Sarà perché iniziano a fiorire già in inverno, sarà perché crescono in fretta e si arrampicano dappertutto, sarà per l'allegria dei loro grappoli viola: fatto sta che nel mondo anglosassone i rampicanti del genere Hardenbergia sono noti con il nome comune happy wanderer, "vagabondo felice". Anche l'uomo che suggerì il nome botanico, il barone Hügel, era un vagabondo, o almeno un viaggiatore, ma tutt'altro che felice; si era messo in viaggio per guarire dal mal d'amore. Per sua volontà, l'allegra vagabonda è stata dedicata a sua sorella, la contessa von Hardenberg, sulla quale - come capita troppo spesso alle donne - sappiamo davvero troppo poco. Un cuore infranto e un viaggio intorno al mondo Nel bel mondo della Vienna effervescente degli anni venti dell'Ottocento, che il congresso omonimo aveva trasformato nella capitale europea della diplomazia e del walzer, il barone Carl von Hügel era una figura molto nota. Come il fratello maggiore, direttore dell'Archivio di Stato, apparteneva al circolo del cancelliere Metternich. In gioventù, oltre a combattere con onore nelle campagne contro Napoleone, aveva molto viaggiato in Europa, sviluppando un raffinato gusto di collezionista e una grande passione per le piante. Dopo la morte del padre, nel 1826, venuto in possesso di un cospicuo patrimonio, acquistò una vasta proprietà nel sobborgo viennese di Hietzing; vi fece costruire una splendida villa e creò un giardino botanico privato, dove sperimentava la coltivazione di piante esotiche. Intorno al 1830, si fidanzò con una bella e volitiva contessa ungherese, Melanie Zichy-Ferraris. Ma la madre di lei mise gli occhi su un partito molto più promettente: niente meno che il principe Metternich, da poco rimasto vedovo per la seconda volta. Melanie riuscì a fare breccia nel suo cuore e ruppe il fidanzamento con Hügel per sposarsi con il cancelliere (che aveva trentadue anni più di lei). Tradito dalla donna amata e da un uomo che ammirava e considerava un amico, a Hügel non restava che partire. Non per l'Europa, che del resto conosceva già bene, ma per il Levante e oltre. Per prepararsi al viaggio, visitò brevemente l'Inghilterra e la Francia, e nel maggio 1831 si imbarcò a Tolone alla volta delle Grecia. Visitò poi Creta, Cipro, la valle del Nilo, la Palestina e la Siria. Nella primavera del 1832 era in India. Visitò Decca, Goa, Mysore, scalò le Blue Mountains, e percorse la costa del Malabar da Travancore a Capo Camorin. Passò poi a Ceylon, dove si trattenne quattro mesi. Seguendo la costa del Coromandel raggiunse Pondicherry e Madras, da dove si imbarcò per l'Indonesia e l'Australia. Nell'Australia occidentale Hügel intendeva raccogliere semi e piante per il suo giardino. Il primo impatto con il paesaggio australiano, allo sbarco nel porto di Fremantle nel novembre 1833, fu una cocente delusione: "Mi aspettavo fiduciosamente praterie verdi immacolate, alberi e arbusti coperti di fiori e frutti all'inizio dell'estate australe, tutto il paese un quadro della Natura non toccato dall'uomo". Invece ciò che vide era una terra "totalmente priva di vita", grigia, dove "tutto era immobile escluso il mare ribollente e minaccioso". Ma tutto cambiò quando si inoltrò nel bush: "A poche centinaia di passi dalla città inizia la vegetazione. La particolarità delle piante della Nuova Olanda è che la bellezza delle forme e i colori dei fiori si rivelano solo quando li si osserva attentamente a breve distanza. Dunque, la ricchezza e la varietà della flora in tutto il suo splendore colpisce l'occhio solo a uno sguardo ravvicinato. Il triste grigio-verde si trasforma nelle più varie sfumature di verde, dal più chiaro e luminoso al più scuro e lussureggiante, mescolati a fiori brillanti di ogni tipo, in numero indicibile. Mi aggiravo in quel mondo di colori come intossicato". Stranamente, è un mondo allo stesso tempo estraneo e familiare: estraneo per la sua inattesa varietà e bellezza, familiare perché il barone incontra ad ogni passo piante che già conosce, per averle coltivate nel suo giardino. Infatti, la bellezza delle flora dell'Australia occidentale non era sfuggita ai primi coloni, e diverse specie avevano incominciato a fare la loro comparsa nelle serre europee fin dalla fine del Settecento. Immerso in quella flora di sogno, il nostro viaggiatore infelice ritrova la felicità: "Per la prima volta dopo anni - lunghi anni penosi - vissi per un'ora nella piena delizia del momento. La mano sinistra stringeva un enorme mazzo di splendidi fiori, mentre la destra ancora si protendeva a raccogliere varietà sempre nuove". Il barone si trattenne circa un mese nell'area dello Swan River, esplorandone la foce, le isole all'imboccatura, i dintorni di Perth e spingendosi all'interno fino a Darlington e alle colline della Darling Scarp. Continuò poi per mare lungo il King George Sound, visitando l'area di Albany, incluse le valli inferiori del King River e del Kalgan River. Raccolse centinaia di specie, ma a colpire il suo cuore più di ogni cosa furono i grappoli rossi e viola di alcune leguminose rampicanti, su cui torneremo. Il suo viaggio australiano proseguì fino all'ottobre 1834, toccando la Terra di Van Demen (ovvero la Tasmania), l'Isola Norfolk e il Nuovo Galles del Sud. Seguirono la Nuova Zelanda, Manila e nuovamente l'India. Lo attendeva la parte più importante della spedizione: il lungo viaggio che da Calcutta lo portò ad attraversare l'India settentrionale, fino al Punjab, con un'ampia deviazione fino alle alte terre himalayane al confine tra Tibet e Kashmir. Sempre accumulando ricche collezioni di materiali di ogni genere, osservando usi e costumi, visitando personalità incluso il Maharaja Ranjit Singh, acquisì una profonda conoscenza, per molti aspetti inedita, della storia, della geografia fisica e umana, della natura, delle risorse economiche del Kasmir. Dalla terra dei Sikh, scese a Delhi, quindi a Bombay, dove nel 1836 iniziò il viaggio di ritorno. Attraverso il Capo di Buona Speranza e l'isola di Sant'Elena, nel 1837, dopo sei anni di assenza, era di nuovo a casa, dove poté riabbracciare la madre. Piante australiane ed altre avventure Ora giungeva il tempo dello studio e del riordino della collezioni. Insieme a lui, a Vienna erano arrivate centinaia e centinaia di casse di opere d'arte, oggetti etnologici, animali impagliati, esemplari d'erbario. E finalmente entra in scena la dedicataria della nostra pianta. Per riordinare le collezioni botaniche, il barone si affidò alla sorella minore, Franziska detta Fanny, che durante la sua assenza si era sposata con il conte Anton August von Hardenberg, ed era ora la contessa von Hardenberg. Poco sappiamo di lei, tranne che assolse il compito con zelo e che dovette avere qualche conoscenza di botanica se Bentham (cui, come vedremo, si deve la dedica) dice di lei "con il suo ingegno orna la nostra scienza". Il barone divideva il suo tempo tra la stesura del suo capolavoro, Kaschmir und das Reich der Siek ("Il Kasmir e il regno dei Sikh"), in quattro volumi (1840-48), grazie al quale nel 1849 fu premiato dalla Royal Geographical Society come "intraprendente esploratore del Kashmir", gli impegni mondani, la cura del giardino e la promozione dell'orticultura austriaca. Ad occuparsi di pubblicare la sua collezione di piante australiane, riordinata con tanta cura da Fanny, fu un gruppo di botanici capeggiato da Stephan Endlicher: oltre allo stesso Enclicher, ne facevano parte l'inglese George Bentham e gli austriaci Eduard Fenzl e Heinrich Schott. Il risultato fu Enumeratio plantarum quas in Novae Hollandiæ ora austro-occidentali ad fluvium Cygnorum et in sinu Regis Georgii collegit Carolus Liber Baro de Hügel (1837), in cui vennero pubblicate quasi trecento specie raccolte dal Barone tra lo Swan River e il King George Sound. Tra di esse, le amate leguminose del Fiume dei Cigni. In realtà, non erano una novità assoluta in Europa, perché già da qualche anno alcune specie erano arrivate nelle serre europee, classificate come Glycine poi come Kennedia. Sulla base delle sue raccolte in Australia, Hügel suggerì a Bentham (che si occupò della pubblicazione delle Leguminose) di dividerle in quattro generi: oltre a Kennedia, Physolobium, Zichya e Hardenbergia. Due di questi nuovi generi dovevano ricordare le due donne più importanti della sua vita: la mai dimenticata ex fidanzata Melanie Zichy-Ferraris e la sorella Fanny, ora contessa Hardenberg. Provvide egli stesso a creare il genere Zichya sulla rivista della società botanica austriaca, mentre Hardenbergia venne pubblicata da Bentham appunto in Enumeratio plantarum. Per inciso, oggi sia Physolobium sia Zichya sono stati riassorbiti da Kennedia, mentre Hardenbergia continua da essere riconosciuto come un genere indipendente, come vedremo meglio tra poco. Ma prima di concludere, ancora due parole sul barone e sua sorella Fanny. Le cronache del tempo descrivono il giardino di Hietzing come uno dei più belli d'Europa, ricco di piante esotiche riportate dal viaggio intorno al mondo. All'ingresso, di fronte al soggiorno, circondata da pilastri con piante rampicanti, c'era una terrazza pavimentata, con una grande varietà di piante coltivate tra le lastre, e aiuole con bulbi, erbacee ed arbusti scelti con grande cura perché fiorissero quasi tutto l'anno, tra cui una notevole collezione di camelie; un prato con molti alberi e arbusti esotici; serre fredde e riscaldate con la collezione di piante australiane. Non mancava un orchidarium, che nel 1842 contava 83 generi e quasi 200 specie. Molto ammirato era il cosiddetto Giardino rococò, con aiuole formali bordate di tufo, parterre, fontane e statue. Il barone si dava da fare per diffondere il gusto per il giardinaggio e le piante esotiche non solo con l'esempio; riprendendo un progetto che già accarezzava prima di partire, nel 1837 fondò la Österreichische Gartenbau-Gesellschaft, la società di giardinaggio austriaca, di cui dettò lo statuto e fu il primo presidente. Le prime mostre organizzate dalla società si tennero proprio nel parco di Hietzing. Gli eventi del 1848 misero fine a un tranquillo decennio di studio e giardinaggio; Hügel riprese servizio nell'esercito e partecipò alla guerra in Italia (dal nostro punto di vista, la prima guerra d'Indipendenza); era però a Vienna nei giorni tumultuosi in cui Metternich rischiò di essere linciato dalla folla e, insieme all'amata Melanie, lo portò in salvo nascondendolo nella sua carrozza. Forse disgustato da questi eventi, abbracciò la carriera diplomatica, servendo per molti anni prima a Firenze, poi a Bruxelles. Quando si ritirò, preferì trasferirsi in Inghilterra insieme alla moglie, un'irlandese molto più giovane di lui che aveva conosciuto in India e sposato a Firenze, e ai figli. Il giardino e la villa, passati di mano in mano, fatalmente andarono in rovina e vennero dispersi dalla lottizzazione. Quanto a Fanny, la sua vita ha lasciato ben poche tracce nelle cronache del tempo. Sappiamo che, dopo il matrimonio con il conte von Hardenberg, un gentiluomo della corte di Hannover, lo accompagnò nelle varie sedi cui fu assegnato (le fonti dell'epoca citano Berlino e Dresda) e soggiornò spesso nella tenuta di campagna di Rettkau, in Slesia. Proprio qui si rifugiò e morì il fratello maggiore, Clemens Wenzel, collaboratore di Metternich, travolto dalla disgrazia del cancelliere. Nel 1849 Franziska rimase vedova e, presumibilmente senza figli, decise di raggiungere Carl, vivendo per qualche tempo nella sua casa di Vienna, per poi trasferirsi insieme a lui a Firenze. Qui morì nel 1852. Una sintesi di queste poche notizie nella sezione biografie. Finalmente, Hardenbergia Ovviamente, anche il barone Hügel, come raccoglitore e collezionista, nonché promotore dell'orticoltura, ha avuto la sua parte nella nomenclatura botanica. Un genere Huegelia gli fu dedicato sia da Robert Brown, sia da Reichenbach, sia da Bentham; nessuno dei tre è oggi accettato. A resistere più a lungo è stato forse Huegelia Rchb., oggi confluito in Trachymene Rudge. La specie più nota è probabilmente Trachymene coerulea, spesso ancora indicata con il sinonimo Huegelia coerulea. Un manipoli di piante neppure troppo esiguo ricorda invece il barone nel nome specifico: sono per lo più australiane, come Alyogyne huegelii, il cosiddetto ibisco blu, oppure Melaleuca huegelii. Ed eccoci infine arrivati alla nostra protagonista verde, la felice vagabonda Hardenbergia. Appartenente alla sottotribù Kennediinae della famiglia Fabaceae, è in effetti molto affine a Kennedia; le piante di entrambi i generi sono liane originarie dell'Australia. Ad Hardenbergia sono assegnate tre specie: H. comptoniana, nativa dell'Australia sudoccidentale (che è la specie raccolta da Hügel lungo lo Swan River); H. perbrevidens, endemica del Queensland; H. violacea, nativa dell'Australia meridionale e orientale. Rampicanti, volubili o ricadenti, sono sempreverdi con foglie alterne, ovate ma anche palmate, piuttosto coriacee; a fine inverno e all'inizio della primavera producono copiose pannocchie di fiori papilionacei dai colori sgargianti: da malva a porpora con marcature bianche H. comptoniana; da malva a viola scuro con marcature gialle al centro la rara H. perbrevidens; da viola a porpora, ma anche rosa e bianchi H. violacea. Questa è la specie più coltivata e ne sono state selezionate molte cultivar, compresa una bicolore. Viene coltivata all'aperto dove non gela, come nella nostra riviera, altrove in serra temperata o in posizione protetta contro un muro. Qualche informazione in più nella scheda.
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Benché abbia vissuto buona parte della sua vita adulta nella "piatta" Livonia, Friedrich Parrot amava sopra ogni cosa le montagne: le misurava, ne disegnava le carte, le studiava come fisico e geologo, ma soprattutto le scalava. Le aveva scoperte giovanissimo durante una spedizione in Crimea e nel Caucaso; più tardi lo troviamo sulle Alpi, a tentare la scalata del Monte Rosa, e sui Pirenei. Ma il suo nome è soprattutto legato all'Ararat, la sacra montagna di Noè, che riuscì a conquistare nel 1829 al terzo tentativo. Ad accompagnarlo, l'armeno Khachatur Abovian, futuro padre della letteratura armena moderna. A ricordarlo due piccoli generi di piante, ovviamente montane: Parrotia e Parrotiopsis. Uno scienziato innamorato delle montagne Il monte Ararat, nell'Armenia storica (oggi, dopo tanti passaggi di mano, è in territorio turco), non è una montagna come le altre; sulla sua cima (posta a oltre 5100 metri) secondo il racconto biblico si posò l'arca di Noè; per questo motivo, la chiesa armena la ritenne sacra e vietò di avvicinarsi alla cima, dove si riteneva fosse ancora preservata l'augusta reliquia. Dal XVI secolo fino al 1828 la venerata montagna si trovava in territorio persiano, ma quell'anno, in seguito alla guerra russo-persiana del 1826-28, fu ceduta all'impero russo. Fu così che Friedrich Parrot, un giovane scienziato e appassionato alpinista dell'Università di Dorpat, propose allo zar di organizzare una spedizione per esplorarla e cercare di conquistarla. E' curioso che colui che è considerato il padre dell'alpinismo russo e armeno abbia trascorso gran parte della sua vita adulta in un paesaggio piatto e privo di montagne: Dorpat, oggi Tartu, all'epoca una delle principali città della Livonia, era sede di un'antica università che era rinata all'inizio dell'Ottocento, in gran parte grazie all'energica azione di Georg Friedrich Parrot, il padre di Friedrich, che ne divenne anche il primo rettore. Grande scienziato - era un fisico di fama europea - e amico personale dello zar Alessandro I, era riuscito a trasformare quella università periferica in un centro di studi all'avanguardia, che nel corso dell'Ottocento diede un importante contribuito all'esplorazione geografica, geologica e naturalistica di molti territori dell'Impero russo. Friedrich, che era nato in Germania, arrivò in Livonia bambino e, dopo gli studi liceali a Riga e a Dorpat, frequentò i corsi di medicina e scienze naturali all'Università di Dorpat. Era appena ventenne quando, nel 1811, il suo professore di mineralogia, Moritz von Engelhardt, lo invitò ad accompagnarlo in una spedizione scientifica incaricata di effettuare rilievi barometrici in Russia meridionale, Moldavia e Valacchia. Strada facendo, cambiarono itinerario, e si diressero verso la Crimea e il Caucaso. E fu così che Friedrich scoprì le montagne e se ne innamorò. Insieme a Engelhardt, cartografò l'idrografia della Crimea e ne scalò le montagne per stabilirne l'altezza con il metodo barometrico; si spostarono poi verso il Caucaso, seguendo il corso del fiume Terek dalla sorgente alla foce. Oltre a disegnare le mappe di altre montagne, i due scalarono il monte Kasbek, di cui Parrot studiò i piani di vegetazione. Quindi si divisero: mentre Engelhardt misurò il livello del Mar Nero, Parrot misurò quello del Mar Caspio. I risultati della spedizione furono pubblicati nel 1815 in Reise in die Krim und den Kaukasus; Parrot redasse tra l'altro la parte dedicata alla vegetazione del Caucaso. Nel 1812 Napoleone invase la Russia e Parrot, benché non ancora laureato (avrebbe conseguito la laurea nel 1814), lavorò come medico all'ospedale di Riga e poi come chirurgo militare fino alla fine della guerra. Tornata la pace, egli poteva finalmente coltivare la sua passione per la montagna. Nel 1816 tentò di scalare il Monte Rosa, ma raggiunse solo il limite delle nevi. Anche se non riuscì a scalarla, qualche anno dopo gli fu dedicata una delle cime del massiccio, la Punta Parrot. Nel 1817 visitò estesamente i Pirenei, compiendo la prima ascensione della Maladeta e del Pic de Perdiguère. Dopo aver esercitato per qualche anno la professione medica in Germania, nel 1821 tornò a Dorpat come professore di fisiologia e patologia; nel 1826 assunse la cattedra di fisica, lasciata dal padre che si era trasferito a San Pietrburgo. Nel 1828, in virtù del trattato di Turkmenchay, la Persia cedette all'Impero russo parte dell'Armenia e dell'Azerbaigian e il governo russo decise di inviare nella regione una missione esplorativa capeggiata da Parrot. Quest'ultimo pensò che era arrivato il momento di realizzare il suo grande sogno: scalare il monte sacro dell'arca, il grande Ararat. Sottopose il progetto allo zar Nicola I, che lo approvò e garantì una scorta militare. Fu così che nell'aprile del 1829, insieme a un gruppo di studenti di medicina e scienze naturali Parrot partì da Dorpat in direzione dell'Armenia russa. La difficile conquista dell'Ararat Dopo aver raggiunto la steppa calmucca, il gruppo si divise in due parti: mentre il grosso della spedizione si dirigeva direttamente a Mozdok in Ossezia, Parrot, insieme a Maximilian Behaghel von Adlerskron e alla guida militare Schütz, attraversò il fiume Manych e si dedicò a una serie di nuovi rilievi del livello del Mar Nero e del Mar Caspio. La spedizione riunita proseguì poi verso sud attraverso la Georgia; raggiunto il confine armeno, la notizia di un'epidemia di peste nei dintorni di Erevan la costrinse a tornare in Georgia, per esplorare la Chachezia e condurre diverse misurazioni. Solo alla fine di agosto, il gruppo poté raggiungere la città santa di Echmiadzin, sede del catholicos, il Capo della chiesa apostolica armena; benché in generale la chiesa armena considerasse la spedizione sacrilega, il catholicos Yeprem I permise che vi si aggregasse, come guida ed interprete, lo studente di teologia Khachatur Abovian. Insieme a lui, il gruppo attraversò il fiume Aras e si diresse verso il villaggio di Akhuri (oggi Yenidoğan, nella Turchia orientale), posto a circa 1200 metri di altitudine sul versante settentrionale dell'Ararat. Stabilirono poi il campo base presso il Monastero di San Giacobbe, a 1943 metri sul livello del mare. Tra il 12 e il 14 settembre, tentarono una prima volta di raggiungere la cima della montagna dal versante nord-est, ma il freddo e la mancanza di abiti adeguati li costrinsero a rinunciare. Sei giorni dopo, su consiglio del capo villaggio di Akhuri, tentarono la scalata dal versante nord-ovest. Tuttavia furono sorpresi dal tramonto a quota 4885 metri e dovettero nuovamente tornare indietro. Ma, proprio come succede nelle fiabe, il successo doveva arrivare al terzo tentativo: il 27 settembre 1829 Parrot, Abovian, due soldati russi e due guide armene raggiunsero finalmente la cima del grande Ararat; Abovian eresse una piccola croce e raccolse un pezzo di ghiaccio, la cui acqua, per lui sacra, portò poi con sé in una bottiglia. Il 27 ottobre Parrot e Abovian scalarono poi insieme anche l'altra cima della sacra montagna, il piccolo Ararat. Colpito dall'intelligenza, dalla cultura e dallo zelo di Abovian, Parrot istituì per lui una borsa di studio a Dorpat. I sei anni trascorsi dal giovane armeno nella città estone furono estremamente fruttuosi: egli seguì corsi di filosofia, letteratura, scienze sociali e scienze naturali, imparò il tedesco, il russo, il francese e il latino, strinse amicizie e entrò in corrispondenza con molti intellettuali europei. Autore di poesie e di un romanzo storico, è considerato il padre della letteratura armena moderna, oltre che una figura eminente del movimento per la modernizzazione del paese. Quanto al nostro Parrot, non era tipo da accontentarsi di una tranquilla carriera universitaria di professore di fisica, dividendo le sue giornate tra le lezioni, il laboratorio (tra l'altro, inventò un gasometro e un baro-termometro) e la famiglia. Nel 1837 partecipò a una spedizione a Capo Nord e in Lapponia studiò fenomeni connessi con il magnetismo e la rotazione dell'asse terrestre. Al ritorno, già ammalato, ne diede conto in Kurze Nachricht von meiner Reise zum Nordkap; morì a Dorpat nel gennaio 1841. