e alla fine fu anche profumatamente pagato per averlo fatto. Secondo alcuni botanici, la botanica non può lavarsene le mani; secondo altri, mettere in discussione un nome per ragioni che prescindono le regole botaniche apre un vaso di Pandora che fa crollare i principi cardini del Codice internazionale di nomenclatura. Il dibattito è aperto. Il volto oscuro: lo schiavista Uno dei nomi che ricorrono con maggiore frequenza nelle pagine di The botanist's repository e del Curtis's botanical magazine nel ventebnnio tra il 1795 e il 1815 è quello di George Hibbert (1757-1837), nel cui giardino di Clapham fiorirono per la prima volta e furono disegnate molte delle novità presentate in quelle riviste. La sua collezione di piante rare provenienti da tutto il mondo rivaleggiava con quella dei Kew Gardens, ed era particolarmente ricca di specie del Capo, dove, come vedremo più avanti, operò per vari anni come cacciatore di piante uno dei suoi giardinieri, James Niven. Hibbert non era un mero collezionista di piante: era considerato un botanico più che dilettante, parlava fluentemente cinque lingue e ne capiva altre due, era un bibliofilo compulsivo e un po' megalomane che non badava a spese per acquisire libri rari, inclusa una copia della Bibbia di Gutenberg. Era membro di molti club e di società scientifiche, inclusa la Royal Society. Nel necrologio pubblicato sulla rivista della Linnean Society, James Main l'ha descritto come una persona che "ispirava fiducia e rispetto per il buon senso, la capacità di giudizio e la sagacia". Eppure questo stimato collezionista e botanofilo non solo doveva tutta la sua ricchezza al lavoro degli schiavi, ma fu anche il leader e il portavoce della lobby di mercanti e piantatori delle Antille britanniche che si oppose con tutte le forze all'abolizione della schiavitù. La famiglia Hibbert era coinvolta da lunga data nel commercio triangolare: il cotonificio del nonno e del padre, due agiati drappieri di Manchester, forniva cotonine e altre forniture ai trafficanti di schiavi; ma il vero salto di qualità si ebbe con lo zio Thomas, che si trasferì in Giamaica per recuperare le obbligazioni di alcuni trafficanti e in vent'anni divenne uno dei più ricchi piantatori dell'isola (possedeva tre estese piantagioni con oltre 900 schiavi); si fece costruire la più bella casa di Kingston, Hibbert House, oggi sede del National Trust della Giamaica. Grazie al successo e ai contatti di Thomas, gli Hibbert rimasti in Inghilterra, da drappieri e fornitori, si trasformarono in mercanti e armatori, specializzati nel commercio con la Giamaica. Nel 1770, un altro Thomas Hibbert, il fratello maggiore di George, si trasferì a Londra e insieme a due altri mercanti, John Purrier e Thomas Horton, fondò la ditta di import-export e trasporti navali Hibbert, Purrier & Horton che importava prodotti coloniali e forniva merci (e prestiti) a piantatori e trafficanti. George si unì alla ditta di famiglia come socio giovane nel 1780 (all'epoca aveva ventitré anni) con un capitale di 1500 £, cui se ne aggiunsero altre 1000 alla morte del padre nel 1784. Meno di dieci anni dopo, era diventato il capo della ditta (ora, con l'ingresso di altri soci si chiamava Hibbert, Fuhr & Hibbert) e un membro eminente della lobby che difendeva gli interessi dei piantatori e dei mercanti delle Indie occidentali, la London Society of West India Planters and Merchants. Nel 1790, nella sua testimonianza davanti alla commissione d'inchiesta sulla tratta degli schiavi, dichiarò di aver importato annualmente merci per un valore compreso tra 200.000 e 250.000 £ e di aver investito molti capitali in Giamaica sotto forma di prestiti ai piantatori. Almeno dal 1793, George Hibbert fu coinvolto in un progetto che stava molto a cuore ai lui e agli altri West Indiamen: la costruzione di una darsena riservata alle loro navi; infine autorizzata nel 1799 dal West India Dock Act, la darsena, collocata sull'Isola dei cani, fu inaugurata nel 1802; l'ingresso principale, posto all'estremità occidentale, presto noto come Hibbert Gate, era largo abbastanza da consentire l'ingresso di carri e vagoni, chiuso da una duplice cancellata di ferro e sormontato da una scultura che riproduceva una delle navi di George e soci, chiamata Hibberts. George Hibbert fu il primo presidente della West India Docks Company e negli anni successivi rivesti ripetutamente questo ruolo. Purtroppo, egli non doveva il suo largo seguito tra i West Indiamen solo alle abilità commerciali (la Hibbert, Fuhr & Hibbert era la prima per giro d'affari con la Giamaica) e alla grinta con cui difendeva i loro interessi: era anche il portavoce degli antiabolizionisti, e seppe muoversi con grande abilità manipolatoria e notevoli capacità dialettiche. Già nel 1790, quando era stato ascoltato dalla commissione parlamentare, aveva evidenziato che l'intera economia delle Antille britanniche - ma anche gran parte dell'industria manifatturiera della stessa Inghilterra - dipendeva dalla schiavitù; se questa fosse stata abolita, si andava incontro alla rovina, e migliaia di famiglie sarebbero state ridotte sul lastrico. Nel maggio 1789, una settimana dopo che Wilberforce ebbe pronunciato in Parlamento il suo celebre discorso abolizionista, i mercanti convocarono una riunione alla London City Tavern; Hibbert vi intervenne con un discorso di 40 minuti intitolato "L'indispensabilità della tratta degli schiavi" in cui cercò di demolire tutti gli argomenti di Wilberforce. L'anno dopo fu di nuovo ascoltato in Parlamento: per lui non era una questione morale, ma economica; la posizione degli abolizionisti era astratta (oggi si direbbe buonista o radical chic), andava contro i diritti e i privilegi acquisiti fin dai tempi di Elisabetta I, quindi la Common Law e il diritto consuetudinario; la schiavitù per altro non era neppure condannata dalla Bibbia, dove gli uomini erano considerati merci come tutte le altre. Proprio per difendere gli interessi dei West Indiamen (ovvero i suoi e dei suoi compari) si gettò anche in politica; già consigliere (alderman) della città di Londra dal 1798, nel 1802 si presentò come deputato per la City, ma non fu eletto; ebbe successo invece nel 1806, quando fu eletto senza opposizione nel collegio di Seaford (uno dei "borghi putridi" controllato dalla lobby dei mercanti delle Indie occidentali); nel suo primo