Grazie alla grande variabilità morfologica e geologica del territorio, la flora sarda è particolarmente varia; inoltre, come avviene spesso nelle isole, è ricca di endemismi (circa 340 su un totale di 2410 entità, ovvero il 15% del totale). La Sardegna è dunque di grande interesse per i botanici anche oggi; tanto più lo era all'inizio dell'Ottocento quando era un territorio pressoché inesplorato per la scienza. Niente da stupirsi dunque se il giovane medico Giuseppe Giacinto Moris, appassionato botanico formatosi all'Orto di Torino, quando il governo piemontese lo spedì a Cagliari ad insegnare chirurgia, fece di tutto per non farsi sfuggire l'occasione di essere il primo a scrivere una Flora Sardoa. Fu l'impresa della sua vita: prima sette anni di ricerca sul campo in cui visitò quasi ogni angolo dell'isola, poi la pubblicazione di tre volumi (un quarto rimase inedito) protrattasi per oltre un ventennio. Capace e intraprendente direttore dell'Orto botanico di Torino per quasi quarant'anni, Moris fu anche senatore del Regno. A ricordarlo, oltre ai nomi specifici di diverse delle piante, la rara Morisia monanthos, endemica di Corsica e Sardegna. Un territorio tutto da scoprire Nei primi decenni dell'Ottocento, per un botanico entusiasta c'era ancora molto da scoprire anche nella vecchia Europa. Una delle aree pressoché inesplorate era la Sardegna che, al contrario delle regioni continentali degli stati sabaudi, era stata toccata solo marginalmente dalla grande ricognizione botanica promossa da Allioni e dai suoi allievi. Unica eccezione, le ricerche del medico Michele Antonio Plazza (1720-1791), titolare della prima cattedra di Chirurgia all'Università di Cagliari, che erborizzò nel Cagliaritano e nel sud dell'isola e fu in corrispondenza con Allioni; quest'ultimo, sulla base delle sue raccolte, nel 1759 pubblicò Fasciculus stirpium Sardiniae in Diocesi Calaris lectarum, il primo vero studio sulla flora sarda, in cui esaminò 136 specie (tutte abbastanza comuni). Plazza probabilmente intendeva scrivere egli stesso una flora sarda, ma il suo manoscritto, in cui le specie descritte sono 818, rimase inedito fino all'inizio del Novecento. Agli inizi degli anni '80, nel corso del suo viaggio mediterraneo, anche il celebre botanico norvegese Martin Vahl toccò rapidamente l'isola, dove scoprì una nuova specie di sparto o ginestra, di cui inviò un campione a L'Héritier de Brutelle (si tratta di Genista ephedroides DC, un endemismo sardo). Dunque, nel 1822, quando arrivò a Cagliari per assumere la cattedra di clinica medica, il ventiseienne medico Giuseppe Giacinto Moris, aveva un'intera flora da esplorare e da scoprire. Allievo prima di Balbis, che aveva acceso in lui l'entusiasmo per la botanica, poi di Capelli (direttore dell'orto torinese dal 1817 al 1831) probabilmente iniziò i suoi viaggi botanici fin da subito, e sicuramente dal 1823. Non era un compito facile: quasi non esistevano strade (la costruzione della Carlo Felice, che per la prima volta collegò il nord e il sud dell'isola era appena iniziata, e sarebbe stata terminata solo nel 1830), non c'erano alberghi, imperversavano il tifo e la malaria, non mancavano banditi e briganti. Bisognava dunque muoversi a cavallo, dormire all'aperto o chiedere ospitalità ai maggiorenti locali. Nelle sue prime spedizioni, Moris ebbe il sostegno di alcuni membri della Reale Società Agraria Economica di Cagliari, in particolare il canonico Murcas, Preside del Collegio dei Nobili e l'Intendente generale Greyffier, entrambi appassionati di botanica. Ma soprattutto trovò un compagno e un amico in Alberto La Marmora (1779-1863). Militare di carriera, quest'ultimo, sospettato di aver preso parte ai moti del 1821, era stato costretto alle dimissioni e esiliato in Sardegna, di cui cominciò a studiare la geologia, l'archeologia, la storia e a tracciare nuove carte, divenendo in breve il fondatore degli studi sardi in tutti questi campi. Un'esplorazione in profondità e un'opera fondamentale La prima spedizione documentata di Moris è del maggio 1823, quando insieme a Greyffier e La Marmora, muovendo da Cagliari visitò Aritzo e il Gennargentu. A giugno, ancora con La Marmora, era la volta di Domusnovas e del Sulcis. L'anno successivo, come riferisce in una lettera a Capelli, fu nelle zone più insalubri dell'isola (non sappiamo esattamente dove), forse in compagnia di Philippe Thomas, membro di una famiglia di botanici svizzeri, che in quel periodo viveva a Cagliari. Fino a quel momento, Moris, che era in Sardegna a insegnare chirurgia, non aveva alcun incarico ufficiale come botanico. Deciso a continuare le sue ricerche con l'obiettivo di scrivere una flora della Sardegna, attraverso Capelli incominciò a fare pressioni sul governo di Torino per essere esonerato dall'insegnamento e essere ufficialmente incaricato di esplorare la flora sarda; chiedeva anche finanziamenti, testi scientifici aggiornati e personale di supporto. La dispensa dall'insegnamento giunse nell'agosto del 1824 e all'inizio del 1825 da Torino arrivò Carlo Giuseppe Bertero, però non nelle vesti di aiutante, come credeva Moris, ma come direttore della missione; sebbene i rapporti personali tra i due fossero eccellenti e basati sulla stima reciproca, si generò una situazione equivoca cui mise fine lo stesso Bertero che preferì rientrare a Torino dopo pochi mesi. In ogni caso i due botanici piemontesi, sempre in compagnia di La Marmora, tra maggio e giugno avevano visitato il Sulcis e Iglesias. Partito Bertero, Moris continuò l'esplorazione con La Marmora, visitando Ogliastra, Fonni e nuovamente il Gennargentu. Fu durante una di queste escursioni che capitò un gustoso incidente riferito da La Marmora: Moris aveva raccolto numerose Malvaceae e le aveva disposte con cura in mezzo a fogli di carta in una cartella che portava sul dorso; avendo visto una pianta interessante, scese da cavallo, e, passandosi una briglia sotto il braccio per evitare che l'animale si allontanasse, si inginocchiò per raccogliere l'esemplare; nello sforzo, la cartella si aprì e venne a trovarsi proprio sotto il muso del cavallo che ne approfittò per farsi una bella scorpacciata. Il materiale raccolto incominciava ad essere ingente e, nonostante l'aiuto di Thomas, Moris si trovò in difficoltà. Fortunatamente, da Torino giunse l'incarico ufficiale e anche il sospirato assistente, nella persona di Domenico Lisa, giardiniere dell'Orto torinese, che sarebbe stato suo compagno nelle campagne del 1826-1827. Quella del 1826, con Lisa e La Marmora, fu un lungo giro di due mesi (maggio-luglio) nella Sardegna centrale, toccando tra le altre località Carloforte, Monte Arcuentu, Capo Frasca, Uras, Morgongiori, Flumentorgiu, Laconi, Gennargentu, Aritzo, Tonara, Desulo. Ancora più ampia fu la spedizione del 1827. Partiti da Cagliari l'ultima settimana di aprile, i tre compagni attraversarono l'intera isola, visitando Arbus, Ales, Santu Lussurgiu, Planargia, Bosa, Sindia, Bonorva, Monte Santo, Ozieri, Monte Rasu. Qui Moris e Lisa si separarono da La Marmora, continuando verso nord con un itinerario che non conosciamo con precisione. Del resto, oltre a quelle citate negli itinerari, molte altre località furono visitate da Moris, come risulta dalle note dell'erbario (nella cartina, sono indicate con un quadretto scuro). Malato, nella primavera del 1828 Moris rientrò a Torino, affidando a Lisa la continuazione del lavoro sul campo. Ancora a Cagliari, nell'aprile 1827 aveva in parte anticipato i risultati delle sue ricerche, pubblicando in contemporanea nella capitale sarda e a Torino Stirpium sardoarum elenchus, che contiene la descrizione di 1246 piante vascolari e la diagnosi di 26 specie nuove, seguito a giugno da un'Addenda e a dicembre da una seconda serie, con ulteriori 157 specie e la diagnosi di 17 specie nuove. A Torino nel 1829 diede poi alle stampe una terza serie, con altre 76 specie vascolari e un'ampia lista di crittogame. In tutto le specie descritte sono 1482. Moris non sarebbe più tornato in Sardegna, anche se le ricerche nelle zone che aveva dovuto tralasciare continuarono grazie a Lisa (ne parlerò in un altro post) e al sardo Simone Masala, che negli anni '60 raccolse molti esemplari nel Sarcidano e nell'area di Cagliari. Nel 1829 Moris fu nominato professore di medicina presso l'Università di Torino e nel 1831 succedette a Capelli come direttore dell'orto botanico torinese. Membro di molte istituzioni, senatore del Regno dal 1848, fu sempre più coinvolto in impegni accademici e amministrativi che rallentarono quella che riteneva la vera missione della sua vita: la stesura della Flora sardoa. Uscita nell'arco di un ventennio (nel 1837 il primo volume, tra il 1840 e il 1843 il secondo, tra il 1858 e il 1859 il terzo) è un'opera imponente, estremamente accurata nelle descrizioni e nelle determinazioni (a tal fine, Moris visitò importanti erbari a Parigi e Ginevra) e di grande pregio estetico, grazie alle 111 tavole che la illustrano, preparate sotto la sua stretta supervisione. La maggior parte è dovuta a Maria Maddalena Lisa Mussino, disegnatrice dell'orto torinese e moglie di Domenico Lisa. L'autore delle altre è John C. Heyland, disegnatore botanico che collaborò con celebri botanici dell'epoca, tra cui de Candolle. In tutto le specie descritte sono 1141, Benché incompleta (si limita alle fanerogame), Flora sardoa è un'opera fondamentale che divenne un punto di riferimento per tutti gli studi successivi, avendo anche il merito di stimolare l'interesse per la peculiare flora dell'isola e i suoi numerosi endemismi. Morisia, la pianta che si semina da sé Nelle opere maggiori e nei numerosi contributi usciti in diverse riviste, Moris pubblicò circa un centinaio di nuove specie. Sono numerose quelle che lo ricordano nel nome specifico, tra cui la bellissima Paeonia morisii Cesca, Bernardo & N.G. Passal. (anche se questa denominazione non è universalmente riconosciuta) e la rara Genista morisii Colla, limitata alla Sardegna sud-occidentale. Tra le specie più rare della nostra flora, inserite nella lista rossa, si fregiano del suo nome Borago morisiana e Dianthus morisianus. Nel 1832 lo svizzero Jacques Etienne Gay gli dedicò un nuovo genere endemico dell'area sardo-corsa, Morisia, famiglia Brassicaceae, anticipando di due anni l'omonimo Morisia, famiglia Cyperaceae, creato da Nees von Esembeck. A essere valido è dunque il primo, anche se nel 1838 de Candolle propose di cambiarlo in Morisea o Morisina per evitare confusioni con Morysia (genere oggi disusato, dedicato al collezionista francese Charles de Saint Morys). Morisia è un genere monospecifico rappresentato unicamente da M. monanthos, una specie endemica della Sardegna e della Corsica, che cresce in luoghi preferibilmente umidi e freschi, formando localmente colonie anche estese. E' un'erbacea perenne bassa, con rosette di foglie pennate con foglioline più o meno triangolari e fiori eretti a quattro petali giallo oro. La sua particolarità sta nel metodo di disseminazione; dopo la fioritura, i peduncoli si ripiegano verso il basso spingendo i frutti nel suolo, dove avverrà la maturazione e quindi la germinazione dei semi. E' considerata un paleo endemismo di origine nordafricana. Altre informazioni nella scheda.
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Una trentina di militari, guidati da due capitani, uno schiavo nero, guide e trappers franco-canadesi, un'intrepida ragazza indiana e il suo neonato, un cane labrador sono i protagonisti della più mitica spedizione della storia statunitense: quella di Lewis e Clark e del Discovery Corps, che tra il 1804 e il 1806 per la prima volta attraversò il nord America da est a ovest, aprendo la via per il Pacifico. Imponenti i risultati scientifici: i primi contatti con una sessantina di tribù indiane, grandi progressi nelle conoscenze geografiche, nuove carte e centinaia di animali e piante raccolti e descritti per la prima volta, tra cui diversi nuovi generi; ai due capitani Lewis e Clark toccarono i notevoli Lewisia e Clarkia. Preparazione Nel 1803, dopo una breve trattativa, Napoleone cedette la Louisiana francese agli Stati Uniti in cambio di 23 milioni di dollari; quel territorio di oltre due milioni di km² raddoppiava d'un solo colpo la superficie del paese. Oltre a parte dell'attuale Louisiana, con la capitale New Orleans, comprendeva infatti Arkansas, Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, parte del Minnesota, gran parte del Dakota del Nord, Dakota del Sud, l'area nordorientale del Nuovo Messico, l'estremità settentrionale del Texas, parte del Montana, Wyoming, il Colorado orientale e anche alcune parti delle attuali province canadesi di Alberta e Saskatchewan. Un territorio immenso, ma anche ben poco conosciuto, che la stessa Francia non aveva mai controllato davvero e neppure esplorato, se non per le piste battute dai cacciatori di pellicce e le poche vie commerciali lungo i bacini del Mississippi e del Missouri. Per il presidente Jefferson, che si era battuto per quell'acquisto nonostante la forte opposizione dei suoi avversari politici, era l'occasione per realizzare il sogno a lungo inseguito di esplorare l'occidente americano e di aprire una strada verso il Pacifico. Nel gennaio 1803 egli indirizzò al congresso una lettera segreta per chiedere un finanziamento di 2500 dollari per esplorare il bacino del Mississippi. Ottenuta l'approvazione, scelse come capo della futura spedizione il proprio segretario privato Meriwether Lewis, seguendo con cura la sua preparazione. Non solo gli mise a disposizione la sua biblioteca di Monticello - la maggiore del paese - ma lo inviò a Filadelfia perché potesse essere istruito da alcuni dei più eminenti scienziati americani in cartografia, astronomia, medicina, zoologia e botanica. In paleontologia lo istruì il medico Caspar Wistar, mentre il suo tutor in botanica fu Benjamin Smith Barton, amico e referente botanico di Jefferson. E' significativo che il presidente abbia affidato la missione a un militare (e soldati, a parte le guide e i battellieri, furono tutti i componenti della spedizione) e non a un naturalista di professione. Può aver influito il fatto che Jefferson stesso fosse un genio poliedrico versato in molte scienze che vedeva in Lewis una proiezione di se stesso; ma soprattutto contarono gli scopi politicamente sensibili della missione. Si trattava in primo luogo di mappare un territorio in gran parte ancora non segnato sulle carte; di valutare la presenza di inglesi e franco-canadesi e la loro intenzioni; di rivendicare il possesso effettivo dei territori prima di altre potenze; di stabilire relazioni commerciali con le popolazioni native; di aprire una strada percorribile fino al Pacifico, premessa di ogni futura espansione. Certo, non mancava l'aspetto scientifico; Lewis ricevette precise istruzioni direttamente da Jefferson che, per quanto riguarda la flora, recitano: "dedicare ogni attenzione al suolo e all'aspetto del paese, alle piante che vi crescono e ai prodotti vegetali, in particolare a quelli non presenti negli Stati Uniti". Lewis convinse William Clark, un vecchio compagno d'armi (erano entrambi capitani dell'esercito), ad unirsi all'impresa. Da quel momento, anche se nominalmente Lewis era il capo, avrebbero condiviso alla pari responsabilità e autorità. Incominciò poi a procurarsi l'equipaggiamento (tra cui figuravano il Dizionario di Miller e le opere di Linneo) e a luglio su recò a Pittsburg ad allestire il battello a chiglia necessario per navigare lungo il Missouri e i suoi affluenti. Ad agosto, insieme alle prime 11 reclute, risalì il fiume Ohio fino a Clarksville, dove incontrò Clark. I due si divisero i compiti: mentre Lewis muovendosi a cavallo completava l'equipaggiamento, Clark con il battello raggiunse Saint Louis, dove si occupò di arruolare ed addestrare nel forte di Camp Dubois sulla riva est del fiume i volontari del “Corps of Volunteers for Northwest Discovery.” I prescelti dovevano essere sani, scapoli, bravi a cacciare e usare le armi, dotati di buone capacità di sopravvivenza in un ambiente selvaggio. In tutto, i partecipanti furono 45, inclusi i due capitani, una trentina di volontari, i battellieri, gli interpreti e le guide ingaggiati durante il viaggio, uno schiavo di Clark di nome York. Completava la compagnia Seaman, il terranova di Lewis. Andata: da Camp Dubois al Pacifico La spedizione esordì ufficialmente il 24 maggio 1804 con la partenza da Camp Dubois del Corpo di scoperta, a bordo del battello a chiglia e di due piroghe; a Saint Charles i volontari incontrarono Lewis e Clark e proseguirono la navigazione sul Missouri, superando La Charette, ultimo insediamento bianco. Da quel momento entravano in territorio indiano; in previsione degli incontri con i nativi, era stato predisposto un protocollo che prevedeva il baratto di beni e il dono ai capi tribù di una medaglia con l'effige di Jefferson su un lato e due mani allacciate sotto un tomahawk e un calumet della pace sormontati della scritta “Peace and Friendship” dall'altro. Il primo contatto avvenne il 15 agosto con un gruppo di Odo, nei pressi dell'attuale Council Bluffs, Iowa; qualche giorno più tardi fu la volta di alcuni Sioux Yankton. Questi gruppi avevano già avuto contatti con cacciatori bianchi e, per quanto un po' delusi dai "doni" degli americani, si dimostrarono abbastanza amichevoli. Il 20 agosto si ebbe l'unica