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Parrotia persica & friends Come abbiamo visto, tra gli interessi di questo medico e scienziato polivalente, soprattutto fisico e geologo, rientrava anche la botanica. Durante la sua prima spedizione aveva studiato i piani di vegetazione del Caucaso, e risulta che anche successivamente abbia raccolto piante nell'area del Caspio. E' proprio qui, sui monti dell'Azerbaigian, che vive la pianta destinata a immortalarne il nome nella nomenclatura botanica. Nel 1831 Carl Anton Meyer, un botanico di origine tedesca che aveva studiato a Dorpat con Ledebour e Bunge, con i quali nel 1826 aveva preso parte a una spedizione negli Altai e nella steppa del Kazakistan, decise di dedicargli una delle piante raccolte durante la spedizione, Parrotia persica, un endemismo della catena dei monti Alborz. Appartenente alla famiglia Hamamelidaceae, è un alberello noto soprattutto per lo spettacolare fogliame autunnale: le grandi foglie prima di cadere si tingono di giallo, d'arancio e di rosso. Piuttosto interessante anche la fioritura, che avviene sui rami nudi prima dell'emissione delle foglie molto presto nella stagione, tra febbraio e marzo; i fiori, piccoli e privi di petali, si fabbo notare per i numerosi stami con le antere rosso brillante. A lungo si è pensato che Parrotia fosse un genere monospecifico; solo nel 1998, sulla base dell'esame del DNA, è stata riclassificata come P. subaequalis una specie cinese prima classificata come Hamamelis subaequalis, poi come Shaniodendron subaequalis. E' anch'essa un piccolo albero o un grande arbusto con infiorescenze globose di fiori circondati da brattee e vistoso fogliame autunnale, dapprima bruno, quindi rosso brillante e viola. Molto raro in natura, è stato recentemente introdotto nei giardini (dove la sua sorella più nota era arrivata fin dal 1848, sempre grazie a Meyer, che ne l'aveva riprodotta nell'Orto botanico di San Pietroburgo). Ma c'è anche una "cugina" più lontana, assegnata a un genere a parte, Parrotiopsis, dal botanico C.K. Schneider nel 1905. La sua unica specie è Parrotiopsis jacquemontiana, originaria dell'Himalaya occidentale, dall'Afghanistan al Kashmir, dove vive nelle foreste tra 1200 e 2800 metri, un delizioso arbusto con vistose fioriture primaverili, che appaiono sui rami nudi; a renderli speciali, sono le grandi brattee crema che circondano un fitto ciuffo di stami dorati. Scoperto negli anni '30 dell'Ottocento, fu inizialmente assegnato al genere Fothergilla, quindi a Parrotia, con i nomi Parrotia jacquemontana e Fothergilla involucrata. Per completezza, ricordiamo anche x Sycoparrotia semidecidua, un ibrido intergenerico tra Sycopsis sinensis e Parrotia persica, prodotto intorno al 1950 nell'Orto botanico di Basilea in Svizzera. E' un bellissimo alberello, notevole sia per i fiori, con stami gialli e antere rosse, sia per il fogliame autunnale. Tra le questioni scientifiche più dibattute dalla scienza del '700 c'era quella della forma e della dimensione della Terra: a Newton che, sulla base della teoria della gravità postulava che fosse schiacciata ai poli e rigonfia all'equatore, si opponeva Cartesio che, basandosi sulla propria teoria dei vortici, pensava piuttosto a una forma simile a un uovo, con un allungamento verso i poli. A sostegno di quest'ultima tesi, l'astronomo Cassini portava le misure da lui effettuate in Francia. Per dirimere la controversia, nel 1735 l'Accademia delle Scienze francese organizzò due spedizioni: una si sarebbe recata in Lapponia, la seconda nel vicereame del Perù. Le misure di un arco di meridiano prese rispettivamente al circolo polare artico e all'equatore avrebbero dovuto fornire la risposta. Per la durata, le personalità coinvolte, i risultati, la più importante fu indubbiamente la seconda, passata alla storia con tanti nomi: Missione geodetica in Perù, Missione geodetica all'equatore, Missione geodetica franco-spagnola o anche Spedizione La Condamine, da uno dei principali protagonisti. Anche se i suoi obiettivi principali erano geografici ed astronomici, coinvolse anche un botanico, Joseph de Jussieu, e portò a rilevanti scoperte su piante medicinali di grande importanza. Fu la prima grande spedizione scientifica internazionale, poiché vi presero parte anche due giovanissimi e perspicaci ufficiali della Marina spagnoli, destinati a un brillante avvenire: Jorge Juan e Antonio de Ulloa, i due dedicatari dello spettacolare genere Juanulloa. Dramatis personae: francesi e spagnoli L'idea che la Terra non fosse perfettamente sferica fu avanzata nel 1671 dal francese Jean Picard, l'astronomo che inventò il metodo della triangolazione geodetica. Qualche anno dopo Newton affermò che, se la Terra possedesse solo il moto di rivoluzione, sarebbe perfettamente sferica; ma a causa del movimento di rotazione assume la forma di uno sferoide schiacciato ai poli e dilatato all'equatore. A questa tesi si opponeva Cartesio, che, sulla base della teoria dei vortici, riteneva piuttosto che il pianeta avesse una forma simile a un uovo, con un allungamento lungo l'asse dei poli. A partire dal 1683, si passò alla verifica sperimentale; in Francia, gli astronomi Cassini, Maraldi e La Hire misurarono un meridiano dalla Manica ai Pirenei; le loro misure sembrarono confermare l'allungamento della Terra in senso longitudinale, secondo la tesi di Cartesio, ma furono respinte come erronee dai newtoniani . Per risolvere la questione una volta per tutte, l'Accademia delle Scienze decise di organizzare due spedizioni geodetiche (debitamente finanziate dalla Corona), che avrebbero dovuto misurare un arco di meridiano rispettivamente in prossimità del Polo nord e all'Equatore. La spedizione polare (1736-1737) fu guidata dal convinto newtoniano Pierre Louis Moreau de Maupertuis, accompagnato dal matematico Alexis Clairaut e dagli astronomi Charles-Étienne-Louis Camus e Pierre Charles Le Monnier; in Svezia fu inoltre accolta da Anders Celsius, l'inventore del termometro centigrado. La spedizione misurò un arco di meridiano tra Kittis e Tornea, constatando che era più lungo rispetto quello misurato da Cassini tra Amiens e Parigi; era la conferma che la Terra è appiattita ai poli. Maupertuis ritornò trionfante a Parigi e presentò i risultati con grande risonanza mediatica, tanto da guadagnarsi da parte dell'ironico Voltaire il soprannome di "schiacciatore della Terra". Ben più complessa si presentava la spedizione all'Equatore. Il primo problema era politico: la Francia decise di effettuare le misurazioni nell'attuale Ecuador, che all'epoca faceva parte del Vicereame del Perù, territorio sotto la giurisdizione spagnola. Fino ad allora, la Spagna aveva sempre negato l'autorizzazione a spedizioni straniere nelle proprie colonie; in virtù del patto di famiglia (tanto a Parigi quanto a Madrid regnava un Borbone) e del desiderio di partecipare a un'impresa tanto prestigiosa, la Spagna si convinse, ma a condizione che partecipassero anche due militari iberici, ufficialmente come collaboratori, ma in realtà come sorveglianti. Fu così che la Missione geodetica all'Equatore divenne la prima spedizione internazionale dell'età moderna. Per numero di partecipanti era decisamente imponente. L'équipe scientifica francese comprendeva dieci membri: tre accademici, l'astronomo Louis Godin (1704-1760), che era anche colui che aveva avuto l'idea della missione; il matematico, fisico e idrografo Pierre Bouguer (1698-1758); il chimico e geografo Charles de La Condamine (1701-1774); i disegnatori e cartografi Jean-Louis de Morainville e Jean-Joseph Verguin; l'orologiaio e "ingegnere agli strumenti matematici" Théodore Hugot; il chirurgo Jean Siniergue; gli aiutanti Couplet-Viguer e Godin des Odonnais (nipote di Louis Godin); il medico e botanico Joseph de Jussieu (1704-1779), fratello minore degli accademici Antoine e Bernard. Infatti, anche se l'obiettivo principale della missione era geodetico e astronomico, l'Accademia non volle perdere l'occasione di studiare la natura di quella contrada esotica, in particolare le sue reputate piante medicinali. Aggiungendo i servitori e i soldati di scorta, a lasciare La Rochelle il 16 maggio 1735 a bordo del mercantile Portefaix furono in ventitré. Dopo 37 giorni di navigazione, la prima tappa fu la Martinica, quindi Santo Domingo dove dovettero attendere tre mesi il vascello che li avrebbe condotti a Cartagena de las Indias (nell'attuale Colombia); durante il soggiorno forzato, secondo la loro specializzazione, gli scienziati si dedicarono alle osservazioni astronomiche o alla raccolta di piante e animali. Purtroppo ebbero anche il primo assaggio di febbri tropicali: ne soffrirono Jussieu e Godin des Odonnais in modo lieve, La Condamine in modo grave, due servitori e un soldato ne morirono. Per rimpiazzarli, furono acquistati alcuni schiavi neri, intaccando le non molto abbondanti risorse finanziarie, che vennero per altro dissennatamente sperperate da Godin per far colpo su una bellezza creola. I francesi arrivarono a Cartagena solo nel novembre 1735, dove ad attenderli c'erano i loro compagni spagnoli, arrivati da Cadice già a giugno: una squadra di sette uomini capeggiata dai tenenti di vascello Jorge Juan Satacilia (1713-1773) e Antonio de Ulloa de la Torre Giral (1716-1795). Entrambi giovanissimi (avevano rispettivamente 22 e 19 anni), erano i due migliori allievi dell'Accademia dei guardia marina di Cadice, un centro di formazione di élite dove i rampolli dell'aristocrazia venivano preparati a comandare le navi della flotta spagnola. Avevano già partecipato ad azioni militari, possedevano buone basi matematiche e nozioni elementari di astronomia, ma erano dei "ragazzini" (come li definirà sprezzantemente La Condamine), che da guardia marina erano stati promossi dalla sera alla mattina tenenti di vascello per non troppo sfigurare. Erano muniti di istruzioni molto precise, alcune ufficiali, altre segrete: in base alle prime, dovevano determinare le coordinate dei porti visitati, tracciare le carte delle città, ispezionare lo stato delle difese, raccogliere ogni possibile informazione su cantieri, risorse economiche, minerarie e naturali incluse le piante, suggerire riforme; in base alle seconde, dovevano sorvegliare strettamente i francesi che agli occhi di Madrid, più che scienziati, erano potenziali spie. Nell'attesa dei francesi, anche loro non avevano perso tempo, esplorando e cartografando la regione: tra le altre cose, in una miniera abbandonata nella selva del Chocó Ulloa osservò un metallo così duro da resistere alla calcinazione. Era la prima segnalazione del platino, di cui Ulloa è considerato lo scopritore. Un'impresa epica... e litigiosa Così riuniti, francesi e spagnoli si imbarcarono per Portobelo, da dove avrebbero raggiunto la costa del Pacifico addentrandosi a piedi nelle foreste dell'istmo di Panama, un cammino reso difficile dalla vegetazione impenetrabile, dalle punture di insetti e scorpioni, dagli incontri con animali selvatici di ogni tipo, ma soprattutto dalle dimensioni stesse della carovana, che comprendeva trenta muli carichi di abiti, tende, attrezzi da cucina, armi, acquavite e ovviamente strumenti astronomici, geodetici, topografici. Trovare un imbarco a prezzo accessibile per tanti bagagli e una quarantina di persone fu dunque tutt'altro che semplice; solo dopo quasi tre mesi gli esploratori poterono imbarcarsi sul San Cristobal, che li condusse a Manta, sulla costa dell'attuale Ecuador (marzo 1736). Bouguer e Godin incominciarono subito ad accapigliarsi: gli accordi tra Francia e Spagna prevedevano che venisse misurato l'arco di meridiano che passa per Quito (sull'altopiano, a circa 2850 metri sul livello del mare), ma Bouguer suggerì di misurarlo sulla costa, dove le operazioni sarebbero state più semplici e non sarebbe stato necessario trasporre i calcoli al livello del mare; Godin rifiutò, ben sapendo che i loro passaporti erano vincolati all'itinerario già stabilito e che le autorità locali li guardavano con sospetto. Concesse però a Bouguer e La Condamine di fermarsi qualche giorno sulla costa per determinare la posizione esatta dell'equatore. Fu così che per arrivare a Quito ognuno dei tre accademici fece gruppo a sé: Godin e gli spagnoli vi arrivarono per primi il 29 maggio 1736, seguiti a qualche giorno di distanza dagli altri. Per nessuna delle tre comitive fu una passeggiata: senza considerare seccature come il cibo troppo piccante o la mancanza di vino, ad accoglierli ci furono nuvole di moscerini, piogge torrenziali, foreste in cui bisognava aprirsi il cammino con le asce e orientarsi con la bussola, ponti di corda sospesi su abissi vertiginosi. Dopo diversi mesi dedicati alla preparazione logistica e alla verifica degli strumenti, le triangolazioni iniziano a ottobre nella pianura di Yaruqui e proseguono fino all'agosto 1738: viene misurato l'arco geodetico che da Quito arriva fino a Cuenca, per una lunghezza di oltre 300 chilometri. Come aveva previsto Bouguer, effettuare misure geodetiche in un territorio accidentato d'altura pone problemi non banali. In una regione in cui le cime superano i 5000 metri, capita che le basi di rilevazione coincidano con un burrone o una scarpata, gli strumenti devono essere spostati, smontati e rimontati rischiando di comprometterne il funzionamento. Per sistemare i punti di riferimento e osservare gli angoli, bisogna scalare montagne, sopportare il mal d'altura, il freddo, le piogge torrenziali, le nebbie, il vento che spazza via i segnali (senza contare quelli smantellati e rubati dagli indigeni), cui si aggiungono occasionali terremoti e eruzioni vulcaniche. Molto spesso le guide si rifiutano di proseguire; gli unici che non demordono, e condividono con scienziati e tecnici il merito del successo finale, sono gli schiavi neri, di cui non conosciamo né il numero né il nome. A tutte queste difficoltà, si aggiunse la situazione finanziaria sempre più drammatica: terminati i fondi inizialmente assegnati e mai giunti quelli richiesti a Parigi, i francesi furono costretti a chiedere prestiti al tesoro spagnolo o a commercianti locali, indebitandosi sempre più pesantemente; ogni tanto, bisognava interrompere i lavori per tornare a Quito per riparare gli strumenti e per cercare soldi, un'operazione solitamente affidata a La Condamine: figlio di un esattore delle imposte, sapeva come condurre le trattative e, soprattutto, godeva di un patrimonio personale da usare come garanzia. Così, ogni tanto partiva e si faceva centinaia e centinaia di chilometri per andare a Lima a battere cassa. Le intemperie, le difficoltà del cammino, le malattie e gli scontri con i locali diradarono le file della spedizione: nel 1736 l'aiutante geografo Couplet-Viguer morì di malaria; nel 1739 Siniergues, in seguito a un intrigo amoroso, venne assassinato durante una corrida a Cuenca. Anche due dei servitori morirono di morte violenta. A tutte queste difficoltà oggettive si aggiunsero i pessimi rapporti tra i tre accademici; Godin rifiutò di mostrare i suoi dati ai colleghi per un confronto. Quando, terminate le misure geodetiche nell'agosto 1738, passarono a quelle astronomiche, un errore di calcolo di Godin rilevato da Bouguer fece scoppiare una violenta lite. Per altro, la parte astronomica delle missione si rivelò anche più penosa e difficile di quella geodetica, con giorni e giorni persi ad attendere condizioni di perfetta visibilità, supporti resi instabili dai terremoti, la necessità di smontare, rimontare e rettificare continuamente gli strumenti, senza contare l'inesperienza di Bouguer e La Condamine che persero quasi due anni in un duro apprendistato. Le misure astronomiche, condotte dagli accademici divisi in tre équipes separate, richiederanno quasi cinque anni, fino al 1743. Terminato il loro compito, anziché rientrare insieme, i tre litigiosi scienziati francesi si divisero, a testimoniare il solco incolmabile che si era scavato tra loro. Pierre Bouguer ripercorse all'inverso la strada dell'andata, imbarcandosi per Panama e da qui per le Antille, quindi per Nantes. Nell'agosto 1744 era a Parigi, dove il suo ritorno quasi non fece notizia: che la Terra fosse appiattita l'aveva già dimostrato Maupertuis otto anni prima. In ogni caso, egli presentò all'Accademia una relazione in cui cercò di attribuirsi tutti i meriti, minimizzando i contributi di Godin e La Condamine. Quest'ultimo arrivò a Parigi solo alla fine del 1745, dopo un viaggio molto avventuroso che merita di essere raccontato in un post a parte, visto che coinvolge la botanica e gli ha guadagnato la dedica di un genere. Quanto a Godin, aveva deciso di ampliare la triangolazione, estendendola fino alla latitudine di Cuenca; continuò il suo lavoro con l'assistenza di Juan e Ulloa fino al maggio 1744. Oppresso da enormi debiti che non aveva modo di saldare, si trasferì poi a Lima dove lavorò come astronomo e professore; poté tornare in Europa solo quando la corona spagnola pagò i suoi debiti a condizione che si trasferisse a Cadice come professore dell'Accademia dei guardia marina (quella dove si erano formati Juan e Ulloa). Non sarebbe più tornato in Francia. Un botanico inquieto e sfortunato Godin non fu il solo membro della spedizione ad essere trattenuto nel Vicereame del Perù dai debiti o da nuovi affetti. Suo nipote Jean-Baptiste Godin des Odonais si sposò con una ragazza della buona società creola e tornò in Francia con la moglie solo nel 1773 dopo avventure a non finire; in una versione un po' romanzata, le ha raccontate Robert Whitaker in La moglie del cartografo. Il meccanico-orologiaio Théodore Hugot rimase a Quito, si sposò con una peruviana e morì nella selva, mentre era impegnato a sfruttare una miniera. L'ingegnere e disegnatore Jean Louis de Morainville divenne architetto e morì per la caduta di una trave mentre lavorava alla ricostruzione di una chiesa a Riobamba, nel 1764 o nel 1765. Un destino amaro attendeva anche il nostro botanico, Joseph de Jussieu. Prima di studiare medicina e botanica seguendo l'esempio dei fratelli, aveva studiato matematica con l'intenzione di diventare ingegnere. In vista del viaggio in Sudamerica si era preparato alla sua missione studiando l'erbario di Joseph Donat Surian, il compagno di viaggio di Plumier. Le soste in Maritinica, a Santo Domingo, Cartagena e Portobelo furono per lui altrettante occasioni di raccolta di specie esotiche. Una volta a Quito, dovette però limitare le sue escursioni botaniche sulla sierra (dove in genere era accompagnato dal disegnatore de Morainville) perché, grazie alle sue basi matematiche, fu attivamente coinvolto nelle misurazioni geodetiche. Ma soprattutto a sottrarlo alle ricerche botaniche fu la sua condizione di medico in una regione dove la presenza di personale sanitario preparato era inversamente proporzionale alla frequenza di epidemie. Nel 1736 e nel 1737, insieme a Siniergues, fu cooptato dal viceré del Perù per assistere la popolazione colpita da epidemie di vaiolo a Cuenca e a Guayaquil. Fu dunque solo nel 1739, quando terminarono le misurazioni geodetiche, che poté dedicarsi pienamente alle ricerche botaniche. Quell'anno si recò a Loja, dove scoprì diverse specie di Cinchona, di cui studiò le caratteristiche botaniche e farmaceutiche. Quando la spedizione si sciolse, pensò di unirsi a La Condamine, ma ne fu impedito da un attacco di febbre e dalla mancanza di mezzi, che lo costringevano a mantenersi esercitando la medicina. Nel 1745 aveva abbastanza soldi per pensare di partire, ma non poté farlo a causa di un decreto della Real Audiencia di Quito che vietava di lasciare la città. Nel 1747, ricevette l'ordine del ministro degli esteri francese Maurepas di raggiungere Godin a Lima per recuperare gli strumenti. Attraversò a piedi la provincia di Canelos dove studiò gli alberi di cannella (non si tratta della vera cannella, Cinnamomum verum, nativa dell'Asia, ma di una pianta della stessa famiglia oggi denominata Ocotea quixos); esplorò poi la valle del fiume Chambo, le pendici del vulcano Tunguragua e la valle centrale, dove fece importanti raccolte botaniche che inviò ai fratelli a Parigi, raggiungendo Lima nel 1748. Qui si unì a Godin e ad agosto si mosse con lui in direzione di Buenos Aires, visitando tra l'altro le sponde del lago Titicaca, dove raccolse molti esemplari di uccelli. Ma quando raggiunsero La Paz, dopo un viaggio di nove mesi, decise di separarsi del suo compagno per visitare le coltivazioni di coca a Yunga, continuando poi per Santa Cruz de la Sierra. Aveva intenzione di raggiungere Godin più tardi, ma ciò non avvenne mai. Infatti nel luglio 1750 l'inquieto botanico arrivò a Potosì, dove sorgevano le più importanti miniere d'argento dell'epoca, e vi si trattenne per cinque anni, esercitando la professione medica e interessandosi di opere idrauliche. Con la vista indebolita, depresso e debilitato dalle malattie e dall'esposizione ai vapori di mercurio, tornò a Lima nel 1755. La famiglia premeva perché tornasse a casa, ma gli mancarono sempre i mezzi per farlo. Solo nel 1771 poté tornare a Parigi: era ormai un vecchio dal corpo e dalle mente distrutti; lasciò dietro di sé a Lima erbari e manoscritti che Joseph Dombey fu incaricato di recuperare senza esito. Altri materiali erano andati perduti già in precedenza, rubati da un servo. Ammesso all'Accademia delle scienze per volontà degli influenti fratelli, Joseph de Jussieu non poté partecipare neppure a una seduta. Visse ancora otto anni, immemore e immerso nel suo mondo interiore. Tra le piante di cui gli viene attribuita l'introduzione Heliotropium arborescens. I suoi maggiori contributi riguardano la china (Cinchiona spp.), l'albero di cannella (egli la chiamò, in onore del suo re, Borbonia peruviana, oggi come abbiamo visto si chiama Ocotea quixos) e la coca (Erythroxylum coca). Marinai, scienziati, funzionari, spie... Ad eccezione di La