discorso, nel febbraio 1807, dichiarò la sua assoluta ostilità all'abolizione della tratta e durante la discussione che avrebbe portato all'approvazione dello Slave Trade Act, intervenne in ogni passaggio cercando di bloccare la legge. Non ci riuscì, ma ottenne probabilmente ciò a cui mirava fin dall'inizio: l'approvazione di una mozione che garantiva il risarcimento ai piantatori e ai mercanti che traevano le loro ricchezze dalla schiavitù. La compensazione costò alla stato 20 milioni di sterline; Nick Hibbert Steel nel suo saggio sulla famiglia Hibbert l'ha chiamato il "prezzo dello zucchero". E' stato calcolato che agli Hibbert ne andarono 103.000 e allo stesso George Hibbert 16.000. Nel 1812 Hibbert fu nominato agente generale per la Giamaica, una posizione che mantenne fino al 1831, anche se già nel 1829 si ritirò a vita privata; nel 1824, aveva anche avuto modo di illustrarsi e come filantropo, in quanto membro fondatore e finanziatore di una società di soccorso navale, National Institution for the Preservation of Life from Shipwreck, precorritrice della Royal National Lifeboat Institution che ancora oggi nel proprio sito lo ricorda come benemerito fondatore. Il volto luminoso: il collezionista Negli stessi anni in cui si metteva in luce in questo modo ai nostri occhi abominevole (ma non a quello di molti suoi contemporanei: nel 1812, quando si ritirò dal Parlamento, il leader dei whigs George Tierney lo nominò tra coloro "i cui servizi sarebbero stati rimpianti dalla nazione"), George Hibbert acquisiva grande rinomanza come collezionista di libri e proprietario di uno dei giardini più raffinati del paese. Come sostiene Katie Donington nel suo importante saggio dedicato alla famiglia Hibbert, The Bonds of Family, tra le due cose non c'è alcuna contraddizione: nel momento in cui una parte crescente dell'opinione pubblica incominciava a prendere le distanze dallo schiavismo, su cui si basava la sua ricchezza, il collezionismo era un modo per rendersi socialmente accettabile. Infatti Hibbert divenne un membro riconosciuto della comunità scientifica: nel 1805 lo troviamo tra i fondatori della London Institution, che anticipò l'Università di Londra nel rendere disponibile l'educazione scientifica ai dissidenti religiosi, esclusi dai college di Oxford e Cambridge; già membro della Linnean Society e della Antiquarian Society, nel 1811 fu ammesso alla Royal Society; nel 1816 entrò a far parte del Roxburghe Club, la più antica società di bibliofili del mondo. Non conosciamo con esattezza quando Hibbert abbia cominciato a collezionare libri e piante; nel 1829, quando si ritirò a vita privata e si trasferì a Munden House, una proprietà che la moglie aveva ereditato da uno zio, fu costretto a vendere la biblioteca; secondo il catalogo d'asta, di ben 8711 pezzi, non pochi dei quali rarissimi, la collezione era stata riunita dal proprietario in più di quarant'anni (dunque a partire dalla fine degli anni '80). Per quanto riguarda le piante, la prima data certa è il 1794: quell'anno Hibbert, che già possedeva una residenza a Portland Place, nel distretto di Marylebone, acquistò una casa e una proprietà chiamata The Hollies sul lato nord di Clapham (curiosamente, il distretto noto per essere stato la sede del movimento abolizionista noto come Clapham Sect o Clapham Saints). Allo stesso anno ci riporta il suo primo acquisto datato: alla fine del 1792 un altro ricco mercante e armatore, Gilbert Slater, legato alla Compagnia delle Indie, proprietario di un notevole giardino in Essex, inviò in Cina a caccia di piante il giardiniere scozzese James Main che fece buona caccia, riportando tra l'altro la famosa rosa Slaters' Crimson China; al suo ritorno nel 1794 però Slaters era deceduto da quasi un anno; le raccolte cinesi furono vendute e acquistate in parte dai Kew Gardens, in parte da Hibbert, che assunse Main come giardiniere (è dunque inesatta la notizia che si legge in Wikipedia inglese che già lavorasse per Hibbert in precedenza e che avesse viaggiato in Cina per conto sia di Hibbert sia di Slaters). Hibbert acquistò piante e semi, ma anche disegni cinesi: è dunque possibile che la passione per le piante sia nata indirettamente da quella per i libri e le opere d'arte. In ogni caso la vera passione di Hibbert divennero le Protee, forse perché erano rare, difficili da coltivare, dunque molto prestigiose. I semi delle prime erano state portate in Inghilterra da Masson tra il 1774 e il 1787; nel 1789 d verse specie furono descritte da Aiton in Hortus kewensis, il catalogo dei giardini reali di Kew che ne possedevano un'esclusiva collezione di 24 specie, diverse delle quali oggi assegnate ad altri generi della famiglia. Hibbert non voleva essere da meno e alla fine del 1798 o all'inizio del 1799 inviò in Sudafrica il giardiniere James Niven a fare raccolte di semi ed esemplari d'erbario; Niven rimase al Capo fino al 1803, quindi vi ritornò nel 1805, questa volta per un consorzio che oltre a Hibbert comprendeva il vivaio Lee e Kennedy (di cui secondo N. H. Steel Hibbert era "socio silente") e l'imperatrice Giuseppina, e vi rimase fino al 1812. Grazie alle sue raccolte, cui sia aggiunsero anche molte australiane, la collezione di Proteaceae di Hibbert divenne la più importante del mondo. Secondo le testimonianze del tempo, ne comprendeva circa 200 diverse specie che erano coltivate in vaso in una grande serra, dove trascorrevano i mesi invernali, per essere portate all'esterno nei mesi più caldi. Hibbert le affidò a un abilissimo giardiniere, Joseph Knight (1778-1855), che in precedenza aveva lavorato per il duca di Bedford; egli fu il primo in Europa a moltiplicarle tanto da talea quanto da seme. Hibbert (al contrario generoso con altre piante) era gelosissimo delle sue protee che scambiava solo con re Giorgio III e l'imperatrice Giuseppina. Nel 1809 Knight svelò i segreti della coltivazione delle preziose piante in On the cultivation of the plants belonging to the natural order of Proteeae che, a dispetto del titolo, riserva solo una dozzina di pagine all'argomento, mentre più di 100 sono dedicate a una revisione tassonomica della famiglia; benché non firmata, fu subito noto che l'autore di quest'ultima era Richard Salisbury. Ne seguì una polemica con Robert Brown e l'accusa di plagio rivolta a Salisbury, come ha raccontato in questo post. Qui