vittima della spedizione, il sergente Floyd, morto probabilmente di appendicite. Alla fine di settembre entrarono nel territorio degli Sioux Teton, detti anche Lakota, che accolsero i doni in modo ostile; il capo Bufalo Nero cercò di bloccare la spedizione, esigendo la consegna di uno dei battelli come pedaggio; si sfiorò la battaglia, ma di fronte alla superiorità militare del Corpo di scoperta, i Lakota si allontanarono. Continuando la navigazione verso ovest, all'inizio di novembre la spedizione toccò i villaggi di altre tribù amichevoli, i Mandan e i Minitari; Lewis e Clark decisero di fermarsi qui per l'inverno. Venne costruito un forte, detto Fort Mandan, dove il Corpo trascorse cinque mesi cacciando, preparando canoe, abiti di cuoio, mocassini, mentre Clark si dedicava a tracciare carte. A Fort Mandan fu ingaggiato come interprete il cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau e venne permesso alla moglie incinta, un'indiana Shosone di nome Sacagawea, di stabilirsi nel forte; a febbraio proprio qui la ragazza partorì il suo primogenito, Jean Baptiste soprannominato Pompy o Pomp. La giovane donna ebbe un ruolo importante per il successo della spedizione: non solo per la sua abilità di interprete e la profonda conoscenza del territorio, ma grazie alla sua stessa presenza. Poiché gli indiani non usavano portare donne nelle loro spedizioni guerresche, il fatto che i soldati fossero accompagnati da una donna e da un bambino in fasce agiva da salvacondotto, indicandone le intenzioni pacifiche. Il 7 aprile 1805 il battello a chiglia e il suo equipaggio con dodici uomini furono rimandati a Saint Louis, con relazioni, lettere, carte, manufatti indiani e esemplari zoologici e botanici. I "membri permanenti" (Lewis, Clark, 27 soldati, York, con l'aggiunta della famiglia Charbonneau e di almeno un'altra guida franco-indiana, George Drouillard) ripresero il cammino verso ovest per affrontare la parte più difficile del viaggio. Continuando a navigare in canoa lungo il Missouri, a metà giugno ne raggiunsero le grandi cascate, in realtà un sistema di cinque cascate successive, che impiegarono oltre due settimane a superare, spesso in condizioni difficili. Quando raggiunsero il punto in cui tre corsi d'acqua confluiscono per dar vita al Missouri, li battezzarono Galtin, Madison e Jefferson e proseguirono lungo quest'ultimo. Qui divenne importantissimo l'aiuto di Sakagawea; la giovane donna era un'indiana Shoshone, rapita da una tribù nemica quando era bambina e poi passata attraverso diverse mani prima di essere venduta a Charbonneau. Ella riconobbe il punto esatto dove era stata rapita e quindi il Beaverhead Rock, una formazione rocciosa non lontana dalla sede estiva del suo popolo, dove avrebbero potuto procurarsi dei cavalli. Toccava ora lasciare il fiume e proseguire a piedi; il 12 agosto raggiunsero il Lemhi Pass, Montana, che segna lo spartiacque continentale. Qualche giorno dopo, incontrarono guerrieri Shoshone avvertiti della loro presenza; grazie a Sakagawea, che fungeva da interprete, ottennero guide e i desiderati cavalli; la ragazza ritrovò la sua tribù e scoprì che suo fratello Cameahwait ne era divenuto capo. Quindi il gruppo attraversò la Bitterroot Mountain Range percorrendo il Lolo Trail. Fu il tratto più difficile, in cui dovettero affrontare rocce, foreste impenetrabili, fame, deidratazione, cattivo tempo, temperature inclementi, alcuni casi di congelamento. Dopo 11 giorni, il 22 settembre lungo il Clearwater River, Idaho, incontrarono un'amichevole tribù di Nez Percé, che li accolse e li aiutò a recuperare le forze e la salute. Costruite alcune canoe e affidati i cavalli agli amici indiani, affrontarono le rapide del Clearwater River per raggiungere lo Snake River, quindi il Columbia River. Il 7 novembre, Clark annotò nel suo diario: "Oceano in vista! Oh, gioia!". La missione era compiuta. Ritorno e congedi Prima di affrontare il ritorno, bisognava trovare un ricovero per l'inverno. Accamparsi al di qua o al di là del fiume Oregon, dove si trovavano terreni di caccia più abbondanti? La decisione venne messa ai voti e tutti parteciparono, compresi York e Sakagawea (un episodio celebre perché fu la prima volta, nella storia degli Stati Uniti, in cui venne riconosciuto il diritto di voto a un nero e a una donna, che allo stesso tempo era una nativa). Il mese di dicembre venne impiegato a costruire Fort Clatsop, presso l'odierna Astoria, Oregon, che fu pronto per Natale. Qui il Corps trascorse un inverno difficile, dovendo affrontare il tormento degli insetti, umidità, influenza e infezioni intestinali. Il viaggio di ritorno iniziò il 23 marzo. Risalendo contro corrente il Columbia e molte cascate, ritornarono presso gli amici Nez Percé, dove recuperarono i cavalli e attesero lo scioglimento delle nevi prima di affrontare il cammino attraverso le montagne. Lewis approfittò di questa sosta per raccogliere la maggior parte dei suoi esemplari botanici. Poterono rimettersi in marcia solo a giugno. Dapprima ripercorsero il cammino dell'andata attraverso le Bitterrots e il Lolo Pass, dove Lewis e Clark decisero di dividersi in due gruppi, nella speranza di trovare un collegamento più agevole tra Pacifico e Atlantico. Lewis si diresse a nord lungo il fiume Missouri, mentre Clark a sud lungo il fiume Yellowstone, fissando come punto d'incontro la confluenza dei due corsi d'acqua. Lewis prese con sé i cacciatori migliori e l'interprete e scout franco-indiano George Drouillard. Il gruppo di Clark includeva York, Sacagawea, Pompy e Charbonneau. Lungo il fiume Marias il gruppo di Lewis incontrò alcuni guerrieri Piedi neri che cercarono di rubare loro le armi e i cavalli; ne nacque uno scontro a fuoco (l'unico di tutta la spedizione) in cui morirono due indiani; poco dopo lo stesso Lewis fu ferito da un compagno in un incidente di caccia, con conseguenze spiacevoli ma non fatali. Al gruppo di Clark, toccò invece il furto di alcuni cavalli, sottratti da abilissimi indiani Crow che i nostri non ebbero neppure modo di vedere. I due gruppi riuniti raggiunsero il 12 agosto il villaggio dei Maidan, dove salutarono Sakagawea e la sua famiglia e da qui, con una facile navigazione con corrente a favore lungo il Missouri, il 23 settembre rientrarono a Saint Louis, dove furono accolti come eroi. Avevano percorso più di 8000 miglia, incontrato e stabilito relazioni con almeno una sessantina i popoli indiani, raccolto informazioni geografiche di prima mano e prodotto dozzine di carte. Nel campo delle scienze naturali, il contributo fu notevolissimo. Già mentre risalivano il Missouri, Lewis prese ad annotare sul suo diario di campo la velocità della corrente, la natura delle rocce e, ovviamente, gli animali e le piante via via incontrati. Il primo animale nuovo per la scienza fu Neotoma floridana, un roditore noto come eastern wood rat. Seguirono bufali, grizzly, cani della prateria, castori, coyote, pecore bighorn, per un totale di 120 specie tra mammiferi, uccelli, pesci e rettili. Quanto alle piante, Lewis, che era munito di una piccola pressa manuale, ebbe cura di raccoglierne centinaia di esemplari; furono coinvolti anche altri membri della spedizione, tra cui Clark e Sakagawea. Nelle sue note, Lewis dimostrò notevoli capacità di osservazione sull'habitat e le caratteristiche morfologiche di ciascuna specie, facendo anche tesoro delle conoscenze dei nativi sugli usi alimentari, medicinali e pratici delle piante. Ad esempio, descrisse con precisione il modo in cui le donne Nez Percé raccoglievano e preparavano i bulbi di Camassia quamash, una componente molto importante della loro dieta. In tutto, le specie raccolte furono 174, di cui circa 90 nuove per la scienza. Molte sono belle piante da fiore, raccolte lungo il Lolo trail nel viaggio di ritorno, e alcune sono oggi molto comuni nei nostri giardini, come Mimulus guttatus, Euphorbia marginata, Echinacea angustifolia. Se volete conoscerle tutte, non vi resta che visitare il bellissimo sito The Lewis and Clark Herbarium. Dopo la grande avventura, le sorti dei due capitani furono assai differenti. Lewis, nominato da Jefferson governatore della Louisiana, non si dimostrò all'altezza del compito e finì presto i suoi giorni nell'alcoolismo e forse nel suicidio (qui una sintesi della sua vita); invece Clark divenne governatore del Missouri, giocò un ruolo centrale nelle relazioni con i nativi ed ebbe una vita lunga e operosa. Si dimostrò abbastanza generoso e umano da educare nella sua casa e far studiare il piccolo Pompey, rimasto presto orfano, ma non abbastanza da affrancare York, che pure della spedizione era stato uno dei membri più validi. Le amare radici della Lewisia Ma torniamo alle piante. Quelle essiccate furono inviate a Philadelphia all'American Philosophical Society perché fossero studiate dal mentore di Lewis, Benjamin Smith Barton. Le poche piante vive e i numerosi semi furono divisi tra due vivaisti, William Hamilton e Bernard McMahon. A questi tre personaggi era legato il botanico tedesco Frederick Pursh, che fu incaricato dapprima di disegnare le illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare la pubblicazione dei diari di Lewis e Clark (che non si realizzò mai); andò poi con McMahon a Londra dove nel 1813 in Flora Americae Septentrionalis descrisse 130 piante raccolte durante la spedizione. Tra di esse anche le specie tipo dei due generi destinati ad immortalare i capitani, Lewisia e Clarkia. Due specie del primo risultano nell'erbario di Lewis e Clark: Lewisia rediviva Pursh, raccolta il 2 luglio 1806 lungo il Betterroot River; L. triphylla (S. Watson) B. L. Rob., raccolta qualche giorno prima lungo il Lolo Trail. Solo la prima fu descritta da Pursh e deve il suo nome a una vicenda curiosa. Giunta a Filadelfia come esemplare essiccato, in realtà era viva grazie alla radice carnosa; fu quindi prelevata e piantata nel vivaio di McMahon, dove spuntò e visse qualche anno prima di morire a causa delle annaffiature eccessive. Nota con il nome franco-canadese radiz amère, in inglese fu chiamata bitterrot, e diede il suo nome sia all'omonimo fiume sia all'adiacente catena delle Montagne rocciose. Nel 1895 è stata scelta come pianta ufficiale del Montana. Il genere Lewisia Pursh appartiene alla famiglia Montiaceae (un tempo Portulacacae) e annovera 16-19 specie endemiche degli Stati Uniti nord-occidentali; sono piante perenni rupicole amanti dell'ombra che crescono abbarbicate alle rocce del versante nord, basse e molto decorative grazie ai grandi fiori. Oggi la più popolare nei nostri giardini è Lewisia cotyledon, disponibile in un'ampia gamma di colori che vanno dal rosa chiaro al porpora passando per il salmone e l'arancio, spesso con i petali sfumati in più colori. Altre informazioni nella scheda. Ricordano Lewis anche molti nomi specifici delle specie da lui segnalate, come Phildelphus lewisii, Linum lewisii, Mimulus lewisii. Purtroppo nessun botanico ha pensato invece di dedicare un genere a Sakagawea, che pure l'avrebbe meritato come tramite tra gli esploratori bianchi e le conoscenze etnobotaniche dei nativi, oltre che come raccoglitrice in prima persona. A ricordarla (ma il personaggio è molto popolare negli Stati Uniti, celebrato da dozzine di statue) c'è però proprio una specie di Lewisia, L. sakajaweana, un endemismo dell'Oregon. La singolare Clarkia Fu sempre Pursh a stabilire il genere Clarkia, sulla base di C. pulchella, raccolta il 1 giugno 1806 sempre lungo il Bitterroot River da Lewis che la definì "una pianta singolare" per i quattro petali finemente divisi in tre lobi. Nella storia della scienza è nota anche perché Robert Brown si servì del polline di questa specie per le osservazioni che lo portarono alla scoperta del moto browniano. Il genere Clarkia appartiene alla famiglia Onagraceae e comprende una quarantina di specie di annuali, tutte native del Nord America, ad eccezione della sudamericana C. tenella. Diverse specie sono popolari annuali da giardino. La più nota è probabilmente C. amoena, spesso utilizzata anche come fiore reciso, di cui esistono molte serie con fiori a imbuto singoli e doppi in una gamma di colori che include il rosa, il lilla, il salmone, il porpora. il bianco; alcune cultivar hanno margini bianchi o centri in colore contrastante. Per ironia della sorte, proprio alcune delle specie più coltivate sono note con il nome comune godezia, o il nome botanico Godetia, poiché un tempo appartenevano al genere Godetia Spach, che fin dal 1955 è confluito in Clarkia di cui è divenuto una sezione. E' uno dei tanti esempi di quella che definisco "viscosità dei nomi botanici", ovvero della fatica di coltivatori ed appassionati ad adottare i nuovi nomi, anche dopo decenni e decenni come in questo caso. Qualche approfondimento nella scheda. Quando nel 1793 la spedizione Entrecasteaux collassa e gli ufficiali monarchici istigano gli olandesi ad arrestare i loro compagni repubblicani, tra i naturalisti l'unico a sfuggire a questa sorte è Louis-Auguste Deschamps. Durante il lungo periplo non sembra essersi distinto per particolare zelo naturalistico, ma ora accetta con entusiasmo la proposta del governatore van Overstraten di esplorare l'interno dell'isola. Sicuramente fa collezioni importanti, ma quando rientra in Francia la sua nave viene intercettata dagli inglesi, che sequestrano tutti i suoi materiali. Deschamps vivrà ancora a lungo la vita un po' oscura del medico e dell'erudito di provincia, ma il sogno di essere il primo a scrivere una Flora di Giava è ormai tramontato per sempre. Unica traccia del suo lavoro pionieristico un manoscritto, che dopo oltre secolo di oblio è stato studiato solo negli anni '50 del Novecento, rivelando che il botanico francese fu il primo a vedere e disegnare una Rafflesia. A ricordarlo il genere Deschampsia, che comprende aeree graminacee molto interessanti anche in giardino. Dalla spedizione di soccorso all'esplorazione di Giava Durante la spedizione Entrecasteaux, Louis-Auguste Deschamps sembra l'unico a non integrarsi, a non fare gruppo con i suoi compagni naturalisti. Gli altri a Parigi hanno fatto parte degli stessi ambienti - le societés savantes e i club rivoluzionari -, hanno le stesse idee politiche e stringono forti vincoli d'amicizia. Deschamps invece appartiene a un'illustre famiglia della nobiltà di toga di Saint-Omer, è monarchico, non sembra avere legami né personali né familiari con l'ambiente scientifico parigino, anche se all'inizio del 1791 è stato ammesso alla Societé d'Histoire naturelle. Non sembra neppure essere acceso dal fuoco sacro della ricerca che spinge gli altri a scontrarsi con il comandante e a prendere anche troppi rischi, come capita a Riche; è quasi defilato, in secondo piano. In Tasmania, quando per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, i naturalisti si dividono in tre squadre, non ne dirige nessuna. La Billardière - ma probabilmente è accecato dalla passione politica e dal rancore - ne mette addirittura in dubbio la competenza sia come chirurgo sia come naturalista. Sicuramente dovette invece fare la sua parte, in particolare in Nuova Caledonia dove sappiamo raccolse una notevole collezione. Quando a Giava gli echi degli eventi francesi scatenano la lotta aperta tra monarchici e repubblicani, Deschamps è il solo naturalista a non essere arrestato come agitatore rivoluzionario, sia che il comandante d'Auribeau ne conosca le idee, sia che egli si sia apertamente schierato dalla parte degli ufficiali controrivoluzionari. Ed è a questo punto, quando l'avventura dei suoi compagni finisce nell'angoscia della prigionia, che comincia la sua vera storia. Si trova anche lui a Semarang quando il governatore olandese van Overstraten gli propone di entrare al suo servizio per esplorare l'interno dell'isola, in vista della stesura di una storia naturale di Giava. Deschamps non si lascia sfuggire l'occasione di essere praticamente il primo naturalista occidentale a visitare la grande isola e tra il 1794 e il 1798 è impegnato in quattro intense campagne di esplorazione. Nel 1794, per prendere confidenza con il territorio, batte i dintorni di Ungaran, nella regione centrale. L'anno successivo, tra maggio e novembre 1795, un lungo giro lo porta prima nella regione centrale quindi lungo la costa sud, quindi di nuova nella piana centrale, infine sulla costa nord, fino a rientrare a Semarang, dove risiede tra un viaggio e l'altro, trascorrendo la stagione delle piogge a riordinare e classificare le raccolte. La campagna del 1796 lo vede raggiungere Surabaya navigando lungo i fiumi Solo e Mas, quindi esplorare la costa orientale, la parte più a est della costa meridionale (dove raccoglie tra l'altro una nuova specie di Passiflora e una Limonia) e l'isola di Madura, prima di ritornare nella regione centrale e rientrare a Semarang. Nel 1797 si dirige invece a occidente lungo la costa nord, per poi attraversare l'isola e raggiungere il settore centrale della costa sud, dove visita tra l'altro l'isola di Nusa Kanbangan; quindi muovendosi in diagonale verso nord ovest, tocca Bandung, Buitenzorg e Batavia. E' di fatto l'ultimo grande viaggio, cui nel 1798 seguirà solo una breve escursione nei dintorni di Buitenzorg. Durante questi lunghi e faticosi viaggi, in cui è accompagnato da disegnatori e portatori messi a disposizione dal governatore, scala montagne, visita boschi di teak e piantagioni di