Condamine, sul quale ritornerò, nessuno dei protagonisti francesi di questa spedizione (incluso il botanico Joseph de Jussieu) ha dato il suo nome a un genere botanico valido. Uno più che notevole celebra invece congiuntamente gli spagnoli Jorge Juan e Antonio de Ulloa. E' dunque ora di conoscerli meglio. I due "ragazzini" non solo si dimostrarono compagni di lavoro leali e affidabili, ma sfruttarono l'occasione per un apprendistato che fece di loro due esponenti di punta dell'illuminismo iberico. Come ho già accennato, al loro arrivo nel Vicereame si unirono a Godin, in quanto capo della missione, e solitamente fecero squadra con lui anche negli anni successivi. Condivisero i disagi, i pericoli e le malattie e furono determinanti per il completamento della missione, imparando ad usare strumenti che in Spagna non si erano mai visti, tanto da trasformarsi in provetti geodeti, cartografi ed astronomi. Come i francesi, erano ben accetti dagli ambienti colti e illuminati della colonia, e sospetti alle autorità, che li consideravano delle spie del governo centrale. Ritardi nell'atto di nomina e il rimborso del trasporto di alcuni bauli contenenti strumenti scatenarono una battaglia burocratica con il presidente dell'Audiencia di Quito e il suo tesoriere che si trascinò per anni. In tre occasioni, tra il 1740 e il 1744, in seguito alla ripresa delle ostilità con l'Inghilterra i due furono cooptati dal viceré del Perù per la difesa della costa. Per rispondere alla sua chiamata, nel 1740 essi percorsero in meno due mesi i 1800 km che separano Quito da Lima, guadando fiumi impetuosi, attraversando selve e deserti privi di acqua potabile, sempre accompagnati dai fedeli moscerini. Mentre attraversava un burrone, Ulloa cadde dal mulo, si ferì gravemente, viaggiando fino a Lima in condizioni molto difficili. Appena guarito, con il suo commilitone si occupò di organizzare la difesa dei porti più importanti della costa peruviana, di dirigere le costruzioni navali e disegnare le mappe delle principali città. Nel settembre 1741 erano di nuovo a Quito, ma ben presto furono richiamati dal viceré che, oltre a compiti simili a quelli già visti, affidò loro il comando di due brigantini mercantili trasformati in navi militari per contrastare la minaccia inglese (che, per loro fortuna, non si palesò). Quando tornarono a Quito per la terza volta, la spedizione era già in via di scioglimento. Come abbiamo già visto, affiancarono Godin nella triangolazione dell'area di Cuenca fino al maggio 1744. Poi partirono anch'essi per l'Europa, imbarcandosi su due diverse navi di una flotta francese che seguiva la rotta di Capo Horn. Nell'Atlantico, i vascelli si persero di vista ed ebbero sorte molto diversa: quello su cui viaggiava Juan ebbe una tranquilla navigazione e arrivò a Brest nell'ottobre 1745; l'ufficiale spagnolo proseguì per Parigi, dove espose le sue osservazioni astronomiche all'Accademia delle scienze (di cui divenne membro corrispondente), per poi rientrare a Madrid. Quello su cui era imbarcato Ulloa fu catturato dagli inglesi nei pressi di Terranova; Antonio gettò fuori bordo tutti i documenti, ad eccezione delle misure geodetiche. Imprigionato, fu condotto a Londra; ma appena si conobbe la sua identità, fu liberato e ammesso alla Royal Society per i suoi meriti scientifici. Una nave inglese lo ricondusse in patria, dove arrivò qualche mese dopo l'amico. Nominati capitani di vascello, Juan e Ulloa scrissero a quattro mani Observaciones astronómicas y físicas hechas en los Reinos del Perú e Relación histórica del viaje hecho de orden de su Majestad a la América Meridional, pubblicati nel 1748, debitamente epurati dalla censura, che fece cancellare tutte le beghe con le autorità coloniali, e dall'Inquisizione, che impose di presentare il sistema copernicano come un'ipotesi non provata. Entrambi ebbero poi carriere prestigiose e furono figure importanti della rinascita scientifica della Spagna del secondo Settecento. Ulloa, dopo un viaggio di studio in Europa, fondò lo Studio e Gabinetto di storia naturale, antenato dell'attuale Museo nazionale di scienze naturali e creò il primo laboratorio di metallurgia del paese. Divenne poi un importante funzionario coloniale, occupandosi tra l'altro del miglioramento del servizio postale tra America e madrepatria. Meno fortunato nella carriera militare, fu messo sotto processo quando fallì nel tentativo di riconquistare la Florida, ma terminò la sua carriera con il grado di ammiraglio e direttore generale dell'esercito spagnolo. Quanto a Juan, nel 1748 il ministro della marina lo mandò in Inghilterra a spiare i cantieri navali britannici per carpirne i segreti industriali. Riuscì a svolgere brillantemente l'incarico, convincendo anche ingegneri navali e operai qualificati a trasferirsi in Spagna con le famiglie; la polizia era sulle sue tracce e arrestò alcuni dei suoi contatti, ma egli riuscì a sfuggire di un soffio imbarcandosi clandestinamente su una nave diretta in Francia. Nel 1752, fu nominato direttore della Accademia dei Guardiamarina di Cadice, dove ritrovò il suo compagno di avventure Godin. Provetto matematico, applicò le sue conoscenze alle costruzioni navali, trasformò l'arsenale di Cadice in un laboratorio all'avanguardia. Fu tra i promotori della creazione dell'Accademia delle Scienze di Madrid, città dove fondò anche l'Osservatorio reale. Fu poi coinvolto nella creazione dell'arsenale di Ferreol e nella riorganizzazione della Scuola dei nobili. Fu autore di un importante compendio di navigazione e come astronomo elaborò un metodo di calcolo della parallasse solare. Liane epifite e grappoli aranciati Nel loro Florae Peruvianae, et Chilensis Prodromus del 1794 Ruiz e Pavon dedicarono molti nuovi generi a scienziati spagnoli, con il preciso intento di dimostrare che la scienza iberica aveva ormai raggiunto la maggiore età e la Spagna poteva competere alla pari con le altre nazioni europee anche in questo campo. In questo contesto, la dedica di un genere a Juan e Ulloa era obbligata: non solo erano due esponenti particolarmente brillanti del rinnovamento scientifico della Spagna, ma come esploratori del Vicereame del Perù e membri di una missione internazionale franco-iberica potevano essere considerati i diretti predecessori degli stessi Ruiz e Pavon. La pianta che scelsero per onorarli era singolare da diversi punti di vista: cresceva sui rami degli alberi della foresta pluviale peruviana e produceva fiori spettacolari di un caldo color arancio; credendo si trattasse di una pianta parassita, la chiamarono Juanulloa parasitica, unendo nel nome generico i nomi dei due dedicatari, in modo da sottolineare la loro stretta collaborazione e l'amicizia che li legò per tutta la vita. In realtà, le specie di questo piccolo genere della famiglia Solanaceae non sono parassite, ma semi epifite: possono crescere sia a terra, sia su alberi e rocce. Le sue nove-dieci specie sono distribuite tra il Messico e il Perù; la maggior parte sono liane, ma possono avere anche portamento arbustivo. Molte sono caratterizzate da vistose infiorescenze di fiori con corolle tubolari avvolte in calici pentagonali persistenti dai colori brillanti (rosso, giallo, arancio, viola). La specie più nota, disponibile anche da noi in vivai specializzati, è J. mexicana (spesso commercializzata con il sinonimo J. aurantiaca). E' una liana o un piccolo arbusto perenne sempreverde con foglie coriacee e racemi di fiori penduli con calice e corolla arancio brillante. In natura può essere epifita; proprio per questo si adatta molto bene alla coltivazione in vaso. Un cenno alle altre specie e alla loro distribuzione nella scheda. Gli spagnoli li chiamavano semplicemente amapola, "papavero" o copa de oro. Ogni anno, a milioni rivestono di un tappeto d'oro le praterie della California che li ha scelti come proprio simbolo floreale. A questi fiori così semplici, così campagnoli, è stato assegnato uno dei nomi botanici dalla grafia più terroristica, Eschscholzia californica. Eppure a ideare questa mostruosità è stato un poeta. La colpa, più che sua, è di una duplice trascrizione: dal tedesco al russo, quindi dal russo al latino della botanica. A farne le spese anche il buon dottor Eschscholtz (nato altrove, si sarebbe chiamato Escholz): lo abbiamo incontrato come membro della prima spedizione Kotzebue insieme all'amico Adelbert von Chamisso (il poeta in questione); ora ci farà da guida nella seconda. Scopriremo poi che Eschscholzia californica ha tante sorelle, bellissime e ardimentose foglie dei deserti. Un fiore semplice dal nome terroristico Nell'ottobre 1816, quando i russi gettarono l'ancora nella baia di San Francisco, Adelbert von Chamisso fu piuttosto deluso; in quella stagione ormai autunnale le fioriture erano ben poche e la maggior parte delle piante apparivano disseccate dal sole estivo; gli sembrava di vedere solo cadaveri vegetali, tanto che parlò di "botanica forense". A rallegrare lui e l'amico Eschscholtz, lo zoologo e medico di bordo della Rjurik, le ultime tardive fioriture di una papaveracea dai fiori d'oro, che Chamisso avrebbe poi battezzato Eschscholzia californica. Esuberanti e generose, in primavera fioriscono a milioni, ma le fioriture possono prolungarsi sporadicamente fino all'autunno. Fu così che a questo fiore dalla bellezza semplice fu associato un nome dalla grafia terroristica. Scopriamo perché. Johann Friedrich Gustav von Eschscholtz era un tedesco baltico, nato a Dorpat (oggi Tartu), di lingua tedesca ma suddito russo. La grafia originaria del suo cognome era Escholtz (o anche Escholz), che nella trascrizione in cirillico diventa Эшшольц, ripetendo due volte il carattere corrispondente al trigramma tedesco sch. Ritraducendo in alfabeto latino, il tutto produce appunto Eschscholtz, la forma adottata in tutte le sue opere a stampa dal nostro dottore. Chamisso si adeguò, denominando il genere che celebra l'amico Eschscholzia (se non altro, risparmiò una t). Eschscholtz aveva studiato medicina e chirurgia all'Università di Dorpat, divenendo il più promettente allievo e l'assistente di von Ledebour. Quando fu scelto come medico di bordo e zoologo della Rjurik aveva appena ventidue anni. Era un naturalista entusiasta, appassionato soprattutto di insetti, ma pronto a estendere le sue osservazioni a tutti i campi della natura. Tra l'altro, fu il primo a segnalare il fenomeno del ghiaccio fossile (o permafrost), che poté studiate nella penisola di Seward in Alaska. Come quelle di Chamisso, le sue collezioni botaniche furono pubblicate in diverse riviste e in appendice alla relazione di viaggio di Kotzebue, A voyage of discovery into the South Sea and Beering's Straits … undertaken in the years 1815-1818 … under the command of the Lieutenant … Otto von Kotzebue (1821). Al suo rientro a Dorpat, si sposò con la sorella del maestro e iniziò una promettente carriera accademica; nel 1819 fu nominato aggiunto di anatomia e nel 1822 direttore del gabinetto zoologico. Pubblicò anche le sue scoperte entomologiche in Entomographien (1822). Intanto in Russia si andava preparando una terza circumnavigazione del globo. Nuovamente affidata al comando di Kotzebue (che nel frattempo era stato promosso capitano), avrebbe dovuto riprendere gli obiettivi di quella precedente, ma con mezzi maggiori, a partire dalla nave, la Predpriatie, una fregata con un equipaggio di 145 persone (la Rjurik ne ospitava 32). A bordo ci sarebbe stata anche un'équipe scientifica, interamente formata da giovani studiosi dell'Università di Dorpat; a capeggiarla fu chiamato proprio il nostro Eschscholtz, che era anche il medico di bordo. Gli altri erano l'astronomo Ernst Wilhelm Preuss, il geologo Ernst Hoffmann e il chimico e fisico Emil Lenz. Come si vede, nessun botanico; evidentemente, l'ammiragliato condivideva il punto di vista di Kotzebue e di tanti capitani, a cominciare da Cook: in una spedizione oceanografica, i botanici non servivano a niente e creavano solo guai. La Predpriatie avrebbe anche dovuto scortare una flotta di rifornimenti per l'America russa. Ma all'ultimo momento gli obiettivi furono cambiati; vista la sempre più agguerrita concorrenza di cacciatori di pellicce di altre nazioni, avrebbe dovuto soprattutto proteggere gli interessi russi, scoraggiando la penetrazione altrui lungo la costa nordoccidentale dell'Alaska. La seconda spedizione Kotzebue La Predpriatie salpò da Kronstadt il 28 luglio 1823 e seguendo la rotta ormai consueta il 23 dicembre doppiava Capo Horn; dopo una breve sosta a Talcahuano in Cile, si diresse a Tahiti, passando per l'arcipelago delle Tuamotu, dove toccò diverse isole scoperte in spedizioni precedenti e ne scoprì una nuova, battezzata appunto Predpriatie. Kotzebue giunse a Tahiti il 14 marzo 1824 e, dopo aver incontrato diversi membri della London Missionary Society, ne ripartì il 24. Proseguendo verso nord, incontrò varie isole degli arcipelaghi della Società e delle Sottovento, scoprendo l'atollo di Motu Onu (ribattezzato Bellingshausen in onore del celebre esploratore russo). La rotta proseguì attraverso le Samoa, dove furono scambiati maiali e altre provviste con gli indigeni, la catena Radak e le Marshall, già toccate durante il primo viaggio. Dopo una breve sosta a Petropavlovsk in Kamčatka, i russi raggiunsero le Aleutine e l'avamposto di Novoarchangelsk (Sitka) in Alaska, dove trascorsero i mesi estivi, impegnati in operazioni di pattugliamento. Scendendo a sud per svernare, il 27 settembre gettavano l'ancora nella Baia di San Francisco; rispetto alla visita della Rjurik, la situazione politica era totalmente mutata. Ora sul forte sventolava la bandiera messicana (nel 1822 l'Alta California si era infatti resa indipendente dalla Spagna). Il soggiorno si protrasse fino alla fine di novembre; grazie all'ospitale comandante della piazza, Eschscholtz ebbe l'opportunità di viaggiare in battello fino a Santa Clara e soprattutto di visitare l'avamposto russo di Fort Ross, nei pressi di Sonora, che era stato creato nel 1812 dalla compagnia russo-americana. Fu un viaggio avventuroso nel corso del quale poté incrementare le sue raccolte di insetti e osservare molte specie di uccelli; emozionante il viaggio di ritorno con una flottiglia di baidarke, i kayak degli Aleutini al servizio della compagnia. A novembre, insieme al comandante (con cui cui si intendeva molto di più di Chamisso) risalì il fiume Sacramento in una piacevole gita di più giorni; osservarono molti animali selvatici e fecero una scorpacciata degli acini, piccoli ma dolcissimi, delle viti selvatiche che si arrampicavano sugli alberi lungo le rive, predicendo un sicuro futuro vinicolo alla California. Con molto sangue freddo, Eschscholz rese inoffensivo e catturò un piccolo serpente a sonagli; conseguenze più sgradevoli ebbe l'incontro con una puzzola. Il secondo soggiorno californiano di Eschscholtz fu molto più produttivo del primo: circa duecento specie di insetti, tutti ignoti alla scienza tranne uno; una vasta collezione di molluschi; numerosi uccelli e anfibi; una quarantina di specie di uccelli; in tutto, registrò circa 2400 animali. Raccolse anche qualche nuovo esemplare di pianta, anche se queste collezioni sono difficili da distinguere da quelle del 1816; le pubblicò infatti insieme in Descriptiones plantarum novae Californiae, adjectis florum exoticorum analysibus (1826) che è anche la prima pubblicazione scientifica nel cui titolo si menziona la California. Lasciata la quale, il 12 dicembre Kotzebue era di nuovo a Honolulu, dove fece omaggio al ministro Kalaimoku di una copia calcografica del ritratto del re Kamehameha dipinto da Choris. Alla fine di gennaio, lasciate le Hawaii, si tornò a nord, puntando direttamente sull'Alaska; i mesi da marzo a agosto 1825 vennero di nuovo trascorsi a Novoarchangelsk. Con la fine dell'estate, giunse il momento del ritorno; di nuovo a Honululu il 13 settembre, dopo una sosta di appena sei giorni, la Predpriatie, attraverso le Marshall e le Marianne, si diresse a Manila per le riparazioni necessarie ad affrontare l'Oceano aperto. Ne ripartì il 10 gennaio 1826 e, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, era di ritorno a Kronstadt il 10 luglio. Rispetto alla spedizione della Rjurik, quella della Predpriatie, che si mosse in gran parte lungo rotte già percorse e si trattenne per molti mesi in Alaska, fu molto meno ricca di scoperte geografiche, limitate ad alcuni atolli nelle Tuamotu, nelle isole della Società e nelle Marshall; uno fu dedicato proprio al nostro Eschscholtz, ma noi siamo abituati a chiamarlo con il nome locale Bikini. Rilevanti furono invece i risultati oceanografici, in particolare le misure delle temperature delle acque oceaniche profonde condotte da Emil Lenz (destinato a diventare un importantissimo scienziato). Di grande importanza per la storia della zoologia anche il lavoro di Eschscholtz, che, oltre che in California, fece raccolte significative di insetti anche in Alaska e nelle Hawaii. Nel 1825 nelle Marshall scoprì il primo esemplare di Balanoglossus. Di ritorno a Dorpat, fu nominato professore di zoologia e contribuì per le parti naturalistiche alla relazione di Kotzebue, nell'edizione inglese A new voyage round the world in the years 1823, 24, 25, and 26. Cominciò a lavorare a un grande atlante illustrato delle specie da lui scoperte; per identificare e classificare le numerose specie nuove di insetti (soprattutto coleotteri e lepidotteri), andò a Parigi a consultare l'esperto di coleotteri Pierre François Dejean. Purtroppo, morì improvvisamente ad appena 37 anni e il suo Zoologischer Atlas (1829-1833) uscì parzialmente postumo. Molte delle specie da lui raccolte furono descritte da altri, tra cui lo stesso Dejean, lo svedese Carl Gustaf Mannerheim e il tedesco naturalizzato russo Gotthelf Fischer von Waldheim. Una sintesi della vita troppo breve di questo grande zoologo nella sezione biografie. Eschscholzia, sognando California Il genere Eschscholzia, creato da Chamisso nel 1820, è strettamente legato alla California. Eccetto due, tutte le sue quattordici specie vi sono presenti; le spettacolari fioriture di Eschscholzia californica, la specie di nota e diffusa, in primavera trasformano le praterie della penisola in tappeti d'oro. La distesa più impressionante è la riserva dell'Antelope Valley nel deserto del Mojave, dove i "papaveri della California" coprono 1.745 acri; altre fioriture notevoli si possono godere nella Bear Valley, nel Carrizo Plain e a Point Buchon. Niente da stupirsi che siano stati scelti come simbolo floreale dello Stato di California. Piante adattabili, sono presenti in diversi habitat, dal livello del mare fino a 2000 metri, lungo la costa come nei deserti interni; prediligono le praterie aperte, ma crescono anche lungo le strade e in luoghi sassosi e sabbiosi. La fioritura è lunghissima, con un periodo che varia di anno in anno in base al regime delle piogge; può iniziare a febbraio e protrarsi fino a settembre (o oltre: come abbiamo visto, Chamisso e Eschscholtz la raccolsero a ottobre). E' anche piuttosto variabile, con varietà annuali e perenni; varia anche il colore dei petali: oltre al giallo aranciato prevalente, ci sono varietà giallo più o meno chiaro, bianche, rosate o rossastre. Ne hanno approfittato i vivaisti per creare numerose cultivar, alcune delle quali a fiori doppi. Diffusa nelle aree temperate di tutto il mondo come pianta da giardino, è arrivata anche dove non avrebbe dovuto. Si dice che quando finì la corsa all'oro, i minatori che andarono a cercare fortuna in Cile, in Nuova Zelanda e in Australia portarono con sé involontariamente i semi di E. californica mescolati alla sabbia della California usata come zavorra delle navi. Sia come sia, oggi in Cile i papaveri della California formano distese ancora più grandi e vigorosi di quelle della loro terra natale, a scapito delle piante native. Ma non c'è solo E. californica. C'è almeno una dozzina di altre specie, molte delle quali sono annuali degli ambienti desertici della California e degli stati adiacenti. Per conoscerle più da vicino, leggete la scheda, dove troverete anche informazioni sulle più interessanti cultivar di E. californica. Adelbert von Chamisso è uno dei più importanti scrittori della prima generazione romantica tedesca, noto soprattutto per il romanzo fantastico "Storia meravigliosa di Peter Schlemihl" ma anche per poesie che ebbero l'onore di essere musicate da Schumann. Meno nota al grande pubblico la sua attività di botanico, culminata con la nomina a curatore dell'orto botanico di Berlino. Ma soprattutto, proprio in questa veste partecipò alla seconda circumnavigazione russa, molto più ricca di scoperte naturalistiche della prima. Seguiamolo dunque lungo le tappe di quel viaggio in Brasile, Polinesia, Micronesia, Alaska, California; a tenere saldo il timone il capitano Kotzebue, che di un poeta era figlio; a ritrarre piante, animali e paesaggi esotici il notevole pittore Louis Choris; a raccogliere insetti e a collaborare nella raccolta di piante con Chamisso, cui lo legò un'amicizia fraterna, il medico di bordo e grande zoologo Johann Friedrich von Eschscholtz. L'importanza delle ricerche del nostro poeta-botanico è testimoniata dalle numerose piante che lo ricordano nel nome specifico e dai molti generi che gli furono dedicati, tre dei quali attualmente validi: Camissonia, Chamissoa, Camissoniopsis. Da Peter a Adalbert: come un poeta divenne naturalista Nato in una nobile famiglia francese con il chilometrico nome Louis Charles Adélaïde de Chamissot de Boncourt, la burrasca della rivoluzione francese lo priva del suo status e di una patria, e lo deposita a Berlino, dove diventa Adelbert von Chamisso. Gli anni dell'adolescenza e della giovinezza sono travagliati e solitari; figlio di due patrie l'una contro l'altra