ci interessa la prima parte, che documenta le tecniche di coltivazione applicate nel giardino e nella serra di Hibbert; inoltre ci rivela un altro aspetto del contraddittorio personaggio: la generosità. Dopo aver accennato alle raccolte di Thunberg e Masson, Knight infatti scrive "Un numero ancora più grande di specie sia note sia ignote sono poi state raccolte da Mr. James Niven, molte delle quali hanno fiorito a lungo in questo paese, ma da nessuna parte in modo così lussureggiante come nella collezione del mio precedente padrone, l'egregio George Hibbert di Clapham, grazie alla cui liberalità molte di esse sono ora in mio possesso". Dunque Hibbert cedette almeno alcune delle sue esclusivissime Proteaceae al suo capo giardiniere e probabilmente lo aiutò a mettersi in proprio; infatti nel 1808 Knight acquistò un terreno a Chelsea e lo trasformò in vivaio; poiché era affacciato sulla trafficata King Road, presto vi aggiunse un negozio (un antenato di un fornito garden center); inoltre nel 1829, quando si ritirò per andare a vivere in campagna, Hibbert passò a Knight tutte le sue piante vive. Con questa formidabile iniezione di rarità, il vivaio di Knight (più tardi Knight & Perry, quando venne gestito dal marito di una nipote del fondatore) divenne uno dei più importanti del paese, nonché il primo a commercializzare le Proteaceae. Ma nel giardino e nella serra di Clapham si coltivava anche molto altro; per scoprirlo basta sfogliare i fascioli di The Gardener's Repository o del Curtis's Botanical Magazine, dove il nome di Hibbert ricorre con grande frequenza; molte delle novità presentate in queste riviste fiorirono e furono ritratte per la prima volta a Clapham. A dominare sono ovviamente le sudafricane, grazie alle raccolte di Niven; ci sono molte bulbose e una ricca selezione di eriche, diverse delle quali sono presentate in Coloured Engravings of Heaths, l'opera più significativa di Henry Cranke Andrews, il genero di John Kennedy, nonché illustratore e editore di The Botanist's Repository; significativamente "G. Hibbert, Esq., Clapham Common, Surrey" è citato per primo nella lista delle sette persone ringraziate per aver permesso all'artista di ritrarre dal vivo le loro collezioni. Questa pianta profumerebbe di più con un altro nome? Se le sudafricane dominavano, a Clapham c'erano però anche molte australiane; in effetti, anche se commerciava soprattutto con la Giamaica, Hibbert aveva qualche interesse anche nelle nuove rotte del Pacifico aperte dai viaggi di Cook; come armatore fu sicuramente coinvolto in alcuni dei trasporti interoceanici di piante organizzati da Banks (incluso quello degli alberi del pane, fortemente voluto dei piantatori delle Antille) e nel trasporto dei forzati a Botany Bay. Australiano è anche il genere Hibbertia, che gli fu dedicato da Andrews nel secondo numero di The botanist's repository. La motivazione ci dà un quadro illuminante (e magari un po' adulatorio) della reputazione botanica di Hibbert: "In precedenza è stato erroneamente assegnato al genere Dillenia, ma poiché differisce da ogni genere descritto in precedenza, gli ho dato il nome dell'egregio sig. G. Hibbert di Clapham, Surrey, la cui conoscenza e fervore per le ricerche botaniche, così come la sua liberalità nell'arricchire le nostre collezioni da tutti gli angoli del mondo, ma soprattutto dal Capo di Buona Speranza, non sono superate da nessuno; ne sono certo, nessun nome merita un posto nella memoria della botanica più di quello di Hibbert". E lo stesso Andrews (la cosa non stupisce) dedicò a Hibbert anche un'Erica, appunta E. hibbertia. Hibbertia è un grande genere della famiglia Dilleniaceae, anche se il numero di specie è altamente dibattutoi: si va dalle 150 generalmente assegnatogli nei data base australiani alle 350 riconosciute da Plants of the World on line; il centro di diversità è proprio l'Australia, con oltre 100 specie; altre vivono in Nuova Guinea e nelle isole del Pacifico, una in Madagascar. In inglese sono note sotto il nome comune guinea flower, non per la provenienza ma perché il colore e la forma dei loro fiori ricorderebbero quelli di una ghinea d'oro. La cifra del genere è la varietà. Sono per lo più arbusti eretti, ma c'è anche qualche rampicante, come la specie più nota, H. scandens, o arbusti prostrati che formano tappeti, come H. procumbens. Molto variabili le dimensioni: se molti sono piccoli arbusti non più alti di una decina di centimetri, la già citata H. scandens può superare i 5 metri. Le foglie sono intere, alternate, spesso raggruppate lungo brevi rami laterali, e nelle specie che vivono in zone aride sono ridotte; molto variabili le forme. Ancora più variabile la morfologia dei fiori; possono essere o meno protetti da brattee, hanno cinque sepali, quelli esterni leggermente sovrapposti a quelli interni, e cinque petali che possono essere disposti a simmetria radiale o a simmetria bilaterale; variabile pure il numero degli stami, da sei a oltre trenta, in genere raggruppati in gruppi di due o tre, in modo simmetrico o anche da un solo lato dei carpelli. La grande maggioranza delle specie ha fiori giallo vivo, ma in alcune specie i petali come H. stellaris o H. minita sono arancione. Sono indubbiamente piante graziosissime, di grande valore ornamentali, spesso anche profumate. E' giusto che portino il nome di un personaggio le cui idee "erano considerate abominevoli da molti critici già al suo tempo"? Il botanico australiano Kevin Thiele - che per inciso è un esperto di questo genere, una componente importante di molte comunità vegetali del suo paese - pensa di no, tanto più che questo grande genere continua ad essere arricchito da nuove scoperte e nuove denominazioni; e continua: "Proprio come si eliminano statue, nomi di edifici, strade e sobborghi, pensiamo che sia necessario fare i conti con i nomi di specie scientifiche che onorano persone che professavano idee o hanno agito in modi profondamente disonorevoli, altamente problematici o ripugnanti per gli standard moderni". La sua denuncia è stata ripresa da altri autori ed è sfociata nella proposta di modificare l'articolo 51 del Codice internazionale di nomenclatura, in modo che divenga possibile rigettare i nomi formalmente validi che riflettono "il potere coloniale e imperialista" o sono da ritenersi "culturalmente offensivi o inappropriati", compresi