pepe, raccoglie informazioni sul bohun upas (Antiaris toxicaria, considerato l'albero più velenoso del mondo), esplora crateri, grotte e fonti termali, raccogliendo piante ma anche animali (a quanto pare, soprattutto pesci). Su quello che succede in seguito abbiamo due versioni. Secondo alcuni biografi, rientrò in Francia nello stesso 1798; molto più probabilmente, rimase invece a Giava fino al 1802, lavorando come medico a Batavia. In effetti, nel frattempo la situazione era cambiata: in Olanda era stata proclamata la Repubblica Batava e gli olandesi, da nemici della Francia e alleati della Gran Bretagna, si trovavano ora sul fronte opposto. A partire dal 1800, il porto di Batavia fu sottoposto al blocco navale britannico. Nel 1802 a cambiare la situazione intervennero due eventi: in primo luogo, l'amnistia concessa da Napoleone agli immigrati che non avessero impugnato le armi contro la repubblica; in secondo luogo, la pace di Amiens tra Francia e Regno Unito. Non sappiamo se nel frattempo Deschamps si fosse ufficialmente dichiarato immigrato; in ogni caso il nuovo quadro politico gli offriva l'occasione di tornare in patria senza rischi politici; partì dunque portando con sé i diari di campagna, numerosi disegni e presumibilmente le sue ricche collezioni naturalistiche. Tuttavia nello stretto della Manica la nave su cui viaggiava fu fermata dai britannici e tutto gli fu sequestrato. Come già La Billardière, anch'egli si rivolse a Banks per ottenerne la restituzione, ma nonostante le rassicurazioni di quest'ultimo, senza esito. Deschamps visse ancora a lungo. Tornato a Saint Omer, servì come chirurgo nell'ospedale cittadino; privo dei diari e delle collezioni, dovette rinunciare a scrivere la progettata Flora javanica, accontentandosi di una memoria sull'upas bohun e di alcuni articoli sui costumi di Giava. Gli rimase la passione per la botanica: raccolse un notevole erbario delle piante della regione (che i suoi eredi lasceranno alla biblioteca della città natale) e collezionò piante esotiche (come dimostrano alcuni acquisti di piante grasse messicane e fucsie sudamericane). Una sintesi della sua lunga vita (mori nel 1842) nella sezione biografie. Di manoscritti e erbari a lungo si perse ogni traccia, ma a Giava come a Londra girava la voce che durante il soggiorno nell'isola Deschamps si fosse imbattuto in una pianta straordinaria. Solo molti anni dopo John Reeves acquistò all'Indian House un pacco di documenti e piante essiccate che nel 1861 donò al Natural History Museum. E lì le carte giacquero a lungo; l'erbario andò perduto, mentre il manoscritto - consistente nei diari di campo di Deschamps, in un elenco delle specie raccolte e in un abbozzo di Flora Javanica, con diversi disegni - fu esaminato solo nel 1954 da C.A. Backer. Tra quei disegni, inequivocabile, l'immagine di un bocciolo di Rafflesia, che Deschamps vide nel 1797 nell'isola di Nusa Kanbangan. Anche se i botanici discutono di quale specie si trattasse (R. keithii secondo alcuni, R. horsfieldii secondo altri), è in ogni caso la prova che il primo occidentale a vedere e studiare un esemplare di questo stupefacente genere non fu né Horsfield né Arnold, ma proprio il nostro sfortunato Deschamps. Deschampsia, dai ghiacci dell'Artide ai giardini naturali Nel 1812, quando presumibilmente Deschamps si era ormai rassegnato alla sua vita di oscuro medico di provincia, il botanico Palisot de Beauvois gli dedicò il genere Deschampsia, separandolo dal linneano Aria, con le seguenti parole: "Dal nome di M. Deschamps, medico a Saint Omer, uno dei sapienti naturalisti nominati per la spedizione alla ricerca dello sfortunato La Pérouse". Tra il percorso esistenziale di Deschamps e quello di Palisot de Beauvois osserviamo coincidenze che non possono essere casuali: entrambi nobili e monarchici, si trovavano all'estero negli anni rivoluzionari e subirono qualche anno di esilio prima di poter ritornare in patria (Palisot nel 1798, Deschamps, come abbiamo visto, nel 1802). Inoltre, erano entrambi originari dell'Artois. Il genere Deschampsia, della famiglia Poaceae, comprende una trentina di specie di graminacee per lo più perenni ampiamente distribuite dalle zone artiche a quelle temperate fresche nonché nelle montagne tropicali, in pascoli umidi e radure boschive, in genere in terreno acido. Sono piante cespugliose che formano densi ciuffi di foglie lineari o oblunghe, da cui spuntano aeree infiorescenze a nuvola. Molte specie hanno un importante ruolo ecologico, come ospiti e cibo delle larve di diversi lepidotteri. La specie più nota è l'ubiqua D. caespitosa, il cui areale comprende entrambe le coste degli Stati Uniti, alcune zone del Sud America, l'intera Eurasia, l'Africa tropicale e l'Australia. Già ammirata da Karl Foerster che ne selezionò alcune varietà, questa specie molto variabile è di grande interesse in giardino, grazie al contrasto tra il fogliame verde scuro e le vaporose e aeree infiorescenze, soprattutto per le cultivar con spighette giallo-argenteo, come 'Goldschleier', o giallo-dorato come 'Goldtau' o 'Schottland', che crescono bene anche all'ombra. D. anctartica, una delle due sole piante superiori che vivono nel continente antartico, vanta invece il record di essere la monocotiledone più meridionale del mondo, capace di sopravvivere fino a -30°, nei lunghi inverni artici con luce minima o assente, grazie a un gene che inibisce la ricristallizzazione del ghiaccio. Qualche approfondimento nella scheda. Alla vigilia della Rivoluzione francese, un piccolo gruppo di amici fonda una nuova società scientifica, caratterizzata dall'interdisciplinarietà, dall'indipendenza e dalla fedeltà al metodo sperimentale. E' la Societé Philomatique, destinata a un grande avvenire. Tra i soci fondatori, Claude-Antoine-Gaspard Riche, che dopo esserne stato il primo segretario, nel 1791 lascerà la Francia come naturalista dell'Espérance, una delle due navi della spedizione Entrecasteaux. A ricordarlo il singolare genere Richea, con nove specie endemiche della Tasmania che egli esplorò insieme all'amico La Billardière. Studio e amicizia Il 10 dicembre 1788, a Parigi, sei amici fondano una nuova associazione scientifica. Tutti giovani o giovanissimi, sono Augustin-François de Silvestre; Charles de Broval, matematico e fisico; il dicottenne Alexandre Brongniart che diventerà un famoso geologo; e tre medici: Claude-Antoine-Gaspard Riche, Joseph Audirac e un certo Petit. I promotori dell'iniziativa sono senza dubbio Silvestre e Riche, entrambi ventiseienni e innamorati delle scienze naturali. Il primo per classificare i libri del suo patrono si è sentito in dovere di studiare matematica, fisica, chimica, scienze naturali; è diventato così uno studioso autodidatta, una figura familiare nei salotti letterari e scientifici del tempo, amico di molti eminenti scienziati. Il secondo si è laureato in medicina a Montpellier nel 1787, per poi spostarsi a Parigi dove, grazie anche al fratello maggiore, l'ingegnere Gaspard Riche de Prony, ha stretto amicizia con scienziati come Vicq d'Azyr e Cuvier. Di carattere ardente e entusiasta, è anche vicino alla Societé Linéenne, di cui condivide la battaglia per la diffusione del sistema di Linneo (che, per diverse ragioni, è invece avversato tanto dal vecchio Buffon quanto dai naturalisti del Jardin des Plantes). All'inizio l'associazione è solo un gruppo di amici che si incontrano settimanalmente, a turno, a casa di uno dei membri, per leggere i loro lavori, discutere delle ultime novità scientifiche, replicare esperimenti. Tre caratteristiche sono evidenti fin dall'inizio: l'indipendenza tanto dall'autorità politica quanto delle istituzioni scientifiche riconosciute; l'interdisciplinarità (gli interessi dei soci toccano matematica, fisica, chimica, scienze naturali, geologia, scienze della salute); la vocazione pedagogica e l'interesse per le applicazioni pratiche della scienza a beneficio della società. Nel nuovo clima di libertà dei primi mesi della Rivoluzione, la società si consolida e si espande: nell'autunno si dota di uno statuto, di un motto (Studio e amicizia), di un nuovo nome: Societé philomatique de Paris, ovvero società degli amanti della ricerca. Il suo programma è nobile e ambizioso: "diventare un luogo di incontro generale dove confluiranno le nuove conoscenze e da cui si espanderanno nel mondo degli studiosi, in una catena luminosa e ininterrotta di verità e insegnamenti". Per elezione e cooptazione entrano nuovi membri: il primo, sempre nell'autunno 1789, è il chimico Vauquelin, scopritore del berillo e del cromo. Tra il 1790 e il 1791 l'associazione continua ad allargarsi, raggiungendo 18 membri effettivi e 18 corrispondenti. Ma a farla decollare sono gli eventi del 1793: l'8 agosto la Convenzione sopprime le Accademie e le società scientifiche legate al vecchio regime; di conseguenza nell'autunno molti ex accademici chiedono di essere ammessi ai Philomathes, che ormai riuniscono il fior fiore della scienza francese: Berthollet, Fourcroy, Lavoisier, Lefebvre d'Hellancourt, Ventenat, Vicq d'Azyr, Lamarck, Monge, Prony, Laplace. Ma questa è ormai un'altra storia. Nel frattempo, ad eccezione di Silvestre (segretario fino al 1802) e Brongniart, i soci fondatori sono ormai usciti di scena: Audirac è morto nel 1790, Broval è emigrato nel 1792, di Petit si sono perse le tracce. Quanto a Riche, dal settembre 1791 è coinvolto nella grande avventura della spedizione Entrecasteaux alla ricerca di Laperouse, come naturalista dell'Espérance. Fino a quel momento è stato l'anima dell'associazione; come segretario, ne ha redatto i bollettini mensili (che fino al 1792 erano manoscritti, copiati in 18 copie, una per ciascun corrispondente). Passione naturalistica, disavventure e disastri A convincerlo a partire, oltre all'amore per la scienza, una serie di considerazioni: quella principale è la salute; fin dagli anni di Montpellier il giovane naturalista soffre di tubercolosi, tanto che sono i suoi stessi amici a spingerlo a partire, nella speranza che il viaggio per mare e il mutamento di clima gli giovino; poi il desiderio di gloria, alimentato, secondo Cuvier (che di Riche ci ha lasciato un commosso elogio funebre) da una storia d'amore: temperamento appassionato e romantico, negli anni universitari Claude si innamorò perdutamente di una giovane, tanto appunto da ammalarsi; questo amore contrastato l'avrebbe spinto prima a venire a Parigi a cercare la gloria scientifica, per rendersi degno dell'amata, poi a partire per i mari del Sud, a trovare o la morte o la fama. Ho già raccontato delle vicende della spedizione in questo post. Riche si legò di amicizia soprattutto con La Billardièere, cui lo univano sia l'amore per la scienza sia la passione politica (sembra che a Parigi avesse fatto parte del club giacobino); inoltre come naturalisti erano per così dire complementari: La Billardillière era soprattutto un botanico, Riche soprattutto uno zoologo. Dunque collaborarono senza rivalità ciascuno alle ricerche dell'altro, scambiandosi esemplari, osservazioni e insegnamenti, in puro spirito di amicizia filomatica. Fedele allo spirito interdisciplinare della società, durante la spedizione Riche si occupò anche di meteorologia, geologia e chimica, nonché di misurare i venti, la salinità, la luminescenza delle acque; il suo interesse principale era tuttavia la fauna acquatica. Anche per lui, dopo gli entusiasmi iniziali, subentrò la frustrazione delle soste troppo brevi rispetto ai lunghi tratti di mare, che divenne rabbia per l'indifferenza quando non l'ostilità degli ufficiali. In una lettera a Entrecasteaux, scritta nell'agosto 1792, mentre veleggiavano verso le Molucche, Riche lamenta che non solo durante gli scali non gli è stato prestato alcun aiuto, ma che gli uomini dell'equipaggio si appropriano delle prede migliori per arricchire le proprie collezioni private. La risospota del comandante, come possiamo immaginare, fu negativa e alquanto minacciosa. L'avventura più pericolosa toccò a Riche durante la sosta a Esperance Bay, nell'Australia occidentale (14-16 dicembre 1792). Attratto da fumi intravisti in lontananza, si allontanò dagli altri, finendo per perdere l'orientamento; vagò poi per due giorni nei pressi di un lago interno, finché riuscì in qualche modo a raggiungere il mare. I compagni lo trovarono esausto su un piccolo capo ribattezzato in suo onore Cape Riche; a un certo punto aveva anche dovuto abbandonare le sue raccolte. In quelle ore disperate non aveva incontrato anima viva, eccetto tre canguri; si era sostentato solo con l'acqua di una fonte e le bacche di un'Ericacea, battezzata Leucopogon richei (oggi L. parviflorus) da La Billardière. Quest'ultimo, sollevato ma anche seccato per la sventatezza dell'amico, ne approfittò comunque per erborizzare, raccogliendo, oltre a questa pianta, Banksia repens e B. nivea, Chorizema ilicifolia, Eucalyptus cornuta e Anigozanthus rufa (la pianta nota come "zampa di canguro"). Quando la spedizione a Giava finì in catastrofe, Riche fu tra i naturalisti imprigionati come agitatori giacobini. Dopo mesi di prigionia, il 13 luglio 1794, insieme a Willaumes, Legrand, Laignel, Ventenat e 19 marinai, gli fu concesso di partire per Mauritus (Ile de France). Dopo aver deposto la sua testimonianza sul tradimento degli ufficiali, egli era tuttavia tormentato dall'angoscia di aver perso il risultato di anni di fatiche (anche le sue raccolte e le sue carte erano finite nella mani degli olandesi); chiese dunque all'assemblea coloniale il permesso di tornare a Batavia per cercare di recuperarle. Nel novembre 1794 poté infine imbarcarsi sulla Natalie, una nave che riportava a Giava dei prigionieri olandesi; a Batavia le autorità olandesi ignorarono le richieste, e, di nuovo a bordo della Natalie, il 29 marzo 1795 Riche ripartì per l'Ile de France senza i materiali, ma con la soddisfazione di aver ottenuto il riscatto di una cinquantina di altri compagni di sventura, tra cui La Billardière. Tornò poi in Francia nel giugno dell'anno seguente, ma in condizioni di tale prostrazione che si spense nel settembre del 1797, senza aver potuto riabbracciare la famiglia (avendo scoperto, anzi, che la donna amata era caduta vittima del Terrore). Una sintesi della sua vita breve ed intensa nella sezione biografie. Nelle foreste e nelle praterie alpine della Tasmania Oltre a Leucopogon richei, La Billardière nella sua Relation du Voyage à la Recherche de la Pérouse (1800) volle dedicare all'amico perduto Richea glauca (oggi Craspedia glauca, dopo essersi chiamato C. richea). Per quanto la denominazione di La Billardière abbia la priorità, è stata soppiantata a favore (come nomen conservandum) del genere Richea creato da Robert Brown in Prodromus Florae Novae Hollandiae (1810). In tal modo Riche ha tenuto a battesimo un genere strettamente legato ai luoghi che esplorò, oltre che un'indubbia meraviglia della natura che non avrebbe mancato di affascnarlo. Il genere Richea R. Br. della famiglia Ericaceae (un tempo Epacridaceae) comprende 11 specie di alberi e arbusti, nove dei quali endemici della Tasmania. Molto variabili per dimensioni, dalla nana R. alpina all'arborea R. pandanifolia, sono accomunate dai rami segnate dalle cicatrici anulari delle foglie cadute; dalle foglie che avvolgono totalmente il fusto alla base, per poi incurvarsi e assottigliarsi all'apice; i fiori, raccolti in cime o pannocchie terminali, hanno corolla chiusa e petali fusi in un opercolo. Alcune specie sono piuttosto comuni in Tasmania, dove occupano ambienti soprattutto alpini e subalpini alquanto diversificati: aree aperte aride come R. acerosa, zone paludose come R. gunnii, macchie con suolo povero come R. procera, foreste umide come R. dracophylla. La specie più singolare è R. pandanifolia, un vero e proprio albero che può superare i dieci metri: in genere ha un solo fusto non ramificato, rivestito di foglie secche persistenti, coronato da un ciuffo di lunghissime foglie lanceolate, alle cui ascelle spuntano grappoli di fiori crema o bianchi: a prima vista, nessuno penserebbe che si tratta di un'Ericacea, anzi sarebbe facile scambiarla per una palma. Fiori a parte, è ingannevole anche R. dracophylla, un arbusto eretto dal portamento disordinato che sembra evocare una Draceana. Le specie arbustive di medie dimensioni, che formano ampie brughiere, si rivelano invece per quel che sono al primo sguardo: eriche dalle fioriture stupende, soprattutto la magnifica R. scoparia, con le sue pannocchie di un ricco rosa carico. Qualche informazione in più nella scheda. Nei due anni cruciali in cui in Francia cade la monarchia e si scatena il Terrore, la surreale spedizione Entrecasteaux, decretata dall'Assemblea nazionale e finanziata da Luigi XVI, ignara di quanto avviene in patria naviga nei mari australi in nome del re e della nazione alla ricerca di quanto resta della spedizione di La Pérouse. Fallita nel suo obettivo principale - le navi avvisteranno l'isola di Vanikoro, dove La Pérouse aveva fatto naufragio, ma inspiegabilmente la supereranno senza esplorarla - e risoltasi in una catastrofe umanitaria (quasi metà degli uomini morirà durante il viaggio) sarà tuttavia un grande successo scientifico: al suo attivo, la circumnavigazione di Australia e Tasmania, la scoperta o l'esplorazione di molte isole del Pacifico, la correzione delle carte nautiche, la nascita stessa dell'idrografia