armate, è ovunque straniero: da militare nell'esercito prussiano, da insegnante mancato in Francia, da intellettuale in Svizzera alla corte di Mme de Stael e a Berlino tra i giovani esponenti del romanticismo. Vuole essere con tutte le sue forze un poeta, e un poeta tedesco, ma ancora gli manca la voce. Sotto forma di fiaba questo travaglio, questa instabilità trovano espressione della sua opera più nota, il romanzo breve "Storia meravigliosa di Peter Schlemiel", che iniziò a scrivere per divertire i figli di un amico e pubblicò nel 1814. La storia è semplice: Peter per conquistare la donna amata vende la sua ombra a un misterioso personaggio, che in realtà è il demonio. Diverrà ricco, ma, privo di ombra, sarà rigettato dal consesso umano, perdendo anche colei che ama. Alla fine, inaspettatamente, dopo aver donato in beneficenza quel denaro mal guadagnato, verrà per caso in possesso degli stivali delle sette leghe e si trasformerà in viaggiatore e scienziato; lasciamogli la parola: "Un antico errore mi precludeva ogni contatto umano e in compenso ero indirizzato alla Natura, oggetto da parte mia di incessante amore. La Terra sarebbe stato il mio giardino, lo studio il sostegno della mia vita, la scienza il mio traguardo!" E' l'allegoria del percorso esistenziale di Chamisso in quegli anni; in Svizzera ha iniziato a studiare scienze naturali, soprattutto botanica, e ha continuato quegli studi a Berlino, dove è tornato nel 1813. E qui i suoi stivali delle sette leghe si materializzano sotto forma di un articolo di giornale; legge che in Russia si sta preparando una grande spedizione intorno al mondo. Per dare ancora la parola a Peter, "Non si trattava di prendere una decisione, ma di accettare un'offerta". Adelbert muove tutte le sue pedine per cogliere questa occasione, sollecitando tra l'altro la mediazione del celebre drammaturgo August von Kotzebue. Che altri non è che il padre dell'ufficiale che comanderà la spedizione, Otto von Kotzebue. Sarà il caso di fare un passo indietro. Proprio mentre la spedizione Krusenstern ritornava in patria, in Europa riprendevano le guerre, rendendo impossibile per l'Impero russo finanziarne altre. Gli unici a continuare a crederci erano proprio Krusenstern e il ministro Rumjancev, soprattutto dopo la sua caduta in disgrazia e il ritiro dalla vita politica. Insieme elaborarono un nuovo progetto, più limitato ma non meno ambizioso. Cinquant'anni di sforzi avevano dimostrato che tutte le vie sperimentate fino ad allora per rifornire le colonie dell'America russa erano fallimentari: impossibile raggiungerle attraverso il mare Artico per l'impraticabilità di quel mare; troppo lunghe, costose e piene di insidie sia la via di terra attraverso la Siberia sia la via di mare, circumnavigando il globo. Rimaneva una quarta possibilità: trovare il passaggio a Nord ovest che, mettendo in collegamento il Pacifico con l'Atlantico, dimezzasse d'un tratto la distanza tra la Russia e l'Alaska. L'avevano già cercato inutilmente Cook, Vancouver e molti altri; ciò non di meno, lo sperimentato uomo di mare e il vecchio ministro ci credevano davvero. La spedizione, integralmente finanziata da Rumjancev, sarebbe stato limitata negli obiettivi, nei mezzi e negli uomini. Una sola piccola nave, il brigantino Rjurik, armato con 8 cannoni e costruito sotto la supervisione dello stesso Krusenstern; 32 uomini tra ufficiali, marinai e scienziati; istruzioni precise: raggiungere lo stretto di Bering ripercorrendo la rotta della spedizione Krusenstern; in una prima campagna estiva, trovare punti d'ancoraggio adeguati a nord dello stretto; in una seconda campagna, cercare il possibile imbocco del passaggio a nord-ovest. Sarebbe stata una spedizione oceanografica, ma anche naturalistica; a bordo, una piccola équipe di scienziati. C'era un abile disegnatore, Louis Choris, che benché avesse appena vent'anni aveva già partecipato a una spedizione in Caucaso; due i naturalisti inizialmente previsti, il botanico Carl Friedrich von Ledebour dell'Università di Dorpat/Tartu e il suo allievo Johann Friedrich Eschscholtz (o Escholtz) come zoologo e medico di bordo. La rinuncia di Ledebour per motivi di salute aprì le porte al nostro Adelbert von Chamisso, che avrebbe servito anche come interprete. Durante la sosta a Copenhagen si aggiunse come volontario il botanico danese Morten Wormskjold. Merita due parole di presentazione anche il comandante Otto von Kotzebue; al momento della partenza aveva 27 anni, ma era già un veterano dei viaggi transoceanici. Il padre, come si è detto, era il celebre drammaturgo August, la madre un'esponente di un'importante famiglia della nobiltà tedesco-baltica; entrato all'accademia militare a sette anni, alla morte della madre, aveva incominciato ad appassionarsi di mare e di viaggi; a sedici anni non ancora compiuti, insieme a suo fratello Moritz, di due anni più giovane, aveva servito come guardiamarina sulla Nadežda, l'ammiraglia della spedizione Krusenstern (cugino della sua matrigna). Promosso luogotenente, era la persona ideale per raccogliere il testimone del suo vecchio comandante e guidare la seconda circumnavigazione russa intorno al globo. Alla ricerca del passaggio a nord-ovest Con la benevola approvazione dello zar Alessandro (che non ci mise un rublo ma concesse l'uso della bandiera militare russa), la Rjurik partì da Kronstadt il 30 luglio 1815 e inizialmente si attenne alla rotta della spedizione Krusenstern, con brevi soste a Copenhagen, Plymouth, Tenerife, Santa Catarina in Brasile. Il passaggio di Capo Horn fu difficile, con una tempesta durata sei giorni durante la quale il comandante stesso rischiò di cadere fuori bordo; fu così necessaria una sosta nel porto cileno di Talcahuano (raggiunto il 13 febbraio 1816); il governatore, che all'inizio li aveva scambiati per pirati, li ricevette con grandi onori. Ripartiti il 28 marzo, toccarono l'isola di Pasqua (dove furono molto delusi di non vedere i moai, che si trovavano sull'altro lato dell'isola). Kotzebue decise di puntare direttamente a nord, per raggiungere al più presto la Kamčatka . Lungo la rotta, vennero avvistati e mappati diversi atolli, tra cui le isole Krusenstern nelle Tuamotu. Già il 7 giugno 1816 la Rjurik attraccava a Peterpavlosk, dove venne rivestita di rame, per resistere all'urto dei ghiacci. Il 3 luglio riprendeva il mare, lasciando a terra uno dei tenenti, malato, e il botanico Wormskjold, che si era messo in conflitto con il comandante (esce così dalla nostra spedizione cui non ebbe modo di offrire molti contributi). Con a bordo due soli ufficiali (il comandante Kotzebue e il primo ufficiale Grigorij Šišmarev), durante l'estate la Rjurik esplorò e mappò il grande spazio di mare compreso tra l'isola di San Lorenzo e la costa dell'Alaska; alla metà di agosto, virò verso sud e il 26 agosto era nella baia di Illyuk, nell'isola di Unalaska. Finalmente una sosta per i frustrati naturalisti, che fino ad allora avevano avuto ben poche occasioni di scendere a terra; Eschscholtz era talmente eccitato che si attardò nelle raccolte finché fu sorpreso dal tramonto e rischiò di essere lasciato a terra dal poco paziente comandate. Era infatti ora di lasciare quelle latitudini settentrionali per andare a svernare a sud. Partita da Unalaska il 14 settembre, il 1 ottobre la Rjurik gettava l'ancora nella baia di San Francisco. Rispetto allo scopo principale della spedizione, le raccolte naturalistiche erano solo secondarie, e il comandante non aveva mancato di farlo notare. Lo spazio su quella piccola nave era molto scarso; tutti i materiali dovevano essere immagazzinati il prima possibile in casse nella stiva, e non lasciati a ingombrare il ponte, pena essere gettati quando prima fuori bordo. A consolare Chamisso dalla relazione non idilliaca con il burbero comandante, c'era l'amicizia con Eschscholtz, in cui aveva trovato un'anima gemella (di lui disse "Era riservato ma sincero e nobile come l'oro"). Era uno zoologo di grande talento, soprattutto un entomologo, ma collaborava con entusiasmo anche alla raccolta delle piante. Dopo l'aspra natura del Nord, la California appariva ricca di promesse. Anche se ormai era autunno e poche piante erano in fioritura, non mancavano le specie interessanti e nuove per la scienza. Alla fine il bottino fu di due nuovi generi (Lessingia e Escscholzia) e trentatré nuove specie, tra cui Lupinus chamissonis, Plagiobothrys chorisianus (in onore del pittore Choris), Lonicera ledebourii (dedicato da Eschscholtz al suo maestro), Frankenia salina, Carex pachystachya, e la più famosa di tutte, Eschoscholzia californica. Lasciata San Francisco il 20 ottobre, la Rjurik proseguì per Honolulu (15 novembre-2 dicembre) dove il capitano incontrò il re Kamehameha per risolvere una crisi diplomatica causata dal tentativo di penetrazione nelle isole di altre navi russe. Facendo rotta verso nord, toccò poi nuovamente le Marshall già visitate l'anno precedente e mappò altre isole nella catena Rodak; in una di queste volle unirsi a loro un isolano di nome Kadu, che divenne presto amico di Chamisso e suo informatore sui costumi dei suoi conterranei. Il 1 aprile, mentre si dirigeva verso Unalaska, la Rjurik incappò in una tempesta che spezzò il bompresso; diversi marinai furono feriti, ma il più grave era proprio il capitano, che non riuscì più a lasciare il letto. Anche la nave aveva subito gravi danni. Nonostante ciò, giunto a Unalaska il 12 aprile, Kotzbue era deciso a riprendere l'esplorazione estiva utilizzando piccole imbarcazioni manovrate da Aleutini ingaggiati allo scopo. Ma quell'anno il disgelo era in ritardo e la salute del comandante andava peggiorando, tanto che Eschscholtz il 10 luglio, quando fu raggiunto il capo orientale dell'isola di San Lorenzo, lo pregò di desistere, se non voleva rischiare la vita. Il 12 luglio Kotzebue ordinò di rientrare a Unalaska; da qui si proseguì verso sud per le Hawaii, le Marshall, dove fu sbarcato Kadu, e Manila (gennaio 1818) dove la Rjurik venne riparata per affrontare il viaggio di ritorno, attraverso l'Oceano Indiano, il Capo di Buona Speranza (30 marzo) e l'Oceano Atlantico. Dopo un viaggio di 3 anni e 5 giorni, il 3 agosto giungeva infine a Kronstadt. Durante il viaggio, Chamisso e Eschscholtz avevano dovuto sperimentare la frustrazione comune a tutti i naturalisti coinvolti nelle grandi navigazioni: lunghi tratti di mare, soste brevi, l'impazienza degli ufficiali per i quali i "signori naturalisti" erano quasi un peso, l'ignoranza dei marinai (più di una volta le loro preziose erbe divennero imbottiture per i cuscini o furono gettate in mare), ma non si scoraggiarono mai, mettendo insieme una collezione imponente: nelle Aleutine, in California, alle Hawaii, nelle Filippine dovettero raccogliere circa 2500 specie di piante, almeno un terzo delle quali all'epoca ancora non descritte . Per lo studio e la pubblicazione, quelle di Chamisso furono affidate all'orto botanico di Berlino, quelle di Eschscholtz all'Università di Tartu/Dorpat. Riconoscimenti botanici Alla fine del viaggio, Adelbert-Peter aveva ritrovato la sua ombra. Come desiderava, aveva conosciuto il mondo; una grande amicizia aveva infranto il suo muro di solitudine; le scoperte scientifiche gli avevano restituito un ruolo e uno status. L'università di Berlino gli concesse la laurea honoris causa e lo nominò secondo curatore dell'orto botanico; fu ammesso all'Accademia delle Scienze; pubblicò diversi lavori botanici e un piacevolissimo resoconto del suo viaggio (Reise um die Welt, 1836); si sposò e mise su famiglia. Tanti impegni che lo distolsero da quella che in giovinezza aveva sentito come la sua vocazione più profonda, la poesia. Ricominciò a scrivere alla soglia dei cinquant'anni; a partire dal 1829, prese a pubblicare qualche lirica in Deutsche Musenalmanach ("Almanacco Tedesco delle Muse") e nel 1831 diede alle stampe la sua opera più apprezzata, Frauenliebe und -leben ("L'amore e la vita delle donne"), celebre soprattutto per essere stato musicata da Schumann. Ne potete ascoltare qui l'angelica interpretazione di Elly Ameling. Un profilo biografico del nostro poeta-naturalista nella sezione biografie. Per l'indubbio valore delle sue scoperte ma sicuramente anche per la sua duplice condizione di naturalista e poeta, Chamisso ricevette numerosi riconoscimenti nella tassonomia botanica. Sono parecchie decine le specie che si fregiano dello specifico chamissonis, dalla californiana Arnica chamissonis all'hawaiana Cyrtosperma chamissonis, dall'artica Campanula chamissonis alla tropicale Vanilla chamissonis. Gli sono stati dedicati almeno sei generi, di cui tre attualmente riconosciuti. Iniziamo da quelli che non lo sono: Adelbertia (sinonimo di Meriania), dedicatogli da C.D.F. Meisner nel 1837; Chamissomneia (sinonimo di Schlechtendalia), da Kuntze nel 1891; Chamissoniophila (sinonimo di Antiphytum), da Brand nel 1929. La prima dedica tuttora valida arrivò da Kunth, il collaboratore di Bompland e di Humboldt (che possiamo considerare l'eroe e il grande ispiratore di Chamisso) già nel 1817. E' Chamissoa, che include due specie di Amarantaceae native delle Americhe. La più nota è C. altissima, una grande liana diffusa nelle foreste tropicali umide di centro e sud America, con pannocchie di piccoli fiori bianchi e foglie dalle proprietà officinali. Qualche notizia in più nella scheda. L'anno successivo Johann Friedrich Link, superiore di Chamisso in quanto direttore dell'orto botanico di Berlino, gli dedicò Camissonia (nella grafia latinizzata senza acca), sulla base di una graziosa Onagracea che Adelbert aveva raccolto in California. La regione floricola californiana è infatti il centro di biodiversità di questo genere con una storia tassonomica travagliata; oggi gli sono assegnate una dozzina di specie, tutte degli Stati Uniti sud-occidentali, ad eccezione di una sola specie centro e sudamericana. Sono piccole annuali delle aree desertiche con semi capaci di attendere anni la prima pioggia; quando arriverà, germoglieranno e dopo qualche mese trasformeranno quelle plaghe aride in una distesa di fiorellini d'oro. Qualche approfondimento qui. Questo genere, che è arrivato a comprendere oltre 60 specie, è stato ripetutamente sottoposto a revisione finché recentemente è stato smembrato in ben nove generi più piccoli. Uno di essi è Camissoniopsis,W.L. Wagner & Hoch 2007, letteralmente "simile a Camissonia", che comprende quattordici specie di annuali e perenni di breve, tutte presenti in California, anche se alcune di esse si spingono in Oregon, Nevada, Arizona, Baja California. Sono molto simili a Camissonia, ma assai più ramificate e con portamento prevalentemente prostrato. Anch'esse di adornano di piccoli ma deliziosi fiori dorati, che è valso a loro e alle consorelle il nome volgare suncup. Per una selezione delle specie più interessanti si rimanda alla scheda. Altri protagonisti: Wormskjold e Choris Per concludere, due parole sugli altri protagonisti di questa storia che sono stati celebrati da un genere botanico. Tanto onore è toccato, oltre a Chamisso, a Eschscholtz, Wormskjold e Choris. Eschscholtz e il magnifico genere Eschscholtzia meritano un post tutto per loro. Quanto a Morten Wormskjold (1783-1845), nel 1827 il connazionale Peter Thonning gli dedicò Wormskioldia, oggi sinonimo di Tricliceras (Turneraceae). Fu un botanico di un certo rilievo; prima della spedizione Kotzebue, aveva partecipato a viaggi botanici in Norvegia e Groenlandia. Dopo essere stato lasciato in Kamčatka, vi rimase fino al 1818, raccogliendo molti esemplari (sfortunatamente andati perduti in un incendio insieme ai suoi appunti). Gli furono dedicati anche l'alga Urospora wormskioldii e alcune piante come Trifolium warmskioldii. Anche il pittore Louis o Ludwig Choris (1795-1825) fu un personaggio di notevole interesse. Nato in Ucraina da genitori tedeschi, andò a Pietroburgo a studiare arte, ricevendo una formazione anche in scienze naturali. Diciottenne, fu l'artista della spedizione Biberstein in Caucaso; nel 1815 fu scelto tra diversi concorrenti come artista della spedizione Kotzebue, nel corso della quale produsse numerosi acquarelli di grande qualità, in cui ritrasse con realismo e grande vivacità paesaggi, scene di vita quotidiana, indigeni nei loro costumi, animali e piante. Dopo la spedizione, andò a Parigi dove studiò litografia e fu allievo di importanti artisti come Regnault. A partire dai suoi disegni, preparò le tavole che illustrano i diari di viaggi di Kotzebue e Chamisso. Nel 1822 pubblicò in francese il proprio, Voyage pittoresque autour du monde, che contiene anche testi di Cuvier e Chamisso. Nel 1826 comparvero altre 24 litografie sotto il titolo Vues et paysages des régions équinoxiales. Nel 1827 il Jardin des Plantes di Parigi lo inviò in centro e sud America; poco dopo il suo arrivo in Messico, nel 1828 fu assassinato da banditi di strada. Nel 1822 Kunth, che come abbiamo visto aveva reso omaggio anche a Chamisso, creò in suo onore il genere Chorisia (Bombacaceae/Malvaceae), un nome probabilmente ben noto agli appassionati perché ne facevano parte due tra le più belle specie di alberi di fiore, C. speciosa e C. insignis. Ho usato il passato perché il genere è stato sottoposto a revisione nel 1998 da Ravenna, che ha proposto di farlo confluire in Ceiba. Ne sono seguite discussioni, con prese di posizioni diverse, ma oggi prevale la confluenza in Ceiba, anche se nell'uso comune e in molti manuali di giardinaggio Chorisia è tuttora ben presente. Aver partecipato a un viaggio intorno al mondo non bastava a spegnere la sete di conoscenza di Georg Heinrich von Langsdorff, uno dei naturalisti della spedizione Krusenstern. Così, invece di completare la circumnavigazione con i suoi compagni, al ritorno dal Giappone preferì andarsene in Alaska, e da lì in California, da dove rientrò in Russia due anni dopo gli altri, non senza aver attraversato a piedi la Siberia. Ce n'era abbastanza per gettare le basi di una brillante carriera accademica, ma quando gli si presentò l'occasione di andare in Brasile come rappresentante diplomatico dell'Impero russo, sentì irresistibile il richiamo di quel paradiso dei naturalisti che durante la spedizione Krusenstern aveva appena potuto intravvedere. In Brasile, dove sarebbe rimasto 17 anni, fondò una fazenda e la trasformò in un centro d'attrazione per i numerosi naturalisti che visitavano il paese; sostenne e sponsorizzò alcune spedizioni, ad altre partecipò di persona, come quella che lo vide esplorare lo stato di Minas Gerais insieme a Augustin de St. Hilaire. Ma soprattutto organizzò e diresse un'epica spedizione da Sao Paulo a Parà, sul Rio delle Amazzoni (1822-28), che purtroppo gli costò la salute fisica e mentale. Riportato dai suoi in Germania, visse ancora a lungo, ma, privo di senno, non ricordava neppure di essere stato in Brasile. Purtroppo per la scienza, ciò significò che le sue enormi collezioni giacquero dimenticate e inedite nei magazzini di varie istituzioni russe per oltre un secolo. Non era stato dimenticato però nella tassonomia botanica, dove lo ricorda il singolare genere parassita Langsdorffia. Fame in Alaska e una deludente visita a San Francisco La nostra storia inizia in un albergo di Copenhagen, in una giornata di fine agosto 1803. L'albergatore informa un cliente appena arrivato che proprio lì alloggiano alcuni ufficiali delle navi Nadežda e Neva. Quel viaggiatore è il medico tedesco Georg Heinrich von Langsdorff; qualche mese prima, quando ha saputo della spedizione, ha presentato la sua candidatura come naturalista, ma, nonostante le raccomandazioni, essa è stata respinta. Gli è stato detto che un naturalista c'è già (lo conosciamo, è Wilhelm Gottlieb Tilesius). Ma Langsdorff non è tipo da rassegnarsi; si è precipitato a Copenhagen per perorare la sua causa e ora il caso l'ha condotto nel posto giusto. Gli sembra un auspicio fortunato che lo incoraggia a presentarsi all'ambasciatore Rezanov il quale lo ascolta benevolo e lo accompagna dal comandante Krusenstern. Anche il capitano si convince, e Langsdorff diventa il secondo naturalista della prima circumnavigazione russa del globo. Al momento, aveva sono 29 anni, ma non era un novellino; era stato in Portogallo come medico militare, aveva visitato Londra e Parigi. Come il suo contemporaneo Humboldt, era posseduto dal sacro fuoco della ricerca e quel viaggio intorno al mondo sembrava fatto per lui. La realtà però si dimostrò inferiore alle aspettative: pochi soggiorni a terra, nessun aiuto nelle ricerche, difficoltà a preparare e conservare adeguatamente gli esemplari in quei climi estremi, la rivalità latente con il più anziano Tilesius. Così, quando si presentò l'occasione di abbandonare la spedizione per nuovi orizzonti, non ebbe molte esitazioni. Come ho già raccontato in questo post, dopo sei mesi di semi prigionia in Giappone (Langsdorff li aveva passati a studiare e descrivere pesci), nel giugno 1805 la Nadežda giunse in Kamčatka dove l'ambasciatore Rezanov trovò l'ordine di recarsi ad ispezionare gli avamposti russi in Alaska. Chiese dunque a Langsdorff di accompagnarlo come medico personale; il tedesco, nonostante temesse di offendere l'ottimo comandante Krusenstern, non poté resistere alla prospettiva di visitare quelle regioni remote, selvagge e quasi ignote alla scienza. Si imbarcò così con Rezanov e i suoi accompagnatori sulla Maria, alla volta prima delle Aleutine, poi di Sitka (o Novoarchangelsk). Nell'America russa trovarono una situazione allarmante, peggiorata dal loro stesso arrivo; le provviste incominciavano a scarseggiare e sempre più persone si ammalavano di scorbuto. Nel porto di Sitka giunse però, in cerca di acqua e del legname necessario per riparazioni, il mercantile americano Juno. Rezanov e il governatore Baranov lo acquistarono