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Tra le coppie di botanici padre-figlio figura anche un duo italiano, quello formato dal celeberrimo Antonio Bertoloni (Bertol.), il padre, e dal meno noto, ma pur meritevole, Giuseppe Bertoloni (Bertol.f o anche G.Bertol.), il figlio. Il primo fu il più famoso botanico italiano dell'Ottocento, autore della monumentale Flora italica. Il secondo gli fu compagno nelle erborizzazioni e gli succedette nella cattedra universitaria a Bologna, continuando a incrementare gli erbari e distinguendosi anche come entomologo. La dedica di Bertolonia (Melastomataceae) va comunque al solo Antonio. Una duplice opera monumentale La prima flora generale del territorio italiano fu pubblicata prima che il nostro paese esistesse come nazione e fu il risultato di quarant'anni di raccolte, ricerche e studi di un grande botanico, Antonio Bertoloni (1775-1869). Il nostro nacque a Sarzana che all'epoca faceva parte della Repubblica di Genova. Nel 1793, diciottenne, si iscrisse all'università di Pavia con l'intenzione iniziale di diventare matematico, ma l'amicizia con Giuseppe e Francesco Frank, figli di Johann Peter Frank, celebre medico, professore di quell'ateneo e direttore di tutti gli ospedali della Lombardia, lo spinse a optare per la medicina e le scienze naturali. L'università pavese era all'avanguardia e vantava illustri cattedratici, tra i quali, oltre al già citato Frank, vanno ricordati almeno Volta, Spallanzani e Scarpa, A insegnare chimica e botanica era Giovanni Antonio Scopoli che trasmise la passione per le piante e la ricerca sul campo al giovane allievo il quale, stando ad alcune sue dichiarazioni, forse fin da quel momento concepì l'idea di una flora italiana, In ogni caso lo troviamo ad erborizzare e a comporre un erbario della provincia pavese. Presto, tuttavia, in seguito a un provvedimento governativo che escludeva gli studenti "stranieri", fu costretto a lasciare Pavia e a completare gli studi a Genova, dove allora la botanica non era ancora insegnata né esisteva un orto botanico universitario (saranno istituiti soltanto nel 1803 da Domenico Viviani); qui conseguì la laurea in medicina nel 1796. Divenne poi medico condotto a Sarzana, ma contemporaneamente mantenne un interesse per la botanica, concentrandosi sulla flora locale. E' del 1802 la sua prima pubblicazione, dedicata alla flora della Lunigiana e pubblicata in "Memorie della Società Medica d’Emilia"; nel 1803 sulla stessa rivista Bertoloni pubblicò la prima di tre decadi di piante ligure rare, cui nel 1804 seguì una memoria sulle piante osservate a Genova tra il 1802 e il 1803. Questi primi scritti, oltre all'interesse per la flora locale, mostrano un Bertoloni attento a costruire la propria riputazione scientifca e a crearsi una prima rete di corrispondenti. Tra i primi troviamo il prefetto dell'orto torinese Giovanni Battista Balbis, come lui membro della Società medica d'Emilia; Bertoloni gli dedicò Plantae Genuenses e presumibilmente Balbis ricambiò favorendo la sua ammissione all'Accademia delle scienze di Torino. Ma l'ambizioso medico-botanico sarzanese trovò il suo vero mentore in Gaetano Savi, prefetto dell'orto botanico di Pisa, con il quale cominciò a corrispondere e scambiare materiali botanici e segnalazioni forse intorno al 1805. In risposta a una delle sue segnalazioni, nel marzo 1806 Savi gli indirizzò la "Lettera del professore Savi al sig. dottore Antonio Bertoloni di Sarzana", in cui discusse dell'identificazione di alcune Poaceae; a conclusione scrisse: "Spero che vi siano gradite queste mie osservazioni [...] sapendo quanto gradite tutto ciò che serve ad illustrare le nostre piante indigene, e a riunire i materiali per una Flora italiana, a cui così decorosamente cooperate con i vostri lavori". Quindi si firmò "vostro amico vero". Fu presumibilmente grazie a Savi o ai suoi contatti che nello stesso 1806 Bertoloni pubblicò