scientifica, con l'ingegner Beautemps-Beaupré. Eccezionali poi i risultati botanici, grazie soprattutto al combattivo Jacques Julien Houtou de La Billardière, che, gettati alle ortiche i nomi nobiliari, volle chiamarsi semplicemente cittadino Labillardière. A ricordarlo lo splendido genere australiano Billardiera. Prologo; una spedizione di soccorso in nome del Re e della nazione Quei 219 uomini che il 28 settembre 1791 - due settimane prima il re ha giurato sulla nuova Costituzione e due giorni dopo l'Assemblea nazionale si scioglierà per lasciare il posto all'Assemblea legislativa - lasciano il porto di Brest al grido "Vive le Roi! Vive la Nation!" non sanno che il fragile compromesso tra re e nazione sta per spezzarsi, e presto non ci sarà più alcun re. Forse uno degli ultimi atti di concordia tra i due poteri è proprio la loro missione, voluta dall'Assemblea nazionale e finanziata dal sovrano: a bordo di due bagnarole, riaddobbate in tutta fretta e ribattezzate pomposamente La Recherche e L'Espérance, partono per i mari del sud alla ricerca della spedizione La Pérouse, di cui non si hanno notizie da tre anni. Sotto il comando dell'esperto ammiraglio Antoine de Bruni d'Entrecasteaux, dovranno battere palmo palmo il Pacifico, ripercorrendo l'ipotetica rotta dell'Astrolabe e della Boussole, le navi di La Pérouse. La loro sarà anche una missione scientifica, che dovrà proseguire gli obiettivi della spedizione perduta. Ecco perché a bordo c'è una quindicina di scienziati: tra gli altri, il geografo e astronomo Claude Bertrand, il mineralogista Jean Blavier, l'astronomo Ambroise Pierson, l'ingegnere idrografo Charles-François Beautemps-Beaupré. Particolarmente nutrito il drappello dei naturalisti; tutti giovani, hanno un'età media di ventisette anni. Il decano e capo in pectore è il trentunenne Jacques Julien Houtou de La Billardière, un botanico esperto che ha già all'attivo una spedizione in Siria e Libano; c'è poi il brillante naturalista e geologo Claude Riche, membro fondatore e segretario della Societé philomatique; Louis Ventenat, elemosiniere della Recherche, fratello del botanico Etienne Pierre, più interessato alla natura che al suo creatore; il chirurgo e naturalista Louis Auguste Deschamps. Li affiancano i pittori Jean Piron e Chailly-Ely e il giardiniere Félix Delahaye, scelto personalmente da André Thouin di cui è stato allievo e collaboratore. Sulle onde dell'Oceano, quegli uomini portano con sé tutte le lacerazioni e le passioni ideologiche della Francia rivoluzionaria: ci sono i bleus, gli ufficiali, nobili e monarchici; i sottoufficiali, di origini borghesi, cui è negata ogni speranza di carriera, sensibili alle parole d'ordine dei club rivoluzionari, di cui sono membri attivi più di uno degli scienziati: i più sfegatati sono i giacobini La Billardière e Riche; ai marinai tocca ovviamente il ruolo dei sanculotti. Ma tutto questo, nell'entusiasmo del viaggio, per ora non conta. Il primo scalo, a Tenerife (12-23 ottobre), offre ai naturalisti l'occasione di sfidarsi nella scalata del picco del Teide; a vincere la partita è il gruppo della Recherche, guidato da La Billardière, anche se Deschamps e Piron cedono e tornano indietro. Il destino di sventura che aleggia sulla spedizione incomincia a manifestarsi nel secondo scalo, la colonia del Capo (16 gennaio 1792). Scendendo dalla Table Mountain, Claude Bertrand scivola e fa un volo di 15 metri. Gravemente ferito, abbandona la spedizione insieme a Blavier e Chailly-Ely, provati dal viaggio. Decederà poco tempo dopo. In mare, due giorni dopo la partenza (18 febbraio), muore anche il quartiermastro; sulla base di alcune ambigue testimonianze raccolte al Capo, Entrecasteux ha deciso di dirigersi al più presto verso l'arcipelago dell'Ammiragliato, doppiando l'Australia meridionale e risalendola in direzione nord est. Non è la rotta più breve, ma è l'unica possibile con due imbarcazioni poco adatte ad affrontare i forti venti della rotta più settentrionale. Un viaggio nei mari australi Attraversato l'Oceano Indiano, il 21 aprile le due navi raggiungono l'isola Van Diemen (ovvero la Tasmania) e gettano l'ancora nella baia - ribattezzata la Recherche - dove poi sorgerà la capitale Hoban. Mentre i vascelli vengono raddobbati, gli scienziati esplorano l'interno e scoprono cigni neri (Cygnus atratus) e due nuove specie di eucalipti (Eucaliptus globulus e E. resinifera). Non lontano dalla costa il giardiniere Félix Delahaye, secondo un'abitudine che si incontra anche in spedizioni precedenti, pianta un orto con semi portati dall'Europa, che dovrebbe costituire una risorsa per le navi europee che vi faranno scalo in futuro, oltre che uno strumento di civilizzazione degli indigeni. Ripartite il 17 maggio, le navi fanno rotta a nord ovest verso la Nuova Caledonia, che raggiungono un mese dopo. Dopo aver rischiato il naufragio sugli scogli dell'isola, ne esplorano la costa occidentale, all'epoca sconosciuta, quindi proseguono verso nord fino all'arcipelago dell'Ammiragliato (28 luglio). Nessuna traccia di La Perouse. Proseguendo verso nord, Entrecasteaux tocca diverse isole; l'unico scalo di una certa importanza è la Nuova Irlanda, dove La Billardiere e Riche fanno un abbondante bottino. Costeggiata la Nuova Guinea, mentre a bordo lo scorbuto miete diverse vittime, all'inizio di settembre le navi sono costrette a fare scalo a Ambon, principale colonia olandese delle Molucche. In questo angolo lontano dal mondo le notizie tardano mesi ad arrivare; nessuno sa che nel frattempo in Europa è scoppiata la guerra e Francia e Olanda sono nemiche. I francesi sono accolti generosamente, riforniti di vettovaglie, curati; i naturalisti - a cui tuttavia non è concesso di penetrare all'interno - devono accontentarsi dei lussureggianti giardini dei loro ospiti. La sosta dura oltre un mese e le tensioni latenti incominciano a emergere; La Billardière presenta all'ammiraglio una petizione, firmata dagli scienziati e da alcuni ufficiali,con la richiesta di essere parte in causa nella scelta della rotta e degli scali. Entrecasteaux rifiuta, minacciando di lasciare gli scienziati a Ambon; a sua volta La Billardière lo minaccia di sottoporre l'affare all'Assemblea nazionale... Il caso sembra chiuso, ma in realtà tra i due partiti - monarchici e repubblicani - si sta scavando un solco; gli scienziati mettono al bando Delahaye, che non aveva firmato la petizione, mentre per il motivo opposto gli ufficiali Willaumez, Gicquel e Legrand sono esclusi dallo stato maggiore. Partita da Ambon il 13 ottobre, la spedizione passa al largo di Timor, quindi si spinge in avanti nell'Oceano Indiano, per poi tornare verso est, a nord dell'attuale città di Perth. Dopo una tempesta che rischia di gettare i due vascelli sugli scogli, si salvano attraccando in una baia prontamente ribattezzata Espérance. Agli scienziati è concesso di scendere a terra, esclusi La Billardiere e Ventenat che sono agli arresti per aver protestato contro la decisione di Entrecasteux di non esplorare la costa occidentale dell'Australia. Preso dall'entusiasmo, Riche si spinge troppo all'interno e si perde; dopo cinque giorni di assenza, l'ammiraglio decide che, se non sarà ritrovato entro ventiquattro ore, le navi partiranno senza di lui. La Billadière riesce a strappare un rinvio di 48 ore: può così scendere a terra e cercare di salvare l'amico. Riche verrà ritrovato esausto sul piccolo capo che da quel momento porta il suo nome. Il 17 dicembre si riparte in direzione sud, completando il periplo dell'Australia, di cui Beautemps-Baupré rileva con precisione la costa meridionale. Il 20 gennaio 1793 sono di nuovo in Tasmania, dove Delahaye ritrova il suo orto in pessimo stato. Ignorando che il 21 gennaio Luigi XVI è stato ghigliottinato, i nostri naturalisti si danno alla pazza gioia; divisi in tre équipes, dirette rispettivamente da La Billardière, Ventenat e Riche esplorano a fondo il territorio, fanno ricche raccolte, entrano in contatto amichevole con gli aborigeni che Piron ritrae nei suoi disegni. Il mozzo dodicenne Gabriel Abelen dice a Ventenat di aver visto lungo il fiume Huon uno strano animale con il pelo di lontra, il becco d'anitra, la coda di castoro; nessuno gli crede: l'ornitorinco dovrà aspettare altri cinquant'anni per essere scoperto. Il 14 febbraio si riparte, in direzione Nuova Zelanda; La Billardière e Riche insistono per uno scalo che permetta di ritrovare Phormium tenax, una pianta descritta da Banks e Forster, che ritengono molto utile per fabbricare cordami. La risposta di Entrecasteuax già la immaginate: i due botanici giacobini finiscono un'altra volta ai ferri. Possono invece sbarcare a Tongatapu, l'isola principale delle Tonga. All'inizio sono accolti con danze e festini erotici, ma poi l'atmosfera si guasta, finché, temendo un agguato, i francesi lasciano l'isola dopo due settimane, non senza aver caricato duecento alberi del pane che La Billardière e Delahaye, secondo gli ordini ricevuti a Parigi, intendono importare a Mauritius. Di isola in isola continuano a risalire a nord, finché ad aprile toccano la Nuova Caledonia, dove sono favorevolmente accolti dagli indigeni antropofagi e La Billardière può arricchire la sua collezione di piante. Lo scorbuto fa una vittima illustre: Huon de Kermadec, comandante in seconda della spedizione e capitano dell'Espérance. Ripreso il viaggio, nell'isola Sainte-Croix un marinaio è ucciso con una freccia da un indigeno. L'area è pericolosa e, senza fermarsi, la flotta passa al largo dell'isola di Vanikoro, ignara che proprio lì aveva fatto naufragio La Pérouse. Nei mesi successivi, errano nel clima malsano delle isole della Melanesia. Le condizioni sanitarie diventano sempre più difficili. Il 20 luglio, al largo di alcuni isolotti detti degli Anacoreti, muore anche l'ammiraglio Entrecasteaux. Il comando è assunto da Alexandre d'Hesmivy d'Auribeau, che si ammala a sua volta; mentre diversi marinai muoiono di dissenteria, il giovane luogotenente Elisabeth Rossel fatica ad imporre la disciplina a un equipaggio sempre più recalcitrante. Guarito, Auribeau riprende il comando effettivo; dopo due scali nelle isole di Buru e Bouton, gettano infine l'ancora a Madura, all'entrata del canale che porta a Surabaya, nell'isola di Giava. Epilogo: nostoi Passano giorni incerti. Un primo emissario inviato a terra non fa ritorno; un secondo torna con una scorta di soldati olandesi; dopo una breve riunione, Auribeau annuncia ai suoi uomini che sono in guerra con l'Olanda e devono considerarsi prigionieri. E' concesso di sbarcare solo ai malati e ai medici (dunque tra loro anche La Billardière, Riche e il medico capo Roussillon, a sua volta botanico) che organizzano un ospedale di fortuna. Solo in questo momento, scoprono che cosa è successo in Francia durante la loro assenza. Nella confusione generale, il governatore di Surabaya permette addirittura ai naturalisti (La Billardière, Riche, Ventenant, Deschamps, Delahaye) di continuare le loro ricerche, non sappiamo se da soli o in gruppo. Gli olandesi considerano le due navi preda di guerra; nonostante ciò, Auribeau cerca di venderle al miglior offerente; gli ufficiali repubblicani Du Portail, Willaumez e Gicquel progettano di fuggire con le navi alla volta di Mauritius. Presumbilmente in combutta con Auribeau, Chateauviux, un emigrato provenziale come lui che si è arruolato sotto bandiera olandese, prende d'assalto le navi; mentre gli ufficiali repubblicani e una parte dell'equipaggio cercano di resistere, Auribeau ammaina il tricolore e innalza la bandiera bianca con i gigli, consegnando i vascelli agli olandesi. Denunciati come sovversivi gli ufficiali Laignel, Legrand, Willaumez, i naturalisti Riche, Ventenat, La Billardière, il pittore Piron vengono posti agli arresti. I diari, le raccolte naturalistiche, le carte e i rilievi di Beautemps-Beaupré sono requisiti come preda di guerra. Tra i naturalisti due soli scampano: Louis Auguste Deschamps e il giardiniere Delahaye. Il primo lo incontreremo di nuovo in un altro post. Quanto al secondo, i suoi rapporti con La Billardière rimangono ambigui; nel suo giornale di viaggio, quest'ultimo afferma di avergli affidato parte dei suoi materiali e sicuramente la custodia dei dieci alberi del pane sopravvissuti al viaggio, che l'abile giardiniere riesce a mantenere in salute e a moltiplicare per margotta, portandoli poi con sé a Mauritius, dove li trapianterà con successo. Rientrato in Francia nel settembre 1797, diventerà giardiniere della Mailmaison, al servizio dell'Imperatrice Giuseppina. Ma torniamo ai nostri naturalisti prigionieri. Insieme a una trentina di marinai "sanculotti", con una marcia di venti giorni attraverso la giungla sono condotti sotto scorta a Samarang, dove sono rinchiusi nella fortezza. Ventenat, che è stato trasportato in barella dagli amici, è alloggiato presso un medico della città. Più tardi, quasi tutti saranno trasferiti a Batavia, mentre a Samarang rimangono solo Piron e La Billardière. Nel famigerato clima di Batavia, muoiono in molti (compreso l'ultra realista Auribeau). Nel luglio 1794, grazie a uno scambio di prigionieri, a un primo gruppo è concesso di imbarcarsi per Mauritius; tra di loro Riche (anche su di lui tornerò con un post apposito) e Ventenat, che muore poco dopo l'arrivo nell'isola. La Billardière dovrà invece attendere la libertà fino al marzo 1795. Oscura è la sorte di Piron, che in ogni caso non tornò mai in Francia; sicuramente fu al lungo insieme a La Billardière, che portò con sé in Francia alcuni dei suoi disegni. Al nostro eroe, più ancora della prigionia, pesa di essere stato privato del frutto di tante fatiche. La sua ricca collezione di piante, minerali, insetti a un certo punto viene consegnata dagli olandesi a Rossel, l'ultimo capo nominale della spedizione che le porta con sé nell'ottobre 1794 quando si imbarca su una nave olandese alla volta dell'Europa; a sua insaputa, nel frattempo in Olanda è stata instaurata la repubblica batava, alleata dei francesi, Nelle acque dell'Atlantico, la nave "nemica" è dunque abbordata e catturata dai britannici. Rossel e compagni finiscono agli arresti, mentre le casse di La Billardière, preda di guerra, vengono portate a Londra. Secondo Rossel, appartengono al legittimo re di Francia, ovvero Luigi XVIII, al momento in esilio in Inghilterra; quest'ultimo, diplomaticamente, le dona alla regina Carlotta. Ma nel frattempo La Billardière è tornato in Francia e non è disposto ad accettare il fatto compiuto. Con l'appoggio del direttorio, scrive a Banks, di cui era stato ospite in gioventù al tempo dei suoi studi londinesi, perché usi tutta la sua influenza per convincere il governo britannico che quel dono è illegittimo e l'unico proprietario di quelle collezioni è colui che per raccoglierle ha rischiato la vita. Per una volta, la ragioni della scienza hanno la meglio su quelle della politica, e le casse di La Billardière prendono la via di Parigi, mentre Banks giura che a quel materiale, pur desiderandolo, non ha dato neppure un'occhiata e non si è appropriato né di un fiore né di una foglia. Per La Billardière (anzi, per il cittadino Labillardière, come ora si firma), dopo il viaggi e la prigionia, è arrivata l'ora dello studio e della scrittura. Nel 1799 pubblica Relation du voyage à la recherche de La Pérouse che tradotto in più lingue diventa un best-seller internazionale. Illustrati con 26 tavole di ritratti e paesaggi di Piron, 3 tavole di uccelli di Audebert e 14 tavole botaniche di Redouté, i suoi due volumi hanno un valore pionieristico per la conoscenza dell'etnografia della Tasmania e della Nuova Caledonia, nonché della flora e della fauna della Tasmania e dell'Australia occidentale. Tra le piante pubblicate per la prima volta, Eucaluptus cornuta e E. globulus, Banksia nivea e B. repens, Anigoxanthus rufus e Chorizema ilicifolia. Tra il 1804 e il 1806 è la volta di Novae Hollandiae plantarum specimen, un'ampia descrizione della flora australiana, in cui La Billardière dà conto, oltre della propria collezione, anche delle raccolte di Riche e della spedizione Baudin (1800-2); include 256 disegni, alcuni dei quali ancora di Redouté. Si tratta dell'opera più ampia sulla flora australiana prima del Prodromus di Robert Brown (1810). Tra le piante descritte per la prima volta, la carnivora Cephalotus folicularis, Adenanthos obovatus, Cahnia trifida per la costa meridionale; Adenanthos, Calytrix, Astartea fascicularis, Hakea clavata, Taxandra marginata, Acacia saligna per l'Australia sudoccidentale; Eucryphia lucida e Phyllocladus aspeleniifolius per la Tasmania. Talvolta criticata per una certa confusione nelle localizzazioni e per aver incluso piante raccolte da altri botanici senza dichiararne la provenienza, l'opera fu tuttavia lodata per l'eleganza del latino e l'accuratezza delle descrizioni. Come sempre, una sintesi della vita di La Billardière nella sezione biografie. Le campanelline e le bacche di Billardiera Quasi profetica del grande ruolo di La Billardière per la conoscenza della flora australiana fu la dedica del genere Billardiera da parte di James Edward Smith in A Specimen of the Botany of New Holland, pubblicato nel 1793, quando il nostro ancora navigava ignaro nelle acque australi. Altri generi omonimi, quindi non validi, gli furono dedicati da Moench nel 1794 e Vahl nel 1796. Molto opportunamente, questo genere della famiglia