completo di tutte le attrezzature e lo inviarono a Kodiak per provvedere alle esigenze più immediate. Ma non bastò. Ormai la situazione era drammatica e peggiorava di giorno in giorno. Rezanov decise così di andare a cercare provviste a San Francisco, in California, che all'epoca consisteva di una missione francescana e di un presidio militare spagnolo. Ovviamente, Langsdorff lo accompagnò. Partita da Sitka alla fine di febbraio 1806, un mese dopo la Juno faceva il suo ingresso nel Golden Gate e, grazie al fascino e all'abilità diplomatica di Rezanov, a maggio ne ripartiva con le stive piene di provviste. La colonia era salva, ma Langsdorff ne aveva avuto abbastanza dell'America russa. Durante la sosta in California, aveva dovuto limitarsi a visitare i dintorni della missione; l'unica volta che era riuscito ad allontanarsi per un'escursione di tre giorni, al suo ritorno aveva trovato gli animali da lui catturati morti e tutte le piante spazzate via dalle onde. Obbligato a trascorre quasi tutto il suo tempo a bordo, senza alcun aiuto nelle ricerche naturalistiche, venne boicottato in tutti i modi (alcune pelli che aveva posto a seccare sul ponte furono gettate vie e la carta usata per essiccare le piante finì inavvertitamente nel fuoco). Alle sue proteste, gli era stato obiettato che era lì per fare il medico e l'interprete (grazie al portoghese e al latino, che gli permetteva di comunicare con i frati). Decise così che, appena rientrato a Sitka, avrebbe chiesto di andarsene sulla prima nave. Cosa che fece imbarcandosi il 18 giugno sulla Rostislav insieme al capitano Wolfe, l'ex comandante della Juno, con cui aveva stretto amicizia. L'imbarcazione era molto piccola e lenta ed arrivò in Kamčatka solo a settembre. Langsdorff dovette rassegnarsi a trascorrervi l'inverno. Nel frattempo, anche Rezanov aveva lasciato Sitka a bordo della Juno, molto più veloce, ed era arrivato a Okhotsk a settembre, proseguendo immediatamente per San Pietroburgo; gli premeva di arrivare al più presto perché a San Francisco si era innamorato, ricambiato, della figlia del comandante del presidio spagnolo, e per sposarla era necessario il permesso dello zar. Ma durante il viaggio si era ripetutamente ammalato e a marzo dell'anno successivo era morto a Krasnojarsk. Non appena sbarcato a sua volta a Okhotsk a giugno, Langsdorff ne fu informato e probabilmente si pentì di aver abbandonato il suo protettore quando aveva più che mai bisogno di lui, tanto che volle andare a rendere omaggio alla sua tomba. Dopo aver attraversato la Siberia a piedi, nel marzo 1808 era finalmente a San Pietroburgo, dove avrebbe potuto intraprendere una tranquilla vita di accademico. Brasile: una fazenda modello Il destino e la sua sete di avventure e conoscenza decisero altrimenti. Nel 1808, quando il suo paese fu invaso dai francesi, il re del Portogallo Giovanni VI aveva trovato rifugio con la sua corte in Brasile, stabilendosi a Rio. Nel 1812 lo zar decise di inviare un console a Rio de Janeiro e la sua scelta cadde su Langsdorff, che parlava perfettamente il portoghese e oltre che medico e naturalista era anche barone, e ormai suddito russo, con il nome russificato Grigorij Ivanovič Langsdorf. Era un'opportunità favolosa. Le frontiere del Brasile fino ad allora erano rimaste chiuse agli stranieri e i suoi immensi tesori naturalistici erano quasi totalmente sconosciuti alla scienza. Langsdorff, che ne aveva avuto un misero assaggio durante lo scalo della spedizione Krusenstern a Santa Catalina, era al settimo cielo. Deciso ad unire ai doveri diplomatici l'esplorazione scientifica, fece venire a San Pietroburgo come suo assistente il giovane zoologo Georg Wilhelm Freyreiss e partì con lui per il Brasile; obbligati a passare l'inverno in Svezia, giunsero a Rio solo nel 1813. Nel 1816 Langsdorff acquistò una proprietà a nord della capitale, nei pressi di Porto Estrella, con l'intenzione di trasformarla in una piantagione modello; chiamata Mandioca, era basata sulla policoltura di manioca, caffè (fu tra i primi a coltivarlo), miglio, batate, indaco e noce moscata e sull'impiego di tecniche agricole d'avanguardia. All'inizio era lavorata da schiavi, ma Langsdorff, deciso a sostituirli con salariati europei, tra il 1820 e il 1821 fece un viaggio in Europa per promuovere l'emigrazione di coloni in Brasile. A Mandioca portò poi con sé un gruppo di tedeschi, che ebbero difficoltà ad adattarsi e finirono per rivoltarsi e furono sostituiti da coloni svizzeri. Dopo la partenza di Langdsdorff per la sua grande spedizione, nel 1826, la piantagione fu espropriata, ma nei suoi dieci anni di vita fu un centro d'attrazione per i numerosi naturalisti europei che visitarono il paese, spesso proprio su invito o stimolo di Langsdorff, che l'aveva dotata di una eccellente biblioteca naturalistica, di un museo della flora e della fauna locale e di un curatissimo giardino botanico. A visitarla furono tantissimi: oltre alla coppia reale costituita dall'imperatore Pedro I e da sua moglie Leopoldina d'Asburgo, protettrice delle scienze, tra loro troviamo Friedrich Sellow, von Martius e von Spix, il Principe Maximilian Alexander Philipp zu Wied-Neuwied, William Swainson, Augustin Saint-Hilaire. Inoltre, alternava all'attività diplomatica e alla gestione della piantagione brevi spedizioni nei dintorni di Rio. Finanziò la spedizione di Freyreiss e Sellow nel Nordeste e tra il dicembre 1816 e il marzo 1817 esplorò insieme a Saint Hilaire la provincia di Minas Gerais. Il suo sogno era però una grande spedizione nelle inesplorate regioni dell'interno. Nel giugno 1821, al termine del viaggio europeo, andò a San Pietroburgo a presentare il suo progetto al vice cancelliere Nasselrode e allo zar Alessandro I, che garantì il suo appoggio e larghi mezzi finanziari. Una grandiosa e sfortunata spedizione A Langsdorff venne lasciata carta bianca nella scelta dell'itinerario e nell'organizzazione; rimase in Europa fino alla fine dell'anno, per acquistare l'equipaggiamento necessario e ingaggiare un'équipe di eccellenti specialisti. Ne facevano parte il botanico prussiano Ludwig Riedel, l'ufficiale cartografo russo Nester Gavrilovič Rubcov, lo zoologo francese Edouard Ménétries e il pittore bavarese Johann Moritz Rugendas. Tra i partecipanti, anche Karl von Drais, l'inventore della bicicletta, in qualità di agrimensore. Preceduto da Riedel, che si trovava già in Brasile, e da Rubcov, giunto a Rio in avanscoperta nel febbraio 1822, Langsdorf partì da Brema alla fine del 1821, insieme a Ménétries, Rugendas e 85 coloni tedeschi e giunse a Rio a marzo dell'anno successivo. Trattenuto nella capitale per i suoi doveri diplomatici in un momento delicato della vita politica brasiliana, poté dedicarsi all'organizzazione della spedizione solo all'inizio del 1824. Ottenuta l'autorizzazione imperiale a febbraio, la spedizione si mise in cammino all'inizio di maggio. Il progetto iniziale di Langsdorff era viaggiare in direzione nord seguendo il fiume Paraiba nella regione mineraria di Minas Gerais, per poi proseguire verso le province di Goais e Mato Grosso. Ma la strada diretta tra Minas Gerais e Mato Grosso risultò impraticabile per una spedizione di quelle proporzioni; inoltre Rugendas e Ménétries rifiutarono di continuare, per dissensi personali con Langsdorff. Fu gioco forza ritornare a Rio; qui i defezionisti furono sostituiti dal giovane zoologo prussiano Christian Friedrich Hasse e da due artisti francesi, Aimé-Adrien Taunay e Antoine-Hércule Florence. La spedizione poté ripartire solo nella seconda metà del 1825; mentre Riedel e Hasse si dirigevano a Sao Paulo via terra, gli altri si imbarcarono per il Porto di Santos, da dove avrebbero raggiunto Sao Paulo. Dopo diversi mesi trascorsi a esplorare quella provincia, nel giugno 1826 gli esploratori si imbarcarono a Porto Feliz per risalire il fiume Tietê fino a Cuiabá, la capitale del Mato Grosso, dove giunsero a gennaio 1827 e stabilirono il quartier generale fino a novembre. A questo punto si divisero in due gruppi: il primo, che comprendeva Langsdorff, Rubcov e Florence, si mosse verso nord per raggiungere Santarém sul Fiume delle Amazzoni, dove in effetti giunsero il 1 giugno 1828. Ma lungo la strada tutti si ammalarono di febbri tropicali, compreso il barone, che incominciò a dare segni crescenti di follia e nel maggio 1828, mentre si trovavano sul fiume Juruena, perse la memoria. L'altro gruppo, con Riedel e Tauney, risalì il fiume Guaporé, dove Tyaney annegò nel gennaio 1828; quindi continuarono lungo i fiumi Mamoré e Madeira fino a Manaus, dove li raggiunse l'ordine di andare al porto di Belem, sull'Atlantico, dove i due gruppi si ricongiunsero e si imbarcarono per Rio. Vi arrivarono nel marzo 1829, dopo aver percorso oltre 6000 km. Il barone Langsdorff versava in uno stato di estrema prostrazione fisica e di disordine mentale; mentre Pieter Kielchen, il viceconsole russo, provvedeva a spedire a San Pietroburgo i materiali raccolti (i più interessanti sono le testimonianze etnografiche sui numerosi popoli indigeni incontrati), insieme alle collezioni e ai manoscritti di Langsdorff, egli fu ricondotto in Germania da un amico. Visse ancora vent'anni, senza mai recuperare il senno e la memoria. Non ricordava neppure un giorno di quelli passati in Brasile. Per una sintesi della vita, si rimanda come al solito alla sezione biografie. Il frutto delle sue ricerche subì lo stesso destino. La sua spedizione e il suo contributo alla conoscenza della natura brasiliana furono dimenticati. Le raccolte finirono a Pietroburgo, disperse tra i magazzini del Museo Etnografico, del Museo Navale, del Museo Zoologico e dell'Accademia delle Scienze, i manoscritti non furono pubblicati fino al 1948, quando ne uscì una parziale edizione russa. Solo il bicentenario della nascita, nel 1974, celebrato con un convegno internazionale, ha portato alla riscoperta di questa eccezionale figura. Da quel momento l'interesse per l'opera di Langsdorff non ha fatto che crescere, come dimostra anche una splendida mostra tenutasi a Brasilia nel 2010, che ha permesso per la prima volta di vedere molti degli spettacolari acquarelli realizzati dai tre pittori della spedizione. E' una pianta o un fungo? Certamente non lo avevano dimenticato i tanti botanici di cui fu mentore e generoso ospite a Mandioca. Due di loro vollero ricordarlo con la dedica di un genere Langsdorffia (o Langsdorfia): nel 1814 von Martius, che visitò la tenuta insieme a von Spix prima di partire per l'Amazzonia; nel 1820 l'italiano Raddi, che lo incontrò alla fine del 1817 e forse esplorò con lui i dintorni di Rio. Si aggiunsero nel 1821 il frate Leandro do Sacramento, futuro direttore dell'orto botanico di Rio; nel 1832 Willdenow, nel 1836 Rafinesque, nel 1863 Regel. Ovviamente ad essere valido è solo il primo, Langsdorffia Mart., un genere davvero singolare della curiosa famiglia di piante parassite Balanophoraceae. A prima vista, le infiorescenze della specie tipo, Langsdorffia hypogea, ricordano singolarmente la cappella di un fungo color rosso vino sorretto da un gambo terroso; come la Rafflesia, che appartiene a una famiglia diversa ma vive nel medesimo habitat, il sottobosco delle foreste umide, è visibile solo in fioritura, quando dal tubero sotterraneo emergono i fiori unisessuali; le infiorescenze maschili e femminili hanno una struttura simile, un corpo semisferico circondato da brattee, ma le prime sono più grandi. Incapaci di sintetizzare la clorofilla, traggono i nutrienti dalle radici di altre piante, installandosi anche piuttosto in profondità; infatti, nello stato di Manais Gerais, oltre che nelle foreste, sono reperibili anche in caverne e miniere abbandonate. Un'altra curiosità di questo genere singolare è la distribuzione disgiunta: due specie sono americane, una vive in Madagascar, una in Papua-Nuova Guinea (dove convive appunto con Rafflesia). Qualche approfondimento nella scheda. Svoltasi tra il 1803 e il 1806, la prima circumnavigazione russa mancò totalmente i troppo ambiziosi obiettivi politici e raggiunse solo parzialmente quelli economici, ma segnò una pietra miliare nella conoscenza del Pacifico settentrionale. Fu una scuola di navigazione alla quale si formò un'intera generazione di navigatori russi, tra i quali Otto von Kotzebue, a sua volta protagonista di due giri del mondo, e Fabian von Bellingshausen, lo scopritore del continente antartico. Oltre ai progressi nell'idrografia e nella cartografia, notevoli furono gli apporti della sua équipe scientifica a campi che vanno dall'astronomia, all'etnografia, alla biologia marina. Mentre l'astronomo e geografo svizzero Johann Kaspar Horner collaborava con gli ufficiali in rilevazioni e misurazioni, i medici e naturalisti tedeschi Wilhelm Gottilieb Tilesius e Georg Heinrich Langsdorff approfittarono di ogni occasione per raccogliere e studiare gli animali e le piante marine, e più limitatamente, terrestri. A Tilesius, che per una serie di circostanze divenne anche l'illustratore ufficiale della spedizione, questa avventura guadagnò un titolo nobiliare e l'ingresso nella nomenclatura botanica, con la dedica del genere Tilesia. Nei mari del Sud: 1803-1804 La prima circumnavigazione russa coinvolse due navi, Nadežda e Neva, 129 persone tra ufficiali, marinai, diplomatici, agenti della Compagnia russo-americana e scienziati, e durò quasi esattamente 3 anni (agosto 1803 - agosto/settembre 1806). Per gli standard dell’epoca, fu caratterizzata da una navigazione senza troppi intoppi, nonostante qualche incidente (incluso un incagliamento nella barriera corallina). Al di là del valore simbolico (per la prima volta navi russe si spingevano nell’Oceano aperto, superavano la linea dell’equatore e tornavano a casa dopo aver fatto il giro del mondo) portò a una migliore conoscenza delle Marchesi e delle Hawaii e alla mappatura di diversi settori del Pacifico settentrionale; fu un’esperienza straordinaria per gli ufficiali che vi presero parte, alcuni dei quali sarebbero stati protagonisti di altre spedizioni, come Otto von Kotzebue (che comandò due circumnavigazioni tra il 1823 e il 1826) e Fabian von Bellingshausen, lo scopritore dell’Antartide. A condizionare negativamente la spedizione fu piuttosto il sovrapporsi di obiettivi scientifici, economici e politici e soprattutto la decisione di inviare in Giappone una missione diplomatica, capeggiata in veste di ambasciatore dal conte Rezanov, che era anche uno dei dirigenti della Compagnia russo-americana. Ne risultarono conflitti continui tra Adam von Krusenstern, il comandante della spedizione, e lo stesso Rezanov, che sulla base di istruzioni ambigue credette di aver autorità non solo sul corpo diplomatico, ma sull’intera spedizione. Nella rivalità tra i due uomini si riflettevano intenti e personalità opposte: Krusenstern era un tedesco del Baltico, un luterano con un forte senso del dovere, un ufficiale educato nella Royal Navy, ammiratore di Cook, per il quale prima di tutto venivano i suoi uomini e il successo della missione di esplorazione; Rezanov era un nobile russo, un cortigiano e un imprenditore dalla morale elastica, per il quale contavano soprattutto il potere e la ricchezza. La Nadežda e la Neva, comandate rispettivamente da Krusenstern e dal suo secondo Lisjanskij, salparono da Kronstadt il 7 agosto 1803, facendo rotta per Copenhagen dove si imbarcò la piccola équipe scientifica, formata dall'astronomo e geografo svizzero Johann Kaspar Horner e dai medici e naturalisti tedeschi Wilhelm Gottilieb Tilesius e Georg Heinrich Langsdorff. A bordo c’erano anche un botanico russo, Brinkin o Brinken, che però fu emarginato dagli studiosi teutonici, e il disegnatore Stepan Kurljancev. Dopo una seconda sosta a Falmouth e un breve scalo a Tenerife, le due navi si diressero alla volta del Brasile; il 26 novembre venne superata la linea dell'equatore, la prima volta nella storia della marina russa. Si festeggiò con salve di cannone, fuochi d'artificio e bevute di vodka, offerta dal quartiermastro nei panni di Nettuno. Il 21 dicembre le navi ancorarono di fronte all'isola di Santa Catarina in Brasile, dove si trattennero circa un mese e mezzo, per sostituire alcuni alberi e carenare la Neva. Horner fin dal giorno del suo arrivo si trasferì nell'isolotto di Atomiris per allestire un osservatorio portatile. Langsdorff, che ancora non sapeva di aver incontrato il suo destino (come scopriremo in un prossimo post, sarà un grande esploratore della natura brasiliana), osservò: "la ricchezza e la varietà di animali e piante potrebbe tenere occupati centinaia di naturalisti per anni". Scoppiò anche il primo grave conflitto di autorità tra Krusenstern e Rezanov, provocato da un curioso personaggio, il conte Fedor Tolstoj, che passava il tempo a giocare d’azzardo, fare scherzi di dubbio gusto e seminare zizzania. Ebbe anche un diverbio con l’artista Kurljancev, che insultò il comandante e di conseguenza fu escluso dalla mensa degli ufficiali e degli scienziati. Le navi russe lasciarono Santa Catarina il 2 febbraio 1804. Le attendeva il difficile passaggio di Capo Horn, che venne doppiato il 21 marzo. Poco dopo, a causa della forte nebbia, i due vascelli persero il contatto visivo. La Neva fece rotta per l'Isola di Pasqua, raggiunta il 16 aprile, mentre Krusenstern preferì puntare direttamente sull'isola di Nuku Hiva nell’arcipelago delle Marchesi; vi approdò il 10 maggio e il giorno successivo fu raggiunto da Lisjanskij. Gli indigeni avevano fama di cannibali, e ai naturalisti fu concesso di lasciare le navi solo sotto scorta; poterono però studiarne i costumi, rimanendo particolarmente affascinati dall’arte dei tatuaggi. Lo stesso capitano si fece tatuare su un braccio il nome dell’adorata moglie. Ma la sosta nell’isola fu tutt’altro che una vacanza tropicale; il suo scopo era rinnovare le scorte, procurandosi tra l’altro un certo numero di maiali. Sapendo che l’unico bene che interessava agli indigeni erano gli oggetti di ferro, Krusenstern proibì di scambiarli con ogni altra cosa; Rezanov disobbedì e, facendo incetta di oggetti etnografici per la Kunstkammer imperiale, provocò il crollo del valore degli oggetti di ferro, rendendo impossibili gli approvvigionamenti. Nel chiarimento pubblico che seguì, non solo Rezanov contestò l’autorità del comandante, ma cercò di scavalcarlo, provocando un ammutinamento. Nessuno degli ufficiali lo seguì. Intanto Tilesius, ingaggiato come medico e naturalista esperto di biologia marina, cambiava mestiere. Il pittore Kurljancev infatti diede di matto e distrusse a colpi d’ascia la sua cabina, non risparmiando neppure le icone. Fu così che il medico tedesco, che era anche un eccellente disegnatore, divenne l’illustratore ufficiale della spedizione. Per completare le scorte le due navi si diressero quindi alla maggiore delle isole Hawaii. Qui si separarono, dandosi appuntamento l’autunno dell’anno successivo a Macao: il 10 giugno la Nadežda salpava alla volta della Kamčatka, mentre qualche giornp dopo la Neva partiva per l’Alaska. La Nadežda in Kamčakta e Giappone: 1804-1805 Dopo un viaggio senza incidenti di 35 giorni, il 15 luglio la Nadežda attraccò a Peterpavlovsk; immediatamente Rezanov fece appello al governatore Košelev perché mettesse sotto accusa Krusenstern e i suoi ufficiali per insubordinazione. Dopo aver sentito entrambe le campane, il generale capì perfettamente di trovarsi in un ginepraio e rifiutò di pronunciarsi, dichiarando che in quella faccenda era testimone e non giudice. Alla fine si giunse a una riconciliazione e il 6 settembre la Nadežda ripartiva alla volta di Nagasaki. Rimanevano a terra lo scapestrato Tolstoj e i due paria di bordo, il pittore Kurljancev e il botanico Brinkin. La missione giapponese fu un totale fallimento; le trattative si trascinarono per sei mesi, mentre la Nadežda era posta in disarmo, i cannoni e la polvere da sparo sequestrati, gli uomini confinati in un piccolissimo spazio. Gli unici a trarne profitto furono Tilesius e Langendorff che riuscirono a convincere i pescatori che rifornivano la squadra di pesce a procurare specie sempre nuove; fu così che poterono studiare 400 specie di pesci di 180 generi diversi. Insieme a Horner, allestirono anche un piccolo spettacolo per i loro ospiti nipponici, costruendo e facendo volare una mongolfiera in seta e carta di riso. La risposta ufficiale giunse il 7 aprile 1805: il governo giapponese respingeva i doni, rifiutava ogni rapporto diplomatico o anche solo commerciale con i russi, cui era ingiunto di lasciare il paese al più presto. Lasciata Nagasaki il 18 aprile, Krusenstern, nonostante la contrarietà delle autorità giapponesi, anziché seguire la rotta diretta, costeggiò Honshu e Hokkaido, fino a raggiungere lo stretto che separa quest'ultima da Sakhalin, di cui vennero mappate le coste. Dopo aver scoperto alcune isole del gruppo delle Curili, rientrò infine a Petropavlovsk il 5 giugno. Ad attenderlo trovarò un rescritto dello zar che gli conferiva la croce dell'ordine di Sant'Anna di Prima Classe; per Rezanov c'erano una tabacchiera e l'ordine di andare a ispezionare l'Alaska russa. Langsdorff decise di approfittare dell'occasione per visitare anche quelle contrade. Krusenstern dedicò il resto dell'estate a esplorare le coste di Sakhalin e le Curili, ma dovette rinunciare a cercare la foce dell'Amur per non mancare l'appuntamento con Lisjanskij a Macao. Partita da Peterpavlovsk il 5 ottobre, la Nadežda rischiò subito di arenarsi, quindi affrontò una navigazione molto difficile per le temperature rigide e le continue tempeste, raggiungendo infine Macao il 20 novembre. La Neva non c'era ancora. La Neva in Alaska e il viaggio di ritorno Scopriamo insieme perché. Il 10 luglio 1804 la Neva giunse nell'isola di Kodiak, in Alaska. Poco dopo, il governatore della colonia Baranov