a Pisa la seconda decade di piante liguri, proprio a Savi dedicata, "restauratore della botanica italica, in ossequio e pegno d'amicizia". Ci potremmo chiedere perché Bertoloni si sia rivolto a Savi e non a Viviani che, come ho anticipato, nel 1803 inaugurò la cattedra di botanica dell'università di Genova e ne fondò l'orto botanico. Proprio la decade II ci dà una risposta. Apparentemente, Bertoloni esordisce ringraziando Viviani per aver segnalato alcuni suoi errori nella decade prima e nelle Plantae Genuenses, ma il tono è sarcastico e sferzante: "Sono grato a D. Viviani, professore di botanica a Genova, che, mentre cercava di cogliermi in fallo nella seconda parte dei suoi Annali, mi ha aperto una via più facile e più larga per raggiungere la verità". Seguono numerose pagine di confutazione dei rilievi di Viviani, nelle quali emerge da una parte quella "inclinazione alle polemiche" attribuitagli dai suoi primi biografi come Vincenzo Cenati, dall'altra l'occhio clinico del botanico attento alle particolarità distintive e la profonda conoscenza della letteratura botanica del passato e del presente. Nel 1810 Bertoloni pubblicò la terza decade di piante liguri, dedicata a Johann Jacob Roemer, direttore dell'orto botanico di Zurigo. Dopo aver gettato le basi della propria reputazione scientifica a livello nazionale, egli cominciava dunque ad allargare la sua rete di contatti oltre confine. Intanto stava facendo carriera; nel 1811 fu nominato professore di fisica al Liceo Imperiale di Genova, e qualche tempo dopo anche all'Università di Genova. Il marchese Ippolito Durazzo approfittò della sua presenza in città per affidargli la direzione del suo giardino dello "Zerbino" dove aveva creato un prezioso orto botanico; Bertoloni lo arricchì di molte specie pregiate fatte venire dall'Inghilterra e dall'Olanda. Nel 1815, grazie alla raccomandazione determinante di Savi, giunse la nomina alla cattedra di botanica all'università di Bologna. Non era solo il raggiungimento della tranquillità economica per la sua numerosa famiglia (dalla moglie Maddalena Fanucci ebbe sette figli), ma soprattutto la possibilità di lasciare la pratica medica per dedicarsi interamente alla ricerca. Da allora non avrebbe più lasciato la città felsinea, tranne per i viaggi botanici (uno lo portò fino a Napoli) e i soggiorni estivi a Sarzana. Tenne la cattedra di botanica fino al 1837, quando fu sostituito dal figlio Giuseppe (su di lui torniamo più avanti), mentre diresse l'orto botanico universitario - che ora porta il suo nome - almeno nominalmente per ben 42 anni, dal 1816 alla morte nel 1869, alla venerabile età di 94 anni. In questo lungo periodo insegnò, fece raccolte, scrisse (sono oltre 120 le sue pubblicazioni), ma soprattutto si dedicò al compito che forse sognava fin dagli anni di Pavia: dotare l'Italia di una Flora che a abbracciasse tutto il territorio nazionale, all'epoca diviso in una decina di stati, quindi anche da frontiere, monete, costumi. Era un'impresa colossale che egli riuscì a portare a termine coinvolgendo una vastissima rete di collaboratori che gli inviarono esemplari da ogni parte del paese; tra loro ci sono i più illustri nomi della botanica italiana, ma anche semplici appassionati. Secondo un interessante articolo di Alessandro Alessandrini (Un database di schedatura della Flora Italica di Antonio Bertoloni), le persone identificabili che inviarono exsiccata e/o segnalazioni risultano 240; il maggior numero di collaborazioni si concentra in Toscana, Emilia e Veneto, ma tutte le regioni sono toccate, compresi le piccole isole e territori limitrofi che oggi non fanno parte del territorio nazionale come la Corsica o il Nizzardo. Tra i più attivi troviamo Giovanni Gussone, che già aveva collaborato con Tenore per la Flora napolitana ed è responsabile in totale di circa 2000 segnalazioni relative a Campania, Puglia, Calabria, Sicilia; il farmacista bassanese