Pittosporacea è endemico dell'Australia, soprattutto delle zone esplorate da La Billardière. Comprende una ventina di arbusti e rampicanti legnosi diffusi in macchie e boschi aperti delle regioni temperate, in particolare in Tasmania e nell'Australia sudoccidentale. Molte specie sono di notevole valore ornamentale come rampicanti leggere, per i fiori a campanella aperta e le bacche solitamente eduli dai colori talvolta sgargianti; tra le più notevoli, la specie tipo, la comune B. scandens, che può essere coltivata come rampicante, tappezzante o alberello, con fiori verdastri, rosati o viola e frutti elissoidali verde oliva, quindi gialli a maturazione; B. longiflora, con fiori verdastri a campana lunga e stretta, seguiti da smaglianti bacche viola; curiosamente a descriverla per primo fu lo stesso dedicatario, che l'aveva raccolta in Tasmania e la pubblicò nella sua opera sulla flora australiana. Ma sicuramente la palma della bellezza va a B. heterophylla, che fino al 2004 - quando il genere Sollya è confluito in Billardiera - era nota come Sollya heterophylla, nome con cui fu descritta da John Lindley nel 1831. E' un arbusto rampicante le cui foglie cambiano aspetto dallo stadio giovanile a quello adulto, caratterizzato da aeree cime di fiorellini a campana blu profondo, un colore insolito nei giardini. Fu introdotta in coltivazione nei paesi a clima mite almeno dalla seconda metà dell'Ottocento. Qualche approfondimento nella scheda. Tra gli avventurosi cacciatori di piante di inizio Ottocento c'è anche un botanico piemontese, Carlo Giuseppe Bertero. Formatosi alla scuola di Balbis, di fronte all'onda nera della Restaurazione decise di lasciare l'Europa e di dedicare la sua vita all'esplorazione della flora di paesi lontani, possibilmente poco battuti. Il primo viaggio, tra il 1816 e il 1821, lo portò nelle Antille e in Colombia; dopo un breve rientro in patria, nel 1827 ripartì nuovamente per le Americhe, scegliendo una meta quasi vergine per la scienza: il Cile. Fu poi la volta delle Juan Fernandez, uno straordinario arcipelago oceanico che per qualche aspetto anticipa le darwiniane Galapagos, quindi di Tahiti; ma era l'ultimo viaggio: mentre faceva ritorno in Cile, la nave su cui era imbarcato si inabissò nell'Oceano Pacifico. Privo di sostegno da parte di sovrani o altre istituzioni pubbliche, finanziò le sue ricerche mantenendosi con la sua professione di medico. Anche se non pubblicò quasi nulla, il suo contributo alla conoscenza della flora del Nuovo mondo fu inestimabile. De Candolle, che gli fu amico e mentore, già al suo ritorno dalle Antille aveva voluto dedicargli Berteroa, un piccolo genere di Brassicaceae affine ad Alyssum che non ha nulla di esotico, essendo diffuso soprattutto nel Mediterraneo e nell'Asia occidentale. Primo viaggio: Antille Fu forse l'indignazione per un gesto politico che calpestava un uomo che considerava un secondo padre e con lui le ragioni della scienza a spingere Carlo Giuseppe Bertero a trasformarsi in un cacciatore di piante. Nato a Santa Vittoria d'Alba nel fatidico 1789, era venuto a studiare medicina a Torino ed era divenuto uno dei più brillanti allievi di Giovanni Battista Balbis, cui lo legava un affetto quasi filiale. Nel 1814, quando il suo maestro fu cacciato dall'università e l'intera facolta di medicina fu epurata degli "infranciosati" (con il licenziamento di otto docenti su nove), Bertero decise di dare le dimissioni da segretario del Grand Jury (l'organismo che faceva le veci del Tribunale di Protomedicato) e di non continuare gli studi nel collegio medico dell'Università. Anche la monotona e soffocante provincia albese non sembrava offrirgli alcuna prospettiva. Tornato a casa, come l'eroe stendhaliano Fabrizio del Dongo, si trovò immerso in atmosfera stagnante, senza alcuna prospettiva. A soddisfare la sua sete di conoscenza non bastavano le escursioni botaniche sulle Alpi e nelle campagne di casa. Era ora di lasciare l'Italia per cercare altrove fama e conoscenza. Unico cordone ombelicale con una patria matrigna, la corrispondenza con gli amici, primi tra tutti il maestro Balbis e il colto botanico dilettante Luigi Colla che, come vedremo, furono poi i principali destinatari anche dei suoi invii di piante e semi. La prima tappa, quasi ovviamente, fu Parigi, dove poté sfruttare le relazioni di Balbis con i maggior botanici francesi per avere accesso al Jardin des Plantes e a erbari ricchi di piante esotiche; importante fu l'incontro con C.H. Persoon, grazie al quale trovò un imbarco per le Antille come medico di bordo. Si era preparato al viaggio con scrupolo, non solo studiando negli erbari la flora di quell'area, ma anche l'inglese e lo spagnolo. Imbarcatosi nell'agosto 1816 a Le Havre, a fine anno giunse in Guadalupa, salutato quasi come un eroe per aver salvato se stesso e molti compagni di viaggio da un'epidemia di febbre gialla scoppiata a bordo. Nell'isola esercitò con successo la professione medica e divenne una figura nota e riconosciuta, tanto che il governatore gli offrì la direzione dell'orto botanico e di un laboratorio di storia naturale. Nonostante la proposta fosse allettante anche sul piano economico, Bertero rifiutò per non legarsi a un singolo luogo e estendere la sua esplorazione ad altre isole dell'arcipelago. Privo di ogni sostegno ufficiale a causa della cecità dei Savoia, egli dovette dunque dividere il suo tempo tra la professione medica, che amava e esercitava con il tipico spirito umanitario della tradizione illuminista-giacobina, e le ricerche sul campo; altra difficoltà, la mancanza di testi di consultazione (all'epoca, non erano ancora state pubblicate i grandi repertori di de Candolle e Sprengel, che per le piante americane in modo diverso tanto dovettero proprio alle ricerche del nostro). Così, la sua avventura americana fu costellata di progetti e ripensamenti: in una lettera a Colla, annuncia che intende visitare sistematicamente tutto l'arco delle Piccole Antille (Marie-Galante, Dominica, Martinica, St. Lucia, St. Vincent, Barbados, Grenada, Tobago, Trinidad), per poi raggiungere il delta dell'Orinoco. Il percorso reale fu tutt'altro: lasciata Guadalupe nel luglio 1818, visitò due isole all'epoca sotto dominio danese, St. Thomas e St. Croix; passò poi a Porto Rico, lussureggiante per la flora, ma deludente per il dispotismo e l'arretratezza civile. Tra 1819 e 1820 visitò le due parti di Hispaniola, quella orientale ancora colonia spagnola, e quella occidentale, divenuta nel 1804 repubblica indipendente con il nome di Haiti. Da qui, tra 1820 e 1821, si spostò verso le coste dell’attuale Colombia. La guerra civile che imperversava nel paese lo spinse a lasciare quell'area di per sé promettente; dopo aver toccato ancora la Giamaica, a ottobre era di nuovo in Europa. Il viaggio continua: Cile, Juan Fernandez, Tahiti Desiderava soprattutto incontrare Balbis (che ormai si era trasferito stabilmente a Lione) e riordinare le proprie collezioni. Probabilmente, pur non manifestando apertamente la sua delusione per rispetto del maestro, non fu soddisfatto nello scoprire che Balbis, invece di tenere riuniti gli esemplari che egli gli aveva inviato tra tante difficoltà, li aveva distribuiti, generosamente ma altrettanto sconsideratamente, agli studiosi interessati, disperdendo una collezione che solo chi l'aveva raccolta avrebbe potuto ordinare e catalogare in modo completo. Rientrato ad Alba alla fine dell'anno, erborizzò ancora intensamente in Piemonte, ma crescevano la frustrazione e il desiderio di ripartire. Nel 1825 collaborò con Moris che stava esplorando la flora sarda, ma pasticci burocratici trasformarono anche questa opportunità in un fallimento, nonostante gli ottimi rapporti personali con il collega. Quando, all'inizio del 1827, la morte della amata madre sciolse l'ultimo legame con il Piemonte, capì che era ora di mettersi di nuovo in viaggio. Cercava una meta poco battuta dai botanici, e su suggerimento di de Candolle, che incontrò a Parigi, scelse il Cile. In effetti quell'angolo del Sud America, se si escludono il viaggio di Feuillé all'inizio del Settecento e il capitolo sulla vegetazione nel Saggio sulla storia naturale del Cile dell'abate Molina, era quasi sfuggito ai botanici. Ancora una volta, Bertero dovette muoversi in modo individuale; è vero che a Parigi molti colleghi lo avevano blandito e corteggiato, ma egli dovette amaramente constatare che in realtà speravano di sfruttarlo per ottenere l'invio di qualche pianta rara; lo stesso de Candolle gli offrì del denaro per raccogliere piante per lui, proposta che egli respinse con sdegno, nonostante l'amicizia personale che lo legava allo svizzero. Accettò invece che pubblicasse le sue specie e le sue descrizione nel Prodromus, come male minore, prima che lo facesse qualcun altro. Strinse anche un accordo con il barone Delessert: dal Cile avrebbe inviato i suoi esemplari a lui, che avrebbe custodito le collezioni fino al ritorno di Bertero, distribuendo una copia ciascuno a Balbis, Colla, de Candolle e trattenendone una per sé. Tuttavia il pur ricco barone non finanziò il viaggio, che Bertero ancora una volta si pagò con la sua attività di medico. Anche in questo caso si imbarcò come medico di bordo; partito da Le Havre nella seconda metà di ottobre 1827, sbarcò a Valparaiso nel febbraio dell'anno successivo. Anche in Cile alternò all'attività di ricerca la professione medica, in condizioni tuttavia ben più difficili di quelle già complesse che aveva incontrato nelle Antille. Nel paese era difficile spostarsi per l'assenza di strade, il territorio battuto da banditi, la resistenza endemica degli indios mapuche; il livello culturale era basso (da un medico ci si aspettava che ti guarisse subito, altrimenti meglio gli intrugli tradizionali) e la natura ostile, con piogge incessanti e frequenti terremoti. In quegli anni, il territorio del Cile, ancora oggi un lungo petalo stretto tra le Ande e l'Oceano Pacifico, come ebbe a definirlo Neruda, aveva un territorio di circa un terzo di quello attuale, che rispetto alla capotale si estendeva per circa 500 km a Nord (fino a La Serena, ultima città prima del deserto di Atacama) e altrettanti a Sud (fino a Concepción, sulla foce del fiume Bío-Bío). Di fatto, i viaggi di Bertero dovettero limitarsi alla valle centrale; dopo essere vissuto per qualche tempo nei villaggi di Rancagua e San Fernando, si stabilì essenzialmente tra la capitale Santiago e il porto di Valparaiso, da dove partivano i suoi periodici invii di piante essiccate e semi per l'Europa. Per qualche tempo, a quanto pare, insegnò anche disegno naturalistico all'Instituto National e tra il 1828 e il 1829 pubblicò sulla rivista Mercurio cileno la sua unica opera edita, Lista de las plantas que han sido observadas en Chile por el Dr. Bertero en 1828, in cui passa in rassegna le piante da lui osservate nel paese, indicate con il nome latino e quello locale (prive di descrizione, non sono tuttavia valide ai fini dell'attribuzione del nome botanico). Tra le escursioni più ricche di scoperte quella che lo portò a risalire la valle andina del fiume Aconcagua, fino a Quillota. Nel 1829 o nel 1830 Bertero conobbe il viaggiatore inglese Alexander Caldcleugh, appassionato di mineralogia e di botanica. Costui, di ritorno da un viaggio in Brasile e Argentina, aveva visitato brevemente Más a Tierra, l’isola principale dell'arcipelago Juan Fernández, oltre 600 km al largo di fronte a Valparaiso. Nacque così l'idea di recarsi in quel luogo remoto e singolare, che insieme al nuovo amico il piemontese esplorò dal marzo al maggio 1830. Era la prima spedizione di un botanico professionista in una terra ricca di endemismi, dove egli raccolse 330 specie, di fatto quasi l'intero catalogo della flora dell'isola. Ma sulle Juan Fernández, oggi riserva della biosfera, vorrei tornare in un altro post, visto che non mancano le storie da raccontare. Si trattava di un'impresa di grande valore che forse avrebbe potuto aprire a Bertero le porte di un incarico prestigioso, come la direzione del Museo nazionale cileno. Tuttavia, proprio mentre il piemontese era a Más a Tierra, il governo liberale con il quale probabilmente aveva avuto contatti, come dimostrerebbe la sua collaborazione al Mercurio cileno, venne rovesciato e si impose un regime autoritario. Furono forse queste circostanze a spingere Bertero, privo di appoggi e credenziali internazionali, a partire per una meta ancora più remota: Tahiti. A proporglielo fu il belga Jacques Antoine Morenhout, che aveva stabilito un proficuo commercio di madreperla, legname, olio di cocco tra Cile e isole del Pacifico, con centro a Tahiti, dove aveva una casa. Poco sappiamo del soggiorno di Bertero a Tahiti, che dovette durare sei mesi; nell'aprile 1831, essendo venuto a sapere (con dieci mesi di ritardo) della rivoluzione di luglio in Francia, si imbarcò alla volta di Valparaiso, dove aveva lasciato i suoi materiali e da dove intendeva tornare in Europa. Ma la nave su cui si era imbarcato, appartenente a Morenhout, non arrivò mai in porto. Il belga ne concluse che doveva aver fatto naufragio dopo aver lasciato Raiatea, un'isola a 290 km a nord-ovest di Tahiti, da dove Bertero gli aveva inviato la sua ultima lettera il 15 aprile 1831. In ricordo, battezzò Bertero Reef, scogliera di Bertero, un gruppo di isolotti e scogli corallini della Polinesia francese dove verosimilmente potrebbe essere avvenuto il naufragio. Una sintesi della vita avventurosa del botanico piemontese nella sezione biografie. La dispersione delle collezioni Vicende altrettanto sfortunate ebbero le sue collezioni. Come ho già accennato, molti degli invii ricevuti dalle Antille da Balbis, furono da quest'ultimp dispersi tra numerosi colleghi; inoltre Balbis consegnò (prestò?) a de Candolle il diario di campo del viaggio che Bertero gli aveva donato, perché se ne servisse per la stesura del Prodromus (lo svizzero vi attinse a piene mani, talvolta anche riproducendo le descrizioni di Bertero parola per parola). Per fortuna, nel 1857, grazie a suo figlio Alphonse il prezioso manoscritto tornò a Torino; si tratta di 14 quaderni di campo, per un totale di oltre 1000 pagine, dove Bertero annotò 1746 raccolte, con una descrizione minuziosa, habitat, luogo di raccolta, nomi comuni, usi officiali locali, accompagnati talvolta da una discussione sistematica e tassonomica e da precisi disegni di dettagli morfologici. Le piante essiccate raccolte nelle Antille sono in parte confluite negli erbari di Colla e Balbis, ora presso l'Orto botanico di Torino, in parte disperse in dozzine di erbari sparsi per l'Europa. Non possediamo purtroppo i diari di campo relativi a Cile, Juan Fernandez e Tahiti. Dopo la morte del congiunto, gli eredi di Bertero misero all'asta i materiali conservati presso il barone Delessert (circa 15000 esemplari) e, benché i botanici torinesi fossero riusciti a raccogliere la somma necessaria tramite una sottoscrizione, ad aggiudicarseli fu una ditta tedesca che a sua volta li vendette tanto a istituzioni scientifiche quanto a collezionisti privati, disperdendo anche questa collezione. Un piccolo erbario di circa 400 esemplari rimase in Cile, dove costituisce la collezione più antica dell'erbario del Museo Nacional de Historia Natural di Santiago. A questo punto, il più importante depositario della memoria di Bertero rimase Colla, che sulla base degli invii dell'amico ne aveva pubblicato un parziale catalogo già nel 1829 in Plantae rariores ex regionibus chilensibus a clarissimo C. G. Bertero nuper detectae et ab. L. Colla in lucem editae. Ma anche su Colla tornerò in un altro post. La modesta Berteroa Benché queste sfortunate vicende abbiano privato Bertero della gloria che sognava e ben meritava, il valore del suo lavoro non sfuggì ai botanici contemporanei, come dimostrano le varie dediche che ricevette in vita e dopo la morte. Intanto l'imponente numero di piante contrassegnate dagli specifici bereteroi, berteroanus (oltre 300) sta a dimostrare l'importanza del suo contributo alla conoscenza della flora delle Americhe. Tre sono i nomi specifici che gli sono stati dedicati (cui si aggiunge il fungo Berteromyces Ciferri). Il più antico (e unico oggi valido) è Berteroa, creato da de Candolle nel 1821, separando B. incana dal linneano Alyssum. Seguì nel 1854 E. G. von Steudel che, anagrammando la denominazione, creò Terobera (oggi sinonimo di Machaerina Vahl); infine nel 1919 O.E. Schulz assegnò una Brassicacea affine a Berteroa al nuovo genere Berteroella (oggi sinonimo di Stevenia). Il genere Berteroa, della famiglia Brassicaceae, comprende cinque specie di erbacee annuali, biennali o perenni di breve vita distribuite tra Mediterraneo e Asia occidentale, dall'Italia alla Turchia, con massima concentrazione nella penisola balcanica. La più nota è B. incana, un'erbacea abbastanza invasiva che si è infatti diffusa al di fuori dell'area originaria, per altro difficile da determinare, ed ora è presente dall'Europa occidentale fino alla Siberia; si è anche ampiamente naturalizzata negli Stati Uniti dove è considerata un'infestante. In Italia sono presenti tre specie, appunto B. incana (Italia settentrionale e forse centro-settentrionale, Basilicata), B. mutabilis (solo in Calabria), B. obliqua (Italia centro meridionale, a partire dal Lazio). Tendono a crescere in ambienti disturbati caldi e aridi; i fiori generalmente