chiese a Lisjanskij di aiutarlo a liberare Sitka dai Tlingit, che, dopo aver cacciato i russi, vi avevano costruito un fortino. L'intervento della Neva, con i suoi 14 cannoni, fu determinante per il successo russo nella cosiddetta "battaglia di Sitka" (1-4 ottobre 1804). Lo scontro fu comunque molto duro, tra i marinai ci furono tre morti e diversi feriti. L'inverno era ormai alle porte e la Neva lo trascorse a Kodiak. Soltanto ad aprile il disgelo rese possibile mappare il golfo di Chiuniat e l'arcipelago Kodiak. Intanto le stive della nave si riempivano delle provviste per il viaggio e di 440.000 tra pellicce e pelli di tricheco da rivendere in Cina. Lasciato il porto di Pavlovsk sull'isola Kodiak il 13 giugno, arrivarono il 22 a Novo-Arckangelsk, come i russi avevano ribattezzato Sitka, dove nel frattempo il governatore Baranov aveva fatto costruire otto grandi edifici in legno che a Lisjanski apparvero "abbastanza decenti anche per l'Europa". Prima di lasciare l'Alaska, insieme a un compagno, egli volle scalare e esplorare il Monte Edgecumbe, il magnifico vulcano che domina Sitka. Il 1 settembre la Neva lasciò l'Alaska. Lungo la rotta per la Cina, secondo le istruzioni, avrebbero anche dovuto cercare terre sconosciute a est del Giappone; non ne incontrarono nessuna fino al 15 ottobre quando, proseguendo verso sudovest, si arenarono sulla barriera corallina. Gettando fuori bordo tutto il possibile, riuscirono a liberare la nave, che però rimase fortemente danneggiata. Fu così scoperta l'isola Lisianski (una scoperta di cui il dedicatario avrebbe fatto volentieri a meno). Mentre le provviste cominciavano a scarseggiare, la navigazione proseguì in condizioni difficili, peggiorate il 22 novembre da una tempesta al largo delle Marianne che mise in forse la sopravvivenza della nave. L'acqua penetrata nella stiva causò il deterioramento di molte pellicce, che dovettero essere gettate fuori bordo. Ecco i motivi del ritardo della Neva. Ricongiunte, la Nadežda e la Neva si trasferirono sull'isola di Wampoa, dove attraccavano le navi europee autorizzate a commerciare negli empori di Canton. I russi non erano tra questi (tanto che, dopo la loro partenza, i funzionari che avevano autorizzato le transazioni furono severamente puniti); inoltre stava per iniziare la stagione dei tifoni e, per non rischiare di rimanere bloccati per un altro anno, i funzionari della Compagnia accettarono la mediazione di una ditta inglese, cui dovettero versare una generosa commissione, vendendo infine le pellicce a un prezzo assai inferiore al previsto. Mentre le laboriose trattative commerciali proseguivano, la Neva venne riparata e messa in condizione di riprendere il viaggio. Il 31 gennaio 1806 le due navi lasciarono la Cina, fissando come eventuale punto d'incontro l'isola di Sant'Elena; viaggiarono insieme fino al 15 aprile, quando furono separate dalla nebbia e dall'oscurità. In una tacita gara con l'amico-rivale Krusenstern, Lisjanski decise di fare tutto il possibile per arrivare per primo. Procedendo a vele spiegate, doppiò il Capo di Buona Speranza il 20 aprile e, valutando di avere provviste sufficienti, proseguì direttamente per l'Inghilterra. Con una velocità senza riscontri per l'epoca, in soli 180 giorni raggiunse il porto di Portsmouth (28 giugno), da dove, dopo una sosta di due settimane, fece vela per Kronstadt, dove attraccò la mattina del 6 agosto, a tre anni esatti dalla partenza. Al contrario del suo secondo, Kruzenstern tenne fede ai patti. Doppiato il Capo di Buona Speranza, si diresse a Sant'Elena, dove giunse il 3 maggio. Quindi, facendo rotta verso l'Europa, toccò alcune isole scozzesi e Copenhagen, rientrando a Kronstadt il 19 agosto. Un versatile zoologo si trasforma in illustratore Sul piano scientifico la spedizione fu un indubbio successo. Le rilevazioni delle squadre della Nadežda e della Neva permisero di correggere le carte di Cook e La Pérouse, mappando varie aree del Pacifico settentrionale; vennero scoperte alcune isole, in Alaska, nelle Curili e nell'arcipelago hawaiiano. Inoltre Krusenstern fu il primo a dimostrare che Sakhalin non è collegata alla terra ferma. Con il rilevante contributo dell'astronomo Horner (1774-1833), vennero effettuate osservazioni e misurazioni oceanografiche, tra cui l'analisi della correlazione tra profondità, temperatura e peso specifico dell'acqua. Le soste sempre troppo brevi e la difficoltà di procurarsi e conservare gli esemplari senza alcun aiuto furono sicuramente una fonte di frustrazione per Tilesius e Langsdorff; forzatamente, i loro studi dovettero concentrarsi sulla biologia marina, che, per altro, era anche il settore di specializzazione di Tilesius. Mentre la Nadežda attraversava l'Atlantico in direzione del Brasile, studiarono e scoprirono la causa della luminescenza marina; in Giappone, come abbiamo già visto, scoprirono numerose specie di pesci. Come ho già anticipato, tornerò su Langsdorff in un prossimo post. Per concludere, quindi, qualche parola su Wilhelm Gottlieb Tilesius (1769-1857). Studente di medicina a Lipsia, seguì anche i corsi del pittore e scultore Adam Frederick Oeser, divenendo un eccellente disegnatore e incisore. Nel 1795-96, ancora studente, accompagnò Hoffmannsegg in Portogallo, dove si occupò soprattutto di animali marini. L'eccellente lavoro che ne ricavò, accompagnato da ottime illustrazioni di sua mano, attirò l'attenzione dell'Accademia delle Scienze russe, che lo propose come medico di bordo e naturalista della spedizione Krusentern. Il più vecchio e il più autorevole dei tre naturalisti, tendeva a comportarsi come il capo dell'équipe scientifica (creando una certa tensione con Langsdorff). Era soprattutto uno zoologo; tra le sue scoperte più rilevanti il granchio reale, Paralithodes camtschaticus. Soprattutto durante l'esplorazione di Sakhalin ebbe però occasione anche di studiarne la flora; tra le sue scoperte Artemisia sachaliensis, Artemisia tilesii e Serratula tilesii. Come abbiamo già visto, a partire dalla sosta nelle Marianne, divenne anche l'illustratore ufficiale della Nadežda . L'Atlante della Circumnavigazione pubblicato da Krusenstern nel 1813 è illustrato da 109 sue tavole, precise nei tratti ma non prive di efficacia evocativa. Le più celebri sono senza dubbio quelle dedicati ai guerrieri tatuati di Nuku Hiva. Dopo il rientro in Russia, fu nobilitato dallo zar (divenne così Tilesius von Tilenau) e ammesso all'Accademia delle scienze, che lo incaricò di ricostruire lo scheletro del mammut riportato dalla Siberia da Adams, il più completo conosciuto all'epoca. Tuttavia la sua carriera accademica non decollò e nel 1814 decise di tornare in Germania, dove, benché fosse membro di moltissime società scientifiche e continuasse a pubblicare molti articoli, soprattutto sugli animali marini, non riuscì mai ad ottenere una cattedra universitaria. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Gli strani frutti di Tilesia Il suo nome tuttavia era abbastanza noto. Nel 1818 G.F.W. Meyer gli dedicò il genere Tilesia, appartenente alla famiglia Asteraceae. Solo a inizio '900 il suo rilevante contributo allo studio degli animali marini fu premiato con la dedica di un genere di pesci, Tilesina. Tilesia Mey. comprende tre specie di erbacee o arbusti rampicanti diffusi nelle Antille, in Centro America e nel Sud America tropicale, caratterizzati da frutti carnosi simili a drupe, una particolarità quasi unica in questa famiglia. Infatti, a differenza delle altre Asteraceae sudamericane, che vivono in habitat aperti e hanno frutti secchi dispersi dal vento, le Tilesiae sono piante delle foreste semidecidue i cui semi sono dispersi da vari uccelli che si cibano delle bacche. La specie più nota, T. baccata, è una liana che vive lungo i corsi d'acqua o al margine delle foreste, con capolini terminali all'ascella delle fronde superiori, con flosculi del disco bisessuali arancioni e flosculi ligulati sterili, giallo vivo, spesso con apice trilobato. E' l'unica specie a fiori gialli, mentre le altre due (diffuse in aree ristrette) li hanno rossi. Qualche approfondimento nella scheda. La spedizione di Bering apre la strada all'espansione russa nelle Aleutine e in Alaska, alla ricerca delle preziose e richiestissime pellicce di lontra. E' un'impresa condotta con brutalità e sempre sull'orlo del fallimento, a causa del difficile e costoso approvvigionamento di quella lontana colonia. Per risolvere il problema, la Compagnia russo-americana, che ha ottenuto il monopolio del commercio delle pellicce, caldeggia il progetto dell'ammiraglio Krusenstern: creare una via commerciale diretta tra Russia e Cina circumnavigando il globo. Il progetto, per quanto audace, lusinga l'orgoglio russo e la nuova consapevolezza di sé alimentata dal ruolo di primo piano che l'Impero russo sta giocando nelle guerre contro la Francia prima rivoluzionaria poi napoleonica. Si dilata così in un ambizioso sogno coloniale: la creazione di una sfera d'influenza politica ed economica nel Pacifico settentrionale a cavallo tra tre continenti, sostituendosi all'impero spagnolo ormai declinante. Con l'entusiastica adesione dello zar, nel 1803 inizierà così la prima circumnavigazione russa del globo, comandata dallo stesso Krusenstern. Tra i suoi sostenitori più calorosi, l'allora ministro del commercio, il conte Nikolaj Rumjancev. Quindici anni dopo, quando la sua stella politica (che lo aveva portato a diventare ministro degli esteri) sarà ormai tramontata, lo stesso Rumjancev finanzierà la seconda circumnavigazione, guadagnandosi la dedica del nome specifico di alcuni animali e piante e del genere Romanzoffia. L'America russa: pellicce, genocidi e un progetto audace Sebbene la seconda spedizione di Bering si fosse risolta in un disastro, aveva raggiunto i suoi obiettivi, dimostrando definitivamente che Asia e America non erano collegate e aprendo la rotta tra i due continenti. Ad eccitare gli animi (e la cupidigia) furono poi le pellicce di lontra portate con sé dai naufraghi della Sv. Petr. Dopo decenni di caccia indiscriminata, in Siberia gli animali da pelliccia incominciavano a scarseggiare; le isole Aleutine e l'America settentrionale (ovvero l'Alaska) promettevano nuovi, ricchissimi territori di caccia. Nei decenni successivi, cominciò così la penetrazione russa in quei territori, sotto forma prima di avamposti dei commercianti di pellicce, poi di insediamenti stabili. Il prodotto di punta erano proprio le pellicce di lontra di mare, tra l'altro una delle pochissime merci di importazione ben accette sul mercato cinese. Accompagnata da spaventose brutalità ai danni degli indigeni (con il genocidio di larga parte degli aleutini) e segnata da un atteggiamento predatorio verso la natura, l'espansione russa avvenne dapprima in modo disordinato, grazie all'iniziativa di singoli mercanti; vennero poi fondate compagnie più strutturate, la più importante delle quali fu la Compagnia russo-americana, creata nel 1799, che riuscì a farsi concedere dallo zar il monopolio del commercio delle pellicce per vent'anni. Lo stesso anno quella che veniva ormai chiamata "America russa" fu annessa all'Impero. Malgrado gli sforzi della Compagnia, che cercò anche di stimolare l'arrivo di coloni dalla Russia e dalla Siberia, sul piano commerciale la situazione era tutt'altro che florida. Il problema principale era l'approvvigionamento degli insediamenti, il cui unico cordone ombelicale con la madrepatria erano le navi che affrontavano la difficile navigazione con la Siberia e la Kamčatka, impraticabile dall'autunno alla primavera inoltrata (senza contare l'interminabile viaggio dalla Russia alla Siberia, che poteva richiedere da due a tre anni). Anche le pellicce di lontra per raggiungere la Cina, il loro principale mercato, dovevano percorrere la stessa via: sbarcate nel porto di Okhotsk, in Siberia, venivano trasportate via terra al punto di confine di Kyakhta, da cui, secondo le clausole dell'omonimo trattato, dovevano passare tutte le merci scambiate tra Russia e Cina; di qui, ogni tre anni, una carovana di mercanti muoveva poi per Pechino. Insomma, lungaggini e spese che erodevano i guadagni e mettevano in forse la stessa sopravvivenza dell'America russa. A proporre una soluzione alternativa fu l'ammiraglio von Krusenstern. Suddito russo di origine baltica e lingua tedesca, durante le guerre contro la Francia aveva servito nella Royal Navy e aveva visitato gli Stati Uniti, le Antille, Calcutta e Canton. Nel 1799, mentre si trovava a Calcutta, inviò a San Pietroburgo una relazione in cui illustrava i vantaggi di aprire una via di comunicazione diretta tra Russia e Cina che circumnavigasse il globo passando da Capo Horn all'andata e dal Capo di Buona Speranza al ritorno. Il progetto suscitò l'interesse della Compagnia russo-americana, nella persona del suo più autorevole esponente, Nikolaj Petrovič Rezanov, che riuscì a convincere politici influenti e lo stesso imperatore. Erano gli anni in cui l'impero russo, guidato dal giovane e romantico Alessandro I, salito al trono nel 1801, giocava un ruolo di primo piano nelle coalizioni antifrancesi e incominciava ad imporsi come una delle principali potenze continentali; negli ambienti di corte, la proposta di Krusenstern, che lusingava l'orgoglio nazionale, incominciò a dilatarsi fino a trasformarsi in un progetto politico di ampio respiro: oltre ad assicurare il collegamento stabile con l'Alaska e una via commerciale diretta tra l'America russa e la Cina, si puntava ad aprire relazioni diplomatiche ufficiali con il Giappone, ad inserirsi nel commercio con il Sud America e a sondare la possibilità di colonizzare la California, approfittando della debolezza della Spagna. Era l'inizio di un grandioso sogno di espansione, che il governo russo perseguì per una quarantennio: la trasformazione del Pacifico settentrionale in un "mare russo", grazie al controllo delle sue isole e delle sue coste orientali e occidentali. Un discusso uomo politico e un grande mecenate Fu così che nell'agosto del 1803 salparono da Kronstadt alla volta delle Canarie, prima tappa della prima circumnavigazione russa del globo, le navi Nadežda (ovvero "Speranza") e Neva, comandate rispettivamente dallo stesso Krusenstern e dal capitano-luogotenente Lysianskij. Un quindicennio dopo, archiviate le guerre napoleone, l'avrebbe seguita una seconda circumnavigazione (1815-18), quella della Rjurik, comandata dal luogotenente Kotzebue. Fino alla cessione dell'Alaska agli Stati Uniti (1867), le circumnavigazioni russe sarebbero poi diventate quasi viaggi di routine (tra 1803 e 1835 se ne totalizzarono venticinque). Sulle prime due, che ebbero rilevanti risvolti scientifici, tornerò in altri post. Qui vorrei concentrami su uno degli uomini politici che le vollero e le resero possibili, il conte Nikolaj Petrovič Rumjancev (1754-1826), uno delle maggiori personalità della Russia a cavallo tra Settecento e Ottocento. Negli anni in cui si discuteva la proposta di Krusenstern, egli era direttore delle comunicazioni fluviali e marittime e ministro del commercio; uomo dalla mentalità molto aperta e intraprendente, si batté contro l'arretratezza economica del paese, snellendo in senso liberale la legislazione commerciale, migliorando le vie d'acqua e promuovendo la costruzione di canali navigabili e di nuovi ponti; egli vide subito le potenzialità del progetto e si spese a favore della sua approvazione, usando tutta la sua notevole influenza sul giovane zar e su sua madre, la zarina vedova Marija Fedorovna. Rumjancev era un uomo molto colto, con interessi sia umanistici sia scientifici; in gioventù aveva servito a lungo all'estero come diplomatico e aveva cominciato ad ammassare una prodigiosa collezione di libri, incunaboli, manoscritti, stampe, monete, opere d'arte e oggetti etnografici; spinse dunque anche sugli obiettivi scientifici della missione, cui volle prendesse parte un gruppo di scienziati. Intanto, mentre la Nadežda e la Neva solcavano gli oceani e poi rientravano trionfanti in patria, la posizione politica della Russia andava evolvendo: dopo la cocente sconfitta di Austerlitz (1805) e la disfatta di Friedland (1807), Alessandro I, fino ad allora uno dei più determinati avversari di Napoleone, incominciò a dare ascolto a quanti gli consigliavano di trattare con l'imperatore dei francesi. Il più convinto assertore di questa svolta politica era proprio Rumjancev, un ammiratore dell'illuminismo decisamente francofilo, che per un breve periodo divenne il più ascoltato e influente dei suoi ministri. Fu lui a convincere il riluttante Alessandro a incontrare Napoleone sul Njemen e a siglare la pace di Tilsit (1807) e l'effimera alleanza tra Russia e Francia. La carriera politica di Rumjamcev toccò il suo apice: nel 1808 fu nominato ministro degli esteri e nel 1810 presidente del consiglio di Stato. Ma, mano a mano che i rapporti tra Francia e Russia si gustavano, la sua posizione filofrancese lo rendeva sempre più isolato e inviso allo zar (come capo dei circoli francofili, figura ambigua se non odiosa, compare anche in Guerra e Pace di Tolstoj). L'invasione francese del 1812 lo colse tanto di sorpresa da provocargli un colpo apoplettico che lo privò parzialmente dell'udito; nonostante ciò, continuò a consigliare lo zar di esautorare Kutuzov e di trattare con Napoleone. Di conseguenza, prese la confidenza di Alessandro, che lo allontanò dalla vita politica. Ritiratosi a vita privata nel 1814, Rumjancev dedicò gli ultimi anni alle sue collezioni e alla promozione degli studi storici, letterari e scientifici. Fin da giovane, aveva una collezione di minerali, che ora incrementò con l'acquisto di altre raccolte, tra cui i materiali riportati da Lisyanski dalla prima circumnavigazione. Grandissimo bibliofilo, possedeva una biblioteca di 30.000 volumi (12.000 dei quali di argomento storico), oltre 1000 manoscritti, 5000 incisioni, 600 mappe, che dopo la sua morte andò a costituire il primo nucleo della Biblioteca di Stato russa. Come appassionato di studi storici, riunì intorno a sé un circolo di giovani studiosi delle antichità russe e slave e finanziò la pubblicazione di una quarantina di antichi testi (tra cui i primi capolavori della letteratura russa, come il Canto di Igor). Le sue collezioni d'arte dopo la sua morte andarono invece a formare il primo museo russo aperto al pubblico (nel 1831). Chiuso e smembrato nel 1924, confluì in parte nella Galleria Tret'jakov, in parte nel Museo Puškin delle Belle Arti. Una sintesi della vita di questo discusso politico e grande promotore degli studi e delle arti nella sezione biografie. Egli fu anche un mecenate delle scienze, finanziando la seconda circumnavigazione russa del globo; mentre la prima, come abbiamo visto, fu una spedizione in grande stile, promossa e finanziata dal governo russo nell'ambito di un ambizioso progetto politico, la seconda, anche se fu approvata dalla zar, fu frutto di un'iniziativa dello stesso Rumjancev ed ebbe un carattere più nettamente scientifico. Infatti, la mutata situazione politica, che vedeva ora la Spagna alleata della Russia, rendeva poco prudente perseguire apertamente una penetrazione russa nelle aree rivendicate dalla monarchia iberica. Romanzoffia, minuta bellezza E' proprio come mecenate della spedizione di Kotzebue che il conte Rumjancev entra a buon diritto nella nostra galleria di dedicatari di un genere botanico. Adalbert von Chamisso, il botanico della spedizione, volle infatti rendergli omaggio dedicandogli alcune delle piante raccolte durante il viaggio. Lo ricordano nel nome specifico Spiranthes romanzoffiana, un'orchidea dell'America settentrionale, e Syagrus romanzoffiana, la spettacolare "palma regina", raccolta in Brasile durante il viaggio d'andata, probabilmente la più conosciuta delle piante dedicate al nostro conte. Lo zoologo della spedizione Eschscholtz gli dedicò invece la bellissima farfalla Papilio rumanzovia, scoperta nelle Filippine. Fu invece raccolta nell'isola di Unalaska, nelle Aleutine occidentali, la specie tipo del genere Romanzoffia, creato da Chamisso nel 1820. Appartenente alla famiglia Boraginaceae (precedentemente Hydrophyllaceae) comprende cinque specie erbacee annuali o perenni native dell'America nordoccidentale, dall'Alaska alla California, ovvero proprio la zona esplorata da Chamisso e dai suoi compagni. Le Romanzoffiae hanno foglie lobate e graziosi fiori campanulati, solitamente bianchi, portati su lunghi steli, a fioritura primaverile. Adattate a ambienti rocciosi umidi e ombreggiati, hanno robuste radici rizomatose che permettono di crescere anche tra le fessure; le specie perenni dopo la fioritura avvizziscono e entrano in dormienza. Il ciclo ricomincerà con le prime piogge d'autunno, quando rispunteranno le foglie. Queste caratteristiche hanno permesso al genere, tipicamente artico e boreale, di scendere più a sud, colonizzando anche la California settentrionale, dove le estati sono calde e aride. Qui vive la specie più meridionale e più nota, R. californica, che negli Stati Uniti è talvolta coltivata nei giardini rocciosi. Ci riportano invece in Alaska R. unalaschensis, la specie raccolta da Chamisso a Unalaska e R. sitchensis, che prende il nome da Sitka; all'epoca del dominio russo si chiamava Novo-Archangelsk ed era la sede principale della Compagna russo-americana. E' le specie con l'areale più ampio, diffusa dall'Alaska alla California, passando per gli stati canadesi del British Columbia e della Alberta e l'Oregon. Un cenno alle altre specie nella scheda. Anche se per volontà dell'imperatrice, dell'ammiragliato e dell'Accademia delle Scienze, si era trasformata in una impresa monstre con molti obiettivi collaterali, lo scopo principale della Grande spedizione del Nord era pur sempre riprendere e completare quanto era stato fatto da