quelli che onorano "una persona che la comunità tassonomica ritiene concordemente non debba essere onorata". La proposta è sconvolgente perché mette in discussione i principi stessi su cui si fonda il Codice internazionale di nomenclatura: la stabilità della nomenclatura, la libertà scientifica e la neutralità politica della scienza. Più ancora dell'articolo 51, che recita "un nome legittimo non può essere rigettato solo perché esso, o il suo epiteto, è inappropriato o sgradevole", a traballare è lo stesso primo preambolo, dove si legge: "Lo scopo di questo Codice è fornire un metodo stabile per nominare i gruppi tassonomici, evitando o respingendo l'uso di nomi che possono causare errore o ambiguità o mettere la scienza in confusione. Ogni altra considerazione, come la correttezza grammaticale, la regolarità e l'eufonia dei nomi, le consuetudini più o meno prevalenti, il riguardo per le persone, nonostante la loro innegabile importanza, è relativamente accessoria". Alle considerazioni di Thiele e altri (potete leggere una delle più recenti versioni qui) ha risposto il botanico ucraino Sergei L. Mosyakin (il suo punto di vista qui), che le ha respinte con un'articolata argomentazione. Il dibattito è aperto, e forse avrà nuovi sviluppi in occasione del XX congresso botanico internazionale, che si terrà a Madrid tra il 21 e il 29 luglio 2024. Da parte mia considero queste piante deliziose non dedicate al discutibile Mr. Hibbert, ma a tutte le persone le cui sofferenze furono prolungate per causa sua. Se nella generazione dei fondatori del vivaio the Vineyard di Lee e Kennedy la figura di maggior spicco fu James Lee, nella seconda generazione a mettersi in luce fu John Kennedy. Mentre il suo socio si occupava abilmente della conduzione del vivaio, Kennedy badava a far conoscere le ultime novità con i testi di The botanist repository, illustrati da suo genero Henry C. Andrews. A partire dal 1803, il vivaio incominciò a rifornire di piante esotiche il giardino della Malmaison e Kennedy divenne consulente dell'imperatrice Giuseppina, che stava ridisegnando il parco secondo i canoni del giardino all'inglese. Tra le tante esotiche che, a dispetto della guerra e del blocco continentale, the Vineyard continuò a spedire all'imperatrice dei francesi c'erano indubbiamente anche rose, sebbene forse meno di quanto comunemente si crede. Alla collaborazione con Mme Bonaparte Kennedy deve anche la dedica del genere Kennedia, istituito da Ventenat nel bellissimo Le jardin de la Malmaison, illustrato da Redouté. Piante nuove e rare da tutto il mondo Il momento di massimo fulgore di the Vineyard coincise con la gestione del secondo dei Kennedy, John (1759–1842), figlio del fondatore Lewis. Dovette iniziare a lavorare nel vivaio fin da ragazzino, e nel 1782, alla morte del padre, gli succedette alla testa dell'azienda a fianco di James Lee e poi, alla morte di questi nel 1795, del figlio James junior. Certo, anche quest'ultimo dovette essere un validissimo uomo d'affari, come lo era stato il padre, se lasciò ai figli un notevole patrimonio che permise loro di rilevare l'intero vivaio, quando John Kennedy si ritirò; ma certamente dopo la morte di James Lee senior il volto ufficiale della ditta, il nome più riconosciuto anche a livello internazionale, fu quello di Kennedy. La seconda generazione di the Vineyard rimase fedele alla strategia già adottata dai fondatori: cercare, moltiplicare e commercializzare piante "nuove e interessanti" e "novità di valore", come si legge in una lettera di James Lee junior a William Aiton. Un documento di grande interesse per conoscere le introduzioni del vivaio a cavallo dei due secoli sono i primi cinque fascicoli di The botanist repository, i cui testi furono redatti in gran parte dallo stesso John Kennedy. La rivista, che uscì tra il 1797 e il 1814, come ben specifica il sottotitolo for new and rare plants, era specificamente dedicata alle piante di recentissima introduzione e fu il più serio concorrente del Curtis's Botanical Magazine, rispetto al quale aveva meno pretese di scientificità: le illustrazioni, disegnate da Henry Cranke Andrews, che era anche l'editore, erano di grande impatto visivo, ma spesso imprecise e mancanti di particolari utili all'identificazione, così come i testi erano diseguali e privi di sinonimi e rimandi bibliografici. La rivista infatti non si rivolgeva tanto ai botanici quanto agli amatori e ai proprietari di giardini. Le illustrazioni di Andrews sono accompagnate da una breve descrizione bilingue (in latino e in inglese) e da un testo inglese con informazioni sulle peculiarità più desiderabili della pianta, la sua provenienza, le date di introduzione e di prima fioritura, le esigenze di coltivazione. Come ho anticipato, i testi dei primi cinque fascicoli, anche se non sono firmati, furono con grande probabilità scritti da John Kennedy; quelli del vol. 6 si devono a Adrian Haworth e quelli dei voll. 7-10 a George Jackson (voll. 7-10). Andrews forse fu incoraggiato a intraprendere l'impresa proprio da John Kennedy, che nel 1801 divenne suo suocero. Nei volumi curati da Kennedy, usciti tra il 1797 e il 1811, 40 specie risultano direttamente introdotte o almeno coltivate nel vivaio di Hammersmith (citato invece una sola volta nei volumi successivi). Ci sono parecchie bulbose, piante da fiore, arbusti, qualche succulenta, alcune orchidee, ma non sembra prevalere un indirizzo preciso nella scelta delle specie. La data di introduzione più bassa è il 1772, la più alta il 1800 (l'unica specie citata nei volumi successivi risale invece al 1813). Diciassette specie (42.5%) provengono dal Capo di Buona speranza; dodici (30%) dall'Australia o dalla Nuova Zelanda, il resto dal Nord America, dalle Barbados, dalla Giamaica, dal Brasile, dalla Crimea e da Madera. Spesso il testo si limita a indicare che la pianta è stata introdotta da Lee e Kennedy o che è fiorita per la prima volta nel loro vivaio, ma talvolta ci sono indicazioni più specifiche, illuminanti per ricostruire le vie di introduzione. I due vivaisti potevano all'occorrenza rifornirsi da altri vivai: è il caso di Gladiolus praecox (oggi G. watsonius), acquistato nel 1791 presso Voorhelm & Co. di Haarlem, un vivaio olandese specializzato in bulbi da fiore; o di Rhododendron punctatum (oggi R. minus var. minus), reperito presso il vivaio