bianchi, portati su lunghi racemi, hanno quattro petali profondamente divisi e sono seguiti da silique ovoidali. Qualche informazione in più nella scheda. Quando Mociño mostrò a de Candolle i disegni eseguiti durante la Real Expedicion Botanica, che aveva sottratto al saccheggio trasportandoli da Madrd a Montpellier con una carretta a mano, in cui trascorreva le notti facendo loro letteralmente scudo con il suo corpo, il botanico svizzero ne fu stupefatto, tanto da esclamare che superavano per qualità scientifica ed estetica quelli del tanto celebrato Redouté. Eppure erano opera non di illustri pittori accademici, ma di due illustratori botanici messicani, Vicente de la Cerda e Atanasio Echeverría, che per circa quindici anni avevano condiviso tutte le avventure della spedizione, accompagnando i botanici in ogni angolo della Nuova Spagna e disegnando qualcosa come 4000 tavole. Poiché molte delle piante essiccate erano andate perdute per le circostanze della guerra, attraverso le copie eseguite per de Candolle dalle dame ginevrine, quei disegni furono a lungo l'unica testimonianza visibile di molte nuove specie descritte nei manoscritti di Sessé e Mociño e una fonte fondamentale per il Prodromos dello stesso de Candolle. Il quale, riconoscente, volle dedicare due nuovi generi agli artisti messicani: quello che toccò a de la Cerda è piccolo e misconosciuto, mentre Echeverría si è aggiudicato il più noto, amato e coltivato tra quelli che onorano i membri della spedizione. Due giovanotti vivaci e volenterosi La realizzazione di un corredo di disegni botanici dal vivo della flora messicana fu fin dall'inizio uno degli obiettivi fondamentali della Real Expedición Botánica a Nueva España. Gli artisti cui sarebbe stato affidato questo compito dovevano essere ingaggiati sul posto; Martin de Sessé si rivolse perciò al direttore della Reale Accademia d'Arte di San Carlos, Jéronimo Antonio Gil; sebbene l'illustrazione botanica non fosse prevista nei corsi dell'Accademia, Gil scelse quattro allievi del corso di incisione cui fornire una preparazione specifica, sulla scorta delle puntuali indicazioni di Sessé, che li visitava assiduamente. Alla fine due furono i prescelti: il talentuoso Atanasio Echeverría y Godoy e il volenteroso Juan de Dios Vicente de la Cerda, meno dotato ma capace di significativi progressi. I due, descritti come giovanotti (avevano diciotto o diciannove anni) docili, volenterosi e dediti al lavoro, vennero assunti con una paga di 600 pesos annui per l'attività in bottega, da raddoppiarsi per il lavoro sul campo. Benché questa paga fosse la metà di quella percepita dagli artisti spagnoli che avevano partecipato alla spedizione nel Vicereame del Perù, fu ulteriormente ridotta a 500 pesos dalla Junta Real, l'Organo amministrativo della colonia. Da quel momento, e per circa quindici anni, i due artisti accompagnarono, ora insieme ora separatamente, le "escursioni" della spedizione. Il primo a partire fu de la Cerda, che partecipò alla prima campagna dell'ottobre 1787 nei dintorni della capitale; Echeverría seguì poco dopo. Poiché le loro opere sono rarissimamente firmate e i due pittori, oltre ad essere allievi dello stesso maestro, obbedivano alle identiche convenzioni dell'illustrazione scientifica, è difficile distinguere il lavoro dell'uno da quello dell'altro (tranne per i disegni che si riferiscono a piante di aree visitate da uno solo); nonostante ciò, agli occhi degli esperti almeno in qualche caso la mano di Echeverría è riconoscibile per la sicurezza del tratto, l'abilità nel tratteggio delle ombre, la luminosità dei colori, la precisione dei dettagli. Certa è invece l'enorme mole di lavoro compiuto, in parte sul campo in parte in atelier. Già all'inizio di maggio 1788 i due pittori avevano realizzato 187 tavole. Alla fine ufficiale della spedizione, sedici anni dopo, sarebbero state oltre 4000. I documenti della spedizione ci permettono di ricostruire la loro attività con una certa precisione. I due pittori accompagnarono insieme la prime due escursioni e la prima parte della terza, quando i botanici si divisero in due sottogruppi. I disegni realizzati in questa prima fase obbediscono a criteri formali molto precisi (inclusi in un rettangolo, con la pianta inserita al centro, adattandone per così dire la disposizione a questo rigido spazio), furono probabilmente eseguiti in collaborazione dai due artisti, che ne prepararono almeno due copie (una da inviare a Madrid, l'altra da conservare a Città del Messico a corredo del corso di botanica tenuto da Vicente Cervantes; in alcuni casi, furono eseguite ulteriori copie). Nella seconda fase, ciascuna sotto équipe fu invece formata generalmente da un solo botanico, accompagnato da un naturalista e da un disegnatore. Portando con sé i propri materiali (la carta, necessaria sia per i disegni sia per l'erbario, era il prodotto più ingombrante e indispensabile, poi c'erano i colori, le matite, le penne, i pennelli, le gomme e i raschiatoi), dovevano affrontare lunghi viaggi a piedi, dormire in una tenda, lavorare sul campo spesso in condizioni difficili. Mano a mano che il numero di specie raccolte cresceva, dovevano anche lavorare in fretta, per documentarne il maggior numero nel minor tempo possibile, non trascurando però i particolari anche minuscoli indispensabili per l'identificazione. In questa seconda fase, non vennero più eseguite copie sul campo. Anzi, spesso il pittore realizzava solo un bozzetto, che poi sarebbe stato completato in un secondo tempo. Come si vede dall'immagine che ho scelto, il pittore tracciava il disegno a matita, con una linea molto sottile ma sicura; il disegno veniva quindi ombreggiato con china o inchiostro ferrogallico steso a pennello; soltanto per gli esemplari più interessanti almeno alcuni particolari erano colorati con velature successive ad acquerello. Il bozzetto poteva poi essere completato in atelier, talvolta anche con l'ausilio di altri artisti (come Francisco Lindo, un altro allievo del San Carlos) che erano impegnati anche nella realizzazione di copie. Ma molti disegni sono rimasti allo stadio di bozzetto. Avventure di uomini e disegni A partire dagli ultimi mesi del 1791, Echeverría e Cerda non lavorarono più insieme sul campo. Quando la spedizione si divise per esplorare le regioni del Messico nordoccidentale, a Echeverría, con Mociño e Castillo, toccò l'area più impervia e settentrionale, fino al deserto di Sonora, mentre Cerda esplorava l'attuale stato di Sinaloa con Sessé e Maldonado. Tra il 1792 e il 1793, ancora Echeverría fu prescelto, insieme a Mociño e Maldonado, per la spedizione di Nootka (ce ne rimane una serie di piante regionali molto riconoscibili, caratteristiche delle regioni costiere umide del Pacifico nordorientale), mentre Cerda, attraversando il Messico centrale, rientrava a Città del Messico con Sessé e l'ormai malatissimo Castillo, avendo qui agio di completare, nei molti mesi che vi trascorse prima del ritorno del collega, molti bozzetti. Tra luglio e dicembre 1793, quando Sessé visitò le aree di Puebla e Veracruz, fu presumibilmente accompagnato prima da Echeverría , poi da Cerda. L'anno successivo, Echeverría accompagnò nuovamente Mociño nelle aree di Veracruz, Oaxaca, Tabasco. Quando poi la spedizione venne allargata ai Caraibi e all'America centrale, nuovo scambio di ruoli: mentre insieme a Mociño Cerda si spingeva in Guatemala, Salvador, Nicaragua e Costa Rica, Echeverría era con Sessé a Cuba e Puerto Rico. Le 140 tavole da lui dipinte nelle Antille sono considerate il suo capolavoro, rimarchevoli per l'attenzione ai dettagli e i colori vividi. Del resto, il dotatissimo Echeverría era ormai un artista riconosciuto, tanto che quando Sessé rientrò a Città del Messico, egli rimase a Cuba, entrando a far parte, come aiuto di José Guío, il pittore ufficiale, della Commissione di Guantanamo, una spedizione a carattere a metà tra scientifico e militare, durante la quale fu raccolta un'eminente collezione di pesci, uccelli e anche piante. Ritornato a Città del Messico intorno al 1802, l'anno successivo seguì Sessé e Mociño in Spagna, che però lasciò quasi immediatamente, per lo stato di guerra del paese, rientrando in Messico, dove fu nominato direttore della Reale accademia di San Carlos, morendo però presumibilmente poco dopo. Altro non sappiamo della sua vita; ancor meno di quella di Vicente de la Cerda. Sappiamo che Sessé avrebbe voluto che anche lui lo accompagnasse in Spagna, ma la Giunta gli impose invece di rimanere in Messico, al servizio dell'Orto botanico. Non conosciamo però né la data della sua morte né altri particolari sulla sua esistenza da questo momento in poi. Ma c'è ancora una storia da raccontare: quella delle meravigliose tavole create dai due artisti messicani. Alcune furono effettivamente consegnate all'Orto botanico di Madrid e lì sono ancora custodite; alcune copie rimasero a Città del Messico, altre furono donate a vario titolo; ma il grosso della collezione rimase nelle mani di Mociño che le portò avventurosamente con sé nel suo esilio in Francia, affidandolo a de Candolle. Ho già raccontato in questo post come il botanico svizzero, dovendo restituire i disegni in tutta fretta all'amico, le avesse fatte copiare da un centinaio di signore di Ginevra (dove queste copie sono tuttora conservate). Gli originali, invece, dopo la morte di Mociño sembrarono perduti per sempre. Stavano invece vivendo una vita sotterranea: passati nelle mani del dottore che aveva assistito Mociño nella sua ultima malattia, fino alla fine dell'Ottocento rimasero, sconosciuti a tutti, tra i beni ereditari dei suoi discendenti. Verso la fine del secolo dovettero essere venduti allo storico e bibliofilo Lorenzo Torner Casas. La biblioteca dell'erudito catalano passò poi al fratello minore e ai due nipoti, Jaime e Luis Torner Pannocchia, che nel 1979 li cedettero all'Hunt Institute di Pittsburg, dove giunsero nel 1981, ritornando ad essere accessibili agli studiosi dopo 160 anni. Se ne volete sapere di più, la storia della Torner Collection of Sessé and Mociño Biological Illustrations è raccontata con maggiori particolari in questa pagina del sito dell'istituzione americana. La modesta e multiforme Cerdia Grande ammiratore del lavoro di Cerda e Echeverría, che divenne anche il principale punto di riferimento per la stesura della sua Flore du Mexique, de Candolle volle onorare i due artisti dedicando a ciascuno di loro uno dei nuovi generi messicani pubblicati in Prodromus Systematis Naturalis Regni Vegetabilis (1828), sulla scorta degli appunti di Sessé e Mociño. Entrambi sono ancora validi, ma ben diversi per ampiezza e notorietà. Per volontà di Sessé e Mociño, rispettata da de Candolle, al modesto e solerte Vicente del la Cerda è toccato il monotipico Cerdia, della famiglia Cariophyllaceae, rappresentato dalla poco appariscente C. virescens, una minuscola erbacea perenne a cuscino con fiori bianco-verdastro privi di petali che poco si distinguono dal fogliame. Endemica delle aree aride del Messico, dal deserto di Chihuahua alle montagne centrali, è una specie piuttosto variabile - per il colore e la disposizione delle foglie, il numero di fiori per infiorescenza, la morfologia dei tepali e delle brattee, la presenza o l'assenza di stipole - tanto che in passato ne furono distinte quattro specie; oggi, sulla base di studi molecolari, tutte sono ricondotte a C. virescens. Qualche approfondimento nella scheda. Echeveria, una scelta infinita Se nessuno di noi, a meno di essere un esperto di flora dei deserti messicani, ha mai visto una Cerdia, alzi la mano chi non conosce e coltiva le Echeveriae. Al brillante Atanasio Echeverría è infatti toccato in sorte uno dei generi più noti, amati e coltivati dell'intera famiglia Crassulaceae. A dire il vero, Sessé e Mociño avevano destinato al più dotato dei loro pittori un'altra specie dei deserti messicani, l'ocotillo, un arbusto spinoso simile a un rovo che alla prima pioggia si trasforma in una cascata di fiori rosso fiamma. Ma, prima che de Candolle potesse pubblicarlo, era stato anticipato da Kunth (il collaboratore di Humboldt) che l'aveva battezzato Fouquieria splendens. Dunque l'assegnazione del nostro Echeveria a Atanasio Echeverría fu decisa dal solo de Candolle, sulla base di tre specie che Sessé e Mociño avevano assegnato ai generi Cotyledon e Sedum. Echeveria è un genere vastissimo, con oltre 150 specie di piante succulente sempreverdi, talvolta suffrutici, con foglie per lo più a rosetta, diffuse prevalentemente negli habitat aridi di media e alta quota del Messico (una specie raggiunge il Texas e alcune, attraverso il Centro America, si spingono fino all'America andina). Sono tra le succulente più popolari soprattutto per la bellezza delle foglie, in una vasta gamma di forme e colori (che includono il verde, il grigio, l'azzurro, il porpora, il rosato), generalmente raccolte in una rosetta più o meno globosa o aperta, ma anche per la facilità della coltivazione e della propagazione (è molto facile riprodurle anche da una singola foglia). I fiori campanulati, anch'essi piuttosto carnosi, raccolti in cime o pannocchie su lunghi steli lievemente arcuati, con i loro colori in tecnicolor (aranciati, rossi, rosati, spesso con apice dei petali giallo) aggiungono un'ulteriore attrattiva. Impossibile citare anche solo le specie più abitualmente coltivate; la scelta è ampissima, con centinaia e centinaia di cultivar. Disponibili in un'infinita varietà di forme e colori, attraenti tutto l'anno, a prova di pollice secco, relativamente rustiche, sono apprezzate tanto dai collezionisti a caccia dell'ultima novità quanto dal "coltivatore" più occasionale. Alle numerosissime varietà e agli ibridi interspecifici, si aggiungono anche gli ibridi intergenerici con altri generi di Crassulaceae; i più noti e disponibili sul mercato sono quelli con gli affini Pachyphytum, Graptopetalum, Sedum sezione Pachysedum (x Pachyveria, x Grapteveria, x Sedeveria). Qualche informazione in più nella scheda. Concludiamo con una nota dolente: sembra che, nonostante l'incredibile varietà di forme e di colori resa possibile dal lavoro di selezione e creazione di vivaisti e ibridatori, il mercato sia alla ricerca di qualcosa di diverso, di ancor più strabiliante. Così, da qualche anno, soprattutto nel periodo natalizio, ecco sui bancali di fiorai e garden center fare brutta mostra di sé le grandi rosette di E. agavoides (una specie assai robusta e facile da coltivare, che può raggiungere anche un diametro di 20 cm) verniciate in giallo, blu, rosso, nero, oro. Al di là del giudizio estetico, si tratta di una pratica assassina: la vernice impedisce alle foglie di respirare e di effettuare la fotosintesi; nell'arco di pochi mesi, la pianta è destinata a perire. Per gli olandesi che le producono a migliaia di esemplari, poco importa: gli affari sono affari. Ma per chi ama il verde e rispetta la natura, è un infelice connubio di ignoranza, cattivo gusto e consumismo. Nella storia della Real Expedición Botánica a Nueva España l'arrivo di José Mariano Mociño segna uno spartiacque; grazie al suo dinamismo, alla sua conoscenza del territorio, alla sua curiosità insaziabile, dal Messico centrale dove fino ad allora si era mossa la spedizione, gli orizzonti si allargano. E proprio Mociño sarà il protagonista delle due tappe più lunghe e ambiziose: quella che nel 1792 lo porterà fino all'isola di Nootka (oggi nella canadese Columbia britannica) e quella, lunghissima e inedita, che tra 1796 e il 1799, lo vedrà esplorare la Capitania General de Guatemala, ovvero non il solo Guatemala, ma l'intera America Centrale, con un percorso di oltre 4000 miglia. Scienziato completo e vero figlio dei Lumi, Mociño fu anche un medico impegnato nel sociale, in Sudamerica come in Spagna, che pagò carissima la coerenza e la fedeltà alle proprie idee. Morto in povertà e in disgrazia, senza poter vedere pubblicati i risultati dell'immenso lavoro suo e dei compagni, fu anche sfortunato da un altro punto di vista. Per una ragione o l'altra, nessuno dei generi che gli furono dedicati al suo tempo è sopravvissuto; ma, per una volta, a rimediare a tanta ingiustizia ha provveduto poco più di vent'anni fa un botanico conterraneo, incoronandolo con gli allori del monospecifico Mocinnodaphne. Dal Messico al Canada Nel 1787, José Mariano Mociño, giovane creolo imbevuto di idee illuministe, si laureò in medicina. In quello stesso anno iniziarono le attività della Real Expedición Botánica a Nueva España, il cui primo atto fu la fondazione dell'Orto botanico di Città del Messico, con annessa cattedra di botanica. A seguire quei corsi, tenuti da Vincente Cervantes, tra i tanti giovani entusiasti c'era anche il nostro protagonista, che con l'amico José Maldonado si segnalò a tal punto che il maestro propose a Sessé di cooptarlo nella spedizione. Sessé accettò di buon grado, e, come ho già accennato in questo post, Mociño partì immediatamente con lui e i suoi compagni alla volta del Messico settentrionale; quando i naturalisti si divisero in due sottogruppi, insieme a Castillo e al pittore Echevarría visitò le zone più impervie e inesplorate del Messico nordoccidentale, negli attuali stati di Jalisco, Nayarit, Sinaloa e Sonora, raccogliendo vaste collezioni di piante e animali prima sconosciuti alla scienza. Quando si ricongiunse con Sessé a Aguascalientes, scoprì di