Bering con la prima spedizione in Kamčatka: confermare che non c'era continuità territoriale tra Asia e America e raggiungere il continente americano, in vista di un possibile insediamento russo. Affidata a Bering in persona, l'impresa, dopo una preparazione decennale, per una serie di coincidenze, errori e fatalità si volse tuttavia in catastrofe, con la morte di ben 30 dei 74 membri dell'equipaggio della nave ammiraglia. Tra i sommersi, lo stesso Bering, morto nell'isola che oggi porta il suo nome insieme a un terzo dei suoi uomini. Tra i salvati, il naturalista tedesco Georg Wilhelm Steller, il primo scienziato ad esplorare la fauna e la flora dell'Alaska (sia pure per sole dieci ore); come medico di bordo, se non riuscì a salvare il capitano, strappò alla morte molti compagni, senza mai smettere, in condizioni difficilissime, di studiare e catalogare la natura dell'isola dove erano stati gettati dalla malasorte. Sono celebri soprattutto le sue scoperte zoologiche, con la prima segnalazione della lontra marina e di vari animali che oggi portano il suo nome. Fu tuttavia anche un grande botanico, con notevoli contributi anche alla conoscenza delle flore della Siberia e della Kamčatka. A ricordarlo nella tassonomia botanica fu Linneo, che volle dedicargli il genere Stellera, che oggi comprende una sola specie, l'asiatica S. chamaejasme. Ma, dato che anche i botanici giocano con gli anagrammi, va aggiunto l'indiretto omaggio di Restella. Dieci anni di preparazione... Nel 1728, appena rientrato dalla prima spedizione in Kamčatka, Vitus Bering propose di organizzarne una seconda, con l'obiettivo di raggiungere le coste americane. Dopo alcuni anni di dilazioni, in cui la lista degli scopi da perseguire non fece che crescere, infine nel 1732 fu posto a capo della gigantesca Grande spedizione del Nord, di cui coordinò tutti i distaccamenti. A lui in persona fu affidato il comando di quello più importante, il cui compito, facile a dirsi e difficile da conseguire, era appunto navigare verso est partendo dalla Kamčatka fino ad incontrare le coste americane. Rinunciando all'idea (che comunque venne messa in campo) di raggiungere la penisola circumnavigando il globo per la via di Capo Horn, si decise di inviare uomini e mezzi via terra, attraversando la Siberia. Le navi necessarie alla spedizione sarebbero state costruite sul posto, ovvero a Okhotsk, l'unico porto russo sul Pacifico. Guidati da Bering e dai suoi secondi Spanberg e Čirikov, i distaccamenti che avrebbero esplorato il Pacifico si misero in marcia tra febbraio e aprile 1733; a percorrere l'enorme distanza ci vollero oltre due anni. Dopo un primo inverno trascorso a Tobolsk, Bering stabilì infine il suo quartier generale a Yakutsk. Dovendo fare i conti, oltre che con la mancanza di strutture, con l'inerzia quando non con l'ostilità delle autorità locali, dovette trattenersi qui circa tre anni per predisporre le attrezzature e le provviste e sorvegliare la costruzione delle imbarcazioni che avrebbero risalito il fiume Lena e l'allestimento dei collegamenti con Okhotsk, dove già era stato spedito Spanberg. Solo nell'estate del 1737, dopo essere stato raggiunto anche dal distaccamento dell'Accademia, Bering partì per Okhotsk. Ma il naturalista che lo avrebbe accompagnato nell'ultimo viaggio non fu uno dei professori dell'Accademia, bensì il medico tedesco Georg Wilhelm Steller, aggregatosi alla spedizione come membro aggiunto solo in un secondo tempo. E' ora dunque di fare entrare in scena il nostro protagonista, e che protagonista! Figlio di un organista e cantore luterano, nato nel 1709 a Windsheim in Franconia con il nome di Georg Wilhelm Stöller, fu destinato dalla famiglia a divenire pastore; dapprima seguì i corsi di teologia a Wittenberg, ma ben presto li abbandonò per la sua vera vocazione, le scienze naturali. Si spostò così a Berlino dove si laureò in medicina presso l'Obercollegium. Fresco di laurea, nel 1734, inseguendo il suo "desiderio insaziabile di visitare paesi stranieri", si imbarcò come medico di bordo su una nave militare russa; si racconta che, giunto a san Pietroburgo senza un soldo e senza appoggi, fosse caduto in tale miseria da essere costretto a dormire nei portoni. Un giorno, mentre visitava l'orto botanico, si sarebbe imbattuto per caso nell'arcivescovo Feofan Prokopovič, stretto collaboratore di Pietro il Grande e uno dei fondatori dell'Accademia delle scienze, che, colpito dal suo fluente latino, lo assunse come medico personale. Ma la storia vera è probabilmente meno romantica: forse quell'incontro casuale ci fu davvero, ma a conquistare la fiducia dell'ecclesiastico contribuirono le lettere di raccomandazione del professore di Berlino di Stöller, Friedrich Hoffmann, membro corrispondente dell'Accademia russa delle Scienze. Il giovane medico tedesco, che nel frattempo aveva cambiato il cognome da Stöller a Steller (più facile da trascrivere in cirillico), lavorò per due anni per l'ecclesiastico che lo introdusse negli ambienti accademici; un altro tedesco, Johann Amman, che insegnava botanica all'Accademia, lo prese come proprio assistente. Con il titolo di membro aggiunto, Steller poté così presentare la sua candidatura per partecipare come volontario alla spedizione in Kamčatka, che venne accettata nel gennaio 1737. Prima di partire per l'Oriente, egli si sposò con la giovane vedova di un altro studioso tedesco, Daniel Gottlieb Messerschmidt, che aveva esplorato la Siberia per sette anni, non sappiamo se più attratto dalle grazie di lei o da quelle dei quaderni di campo che il primo marito le aveva lasciato in eredità. Poté partire solo un anno dopo, nel gennaio 1738; aveva sperato di avere la compagnia della sposa Brigitta, ma, giunta a Mosca, la giovane donna rifiutò di proseguire. Steller si rassegnò così a continuare il viaggio da solo. Al contrario dei professori dell'Accademia, che viaggiavano in comode e calde carrozze o slitte, riveriti e serviti da decine di servitori, si muoveva con un piccolo calesse, con un equipaggiamento spartano, provvedendo a tutto da sé. Ma in questo modo era anche molto più veloce e dopo un anno e mezzo li raggiunse a Enisejsk. Steller era un ottimo naturalista, che si era preparato al suo compito leggendo tutto il leggibile sulla natura siberiana, ma era anche uno spirito libero e un caratteraccio, dipinto da qualche biografo come un attaccabrighe per non dire un asociale; Gmelin fu ammirato dalla sua preparazione e dal suo ardore scientifico, ma anche scioccato dalle sue abitudini e dal suo aspetto poco presentabile: "Non si preoccupava certo dei suoi vestiti. Dato che in Siberia è necessario portare con sé il proprio equipaggiamento, lo aveva ridotto a una bussola. Aveva rinunciato al vino e beveva tanto la birra quanto l'acquavite nella medesima tazza. Aveva un solo piatto dal quale mangiava qualsiasi cibo. Per questo non aveva bisogno di un cuoco e cucinava tutto da sé, accontentandosi di pochissimo e magari cucinando insieme zuppa, verdure e carne. Non usava né parrucca né cipria e qualsiasi tipo di calzatura gli andava ugualmente bene. Le più povere condizioni di vita non sembravano dargli fastidio, anzi più c'erano contrattempi, più sembrava contento. D'altra parte, nonostante il completo disordine del suo modo di vivere, si è sempre dimostrato estremamente meticoloso nelle sue osservazioni e instancabile in tutte le sue imprese". Gmelin fu dunque felicissimo di spedirlo immediatamente in Kamčatka, dove non aveva alcuna intenzione di andare di persona e già aveva inviato il suo allievo Krašeninnikov. Dopo solo sette settimane trascorse con Gmelin e Müller a Eniseisk, nel marzo 1739 dunque Steller ripartì: dedicò la primavera e l'estate all'esplorazione della regione del Baikal e, dopo aver trascorso l'inverno a Irkutsk, si unì al gruppo accademico che doveva esplorare la Kamčatka; oltre a lui ne facevano parte l'astronomo Louis de l'Isle de la Croyère, l'artista Johann Christian Berkan (1709-1751) e lo studente A. P. Gorlanov. Nell'agosto 1740, il gruppo arrivò infine a Okhotsk dove Steller incontrò per la prima volta Bering e gli comunicò il suo vivo desiderio di esplorare terre sconosciute. Dieci ore di esplorazione e un tragico epilogo Torniamo dunque a Bering e ai suoi lunghissimi preparativi. Quando egli giunse a Okhotsk, nel corso del 1737, dovette subito far fronte ai soliti problemi logistici; il più grave era la mancanza di legname, visto che negli anni precedenti erano già state costruite, oltre alla nave appoggio Fortuna, che assicurava il collegamenti con la Kamčatka, i vascelli Gavril, Nadezda e Arkangel Mikhail, che sotto il comando di Spanberg sarebbero stati inviati ad esplorare le Curili. Non mancavano anche fibrillazioni nell'ammiragliato, visto che i costi e gli anni (inizialmente ne erano stati preventivati quattro) erano lievitati a dismisura. Soltanto nel 1740 furono infine pronte le due navi destinate al viaggio americano: la San Pietro (Sv. Petr) comandata dallo stesso Bering e la San Paolo (Sv. Pavel), affidata a Čirikov. Nel frattempo, Steller era arrivato in Kamčatka, dove un po' bruscamente aveva imposto la sua autorità a Krašeninnikov. Giunto qui nel settembre 1740, trascorse l'inverno nel forte di Bolšeretsk, dove, oltre a dedicarsi a studi naturalistici e etnografici, aprì la prima scuola destinata alla popolazione locale, verso la quale, al contrario dell'"imperialista" Krašeninnikov, aveva un atteggiamento aperto e solidale. Insieme a lui, nel febbraio 1741 fece una spedizione in slitta fino al Capo Lopatka, nel corso della quale ebbe a scoprire il primo degli animali marini che porta il suo nome, il leone marino di Steller, Eumetopias jubatus. Intanto Bering con la San Pietro e la San Paolo si era spostato nella baia dell'Avača sulla costa pacifica della Kamčatka, dove su suo ordine era stata creata una base con infrastrutture portuali, abitazioni e magazzini (dal nome delle due navi sarebbe stata chiamata Petropavlovsk; oggi è la capitale e la principale città della penisola). A febbraio scrisse a Steller, invitandolo a unirsi alla sua spedizione come medico di bordo e mineralista; non c'è bisogno di dire che Steller accettò con entusiasmo e all'inizio della primavera raggiunse la baia dell'Avača in slitta. Dopo dieci anni di preparativi, la seconda spedizione in Kamčatka stava finalmente per cominciare, segnata fin da subito da contrattempi e errori che si rivelarono fatali. In primo luogo, la partenza fu ritardata dall'attesa della nave d'appoggio Nadezda, prima trattenuta in porto da una tempesta poi incagliata in un banco di sabbia (privando in tal modo la spedizione dei biscotti che avrebbero permesso di svernare in America). Questo primo incidente ne causò un secondo: le provviste rimanenti dovettero essere trasportate via terra da Bolšeretsk; mancando di uomini, slitte e cani, Bering obbligò al servizio forzato alcuni Coriachi che, allontanati da casa e costretti a una semi schiavitù, si ribellarono, uccidendo sette russi. Seguì una spaventosa spedizione punitiva, che comportò la deportazione dei maschi adulti, l'uccisione di donne e bambini, la fuga o il suicidio di chi non voleva cadere in schiavitù. Uno choc per Steller, un luterano educato al pietismo, che perse ogni stima e rispetto per il comandante. Aggiungiamo un'ultima circostanza. Come vedremo, molti giorni preziosi furono sprecati su una rotta sbagliata, alla ricerca della mitica Terra di Joao da Gama (o Gamaland), un inesistente territorio che avrebbe dovuto trovarsi a nord tra l'Asia e l'America; inesistente ma indicato nella mappa predisposta dal geografo ufficiale della spedizione, Louis de l'Isle de la Croyère, e dai suoi fratelli Guillaume e Joseph-Nicolas. Finalmente le due navi partirono da Petropavlovsk il 4 giugno 1741. Dopo aver seguito per nove giorni una rotta in direzione sudest, dove si supponeva trovarsi Gamaland, virarono verso nordest. Il 20 giugno si imbatterono in una fitta nebbia in cui si persero di vista. Čirikov, mantenendo la rotta a nordest, dopo circa un mese avvistò terra (presumibilmente una piccola isola di fronte all'isola Principe di Galles, nell'Alaska sudorientale); inviati a terra successivamente due uomini, che non fecero ritorno, rinunciò a sbarcare, e, dopo aver avvistato la penisola di Kenai e l'isola di Afognak, dal momento che a bordo incominciava a imperversare lo scorbuto, attraverso le isole Aleutine fece rotta per la Kamčatka, dove era di ritorno in ottobre. Pochi giorni dopo, proprio di scorbuto morì de l'Isle de la Croyère, che era imbarcato sulla San Paolo. Al contrario del suo secondo, dopo la separazione delle due navi, Bering si ostinò a ricercare la Terra di Joao da Gama, indotto in errore anche da Steller che, osservando le alghe portate dalla corrente e la presenza di uccelli terrestri, credette prossima una terra in direzione sudest. Dopo altri quattro giorni perduti, cambiata finalmente rotta, la San Pietro il 16 luglio avvistò in lontananza un'alta montagna coronata di neve, che il capitano chiamò Monte Sant'Elia in onore del santo la cui festa cadeva il 20 luglio, giorno in cui finalmente toccarono terra in una piccola isola, che è stata identificata con Kayak Island, nel golfo d'Alaska. Bering intendeva fermarsi solo il tempo necessario per rinnovare le provviste di acqua dolce; Steller, incredulo, lo pregò prima con le buone poi con le cattive di permettergli di esplorare l'isola. Dopo un violento diverbio, in cui il naturalista minacciò Bering di deferirlo al senato di San Pietroburgo, il comandante si piegò e gli concesse... dieci ore! Dieci ore di esplorazione scientifica costate dieci anni di preparazione, come ebbe più tardi a scrivere l'amareggiato Steller. Come non capirlo! Ma proviamo a metterci nei panni di Bering: sapeva che il tempo per completare il viaggio senza mettere a repentaglio la nave e i suoi uomini era ormai agli sgoccioli. Bisognava rientrare alla base entro ottobre, per evitare di incappare nelle tempeste che a partire da quel mese rendevano impossibile la navigazione nel Pacifico settentrionale; inoltre ogni viaggio per mare che si prolungasse per più di due mesi metteva gli uomini a rischio di ammalarsi di scorbuto (una malattia devastante causata dalla carenza di vitamina C, le cui cause all'epoca erano ancora ignote o mal comprese). Dunque la sua fretta è più che comprensibile. In ogni caso, il nostro naturalista mise a frutto il poco tempo a disposizione e in quella mezza giornata si diede alla raccolta frenetica di piante, minerali e animali. L'incontro con quella che sarebbe stata chiamata ghiandaia di Steller (Cyanocitta stelleri) gli confermò che avevano toccato il continente americano, per la sua somiglianza con la ghiandaia americana (Cyanocitta cristata), che gli era nota grazie alle sue letture. Fu anche il primo scienziato europeo a vedere le lontre marine (che, come scopriremo nei prossimi post, occuperanno un ruolo importante nella storia dell'esplorazione russa del Pacifico settentrionale). Durante la sua escursione, Steller vide anche in lontananza i fumi di un insediamento indigeno e chiese al capitano di inviare una barca ad esplorarla; la risposta di Bering fu assai poco diplomatica: "Porta subito il tuo culo a bordo, se non vuoi che ti lasci a terra". Steller dovette ubbidire. Una volta salito sulla nave con le sue preziose raccolte, dovette subire un ultimo oltraggio: senza fare una piega, Bering fece voltare fuori bordo un esemplare di Rubus spectabilis (salmonberry), che gli sembrava perfettamente identico ai lamponi di casa. Il viaggio di ritorno cominciò così con il comandante e il suo naturalista ai ferri corti, potremmo dire separati in cabina, visto che Steller condivideva la cabina di Bering. Dopo aver costeggiato l'Alaska meridionale, la rotta seguì la cresta delle isole Aleutine, dove in brevissime soste Steller ebbe modo di raccogliere altri esemplari naturalistici e oggetti etnografici. Poté anche osservare molti animali marini. Intanto, uno dopo l'altro, gli uomini cominciarono ad ammalarsi di scorbuto. Il primo a morire fu il marinaio Nikita Šumagin, che venne sepolto in una di quelle che Bering in suo ricordo battezzò isole Šumagin. Mentre l'autunno incombeva e i venti battevano la nave, le condizioni a bordo erano sempre più drammatiche. Quando raggiunsero quella che credevano la costa della Kamčatka, su 78 uomini, 12 erano già morti e 49 ammalati; solo una decina di uomini aveva forze sufficienti per manovrare la nave, che il 10 novembre fece naufragio sulle scogliere in un'isola sconosciuta (oggi porta il nome di Bering). Lotta per la sopravvivenza e scoperte scientifiche Il primo a scoprire che non si trattava della Kamčatka fu proprio Steller, vedendo piante e animali che non aveva incontrato nel continente. Grazie a ciò che aveva appreso sia dalle letture sia dai contatti con le popolazioni native, incominciò subito a cercare piante capaci di combattere lo scorbuto; con un miscuglio di erbe, foglie e bacche, riuscì a mantenere in buona salute se stesso e il proprio servitore, mentre gli ufficiali rifiutavano di cibarsi di quell'intruglio. E così, si continuava a morire. Allo scorbuto e alla scarsità di cibo, si aggiungeva l'inclemenza del clima invernale, con temperature sempre più basse e tempeste devastanti (una delle quali finì di distruggere la San Pietro) e le incursioni degli animali selvatici, come le volpi artiche che non esitavano a penetrare nell'accampamento di quegli sventurati e ad azzannare quelli che lottavano tra la vita e la morte, come Bering (che morì l'8 dicembre; altri 17 uomini subirono la stessa sorte). Vedendo che si manteneva in buona salute, i suoi compagni incominciarono a prendere sul serio Steller e ad accompagnarlo a caccia o alla ricerca di erbe. Insieme a tre di loro, egli scavò nella sabbia dei rifugi dove dormire al riparo delle volpi; riuscì a cacciare queste ultime dal campo e a salvare i superstiti nutrendoli con biscotti intinti in grasso di foca e carne di lontra (efficace contro lo scorbuto perché relativamente ricca di vitamina C). Durante l'inverno, diresse la costruzione di un accampamento scavato nella neve. Nonostante tutte queste incombenze, non tralasciò le osservazioni naturalistiche; ad esempio, costruì un capanno proprio nel mezzo di una colonia di foche, dove poté osservarle non visto per sei giorni. La scoperta più sensazionale fu certamente la ritina di Steller (Hydrodamalis gigas), un gigantesco sirenide lungo fino a 8 metri, un esemplare del quale fornì abbondante cibo e calorie ai naufraghi. Purtroppo, per la caccia eccessiva, questa specie si estinse pochi anni dopo. Quando riconobbe in alcuni uccelli una specie che aveva già notato in Kamčatka (un altro degli animali che porta il suo nome, l'edredone di Steller, Polysticta stelleri) capì che la terra ferma non doveva essere lontana e stimolò i compagni a raddoppiare gli sforzi per mettersi in salvo. A primavera l'abilissimo carpentiere della San Pietro, utilizzando quanto rimaneva della nave, riuscì a costruire un battello più piccolo, battezzato con lo stesso nome. Lasciata l'isola Bering il 14 agosto 1742, dodici giorno dopo i 46 superstiti toccavano in salvo la baia dell'Avača. Le avventure di Steller non erano finite: mentre lavora ai suoi manoscritti (la relazione di viaggio, il trattato sugli animali marini De bestiis marinis, la descrizione delle numerose specie di animali e piante raccolte durante il viaggio e nell'isola Bering), continuò ad esplorare la Kamčatka e alcune delle isole Curili; in urto con l'amministrazione locale per le sue simpatie verso i nativi, fu posto sotto accusa e richiamato a San Pietroburgo; mentre era già sugli Urali, fu arrestato e ricondotto a Irkutsk. Scagionato, riprese il viaggio verso occidente ma morì a Tyumen a soli 37 anni. Una sintesi della sua vita avventurosa e travagliata nella sezione biografie. Stellera, una bellezza pericolosa Steller è noto soprattutto per le importanti scoperte zoologiche, ma quelle botaniche non sono ttrascurabili. Nelle poche ore trascorse in Alaska (durante la sosta a Kayak il 20 luglio e anche più brevemente tra il 30 e 31 agosto a Nagai Island) raccolse e descrisse 143 piante. Non meno significative sono le sue ricerche botaniche nell'isola Bering, in Kamčatka e in Siberia. Tra le piante che lo ricordano nel nome specifico Arabis stelleri, Cassiope stelleriana, Lagotis stelleri, Veronica stelleri, Limnas stelleri, Cryptogramma stelleri. Anche se Steller non poté pubblicare né le sue ricerche né il racconto del proprio viaggio, dopo la sua morte i suoi diari furono pubblicati da Pallas (Reise von Kamtschatka nach Amerika mit dem Commandeur-Capitän Bering) e gli diedero fama europea. Tra i suoi ammiratori, lo stesso Linneo che in Species plantarum (1753) gli dedicò il genere Stellera. Molto più tardivo l'omaggio del botanico russo Nikolaj Turčaninov che nel 1840 lo omaggiò con un secondo genere Stellera; poiché non valido per la regola della priorità, nel 1849 lo sostituì con l'anagrammatico Rellesta (oggi considerato un sinonimo di Swertia). Stellera L. (famiglia Thymelaeaceae) è un genere monospecifico, rappresentato unicamente da S. chamaejasme. Originaria delle regioni montane dell'Asia centrale e meridionale (inclusa la Siberia) è una perenne semilegnosa o un arbustino che, almeno nelle fioriture, ricorda l'affine Edgeworthia con infiorescenze globose assai decorative in diverse sfumature di colori (solitamente rosa, ma anche bianche o gialle). Molto attraente, è adatta ai giardini rocciosi, sebbene la sua coltivazione sia tutt'altro che facile. L'intera pianta è tossica, tanto che anche i suoi fiori sono evitati dagli insetti e nei pascoli di alta montagna del Tibet cinese la sua diffusione è considerata un problema per gli animali. Nonostante ciò, la