dell'introduttore, il celebre vivaista e cacciatore di piante James Fraser. Più spesso però ricorrevano agli invii di viaggiatori o residenti all'estero a vario titolo: l'orchidea Prosthechea cochleata fu inviata dalla Giamaica dal botanico dell'isola Thomas Dancer, tramite una certa Mrs. Barrington; un'altra orchidea, Orchis ciliaris (oggi Platanthera ciliaris) fu spedita da Filadelfia da John Lyon, che all'epoca lavorava ancora come giardiniere; diverse piante sudafricane furono procurate da John Pringle, funzionario della Compagnia delle Indie al Capo; la brasiliana Amaryllis reticulata (oggi Hippeastrum reticulatum) fu spedita dal Portogallo da Edward Whitaker Gray. futuro curatore delle collezioni naturali del British museum, all'epoca residente ad Oporto dove aveva sposato l'erede di un importante esportatore di vini. Lee e Kennedy però avevano anche relazioni con orti botanici e studiosi: Pallas inviò i semi di due specie dalla Crimea e i semi di due piante del Capo furono forniti dal curatore dei giardini imperiali di Vienna, ovvero da von Jacquin. Non mancavano gli apporti di collezionisti, probabilmente al tempo stesso fornitori e clienti: è il caso di lady Sophia de Clifford, celebre per la sua collezione di piante esotiche, che condivise con Lee e Kennedy i bulbi di Ixia crispifolia flore coeruleo (oggi Codonorhiza corymbosa) appena ricevuti dal Capo e procurò altre piante sudafricane; oppure di Thomas Jones, creatore del giardino di Hafod in Galles che procurò Geranium punctatum (oggi Pelargonium punctatum). Tra questi contributori illustri, spicca il colonnello William Paterson, dal 1791 al 1793 governatore dell'isola di Norfolk, da cui inviò semi sia a Kew sia ai vivai Lee e Kennedy e Colvill; è citato per più piante tra cui Bignonia pandorana (oggi Pandorea pandorana). Quello di Paterson è l'unico nome menzionato per l'Australia (all'epoca Nuova Olanda); gli altri invii potrebbero essere dovuti a cacciatori di piante, quelli antecedenti il 1792 (l'anno della sua morte) forse a David Burton, che sappiamo lavorò sia per Kew sia per Lee e Kennedy. Potrebbe essere un cacciatore di piante l'altrimenti ignoto Mr. J. Elcock cui si deve l'invio di due specie dalle Barbados tra il 1789 e il 1791. Alcuni degli invii dal Sudafrica e forse anche uno da Madera potrebbero risalire a Francis Masson, che però è citato esplicitamente solo per Protea formosa (oggi Leucospermum formosum). Anche se non è citato in The botanist repository, diverse piante sudafricane furono presumibilmente procurate da James Niven, che nel 1798 o 1799 fu inviato al Capo dal ricco appassionato George Hibbert,per poi tornarvi nel 1805 finanziato da un consorzio di appassionati, giardinieri e vivaisti che, oltre a Hibbert, includeva Lee e Kennedy e l'imperatrice Giuseppina. Fornitore della Malmaison Siamo così arrivati alla più celebre dei clienti di the Vineyard: Joséphine de Beauharnais, la prima moglie di Napoleone. Nel 1799, mentre il marito si trovava in Egitto, ricorrendo a un prestito, essa acquistò il castello e il parco della Malmaison, a una quindicina di km da Parigi. Durante il consolato, divenne la residenza dei Bonaparte e tra il 1800 e il 1802, insieme alle Tuileries, fu sede del governo francese, prima di essere sostituita dal più istituzionale Saint Cloud. Per Joséphine era il luogo del cuore, e dopo il divorzio nel 1809 divenne la sua casa. I grandi lavori di trasformazione erano iniziati fin da subito. A partire dal 1800, venne costruita un'aranciera in stile neoclassico, così grande da poter ospitare 500 vasi di ananas; il parco venne ridisegnato secondo lo stile paesaggistico inglese; l'imperatrice si affidò dunque a specialisti britannici come il capo giardiniere Alexander Howatson eil giardiniere paesaggista scozzese Thomas Blaikie, che viveva in Francia da tempo e prima della rivoluzione aveva creato il giardino di Bagatelle per il conte di Artois e il parco Monceau per il duca d' Orlèans. Fu forse proprio Blakie a mettere in contatto Joséphine con Lee e Kennedy. La Malmaison era un giardino sperimentale ricco di piante provenienti da tutto il mondo. Molte piante australiane (ma anche animali) giunsero in seguito alla spedizione Baudin: l'allora prima console aveva ordinato che gli esemplari più belli, anziché al Museo di storia naturale, fossero portati alla Malmaison, il cui parco cominciò a popolarsi di eucalipti e mimose, tra cui scorrazzavano emù e canguri mentre sul laghetto si dondolavano cigni neri. Per avere un angolo da riservare alla sua passione per la botanica, tra il 1803 e il 1805 l'imperatrice fece costruire la Petite Malmaison, che comprendeva una grande serra calda per le esotiche, il primo edificio in Francia a fare ampio uso di vetrate. Contemporaneamente assunse come intendente il botanico Étienne Pierre Ventenat, il curatore del giardino-vivaio di Jacques Cels a Montrouge. Proprio come Lee e Kennedy in Inghilterra (con i quali corrispondeva) Cels era specializzato nella coltivazione e nella propagazione delle piante esotiche riportate dai naturalisti viaggiatori come Michaux o dai grandi viaggi di esplorazione. Egli si riforniva anche dai vivai inglesi ed era in ottime relazioni, nonostante lo stato quasi permanente di guerra, con Joseph Banks. Di questi contatti inglesi poterono approfittare anche il giardino della Malmaison e la sua proprietaria quando la pace di Amiens portò un breve periodo di tregua (marzo 1802-maggio 1804). Attraverso Ventenat, Joséphine si mise in contatto con Banks, che promise il suo aiuto nonché piante di Kew. In una lettera dell'aprile 1803, che accompagna il primo volume dello splendido catalogo Le Jardin de la Malmaison, con i suoi testi e le illustrazioni di Redouté, il botanico ringrazia Banks per le piante finora fornite e esprime l'augurio che la collaborazione posso continuare. Lo stesso anno, Lee e Kennedy ricevettero il primo ordine di piante per il giardino, per l'ammontare di 2600 sterline. Nel 1804, l'imperatrice lamentò accorata che un invio di semi era stato catturato e trattenuto, ma è uno dei rari incidenti di percorso: anche più tardi, quando il blocco continentale in teoria chiuse i porti di Francia ai vascelli inglesi, si continuò a fare eccezione per le navi che trasportavano le piante per i giardini dell'imperatrice. Un altro contatto inglese era George