essere stato designato, insieme a Maldonando e Echevarría, per accompagnare la spedizione dell'ammiraglio Bodega y Quadra all'isola di Nootka. La nomina, voluta dal viceré, veniva anche a rimediare un groviglio burocratico. In effetti, mentre Sessé aveva accolto con entusiasmo l'ingresso di Mociño e Maldonado, in sostituzione dell'inefficiente e incapace Senseve, quest'ultimo aveva fatto ricorso alla corona per essere reintegrato; inoltre era ostile alla nomina dei due messicani pure Longinos, che li considerava dei semplici e inadeguati studenti; e anche per questo motivo si era giunti a una rottura tra lui e Sessé. Mentre i membri della spedizione erano già nel nord del paese, arrivò da Madrid l'ordine di reintegrare Senseve e allo stesso tempo venne annunciata la spedizione dell'ammiraglio Bodega; ordinando che Mociño,Maldonado e Echevarría lasciassero la Real Expedición Botánica e si integrassero a quest'ultima, il viceré prendeva i classici tre piccioni con una fava: obbediva a Madrid, destituendo Mociño e Maldonado; essi però avrebbero continuato a percepire una paga come membri della nuova spedizione e, inoltre, i limiti della Real Expedición Botánica si sarebbero allargati alla California e all'isola di Nootka. Ho già raccontato altrove le circostanze che nell'estate del 1789 portarono la Spagna e la Gran Bretagna sull'orlo di una guerra per un lembo di terra nell'isola di Nootka (Nutca in spagnolo), di fronte all'attuale isola Vancouver, nella Columbia britannica (Canada). La crisi diplomatica più assurda della storia si risolse poi con un accordo, che doveva però essere perfezionato sul posto da due plenipotenziari, il capitano Vancouver per i britannici e l'ammiraglio Juan Francisco de la Bodega y Quadra per gli spagnoli. Bodega era il comandante della base di San Blas sul Pacifico e aveva una lunga esperienza di navigazione lungo le coste di quell'oceano; nel 1791 ricevette la nomina a Commissario per la questione di Nootka e nel 1792 salpò per l'isola con una piccola flotta che comprendeva due fregate, una scuna e due golette; a bordo, anche i nostri naturalisti, che da Aguascalientes si erano affrettati a raggiungere san Blas per l'imbarco. Il 29 aprile la flotta spagnola giunse a Nootka, dove si sarebbe trattenuta tutta l'estate; Vancouver a sua volta arrivò ad agosto. Sebbene sul piano diplomatico le trattative si fossero ben presto arenate, tra i due comandanti si strinse un'intesa personale, che portò spagnoli e britannici a collaborare nell'esplorazione dello Stretto di Juan de Fuca e dell'intrico di fiordi che si estende tra la Columbia britannica e l'Alaska. Per Mociño e i suoi compagni fu l'occasione per incrementare il loro bottino naturalistico (l'erbario di Mociño e i disegni di Echevarría destarono ammirazione e una punta d'invidia in Menzies, il botanico della spedizione Vancouver), ma l'inesauribile curiosità del naturalista messicano si volse anche alle questioni economiche, ai costumi degli indigeni e alla loro lingua. Trascorso l'inverno 1792-93 a Monterray in California (dove ancora una volta Bodega accolse e ospitò l'amico Vancouver), nella primavera del 1793 la Commissione rientrò a San Blas, dove Maldonado decise di stabilirsi come medico, uscendo così dalla Real Expedición Botánica. Insieme a Bodega e a un ufficiale inglese che doveva essere inviato in patria per avere istruzioni (mentre Vancouver proseguiva il giro del mondo) Mociño e Echevarría tornarono invece a Città del Messico. Qui nel 1794 Mociño pubblicò Noticias de Nutka, importante soprattutto per le informazioni sui costumi delle popolazioni dell'isola. L'esplorazione dell'America centrale Non rimase comunque a lungo inoperoso. Sessé era riuscito a convincere la corona spagnola a prolungare la spedizione e ad allargarla alla Capitanìa di Guatemala, ovvero all'intero Centro America. Più ancora del Messico, quest'area appariva promettente sul piano botanico, in quanto la più fertile del Viceregno, con molte specie medicinali di grande importanza anche per la bilancia dei pagamenti del Regno iberico. Era anche un territorio quasi inesplorato (solo l'area costiera intorno a Realejo era stata toccata nel 1791 dalla spedizione Malaspina). Mentre riservava a se stesso le isole delle Antille Sopravento, Sessé affidò il comando della sottospedizione in Guatemala a Longinos, con il quale si era in qualche modo rappacificato, e ordinò a Mociño e all'altro pittore, Vicente de la Cerda, di unirsi a lui. Mociño ne fu desolato e inizialmente cercò di sottrarsi: Longinos lo aveva sempre trattato con disprezzo, mai aveva avuto una parola di considerazione per lui; tuttavia alla fine, per amore della scienza, si convinse. In ogni caso, rimasero i contrasti con Longinos, che se ne andò direttamente in Guatemala in nave, mentre Mociño e de la Cerda, cui si era unito il farmacista Julian del Villar, si muovevano più lentamente via terra scendendo a sud lungo la strada del Pacifico. Partiti verso la metà del 1795, a novembre erano a Oaxaca (qui Mociño aveva vissuto a lungo in gioventù, sposando anche la nipote del vescovo della città) e a febbraio 1796 a Tehuantepec. Nel frattempo però erano rimasti in due: Julian del Villar, considerato privo di titoli sufficienti per partecipare alla spedizione, fu infatti richiamato a Città del Messico. In Chiapas (regione che faceva già parte della Capitanìa) furono poi trattenuti oltre il loro desiderio da un'epidemia di vaiolo. Giunsero finalmente a destinazione ad aprile. A Città di Guatemala si ricongiunsero con Longinos che, proprio come a Città del Messico, era intento a costituire un gabinetto naturalistico, in pieno accordo con le autorità locali. Si riprometteva a questo scopo una serie di viaggi che in realtà non poté affrontare per la salute sempre più declinante. I suoi occhi e le sue mani divennero così quelle di Mociño e la Cerda che all'inizio del 1797 lasciarono Città del Guatemala per esplorare in modo estensivo il Centroamerica. Iniziarono dall'area più popolata e meno rischiosa della spedizione, il settore sudoccidentale della Capitanìa lungo la costa del Pacifico. Di lì proseguirono verso sud lungo la cosiddetta "Via de Nicaragua" che congiungeva il Guatemala con la Costa Rica passando attraverso Salvador e Nicaragua, sempre muovendosi grossomodo lungo la costa. Benché frequentata da secoli, era tuttavia una strada accidentata, che attraversava paludi e aree selvagge. Lasciato l'attuale Guatemala, si mossero in territorio salvadoregno, poi, seguendo la costa del golfo di Fonseca, entrarono in Nicaragua, sempre muovendosi lungo la costa fino a Managua. Di qui si spostarono verso l'interno fino al lago Nicaragua, di cui percorsero la riva sudorientale fino all'isola Omeytepe. Proseguriono quindi verso Masaya e Granada, raggiungendo Nicaragua (oggi Rivas). Nel corso del viaggio, non solo incrementarono l'erbario e i disegni, ma realizzarono esperimenti scientifici e collaborarono in vari modi con le autorità locali. In Salvador e in Nicaragua Mociño si interessò della coltivazione dell'indaco, che rivestiva grande importanza economica, alla quale poi avrebbe dedicato un opuscolo. Non conosciamo esattamente l'itinerario successivo, ma le piante dell'erbario di Mociño fanno pensare che scendessero ancora più a sud, penetrando nell'attuale Costa Rica, fino a Cartago, punto più meridionale della spedizione. Da qui intrapresero la strada del ritorno; ma all'inizio del 1798 fecero una lunga tappa in Salvador, per studiare lo sciame sismico che aveva fatto seguito all'eruzione del vulcano Quzaltepec, avvenuta nel febbraio di quell'anno; gli esiti delle sue osservazioni saranno poi pubblicati da Mociño nella Gazeta de Guatemala. Ma intanto il tempo concesso dalla corona per l'esplorazione della Capatanìa era scaduto e alla fine del 1797 Sessé scrisse in tal senso a Longinos, ordinandogli di rientrare con i suoi compagni a Città del Messico. Mentre attendeva i salvacondotti necessari per il viaggio di ritorno, su sollecitazione dei commercianti locali, Mociño trovò ancora il tempo di redigere una memoria sulle potenzialità del commercio tra Messico e Guatemala. Infine, mentre Longinos, malato, si tratteneva ancora in Guatemala, Mociño e de la Cerda si incamminarono alla volta del Messico, muovendosi questa volta più all'interno. Toccata Huehuetenango, a giugno erano in Chapas, dove Mociño venne trattenuto dalle autorità locali, che gli chiesero aiuto prima per fronteggiare un'epidemia (forse di lebbra), poi per valutare la natura e il potenziale economico di alcuni minerali, mentre de la Cerda veniva sollecitato a rientrare a Città del Messico con gli esemplari e i disegni, in vista del ritorno a Madrid che si credeva imminente. Sarebbe arrivato a destinazione nel dicembre 1798; Mociño sarebbe stato di ritorno invece solo a febbraio dell'anno successivo, dopo un'assenza di oltre 4 anni. Portava con sé il manoscritto di una Flora de Guatemala, che tuttavia sarebbe stata pubblicata solo nel 1996. Epilogo: triste, solitario y final Contrariamente alle attese, dovevano ancora passare diversi anni prima che i membri superstiti della spedizione potessero lasciare il Messico, trattenuti dalla guerra e, nel caso di Mociño, anche da un complicato divorzio. Egli trascorse quegli anni sia a riordinare e classificare le collezioni in vista della pubblicazione, sia soprattutto lavorando come medico negli ospedali di Città del Messico, dove fu attivo sperimentatore degli effetti terapeutici delle piante indigene nei laboratori voluti da Sessé presso i principali nosocomi della capitale. Fu solo nel 1803 che Sessé si trasferì a Madrid, portando con sé l'immenso patrimonio delle collezioni naturalistiche e delle migliaia di tavole eseguite da de la Cerda e Echevarría. Mociño lo seguì poco dopo, e Sessé lo ospitò a casa sua. Pur continuando a lavorare con lui (e dopo la sua morte, avvenuta nel 1808, con l'allievo la Llave) alla redazione della Flora della Nuova Spagna e della Flora messicana, proprio come in Sud America, Mociño si lasciò coinvolgere in crescenti impegni medici e scientifici: nel 1804 lo troviamo a fronteggiare un'epidemia di febbre gialla nel sud del paese; divenne poi ispettore sanitario, professore e direttore del Gabinetto di storia naturale (tra i suoi allievi, appunto il botanico messicano Pablo de la Llave), presidente della Real Academia Medica Matritense. Benché fossero istituzioni prettamente scientifiche, bastò perché nel 1812, quando i francesi si ritirarono, fosse coinvolto nella caccia alle streghe contro i "collaborazionisti infranciosati". A settembre fu arrestato e rimase in carcere per circa due mesi; tornato a Madrid, riprese il suo lavoro al Gabinetto di Storia naturale, ma nel 1813, con la definitiva cacciata dei francesi dovette prendere la strada dell'esilio, portando con sé, in condizioni difficilissime, quanto poté salvare di disegni e manoscritti della Flora messicana. Con la salute rovinata per sempre, semicieco, raggiunse infine Montpellier dove strinse amicizia con il grande botanico Augustin Pyramus de Candolle. Disperando di poter rientrare in Spagna e di giungere mai a veder pubblicati i frutti di tanti anni di ricerche, decise di affidare allo svizzero i manoscritti e i meravigliosi disegni di de la Cerda e Echevarría. Nel 1816, quando a sua volta de Candolle cadde in disgrazia e dovette lasciare Montpellier per rientrare a Ginevra, avrebbe voluto restituirli all'amico messicano, ma Mociño rifiutò, convinto di essere troppo vecchio e malato per riuscire a pubblicarli. L'anno dopo, tuttavia, quando finalmente gli fu concesso di rientrare in Spagna, scrisse a de Candolle perché gli restituisse i materiali. Lo svizzero, che aveva già cominciato a lavorare alla Flore du Mexique, ne fu desolato. Gli pesava soprattutto essere privato delle tavole, uno strumento di lavoro insostituibile e di altissima qualità; gli vennero in soccorso le sue amiche, le "dame ginevrine"; in una vera e propria lotta contro il tempo, le signore riuscirono a realizzare le copie di circa 1300 tavole. E' per questo che l'opera di de Candolle, uscita nel 1819, è nota anche con il soprannome "Flore de Dames de Génève". Quanto a Mociño, nel 1818 ritornò in Spagna e visse ancora due anni, cieco, infermo e in grande povertà a Barcellona, dove morì nel 1820. Era stato il primo e il più grande naturalista ispano-americano della sua epoca e aveva pagato cara la sua fede nella scienza e nell'umanità. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Mocinnodaphne ovvero Mociño sugli allori Scopritore di dozzine di specie di animali e piante inediti per la scienza, Mociño ha lasciato il suo nome a specie come Croton mocinoi, Columnea mocinoana, Calceolaria mocinoana. Per volontà dell'amico la Llave, ha dato il nome specifico alla perla dell'avifauna messicana, il quetzal, Pharomachrus mocinno. Più sfortunate invece le vicende tassonomiche dei diversi generi che gli sono stati via via dedicati. Il primo giunse addirittura già nel 1798, da parte di Casimiro Gomez Ortega che battezzò Mozinna (la grafia del cognome del nostro protagonista era assai oscillante) un'Euphorbiacea, pochi decenni dopo confluita in Jatropha. Nel 1816 fu la volta di Mariano Lagasca che denominò Mocinna un genere di Asteraceae, poi confluito in Galinsoga. Lo stesso nome (non valido per la regola della prorità) fu proposto nel 1832 da la Llave per un genere di Caricaceae, oggi Jarilla e nel 1839 da Bentham (è una semplice variante grafica del genere di Ortega). Non più fortunata fu la denominazione Mocinia, proposta nel 1838 da de Candolle (nome non valido perché sinonimo del precedente Stifftia J.C. Mikan). Insomma, già nella seconda metà dell'Ottocento, il più grande dei botanici messicani rischiava di trovarsi senza un genere celebrativo valido. Un'ingiustizia, che per altro condividerebbe con alcuni dei più grandi - i primi che mi vengono in mente sono Ghini e Siebold, ma perché no anche Menzies, recentemente scippato di Menziesia - se non fosse per uno scatto di orgoglio nazionalista del botanico messicano F.G. Lorea-Hernández che nel 1995 nell'ambito della revisione delle Lauraceae messicane ha creato il nuovo genere Mocinnodaphe ("lauro di Mociño"). Bella infatti la dedica di Lorea-Hernández all'illustre predecessore: "Il nuovo genere è dedicato a José Mariano Mociño, illustre botanico messicano, che con impegno e dedizione diede impulso, ormai due secoli fa, all'importante progetto che anche noi perseguiamo: la conoscenza della flora messicana. Questo nome, con un gioco di parole, serva come riconoscimento degli allori che ha sempre meritato". Questo genere monotipico comprende un'unica specie, M. cinnamomoidea, un arbusto o piccolo albero sempreverde che vive come altre Lauraceae messicane nella foresta nebulosa, in una piccola area della Sierra Madre del Sud nello stato di Guerrero. Piccole differenze nelle caratteristiche degli stami lo distinguono da altri generi affini, come Ocotea o Cinnamomum. Differenze dunque minuscole, la cui validità come criterio distintivo è stata messa in discussione da altri studiosi. Ma al momento il genere resiste, almeno finché il destino di sventura che accompagna il grande Mociño non ritornerà a colpire. Qualche approfondimento nella scheda. Per Maya e Aztechi, il gioco del pallone era una cosa seria, molto seria: connesso con il mito, la religione e i riti di fertilità, veniva giocato in cortili lastricati annessi ai templi, e la partita terminava con un sacrificio umano (a perdere letteralmente la testa per il pallone era, si presume, il capo della squadra sconfitta). Nel corso dei secoli e da una cultura all'altra, variarono le tipologie e le regole di gioco, la forma e le dimensioni del campo, ma ovunque si giocava con una palla di gomma naturale, ricavata dal lattice di vari alberi, primo fra tutti Castilla elastica. Gli aztechi lo chiamavano olicuàhuitl, "albero della gomma"; nell'assegnargli un nome botanico, il capo della Real Expedicion Botanica Martin de Sessé e il suo collaboratore Vicente Cervantes vollero invece onorare la prima vittima della spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Un pallone... elastico Nel 1493, ad Haiti, Cristoforo Colombo notò un gruppo d'indigeni che giocava "con un pallone che rimbalzava estremamente bene"; quanto a Hernàn Cortés, fu così impressionato dai giocatori di pallone aztechi da portarne alcuni con sè in Spagna, dove diedero spettacolo di fronte a Carlo V. A stupire, oltre all'abilità dei giocatori, erano proprio le stesse palle: quelle che si usavano all'epoca in Europa erano un involucro di cuoio, imbottito con capelli (donde la parola spagnola pelota, da pelo "capello") oppure vesciche vuote e rigonfie; quelle mesoamericane erano tanto elastiche, rimbalzavano tanto bene perché erano di gomma naturale, ricavata da lattice di alcuni alberi. A scoprire e a imparare come sfruttare questa risorsa naturale erano stati gli Olmechi (che ne hanno addirittura ricevuto il nome: in nahuatl, la lingua degli Aztechi, la parola per indicare il caucciù è ulli o olli, da cui Olmeca "popolo del caucciù"). In effetti, le foreste dell'area attorno al golfo del Messico erano ricche di alberi che secernono un lattice elastico, atto a fabbricare la gomma; le più importanti per l'abbondanza della secrezione e la qualità del materiale sono due specie del genere Castilla: in primo luogo