Giovanni Montini con oltre 1200 segnalazioni; Moris per la Sardegna; Soleirol per la Corsica; Tommasini per il Friuli; Savi e Targioni Tozzetti per la Toscana; Facchini per il Trentino; Mauri per il Lazio, e così via. Lo stesso Bertoloni è autore di oltre 2500 segnalazioni tra Liguria, Toscana ed Emilia, e notevole è anche il contributo del figlio maggiore Giuseppe, costante compagno delle escursioni paterne e autore di oltre 400 segnalazioni, relative all'Emilia Romagna. Preannunciata da numerose memorie su nuove specie di piante italiane, Flora italica cominciò ad uscire nel 1833 e si concluse nel 1854, con il decimo volume. In totale sono trattate 4254 specie e 623 varietà, un numero molto alto se consideriamo che secondo una recente ricerca del Museo di scienze naturali di Milano le piante autoctone del nostro paese sono 8241. Anche se fu criticata per la decisione di Bertoloni di seguire il sistema artificiale linneano (egli non ignorava i sistemi naturali di de Candolle e altri, ma lo riteneva "più semplice"), la Flora Italica rappresentò la prima descrizione sistematica e completa della flora della penisola, fondata su osservazioni dirette e criteri rigorosamente scientifici; è un’opera monumentale che, per ricchezza di dati, precisione tassonomica e vastità di confronti con la letteratura europea, segnò una svolta negli studi botanici italiani e costituì il punto di riferimento per generazioni di naturalisti. Va inoltre sottolineato che, per la prima volta nella storia della nostra botanica, i dati erano supportati da uno o più campioni d'erbario, che andarono a costituire l'Hortus Siccus Florae Italicae; esso comprendeva in origine 803 generi e 4211 specie, tutte preparate con la massima accuratezza e cartellinate con nome scientifico, località, data di raccolta, nome del raccoglitore e riferimento alla pagina dell'opera in cui è descritta la pianta. Possiamo dire che Bertoloni creò insieme due opere monumentali e inscindibili: da un lato la Flora Italica, dall’altro l’Hortus Siccus Florae Italicae, l’erbario che la sostiene e ne garantisce il rigore, andando a costituire un modello di integrazione tra testo e specimen, straordinariamente moderno per il suo tempo. Di padre in figlio Anche se lo studio della flora italiana costituisce il cuore dell'opera scientifica di Bertoloni, egli si interessò anche di flore esotiche. Il suo epistolario testimonia una fittissima rete scientifica; circa duecento corrispondenti e oltre settecento lettere, che lo collegano agli orti botanici e ai principali studiosi europei e non solo. Tra i nomi più illustri figurano i due de Candolle, Joseph Dalton Hooker, Robert Brown, Pierre Edmond Boissier, Kurt Sprengel, e persino specialisti extraeuropei, Con i campioni inviatogli da questi corrispondenti, oltre a servirsene per Flora Italica, Bertoloni creò il vastissimo Hortus Siccus Exoticus che raccoglieva oltre 11.000 esemplari. Essi provengono per la più da paesi europei ma ci sono anche piante giunte dalle Americhe, dalla Siberia, dall'India o dall'Iraq. Una storia particolare ha poi un gruppo di piante guatemalteche. Nel 1836 una delegazione dell'esercito messicano si recò a Roma per far visita al Pontefice; ne faceva parte l'ufficiale Joachim Velasquez che donò a Bertoloni una collezione di 79 piante essiccate raccolte in Guatemala. Molte erano ignote alla scienza e Bertoloni le pubblicò per primo in Florula Guatimalensis (1840). Un'altra relazione particolarmente feconda fu quella con il botanico toscano Giuseppe Raddi. Era uno stretto amico di Savi e Bertoloni entrò in contatto con lui fin dagli anni di Sarzana. Tra i due botanici si instaurò un'ammirazione reciproca, testimoniata anche da uno scambio di dediche: nel 1819 Bertoloni dedicò a Raddi Raddia (ne ho parlato qui) e l'anno dopo, come vedremo meglio più, avanti, Raddi ricambiò con Bertolonia. Nell'arco di 20 anni, Raddi inviò a Bertoloni circa 200 