Hibbert, che, consultato per la progettazione del giardino all'inglese, dovette consigliare all'imperatrice di rivolgersi a Kennedy non solo come fornitore, ma anche come giardiniere paesaggista. Da quel momento, come consulente di Joséphine James Kennedy iniziò a fare la spola tra i due paesi, magari per accompagnare di persona qualche pianta particolarmente delicata, e suo figlio Lewis Kennedy (1789-1877) lavorò addirittura per qualche tempo sia alla Malmaison sia a Navarre, la tenuta normanna donata all'ex imperatrice dopo il divorzio (un po' come compensazione, un po' per tenerla lontana da Parigi in occasione delle seconde nozze dell'imperatore). Tra i più importanti risultati della collaborazione tra Mme Bonaparte e il vivaio inglese ci fu l'invio in Sudafrica del raccoglitore James Niven, che probabilmente ritornò al Capo nel 1805 e vi rimase fino al 1812, arricchendo il vivaio di Hammersmith e il giardino parigino soprattutto di eriche (il suo viaggio sudafricano però merita un post a parte). Tutti sanno che la piante preferite di Joséphine erano le rose; lo sanno tutti, ma non è detto che sia vero. Mentre conosciamo bene le piante esotiche coltivate alla Malmaison grazie al già citato catalogo curato di Ventenat e Redouté, proprio la collezione di rose è mal documentata, tanto da essere ritenuta da alcuni più un mito che una realtà. Coloro che visitarono il giardino subito dopo la morte non ne parlano; il celebre Les roses di Redouté, che di solito è ritenuto una sorta di catalogo del roseto dell'imperatrice, in realtà fu creato dal pittore dopo la sua morte (i tre volumi uscirono tra il 1817 e il 1824), ritraendo le rose coltivate in vari giardini e vivai parigini; in precedenza ne aveva dipinte alla Malmaison solo due - R. berberifolia e R. gallica purpurea veluntina. Anche se in molti testi si parla di una collezione di 250 diverse varietà di rose (e alcuni si spingono a specificare quali), le accurate ricerche del collezionista di rose antiche François Jouyaux hanno potuto identificarne solo una minima parte. Lee & Kennedy, insieme a molte esotiche, procurarono certamente all'imperatrice anche rose, in particolare le cinesi rifiorenti che in Francia erano ancora una novità, mentre avevano già incominciato a raggiungere l'Inghilterra da qualche anno - la prima fu introdotta proprio da loro nel 1787; dagli archivi nazionali risultano come introdotte tramite il vivaio di Hammersmith Rosa chinensis, R. multiflora ‘Cornea’, R. semperflorens (generalmente nota come Slaters Crimson China) e la rosa muschiata R. centifolia ‘muscosa alba’ (nota come Shailers White Moss). Dai documenti d'archivio, risulta inoltre che Joséphine importò tramite fornitori non identificati R. pendulina, R. virginiana, tre rose muschiate, una centifolia nota come ‘Unique’. Un altro esperto, Auguste de Pronville, ha aggiunto alla lista R. damascena carnea, una varietà della scozzese R. spinosissima e R. berberifolia. Presumibilmente, l'imperatrice si rifornì anche da vivai parigini, come Cels, Boursault e Vilmorin, ma negli archivi sono testimoniati acquisti solo dal coltivatore di rose amatoriale André du Pont che tra il 1808 e il 1809 procurò molte rose; purtroppo le fatture non ne riportano il nome. Un genere australiano per un grande introduttore di australiane
Anche se l'idea che la malinconica ex-imperatrice abbia acceso la scintilla della coltivazione delle rose in Francia è probabilmente sopravvalutata (a diffonderla, dopo la sua morte, sarebbero stati gli ibridatori di rose come Vibert, alla ricerca di un precedente romantico e nobilitante), resta il fatto che Lee & Kennedy lasciarono il segno nella storia della coltivazione delle rose diffondendo anche nel continente le cinesi: gli ibridatori francesi, incrociandole tra loro e con altre rose, avrebbero prodotto il primo ceppo di rose rifiorenti, le ibride perpetue. Non è alle rose, ma forse più giustamente a un'esotica australiana che John Kennedy deve il suo ingresso nel pantheon dei dedicatari di generi di piante. Il genere Kennedia è un tributo di Ventenat che in Le jardin de la Malmaison così scrive: "Devo i frutti di questa pianta e delle due successive allo zelo e alla benevolenza di M. Kennedy", definito in un altro passo "abile botanico e celebre vivaista inglese" e ripetutamente citato nel libro come fornitore di piante e semi. Kennedia (Fabaceae) è un genere endemico dell'Australia che comprende circa 14 specie di arbusti prostrati, ricadenti o rampicanti con sottili fusti legnosi, foglie composte per lo più tomentoso, solitamente trifoliate, e vistosi fiori papilionacei in technicolor: K. lateritia li ha rosso vivo, K. coccinea rosso aranciato con ali rosa e centro giallo, K. procurrens da viola a blu, K. prorepens da viola ad azzurro chiaro, K. nigricans quasi neri con macchie gialle e arancio; a diminare è comunque il rosso in infinite sfumature. Molte Kennedia sono vigorosi rampicanti che in Australia vengono anche utilizzati in interventi di rivegetazione: K. rubicunda può raggiungere un'altezza di cinque metri in una sola stagione. Relativamente rustica, è talvolta proposta anche dai nostri viavai, così come K. coccinea, di portamento prostrato e utilizzabile come tappezzante. Una selezione di specie e qualche informazione in più nella scheda. Verso la metà del Settecento, due intraprendenti giardinieri scozzesi, Lewis Kennedy e James Lee, fondano ad Hammersmith, un villaggio non lontano da Londra, il vivaio the Vineyard, destinato a scrivere una pagina importante nella storia dell'importazione delle piante esotiche in Europa. In questo settore non ha rivali, ed è ben noto anche all'estero, grazie soprattutto a Lee, che ha una tale conoscenza enciclopedica delle piante da poter tradurre in inglese (è il primo a farlo) un'opera teorica di Linneo, contribuendo largamente alla diffusione del sistema linneano in Gran Bretagna. Meritava come minimo la dedica di un genere: e infatti la dedica linneana arrivò, anche se attraverso la mediazione di un altro botanico. Per questo specialista di piante esotiche, ecco dunque l'esotica Leea (Vitaceae). Pollice verde, abilità negli affari e competenza botanica Per circa settant'anni, dalla seconda metà del Settecento al 1820, il vivaio the Vineyard di Hammersmith fu il più reputato d'Inghilterra, anzi, a sentire Loudon, "il primo del mondo". Anche