medicina tradizionale cinese la utilizza da secoli come antinfiammatorio e oggi se ne studiano le proprietà antitumorali. Inoltre in Tibet dalle sue radici si ricava una carta di alta qualità, sottile e allo stesso tempo robusta, oltre che inattaccabile da muffe e insetti. Qualche approfondimento nella scheda. Restella: un anagramma vegetale La storia tassonomica del genere Stellera è assai travagliata; Linneo gli aveva assegnato due specie (S. chamaejasme e S. passerina, oggi Thymelaea passerina) cui se ne aggiunsero via via altre, fino a raggiungere una dozzina di specie. Più recentemente, con l'eccezione appunto di S. chamaejasme, sono state tutte riassegnate ad altri generi. Uno di essi, indirettamente, si ricollega ancora una volta al nostro eroe. Nel 1886 Eduard August von Regel aveva denominato Stellera alberti un arbusto raccolto da suo figlio Johann Albert durante una spedizione in Asia centrale; nel 1941, la botanica russa Evgenija Pobedimova la separò da Stellera e la attribuì al nuovo genere Restella (anagramma di Stellera). Anche Restella Pobed. appartiene ovviamente alla famiglia Thymelaeaceae, e anch'esso comprende una sola specie, appunto R. alberti. E' un bellissimo arbusto dagli sfolgoranti fiori giallo zolfo, endemico di poche località della catena del Tien Shan in Uzbekistan; benché raro, non è a rischio perché le aree in cui vive sono protette. Anche in questo caso, qualche informazione in più nella scheda. Per completezza d'informazione, segnalo che a Steller sono state dedicati indirettamente altri due generi: nel 1893 da van Thiegem Dendrostellera e nel 1950, nuovamente da Pobedimova, Stelleropsis; entrambi oggi sono confluiti in Diathron. Estremo lembo orientale della Siberia, la Kamčatka è una penisola lunga circa 2000 km, stretta tra il golfo d'Okhotsk a occidente e l'oceano Pacifico ad oriente. Anche oggi quasi disabitata (con un territorio poco maggiore di quello italiano, conta circa 300.000 abitanti), con un clima subartico e paesaggi mozzafiato, dominati dai numerosissimi vulcani, è un paradiso della biodiversità, con ambienti geologici unici, un fitto manto forestale, una ricchissima fauna - famosi su tutti gli orsi, che ne sono un po' il simbolo - e una flora varia e diversificata. Nel XVIII secolo, era abitata da circa 50.000 persone di etnia itelmena, che vivevano di caccia e pesca; la penetrazione dell'impero russo, che vi inviò nuclei di cosacchi e impose un tributo in pellicce ai locali, era iniziata da pochi decenni. Il primo a studiarla in modo sistematico fu Stepan Krašeninnikov, il più promettente degli studenti che parteciparono alla Grande spedizione del Nord. Secondo il progetto iniziale, a esplorare la penisola avrebbero dovuto essere i professori del distaccamento dell'Accademia, ma essi preferirono rimanere in Siberia e inviare al loro posto l'allievo. Giunto in Kamčatka nell'autunno del 1737, egli nell'arco di tre anni ne percorse in un lungo e in largo il territorio, raccogliendo una grande massa di informazioni benché lavorasse in condizioni difficilissime. Soltanto alla fine del 1740 arrivò da San Pietroburgo Georg Wilhelm Steller, che prese su di sé il comando della missione e gli ingiunse di rientrare nella capitale. L'arroganza del tedesco non lo ha tuttavia privato della gloria di essere stato il primo naturalista ad esplorare e descrivere la Kamčatka; gli si deve infatti Opisanie zemli Kamčatki, "Descrizione della terra di Kamčatka", il primo resoconto geografico, etnografico, linguistico e naturalistico della penisola, per la cui redazione Krašeninnikov poté avvalersi anche dei materiali di Steller. Titolare della cattedra di botanica e scienze naturali e curatore dell'Orto botanico dell'Accademia di San Pietroburgo, fu tra i primi russi ad essere ammesso in questa istituzione all'epoca ancora dominata da studiosi stranieri. A ricordarlo, oltre a diverse località della Kamčatka, il nome specifico di varie piante che fu il primo a descrivere, e il genere Krascheninnikovia, dedicatogli da un altro esploratore delle terre russe, Johann Anton Güldenstädt. Krašeninnikov l'esploratore Dominata da vulcani attivi, ricca di fiumi dalle acque purissime, con un manto forestale che offriva rifugio e alimento a una abbondante fauna selvatica, all'inizio del XVIII secolo la Kamčatka era abitata da circa 50.000 nativi che vivevano di caccia e di pesca. I russi li chiamavano Kamčadal, ma essi si definivano Itelmen. I primi nuclei russi, costituiti da distaccamenti militari di cosacchi incaricati di imporre ai nativi un tributo in pellicce, vi arrivarono nel corso del Seicento, creando piccoli insediamenti soprattutto sulla costa occidentale. Il più importante era il forte di Bolšeretsk, in realtà un minuscolo accampamento fortificato che nel 1728, quando Bering vi giunse durante la Prima spedizione in Kamčatka, contava appena 14 abitazioni. Proprio muovendo da Bolšeretsk Bering e i suoi uomini tra l'autunno e l'inverno 1728-29 compirono una difficile marcia attraverso le montagne per raggiungere la costa orientale, dove la primavera successiva costruirono la nave con la quale avrebbero esplorato il Pacifico settentrionale alla ricerca del passaggio a Nord est. Era il primo contatto scientifico con la penisola, sufficiente a mostrarne il grande interesse geologico e l'enorme potenziale naturalistico e economico (vale la pena ricordare che le pellicce erano la prima voce nelle esportazioni dell'Impero russo). L'esplorazione sistematica del suo territorio fu dunque uno dei principali obiettivi scientifici della Seconda spedizione in Kamčatka; ad occuparsene avrebbero dovuto essere i professori del distaccamento dell'Accademia, ma le cose andarono diversamente. Infatti, quando giunsero a Yakutsk, dove si trovava il quartier generale di Bering, Müller e Gmelin cambiarono programma. Il primo era seriamente ammalato, mentre il secondo aveva perso buona parte delle sue raccolte in un incendio. Decisero così di rimanere in Siberia e di inviare in avanscoperta in Kamčatka il loro studente più promettente, Stepan Petrovič Krašeninnikov, che intendevano raggiungere in un secondo tempo. Cosa che non avvenne mai. Fu così che il primo studioso a esplorare la penisola, e più tardi a pubblicare i risultati nella sua lingua madre, non fu uno dei numerosi scienziati tedeschi che dominavano l'Accademia della scienze, ma un figlio della grande madre Russia. In tal modo, il viaggio in Kamčatka di Krašeninnikov costituisce una tappa importante della nascita della scienza russa e della sua emancipazione dai mentori occidentali. In una Russia che non aveva conosciuto né il Rinascimento né la Rivoluzione scientifica, non esisteva infatti personale scientifico formato. Per sopperire in tempi rapidi a questa lacuna, su suggerimento di Leibnitz, con il quale si era intrattenuto a lungo durante il suo viaggio in Europa, Pietro il Grande volle creare l'Accademia russa delle Scienze (l'atto di fondazione è del 1724, poco prima della morte dello zar), che era allo stesso tempo una società scientifica e un centro didattico, da cui dipendevano un ginnasio e un'università. Le lezioni, in lingua latina, erano tenute dagli accademici, tutti stranieri provenienti da università dell'Europa occidentale; nel disegno di Pietro, in tal modo sarebbe stata formata una leva di giovani studenti russi che sarebbero diventati gli studiosi di domani, nonché i tecnici e i funzionari necessari al progresso del paese. Capiamo dunque bene perché la seconda spedizione in Kamčatka, cui l'Accademia fornì personale e supporto scientifico, accanto a tecnici e studiosi stranieri, come lo stesso Bering, danese, oppure il francese de l'Isle de la Croyère e i tedeschi Müller, Gmelin e Steller, abbia visto la partecipazione di un gruppetto di promettenti studenti russi, provenienti dai ranghi del ginnasio o dell'università dell'Accademia, oppure dalla migliore delle scuole moscovite, l'Accademia slavo-greco-latina. La spedizione, in tal modo, fu anche un gigantesco laboratorio didattico in cui gli studenti apprendevano il metodo e il linguaggio scientifico affiancando i propri professori sul campo. Uno di loro era il nostro protagonista, Stepan Petrovič Krašeninnikov. Figlio di uno soldato povero, si era distinto tra gli studenti dell'Accademia slavo-greco-latina, che offriva un corso di studi ancora tradizionale, basato essenzialmente sullo studio delle lingue classiche e della logica aristotelica. Proprio in vista della spedizione, nel 1732 (all'epoca era ventenne) fu inviato a San Pietroburgo dove venne istruito dai professori che poi avrebbe accompagnato nella spedizione, in particolare Gmelin e Müller. Partito con loro nell'agosto 1733, li accompagnò fino a Yakutsk; durante il lungo viaggio, durato circa tre anni, fece osservazioni meteorologiche con Gmelin e fu coinvolto in diverse escursioni a breve raggio, in cui via via affinò la sua capacità di studiare un territorio in ogni suo aspetto, dalla geografia alla geologia, dagli animali e dalle piante alle risorse economiche, senza trascurare la storia, gli usi, i costumi e le lingue delle popolazioni locali (campo in cui dimostrò un'eccezionale attitudine). Tra l'altro, fu incaricato di studiare due caverne e dipinti rupestri nei pressi di Krasnoyarsk e nel luglio 1735 diresse la sua prima spedizione indipendente, in cui esplorò e studiò le sorgenti calde sul fiume Onon. Il progetto iniziale prevedeva che tutto il gruppo proseguisse con Bering e si imbarcasse per la Kamčatka; come ha già anticipato, Müller e Gmelin rimasero invece in Siberia e ordinarono a Krašeninnikov di recarsi in Kamčatka a preparare il campo dove lo avrebbero raggiunto in un secondo tempo. Nel luglio 1737 Krašeninnikov partì dunque con il gruppo di Bering per Okhotsk, raggiunto dopo un faticoso cammino di 47 giorni; si imbarcò quindi con gli altri sulla nave Fortuna in direzione di Bolšeretsk, ma, poiché il battello era sovraccarico, dopo nove ore in balia delle onde, per proseguire si dovette buttare a mare buona parte dei bagagli (Krašeninnikov perse così le provviste per due anni e una parte dell'attrezzatura). Appena sbarcati, nell'ottobre 1747, sperimentarono anche gli effetti di un terremoto, uno tsunami con epicentro nelle Curili, la lunga dorsale di isole che unisce la Kamčatka al Giappone. Mentre il resto della spedizione proseguiva il suo cammino verso la costa orientale, dove sarebbero state costruite le navi per l'esplorazione del Pacifico settentrionale, Krašeninnikov rimase a Bolšeretsk per preparare il campo base e iniziare l'esplorazione della penisola. Era una regione difficile e ostile (oltre a terremoti e al clima rigido, erano frequenti le ribellioni dei locali, poco disposti ad assoggettarsi al tributo imposto dai russi), ma estremamente varia e interessante da ogni punto di vista; intanto, una geologia peculiare con circa 160 vulcani, 29 dei quali attivi, campi di geyser, fonti di acque termali; una grande ricchezza di acque, con migliaia di corsi d'acqua alimentati da oltre 400 ghiacciai e centinaia di migliaia di laghi; un clima fondamentalmente subartico, ma con forti differenze, tra le valli e le cime, le zone interne e quelle costiere, tra la fredda costa orientale e la più mite costa occidentale; ambienti naturali altrettanti vari, in cui alla tundra arida e alle torbiere si alternano praterie erbose, boscaglie e foreste di conifere e latifoglie; una fauna estremamente ricca (lo è ancora oggi, e tanto più lo era trecento anni fa) con numerosi mammiferi, tra cui l'orso, il re e il simbolo animale della penisola, uccelli stanziali e di passo, un eccezionale patrimonio ittico. Appena giunto a Bolšeretsk, Krašeninnikov si attivò per preparare il terreno per l'arrivo dei professori, creando un campo base che includeva un piccolo giardino di acclimatazione per le piante, secondo le indicazioni di Gmelin. Dedicò questi primi mesi a brevi escursioni nella regione più meridionale, quindi nella primavera del 1738, accompagnato da un interprete e da un drappello di soldati, partì per la prima delle undici spedizioni nel corso delle quali avrebbe battuto in lungo e in largo la penisola. Percorse sia lunghi tratti della costa sia l'interno da sud a nord, per un totale di oltre 3500 km. Fu così in grado di descrivere le quattro penisole orientali della Kamčatka e i golfi da esse formati, i maggiori vulcani (tra cui il vulcano attivo più alto d'Eurasia, Ključevskaja Sopka, 4688 metri), i campi di geyser delle valli dei fiumi Paužetka e Banna. Seguirono numerose escursioni minori e una seconda lunga spedizione, iniziata nell'autunno del 1739, in cui Krašeninnikov risalì il fiume Bystra, per poi raggiungere le sorgenti del fiume Kamčatka che scese fino al forte cosacco di Nižne-Kamčatsk, dove raccolse informazioni sull'aurora boreale, chiaramente visibile nel marzo di quell'anno. I suoi informatori erano sia i pochi russi presenti nell'area, sia soprattutto i locali, da cui acquistava manufatti e che interrogava sulle pratiche di caccia e pesca, oltre ad osservarne gli usi e i costumi, secondo le precise indicazioni di Müller. Ovviamente, durante i suoi viaggi non mancava mai di raccogliere esemplari naturalistici che poi inviava a Gmelin, accompagnati da lettere-relazione in latino. Nel settembre 1740, giunsero a Bolšeretsk de l'Isle de la Croyère e Steller. Krašeninnikov, dopo tre anni di esplorazione solitaria, si ritrovò all'improvviso nei panni dello studente. Il tedesco infatti era stato incaricato di prendere il comando delle operazioni in Kamčatka e non senza arroganza ordinò al giovane russo di consegnargli i suoi materiali e di obbedire ai suoi ordini. Nell'inverno del 1740, Krašeninnikov mosse ancora una volta a nord, con l'intento di studiare i Coriachi (stanziati a nord della Kamčatka) e ebbe modo di osservare l'eruzione del vulcano Tolbačik. Tra l'inverno e la primavera del 1741, esplorò insieme a Steller la zona a sud di Bolšeretsk; durante questo viaggio, furono i primi naturalisti a vedere un raro mammifero marino poi denominato "leone marino di Steller", Eumotopias jubatus. Nel frattempo però erano giunti nuovi ordini da San Pietroburgo e Steller ingiunse a Krašeninnikov di raggiungere Gmelin e Müller in Siberia e di rientrare con loro nella capitale. Krašeninnikov l'accademico Krašeninnikov obbedì, ma senza fretta. Lasciata la penisola nel giugno 1741, arrivò a Turinsk, dove lo aspettavano i professori, solo ad ottobre, muovendosi lentamente per arricchire le sue collezioni. Insieme ai suoi maestri, svernò a Yakutsk, dove si sposò con la figlia del governatore locale. Ripercorrendo in parte il cammino dell'andata per completare le raccolte e le osservazioni, il gruppo, che ora includeva anche la neosposa, giunse finalmente a San Pietroburgo nel febbraio 1743. La lunga avventura in Oriente aveva fornito allo studioso russo gli strumenti e le credenziali per entrare nel mondo accademico. Due mesi dopo il suo ritorno, insieme ad altri studenti che avevano partecipato alla spedizione, sostenne un esame orale di botanica e latino, di fronte a una commissione costituita da Gmelin e da Siegesbeck, all'epoca curatore dell'orto botanico dell'Accademia. Nel 1745 venne accolto nell'Accademia come professore aggiunto, discutendo una tesi di dottorato su alcuni pesci della Kamčatka; iniziò anche a lavorare all'orto botanico come assistente di Siegesbeck, che poi sostituì quando questi fu costretto a dimettersi (1747). Krašeninnikov divenne così uno dei primi membri russi dell'Accademia delle scienze. Nel 1749 fece parte della commissione incaricata di respingere le "scandalose" tesi dell'antico maestro Müller, che aveva sostenuto (a ragione) l'origine vichinga dei fondatori della Russia, che egli respinse con forza insieme a Lomonosov e altri studiosi russi. Nel 1750 divenne titolare della cattedra di botanica e scienze naturali e qualche mese dopo fu nominato rettore dell'Università. Intanto, nel 1745 Steller era morto in Siberia, lasciando un manoscritto tanto ricco quanto indecifrabile, in cui al latino si alternavano il russo e il tedesco. L'Accademia decise di consegnarlo a Krašeninnikov, l'unica persona in grado di venirne a capo, per il perfetto dominio delle tre lingue, la sua lunga esperienza in Kamčatka e la collaborazione con lo stesso Steller. Integrando le note del tedesco con le proprie copiose osservazioni, intorno al 1748 Krašeninnikov incominciò così a scrivere un'opera sulla Kamčatka, che uscì nel 1755, poco dopo la sua morte, con il titolo di Opisanie zemli Kamčatki, "Descrizione della terra di Kamčatka". Di carattere enciclopedico, è divisa in due tomi, il primo dedicato alla geografia, alla fauna e alla flora, il secondo alla storia, alla cultura e alle lingue dei popoli nativi. Il primo tomo si apre con una sezione sulle caratteristiche generali della penisola e delle terre confinanti, con particolare attenzione ai fiumi; segue una sezione dedicata alla storia naturale, con approfondimenti sui vulcani, i geyser, gli animali e le piante, il commercio delle pellicce di zibellino, le maree. Nel capitolo dedicato alle piante, oltre a descrivere numerose specie fin ad allora sconosciute alla scienza, si dimostra soprattutto attento al loro uso come medicinali o alimenti, sulla base delle informazioni raccolte dai nativi. Analogamente, anche il secondo tomo è diviso in due parti: la prima descrive i popoli della penisola, le loro usanze, le loro lingue; la seconda espone la storia della conquista russa e le condizioni di vita dei russi e dei locali. Incuriosito e a volte indignato dai costumi di questi ultimi, Krašeninnikov oscilla tra la condanna per ciò che gli appare rozzo o lascivo e l'ammirazione per la libertà e la totale sintonia con il mondo naturale. Nazionalista e convinto assertore dell'imperialismo russo, non manca la difesa del "mite" dominio russo, condita con elogi cortigiani dell'imperatrice (all'epoca regnava Elisabetta, la figlia di Pietro). Accanto alla stesura di quest'opera, negli anni di San Pietroburgo, il principale interesse di Krašeninnikov fu la botanica, cui dedicò quasi tutti gli articoli pubblicati negli Atti dell'Accademia delle scienze. Studiò la flora dei dintorni di San Pietroburgo, lasciando un manoscritto che molti anni dopo fornì materiali a Grigorij Sobolevskij per la sua Flora petropolitana (1799). Nel 1752 visitò il lago Ladoga e Novgorod per studiarne la flora; i materiali da lui raccolti, sistemati da David de Gorter seguendo il sistema linneano, vennero pubblicati nel 1761 sotto il titolo Flora ingrica. Probabilmente minato dai lunghi anni trascorsi in Siberia, morì appena quarantaquattrenne, subito dopo aver terminato la prefazione di Opisanie zemli Kamčatki; secondo la testimonianza di un contemporaneo, si spense proprio il giorno in cui terminò la stampa del suo capolavoro. Nel 2015 le sue avventure in Kamčatka sono state raccontate nel documentario Expedition to the End of the Earth con la regia di A. Samoilov. Una sintesi della sua vita come sempre nella sezione biografie. Krascheninnikovia, una lanosa pianta delle steppe Come pioniere dell'esplorazione della Kamčatka, Krašeninnikov è ricordato da un certo numero di nomi geografici della regione e delle aree limitrofe, come il vulcano Krašeninnikov o la penisola Krašeninnikova. Gli è stato dedicato anche un asteroide e il nome specifico di qualche animale (ad esempio, il salmonide Salvelinus malma krascheninnikova) e di una decina di piante, come Gipsophila krascheninnikovii o Astragalus krascheninnikovii. Nel 1772, un altro grande protagonista dell'esplorazione dell'Impero russo, Johann Anton Güldenstädt (il primo a studiare sistematicamente il Caucaso) volle onorarlo con il genere Krascheninnikovia (famiglia Amaranthaceae). Una seconda dedica giunse molti decenni dopo (1840) da parte del botanico Nikolaj Stepanovič Turčaninov, che intorno agli anni '30 dell'Ottocento ripercorse alcuni dei territori siberiani visitati da Krašeninnikov e dai suoi maestri durante la Grande spedizione del Nord. Anche se la grafia è lievemente diversa, questo genere Krascheninikovia (famiglia Dianthaceae) non è valido per la regola della priorità. Krascheninnikovia Guldenst. è un piccolo genere di arbusti tipico delle steppe aride e fredde dell'emisfero boreale. Il numero di specie è discusso (da uno a tre), perché quella più diffusa, K. ceratoides, è estremamente variabile, con numerose varietà a diffusione locale che in passato sono state considerate specie a sé. Oggi le si riconoscono fondamentalmente due sottospecie: l'euroasiatica K. ceratoides sub. ceratoides e l'americana K. ceratoides sub. lanata. La prima è presente dall'Europa centrale all'Asia nord-orientale, con alcune colonie isolate in Marocco, Egitto e Spagna (relitti di una fase interglaciale a clima più freddo e arido); la seconda negli altopiani e nei deserti freddi dell'America nord-occidentale, dal Canada al Messico settentrionale, con una presenza particolarmente significativa in California. Si tratta di un arbusto o suffrutice alto circa un metro, eretto o prostrato, con piccole foglie tomentose dalle forme assai variabili; le infiorescenze sono dense spighe allungate, con numerosi fiori maschili protetti da grandi brattee lanose e pochi fiori femminili raggruppati in posizione terminale, con brattee più piccole. I semi sono provvisti di lunghi peli setosi bianchi che ne favoriscono la dispersione grazie al vento. La sottospecie americana, nota con il nome comune winter fat, ha un ruolo ecologico molto importante come foraggio per gli erbivori selvatici soprattutto nella stagione invernale. Oggi è talvolta anche coltivata per la bellezza delle foglie argentee, ma anche per le soffici fioriture. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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