campioni d'erbario, raccolti sia durante la spedizione nuziale in Brasile (1817-1818), sia in una più tarda spedizione in Egitto (1828-29), che gli fu purtroppo fatale. Bertoloni pubblicò diverse delle sue pinate in Miscellanea botanica e in una memoria sulle specie raccolte dall'amico in Egitto. Data l'importanza storica di questo nucleo, l'erbario di Bologna sta portando avanti il censimento e la digitalizzazione di tutti i campioni raddiani. Negli ultimi anni della sua vita, Bertoloni estese i suoi studi ad alghe, briofite, licheni, pubblicando in parte i materiali raccolti in Flora italica cryptogama (1858-67). Egli ebbe vita lunghissima ed il privilegio di rimanere lucido, in salute ed attivo fino alla fine. A Bologna era rispettato per le sue competenze scientifiche, ma il suo carattere spigoloso, l'amore per le polemiche e la schiettezza dei giudizi - le sue lettere incendiarie erano temute e famigerate - rendevano i rapporti con colleghi e studenti piuttosto difficili. Per questo non lasciò veri allievi diretti. Tanto più stretta fu la collaborazione con i figli, in particolare con il primogenito Giuseppe (1804-1878). E' ora di dire qualcosa di più su di lui. Era devotissimo al padre, di cui subì probabilmente fin troppo il fascino e la prorompente personalità, fino a diventarne quasi una controfigura. Nato a Sarzana, si trasferì a Bologna con tutta la famiglia quando il padre ebbe la nomina all'università, e a Bologna completò gli studi fino alla laurea in medicina conseguita nel 1828. Già l'anno successivo fu nominato professore sostituto di chimica, botanica, farmacia e materia medica, l'equivalente di una libera docenza, con diritto di successione alla prima cattedra vacante. Questa clausola gli permise di subentrare al padre quando questi, nel febbraio 1837, decise di lasciare la cattedra di botanica per concentrarsi sulla ricerca e la direzione dell'orto botanico. Nel 1863 fu confermato professore ordinario di botanica, incarico che mantenne fino alla morte avvenuta nel 1878. Tenne dunque la cattedra di botanica per più quarant'anni. Eppure, la sua inclinazione lo avrebbe portato piuttosto all'entomologia. Come entomologo, creò un'importante raccolta di insetti del Mozambico, che comprende alcuni esemplari rarissimi ed oggi è conservata presso il Museo di zoologia dell'università di Bologna, e studiò i lepidotteri della campagna bolognese in Historia Lepidopterorum agri bononiensis (1847-1849). Fin dall'adolescenza però affiancò il padre nelle sue ricerche botaniche, diventando tra l'altro un abilissimo preparatore di esemplari d'erbario. Abbiamo già visto il suo contributo a Flora italica; per quarant'anni fu poi attivissimo esploratore della flora bolognese, creando un ricco ebario (Hortus Siccus Florae Bononiensis), notevole per lo studio delle località di raccolta. Dedicò i suoi lavori botanici più importanti alla flora dei monti di Porretta (Notizie intorno alle piante spontanee dei monti Porrettani, 1865 e Vegetazione dei monti di Porretta e dei suoi prodotti vegetali, 1867). Continuò poi per tutta la vita ad arricchire l'Hortus Siccus Exoticus. I due erbari paterni gli erano stati legati dal testamento di Antonio Bertoloni; dopo la morte sua e del fratello minore Giacomo, insieme all'erbario bolognese, furono ereditati dal nipote Antonio jr., figlio di quest'ultimo, il quale, con gli erbari, la biblioteca e i manoscritti del nonno, creò un Museo Bertoloni nella residenza estiva della famiglia a Zola Predosa, sulle colline bolognesi. Dopo la sua morte, nel 1928 i materiali furono donati all'Istituto Botanico dell'Università di Bologna. Nonostante alcune perdite, gli erbari di Antonio e Giuseppe Bertoloni costituiscono il nucleo principale dell'erbario bolognese; sono una delle raccolte di esemplari d'erbario più importanti del nostro paese per qualità, quantità e importanza storica. Bertolonia, piante gioiello dal Brasile Autore