se sopravvisse fino al 1904, con una diversa ragione sociale e in terreni ridotti dall'espansione di Londra, fu quello il suo momento di gloria. A crearlo furono due giardinieri scozzesi, James Lee (1715-1795) e Lewis Kennedy (1721-1782), che in precedenza avevano lavorato per la grande nobiltà: Lee per il duca di Somerset a Syon House e per il duca di Argyll a Whitton Park, Kennedy per lord Wilmington a Chiswick. Sulle circostanze e l'esatta data di fondazione c'è però qualche incertezza. Secondo diverse fonti, il vivaio sarebbe nato nel 1745 per iniziativa di Lewis Kennedy, cui più tardi, per consiglio di lord Argyll, si sarebbe associato Lee. Tuttavia, E. J. Wilson ha osservato che all'epoca Lewis aveva solo 24 anni e ha suggerito che il fondatore sia piuttosto un suo parente, ovvero lo zio omonimo Lewis Kennedy, giardiniere di lord Wilminghton, cui il nipote potrebbe essere subentrato dopo la sua morte nel 1754. D'altra parte, il primo documento sicuro dell'esistenza del vivaio (un ordine di fruttiferi, orticole e altre piante per Croxadale) risale al 1750; quindi è possibile che la data di fondazione vada spostata in avanti di qualche anno, tanto più che è noto che Lewis Kennedy nipote si trasferì a Londra solo nel 1748. Alcune fonti parlando addirittura del 1760. I due soci erano giardinieri sperimentati e di talento, con un notevole fiuto per gli affari. Kennedy apparteneva a una famiglia di giardinieri, attiva a Muthill nel Pertshire da almeno tre generazioni; il padre Thomas era il capo giardiniere di Drummond Castle, mentre il fratello maggiore John lavorava a Croxdale Hall. Il nostro Lewis Kennedy avrà imparato il mestiere in famiglia, lavorando a fianco di entrambi fin da bambino. James Lee invece era nato a Selkirk e giovanissimo aveva attirato l'attenzione dell'earl of Islay, più tardi duca di Argyll, un grande appassionato di giardini, che gli aveva messo a disposizione la sua ricca biblioteca e l'aveva fatto venire a Londra, dove il ragazzo era diventato apprendista di Philip Miller al Chelsea Physic Garden. Il vivaio sorgeva a Hammersmith, un villaggio situato lungo il Tamigi a ovest di Londra, di cui è ora un distretto, in un fertile terreno di circa sei acri che fino dal 16 secolo ospitava una vigna, che ancora all'inizio del Settecento produceva una buona quantità di vino rosso. Comprendeva infatti un edificio a due piani, con una cantina per conservare le botti e una rivendita del vino a piano terra. Lee e Kennedy trasformarono la vigna in un vivaio specializzato nella coltivazione di piante esotiche, anche se nel catalogo pubblicato nel 1774 (Catalogue of plants and seeds sold by Kennedy and Lee, nursery and seedmen, at the Vineyard, Hammersmith) non mancano piante da frutto, orticole e persino foraggere. La creazione del vivaio coincise con la nascita del nuovo giardino paesaggistico, e i due scozzesi seppero cavalcare l'onda fornendo tanto alberi e arbusti per i parchi ridisegnati da Capability Brown quanto esotiche da serra calda e fredda per gli appassionati alla ricerca di novità. I due partner condividevano gusti, abilità professionale e talento per gli affari, ma, anche se il "senior partner" era Kennedy (la ragione sociale era "Kennedy and Lee"), la figura più in vista era certo James Lee. Mentre Kennedy si occupava delle questioni legali ed amministrative e viaggiava parecchio nel paese per visitare e assistere la clientela (come giardiniere paesaggista sono noti suoi interventi a Croxdale Hall, Durham e Callaly Castle), Lee curava i contatti con importatori, mercanti, cacciatori di piante, altri giardinieri e corrispondeva con molti botanici in patria e all'estero. Come il suo maestro Philip Miller, oltre ad essere un pollice verde, possedeva una notevole cultura botanica, che gli permise di affrontare l'impresa di essere il primo a tradurre un'opera di Linneo in inglese: nel 1760, a quanto pare su suggerimento di Ann Monson, che forse lo aiutò a tradurre i termini tecnici, pubblicò una libera traduzione di Philosophia botanica sotto il titolo An Introduction to the Science of Botany. Il libro, oltre a segnare una tappa importante della diffusione delle idee di Linneo in Inghilterra (fu il primo a presentare al grande pubblico il suo sistema sessuale), diede fama internazionale a Lee, che incominciò a corrispondere con diversi botanici, tra cui lo stesso Linneo, cui inviava informazioni sulle nuove introduzioni, esemplari, semi e disegni eseguiti da sua figlia Ann, un'eccellente illustratrice botanica. E' significativo il fatto che nel ritratto che, come d'uso, fu anteposto al frontespizio dell'eediione postuma del 1810, è ritratto mentre, imparruccato e vestito con un sobrio abito scuro, osserva con una lente una pianta: dunque come gentiluomo dedito allo studio della botanica, non come giardiniere e vivaista. Grazie all'ampia offerta di piante esotiche e alla profonda conoscenza delle piante di Lee, già a metà degli anni '60 il vivaio era diventato una meta obbligata tanto per gli appassionati quanto per gli studiosi; tra i frequentatori più assidui, anche il giovane Joseph Banks, che attraverso Lee conobbe il pittore Sidney Parkinson, che sarebbe poi stato uno dei suoi compagni del primo viaggio di Cook; ma a the Vineyard o a casa di Lee conobbe anche Harriet Blosset, una pupilla del vivaista, che promise di sposare al suo ritorno; al vivaista promise invece di raccogliere semi di nuove piante per lui. Tre anni dopo, quando tornò dall'Australia nelle vesti di eroe del giorno, aveva cambiato idea e ruppe il fidanzamento; ma non l'amicizia con Lee, che ottenne i sospirati semi e rimase in ottimi rapporti con il direttore ufficioso di Kew, tanto da essere coinvolto nella preparazione della sfortunata spedizione del Bounty. Soprattutto, poté giovarsi della rete di raccoglitori dei giardini reali per incrementare le collezioni del vivaio. Lui stesso uno dei fornitori di Kew e amico del capo giardiniere William Aiton (come lui, un allievo di Miller), probabilmente su invito di Banks, attorno al 1773 pubblicò un opuscolo di quattro pagine intitolato Rules for Collection and Preserving Seed from Botany Bay; era particolarmente interessato alle piante australiane, che fu uno dei primi a coltivare, e fu uno dei finanziatori dello sfortunato David Burton, che si trasferì in Australia come sorvegliante dei forzati, raccolse sia per Kew sia per The Vineyard e si ferì a morte ricaricando un fucile. Anche Masson gli spedì piante sia dal Sudafrica (tra cui i primissimi Mesembryanthemum) sia dalla Macaronesia. Inoltre Lee e Kennedy finanziarono cacciatori di piante in proprio, come James Niven che operò al Capo a fine Settecento. La seconda edizione del catalogo di Kew Hortus kewensis (pubblicata nel 1810 dal figlio omonimo di William Aiton) elenca come introdotte dai "sig. Lee e Kennedy" ben 135 tra specie e varietà. Tra quelle più famose, troviamo Buddleja globosa, introdotta dal Cile nel 1774, la prima rosa cinese, giunta nel 1784, e Fuchsia magellanica, messa in vendita l'anno successivo per una ghinea al pezzo. Attorno a quest'ultima, è fiorita una storia, di cui esistono varie versioni (una fu raccolta anche da Dickens); grosso modo la trama è la seguente: un cliente in visita a Hammersmith parlò a James Lee di una bellissima pianta che aveva visto su un davanzale di Wapping; il vivaista si precipitò a vederla e se ne innamorò all'istante. La pianta apparteneva alla moglie (alla vedova o alla madre, le versioni divergono) di un marinaio che gliel'aveva portata dall'America ed ora era nuovamente in mare; insomma, un caro ricordo che la donna rifiutò a lungo di vendere, finché Lee le offrì tutto ciò che conteneva il suo borsellino, ovvero otto ghinee, e le promise di portarle una delle prime talee che ne avrebbe ricavato. Portò poi il suo bottino a Hammersmith, tolse fiori e boccioli, ne trasse tutte le talee possibili, e da queste altre ancora, e così via; un anno dopo, nel vivaio fiorivano trecento fucsie. Lee ne scelse due e le portò nella sala dove esponeva le piante più belle e rare. Presto gli fece visita una nobildonna; credette che quelle fossero le uniche disponibili, e ne acquistò senza battere ciglio un esemplare per una ghinea. Ovviamente la mise in bella mostra nella sua serra e se ne vantò con un'amica, che si precipitò a sua volta ad Hammersmith, dove a fare bella mostra c'erano di nuovo due fucsie. Anche lei ne acquistò una, e così tanti altri clienti, ripagando l'astuto Lee che nell'arco di quella sola stagione moltiplicò per venti il suo investimento. La storia, pubblicata per la prima volta sul Lincoln Herald del 4 novembre 1831, circa quarant'anni dopo la morte del suo protagonista, è certamente apocrifa; c'è anzi il sospetto che sia stata divulgata a bella posta per nascondere il fatto che Lee avesse ricevuto le prime talee da Aiton (il quale ottenne la pianta nel 1788 e la pubblicò nel 1789 come Fuchsia coccinea); inoltre non è chiaro se la specie originariamente commercializzata a the Vineyard fosse Fuchsia coccinea o la più rustica F. magellanica (all'epoca c'era molta confusione tra le due specie). In ogni caso, l'aneddoto testimonia la fama di Lee come abile giardiniere e ancor più abile ed astuto imprenditore. Un genere esotico per uno specialista di esotiche All'epoca dell'affare della fucsia, c'era già stato un cambio della guardia ai vertici del vivaio. Lewis Kennedy era morto nel 1782, ed era stato sostituito come socio dal figlio maggiore John (1759-1842), che fin da ragazzino lavorava a the Vineyard. In lui James Lee trovò un socio molto brillante, sui cui successi sarà bene tornare in un altro post. Per ora, riassumiamo le vicende successive. James Lee morì a sua volta nel 1795, e gli subentrò il figlio omonimo (1754-1824), che nel 1818 rilevò l'intera proprietà da John Kennedy. I suoi figli John e Charles continuarono a gestire il vivaio fino al 1885, quando il terreno venne acquistato dalla National Agricultural Hall Company per costruirvi il centro espositivo noto come Olympia. Quanto rimaneva passò poi a un figlio di Charles, che gestì la ditta di famiglia fino all'inizio del '900. Ma ormai il momento di gloria era finito da un pezzo. Esso era infatti coinciso con le gestioni dei Kennedy e dei due James Lee, e si era di fatto concluso intorno al 1820, quando The Vineyard si era trovata ad affrontare la concorrenza di altre firme, prima fra tutte Loddiges. Rimaneva alla famiglia la soddisfazione di aver scritto una pagina importante del vivaismo britannico, sancita anche dalla dedica a James Lee di un genere botanico. A dimostrazione della sua reputazione europea, è per così dire a quattro mani: il genere Leea fu infatti pubblicato da Linneo nel 1767 sia in Mantissa plantarum sia nella 12 ed. di Systema naturae, ma fu determinato dal botanico olandese David van Royen, nipote del suo amico Adrieen van Royen, cui succedette come curatore dell'orto botanico di Leida. Purtroppo nessuno dei due ha spiegato la motivazione del tributo, ma possiamo ragionevolmente supporre che sia un riconoscimento del duplice ruolo di James Lee come divulgatore del sistema linneano e come introduttore di tante piante esotiche. Esotico è anche ovviamente il genere Leea (un tempo attribuito a una famiglia propria Leeaceae, oggi alle Vitaceae). Con una trentina di specie riconosciute, è infatti distribuito tra le aree tropicali e subtropicali del Vecchio mondo (Africa, subcontinente indiano, Indocina, Indonesia) e il Pacifico occidentale (Nuova Guinea, Australia, Polinesia), con centro di diversità in Malesia. Sono arbusti, talvolta piccoli alberi o erbacee erette o striscianti, diffusi soprattutto lungo i corsi d'acqua e le foreste secondarie, spinosi o meno, con foglie semplici o composte e piccoli fiori raccolti in cime piatte, seguiti da bacche a volte dai colori vistosi. Molte specie hanno proprietà medicinali e sono utilizzate nelle medicine tradizionali; ad esempio, L. indica è frequentemente coltivata in India e in Cina come pianta officinale (le foglie hanno proprietà digestive e lenitive, le radici sono antipiretiche e diaforetiche). Da altre specie, come L. macrophylla, si estraggono coloranti. Non mancano gli usi ornamentali: L. guineensis nella forma giovanile ha foglie rosso bordeaux, e ne sono state selezionate alcune cultivar; originaria dell'Africa e dell'Asia tropicale, può essere coltivata all'aperto solo in zone miti, dove viene utilizzata per formare siepi, o come pianta da vaso; l'attrattiva maggiore è data dal fogliame, ma sono interessanti anche le bacche che a maturazione diventano scarlatte. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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