della prima descrizione di decine di specie, italiche o meno, Antonio Bertoloni è ricordato dall'eponimo di numerose specie, come la splendida Ophrys bertolonii o Aquilegia bertolonii. A più riprese gli sono stati dedicati diversi generi Bertolonia, di cui l'unico valido è quello dedicatogli nel 1820 da Raddi. Eppure era stato preceduto da almeno quattro dediche, tutte non valide o respinte per una ragione o per l'altra. Ad aprire le danze fu nel 1809 il misterioso marquis de Spin, autore di Le jardin de Saint Sébastien, avec des notes sur quelques plantes nouvelles ou peu connues. Si tratta del nom de plume del marchese Luigi Novarina di Spigno (1760?-1832), dotto botanofilo piemontese che coltivava piante esotiche nel suo giardino di San Sebastiano Po presso Torino, di cui il libretto costituisce appunto il catalogo. Era una pubblicazione poco nota e difficilmente accessibile; così il suo Bertolonia (Scrophulariaceae) rimase ignorato ed è considerato da rigettare (nomen rejiciendum). Nel 1812 de Candolle pubblicò un secondo Bertolonia (Asteraceae), non valido perché si tratta di un puro nome, privo di descrizione (nomen nudum). Non valido per ragioni analoghe il Bertolonia (Verbenaceae) del botanico franco-statunitense Rafinesque (1818). E' illegittimo, perché successivo a Bertolonia Raddi Bertolonia (Clusiaceae), dedica del tedesco Sprengel (1820), mentre non è valido Bertolonia (Rosaceae), pubblicato nel 1825 da de Candolle sulla base del manoscritto di Sessé e Mociño, anch'esso un nome nudo. Eccoci dunque tornati a Bertolonia Raddi (Melostomataceae), considerato nome da conservare (nomen conservandum) rispetto a Bertolonia Spin. E' anche l'unico accompagnato da una motivazione esplicita. Il botanico toscano infatti scrive: "Il nome dell'Illustre professore applicato a questo nuovo genere delle Melostomacee è abbastanza noto nella Repubblica letteraria per risparmiare qualunque ulteriore elogio che la mia troppo debole penna potrebbe fare a pro di esso". Raddi vi assegnò una sola specie, B. nymphaeifolia, che egli aveva raccolto nelle foreste della Serra da Estrela in Brasile. Oggi al genere sono assegnate 35 specie, tutte endemiche della Mata Atlantica, alcune con una distribuzione molto ristretta; il centro di diversità è lo stato di Bahia con 15 specie, 12 delle quali endemiche; sono presenti in tre diversi ambienti: foreste pluviali montane, foreste pluviali di pianura, foreste nubilose. Sono erbacee perenni con una morfologia florale piuttosto varia; i fiori si ragruppano in infiorescenze scorpiodi. I frutti sono capsule, caretterizzate da un peculiare metodo di dispersione dei semi; essi vengono dispersi dalle gocce di pioggia che riempiono le capsule per poi svuotarle e farne cadere il contenuto a terra. Tipiche delle foreste pluviali tropicali, hanno dunque bisogno di un alto grado di umidità. Forse ciò spiega perché, nonostante abbiano notevoli qualità ornamentali, in particolare per la bellezza delle foglie, e siano già state introdotte nell'Ottocento, al momento in cui esplose la moda delle piante da foglia, non sono mai diventate piante popolari. Necessitano infatti di umidità costante e temperature elevate, condizioni difficili da riprodurre in casa; sono dunque soprattutto piante da terrario. E' il caso della piccola e deliziosa B. nymphaeifolia, con foglie quasi orbicolari percorse da nette venature. Poco meno capricciosa è la bellissima B. marmorata, con grandi foglie quasi cuoriformi verde scuro e zebrature argentate lungo le nervature. Meno esigente è considerata B. maculata, che comunque richiede luce filtrata e umidità costante (ma non stagnante). Piccole, preziose (in inglese le chiamano jewel plants, "piante gioiello"), ancora rare e costose, sono ancora piante per appassionati e specialisti di tropicali.
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
November 2025
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