C. elastica, distribuita dal Messico al Sud America settentrionale, ma anche, nelle aree più meridionali dove vivevano i Maya, C. tunu. I giochi di palla presso i popoli mesoamericani avevano un significato religioso e rituale. Venivano giocati anche per puro passatempo, ma i campi principali sorgevano presso i templi e le partite facevano parte di complesse cerimonie che si concludevano con un sacrificio umano. Gli alberi della gomma (in nauhatl olicuàhuitl) erano considerati un sacro dono degli dei; sacre erano le stesse palle di gomma, che, magari ornate con una preziosissima piuma del quetzal, l'uccello sacro al dio Quetzalcoatl - egli stesso non di rado raffigurato mentre gioca a palla; e quella palla, evidentemente, è il Sole - erano una comune offerta votiva; è così che nei depositi sacri ne sono stati trovati molti esemplari, presumibilmente modellini di dimensioni inferiori al reale. Qualche anno fa hanno fatto scalpore i risultati di una ricerca di alcuni studiosi del MIT di Boston che, esaminando questi reperti e interpretando i resoconti degli scrittori spagnoli del Cinquecento, sono giunti alla conclusione che non solo gli Olmechi avevano cominciato ad usare il lattice di Castilla elastica per ricavarne la gomma naturale (i reperti più antichi risalgono al 1800 a.C.), ma avrebbero anche scoperto un procedimento che in qualche modo avrebbe anticipato di secoli la vulcanizzazione, unendo al lattice di Castilla il succo di Ipomoea alba, una liana che spesso si arrampica proprio sui fusti di questi alberi. Benché manchino prove definitive, si tratta senza dubbio di un'ipotesi suggestiva. E' certo invece che il palo de hule (questo il nome spagnolo di C. elastica, un calco del nome azteco; hule è anche la parole che in spagnolo designa la gomma naturale o caucciù) era albero ben noto e l'estrazione del lattice continuò ad essere praticata anche nel periodo coloniale, quando era usato per scopi diversi, in particolare per produrre tele cerate; gli erano anche attribuite proprietà medicamentose, e come pianta medicinale, la specie non sfuggì ai primi studiosi della flora messicana, a cominciare da Francisco Hernandez. Tuttavia bisogna attendere la Real Expedición Botánica a Nueva España perché l'albero fosse descritto scientificamente e ricevesse un nome botanico. Per decisione comune del capo della spedizione, Martin de Sessé, e di Vicente Cervantes, professore di botanica presso l'orto botanico di Città del Messico, venne dedicato alla prima vittima della grande spedizione, il botanico e farmacista Juan Diego del Castillo. Una partecipazione intensa pagata con la vita Poche senza dubbio le notizie che ci sono giunte su questo personaggio. E' possibile che quando si aggregò alla spedizione fosse già una vecchia conoscenza di Martin de Sessé, dato che entrambi erano aragonesi del circondario di Jaca. Anche la sua formazione e la sua carriera ricordano quelle del conterraneo (tuttavia più giovane di lui di parecchi anni). Tutte e due, infatti, dopo gli studi in patria, l'uno come medico, l'altro come farmacista, erano entrati al servizio dell'esercito, praticando nell'America coloniale, dove erano divenuti eminenti membri della società scientifica locale. Juan Diego José del Castillo y López, nato presumibilmente a Jaca, aveva studiato prima filosofia, poi farmacia, esercitando la professione dapprima nella città natale e a Almudévar; divenuto farmacista militare, aveva quindi prestato servizio a Cadice, per poi essere trasferito nel 1771 a Porto Rico, dove venne nominato farmacista capo presso dell'Ospedale Reale. Nei quasi vent'anni trascorsi nell'isola, studiò a fondo la flora portoricana e nel 1785 divenne corrispondente estero dell'Orto botanico di Madrid, cui inviò anche numerosi esemplari, conquistando la stima di Casimiro Gomez Ortega. Fu così che nel 1788 quest'ultimo decise di aggregarlo alla Real Expedición Botánica come botanico e farmacista, lodandone le conoscenze botaniche, l'intelligenza e la lunga esperienza di vita ai tropici. Castillo arrivò a Città del Messico nel luglio 1788 e già ad agosto prese parte alla cosiddetta "prima campagna" nella valle del Messico, che si prolungò fino alla fine dell'anno. L'anno successivo, prese parte alla seconda campagna, con meta finale Acapulco; di questo viaggio, Castillo ha lasciato una relazione manoscritta di una ventina di pagine che contiene la descrizione delle piante raccolte, con denominazione linneana, sinonimi, luogo di raccolta, data di fioritura; conservato presso l'Orto botanico di Madrid, fu pubblicato solo nel 1887 in Plantae Novae Hispaniae. Tra il 1790 e il 1792, fu tra i partecipanti della terza lunga e faticosa campagna nel Messico settentrionale; quando il gruppo si divise, insieme a Mociño e Echeverría, percorse le province di Querétaro, Guanajuato, Michoacán, Valladolid e Patzcuaro. Dopo aver attraversato gli attuali stati di Jalisco, San Luis de Potosí e Nayarit, i tre si soffermarono diversi mesi nell'area del Tepic, per poi spostarsi verso Sinaloa, Durango e Sonora. Giunsero fino a Alamos, all'epoca un minuscolo villaggio, sede di una missione quasi abbandonata, al confine tra gli attuali stati di Sinaloa e Sonora. Il viaggio, lungo e faticoso, in mezzo a montagne impervie e deserti, aveva messo a dura prova i tre naturalisti; durante il viaggio di ritorno, mentre attraversavano la Sierra Madre occidentale nella regione di Tarahuamara, Castillo si ammalò. Quando raggiunsero Aguascalientes, il punto di ritrovo con l'altro troncone della spedizione, era ormai prostrato. Fu così che si separò da Mociño e Echeverría, che insieme a Maldonado partirono alla volta di Nootka; egli invece, insieme a Sessé e agli altri, rientrò a Città del Messico, con un viaggio che si faceva sempre più penoso mano a mano che le sue condizioni peggioravano. Neppure in città poté recuperare la salute, morendo il 16 luglio 1793. Nel suo testamento, dimostrò ancora una volta la sua dedizione alla scienza con un lascito testamentario di 4000 pesos per la pubblicazione di Flora mexicana, l'opera collettiva dei botanici e dei disegnatori della spedizione; confermando quell'intelligenza e quella conoscenza del mondo che tanto lo aveva fatto apprezzare da Gomez Ortega, aggiunse però una clausola: se l'opera non fosse stata pubblicata entro sei anni, la somma doveva essere devoluta alla costruzione di un deposito di cereali nella città di Jaca, a vantaggio dei lavoratori poveri. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Castilla, un genere molto elastico La morte dell'amico e compagno colpì profondamente tanto Sessé quanto Cervantes, che avevano inutilmente cercato di curarlo (non giungendo, per altro, neppure alla stessa diagnosi: il primo attribuiva la malattia e la morte allo scorbuto, il secondo a un'ostruzione del piloro); di comune accordo, decisero di dare il suo nome a una pianta importante tra quelle raccolte durante la spedizione; forse proprio per il fascino della sua storia e il suo legame con le civiltà preispaniche, la scelta cadde sul palo de hule. Pochi giorni dopo la morte di Castillo, il 22 giugno 1793 Cervantes inaugurò l'anno accademico con una prolusione dedicata a “El Árbol del Ule”, che ribattezzò Castilla elastica in omaggio all'amico scomparso. Divisa in tre parti, dopo una trattazione delle piante che producono gomma, sulla scorta delle informazioni raccolte da Sessé, esponeva alcuni esperimenti sul lattice e i suoi usi noti, concludendo con un esame delle proprietà medicinali (che, detto per inciso, successivamente non hanno trovato conferma scientifica). L'anno successivo, il discorso venne pubblicato come supplemento della Gazeta de literatura de Mexico, segnando la nascita ufficiale del genere Castilla. Si trattava di una pubblicazione di difficile reperimento, oltretutto scritta in spagnolo; fu così che nel 1805 Charles Koenig del British Museum ne pubblicò una traduzione in inglese; commise però un errore, trascrivendo il nome generico come Castilloa, E come Castilloa fu descritto nell'edizione di Genera Plantarum curata da Endlicher (1837); il nome errato fu in uso per quasi un secolo, finché ne venne riconosciuta l'illegittimità. Il genere Castilla, della famiglia Moraceae, comprende tre specie di alberi di imponenti dimensioni, originari delle foreste pluviali di bassa quota dell'America centrale e meridionale: Sono spesso sorretti da robuste radici a contrafforte; una caratteristica peculiare è poi l'autopotatura dei ramoscelli, che cadono lasciando cicatrici lungo il tronco; secondo alcuni studiosi, si tratterebbe di un meccanismo di autodifesa contro il troppo affettuoso abbraccio dei rampicanti (come appunto Ipomoea alba). C. elastica e C. tunu hanno distribuzione più settentrionale (dal Messico all'Ecuador), mentre C. ulei è più meridionale (dalla Colombia al Brasile). La più importante dal punto di vista economico è C. elastica, che in Messico e in altri paesi dell'area è stata sfruttata a lungo per la produzione della gomma, che oggi permane a livello locale soprattutto per realizzare piccoli oggetti d'artigianato. Introdotta in altri paesi tropicali, in concorrenza con il più noto albero della gomma, Hevea brasiliensis, in alcune zone della Tanzania, come anche nelle isole del Pacifico, è diventata infestante, venendo inclusa nella lista delle specie invasive globali. Qualche approfondimento nella scheda. La Real Expedicion Botanica a Nueva España, l'ultima in ordine di tempo delle grandi spedizioni scientifiche promosse dalla corona spagnola nel Settecento, nasce da un ritrovamento e da una richiesta. Il ritrovamento è quello, parziale, dell'opera del botanico del Cinquecento Francisco Hernandez sulla natura messicana; la richiesta è quella del medico e botanico Martin de Sessé di creare a città del Messico un orto botanico con annessa cattedra universitaria. Ne nascerà una lunga avventura che, proprio negli anni a cavallo tra la rivoluzione francese e la nascita dell'Impero napoleonico, porterà un gruppo di avventurosi studiosi ispanici e messicani alla scoperta della flora e della fauna del Messico, con una sorprendente puntata in Canada e una coda in centro America, su un territorio che abbraccia 4 milioni di chilometri quadrati. Sorprendente per altro è anche il poco noto genere Sessea, dedicato al tenace Sessé, ideatore e capo della spedizione. Sulle tracce di un vecchio libro e di un nuovo orto botanico Fu intorno al 1780 che lo storico e cosmografo Juan Bautista Muñoz scoprì nella Biblioteca della Compagnia di Gesù di Madrid il manoscritto parziale della storia naturale del Messico di Francisco Hernandez; il re affidò la pubblicazione a Casimiro Gomez Ortega, direttore dell'orto botanico di Madrid. Era un compito complesso, vista la parzialità e la lacunosità del manoscritto; per venirne a capo, a parere di Ortega, sarebbero state opportune ulteriori ricerche nelle biblioteche messicane nella speranza di trovare altri manoscritti e disegni. Più o meno negli stessi anni, l'ex medico militare Martin de Sessé y Lacosta, che si era stabilito in Messico, scrisse a Ortega proponendo l'istituzione di un orto botanico a Città del Messico, con annessa cattedra di botanica, anche per rinfrescare la preparazione del personale sanitario del viceregno, spesso alle prese con preoccupanti epidemie. Unendo le due esigenze, nacque così il progetto, approvato dal re Carlo III nell'ottobre 1786, di una spedizione scientifica nel Viceregno di Nuova Spagna, che da una parte avrebbe dovuto gettare le basi delle due nuove istituzioni scientifiche proposte da Sessé, dall'altra avrebbe dovuto integrare il lascito di Hernandez con nuove ricerche e disegni dal vivo. Ortega curò personalmente la progettazione, inclusi gli aspetti finanziari, e scelse i partecipanti: lo stesso Sessé come capo della spedizione e direttore del futuro orto botanico, il naturalista José Longinos Martìnez e il botanico Jaime Senseve. La spedizione iniziò ufficialmente nel marzo 1787. Nel primo anno, le attività del gruppo furono rivolte essenzialmente alla creazione dell'Orto botanico, collocato in un piccolo giardino nel parco di Chapultepec e solennemente inaugurato di fronte alle autorità cittadine il 1 maggio 1788 con un discorso di Sessé. Contestualmente fu creata la cattedra di botanica, affidata allo stesso Sessé e al medico e farmacista Vicente Cervantes. Rimandando a un altro post le informazioni su queste istituzioni, seguiamo qui le vicende della spedizione sul campo. Mentre si dava da fare per creare l'orto e la cattedra, scontrandosi anche con l'ambiente scientifico messicano, che, ancora fedele al sistema di Tournefort, poco apprezzava quello di Linneo, nell'autunno del 1787 Sessé fece le prime escursioni nei dintorni della capitale; per la campagna del 1788, insieme a Longinos e Senseve, si stabilì prima nel villaggio di San Angel poi a San Augustin de las Cuevas, esplorando soprattutto le montagne in prossimità della capitale. Alla fine dell'anno il gruppo fu integrato da un altro botanico, Juan Diego del Castillo, farmacista dell'ospedale reale di Porto Rico, anch'egli scelto da Ortega, e da due pittori, due giovani messicani raccomandati dal direttore della Scuola di belle arti di San Carlos a Città del Messico: Juan de Dios Vicente de la Cerda e Atanasio Echevarría. La seconda campagna ebbe inizio nel marzo 1789 e portò i naturalisti ad esplorare il Messico centrale, con le aree di Cuernavaca, Tixla, Chilpazingo, Acapulco sull'Oceano Pacifico. Al rientro a dicembre, si registrò un cambio della guarda: Longinos, in disaccordo con Sessé, preferì fermarsi nella capitale per organizzare un Gabinetto di storia naturale, mentre Senseve fu distaccato presso l'università per aiutare Cervantes nelle dissezioni anatomiche. Al loro posto subentrarono due giovani messicani, il primo frutto dell'insegnamento dello stesso Cervantes: il botanico José Mariano Mociño e il chirurgo José Luis Maldonado Polo. Il loro ingresso diede al gruppo maggiori capacità di manovra, con la possibilità di dividersi in sottogruppi. I confini della spedizione si dilatano La terza campagna iniziò nel maggio 1790; questa volta i naturalisti si diressero a nord, esplorando ampie aree del paese, soprattutto nelle province di Michoacàn e Jalisco. Giunti a Gaudalajara, sostarono quattro mesi, sistemando e classificando il materiale raccolto: mentre i pittori realizzarono altre 100 tavole, i naturalisti sintetizzarono i risultati di tre anni di campagne nel manoscritto collettivo Plantas de Nueva España, che, nonostante il titolo, contiene anche importanti apporti sulla fauna, in particolare gli uccelli. A questo punto la spedizione si divise: Mociño, Castillo e Echeverría si incamminarono verso nord lungo le pendici della Sierra Madre, in direzione di Los Álamos; poi si addentrarono nella sierra di Los Tarahumaras , dove Castillo si ammalò gravemente, per proseguire nella provincia di Durango, fino a Aguascalientes, luogo fissato per l'incontro con l'altro gruppo. Quest'ultimo, formato da Sessé, de la Cerda e Maldonado, aveva invece percorso le province di Sinaloa e Ostumurí. Nuovamente riuniti a Aguascalientes, furono raggiunti dall'ordine del viceré di recarsi nell'isola di Nootka, di fronte all'odierna Vancouver; su questa parte della spedizione, che portò Maldonado, Echeverría e Mociño a percorrere il Pacifico fino al Canada, tornerò in un altro post. Sessé, Castillo e de la Cerda tornarono invece nella capitale, dove si fermarono più di un anno (dall'inizio del 1792 alla metà del 1793). A giugno morì Castillo, che non aveva mai recuperato la salute. Anche lui e il suo contributo alla spedizione meritano un post a parte, Da parte loro, anche i due "dissidenti" Longinos e Senseve nel 1791 avevano deciso di organizzare una spedizione in proprio; nel gennaio 1792 si imbarcarono alla volta della Bassa California, percorrendo poi l'intera penisola da Cabo San Lucas a Monterey; si reimbarcarono poi per la costa di Sinaloa e Sonora, da cui rientrarono a Città del Messico. In circa tre anni, percorsero così duemila leghe, raccogliendo importanti collezioni di piante, animali e minerali, nonché informazioni sulle popolazioni indigene. Al loro ritorno, i due dovettero in qualche modo rappacificarsi con Sessé, visto che li ritroveremo tra i partecipanti delle ultime fasi della spedizione. D'altra parte, dal gruppo uscì Maldonado che, dopo il rientro da Nootka, si stabilì nel dipartimento di San Blas dove divenne chirurgo. Intanto il gruppo di Sessé e Mociño nel 1793 aveva esplorato le regioni del sudest che si affacciano sul golfo del Messico, procedendo a volte insieme, a volte diviso in due squadre. Nel 1794 e in gran parte dell'anno successivo, Mociño e Echeverría sostarono nelle provincie di Tehuantepec e Tabasco, da cui inviarono a Città del Messico moltissimi esemplari di piante e animali. Nel giugno del 1794, con il rientro di Longinos e Senseve, gli effettivi era tornati al completo. Sessé riuscì ad ottenere dalla corona il permesso di prolungare la spedizione per altri due anni, visitando il Guatemala e le isole Sopravento. I naturalisti si divisero di nuovo in due sottogruppi: Mociño, Longinos e de la Cerda avrebbero esplorato il Guatemala, mentre Sessé, Senseve e Echeverría avrebbero visitato Cuba, Santo Domingo e Porto Rico. Arrivato a Cuba nella primavera del 1795, Sessé stabilì fecondi contatti con le istituzioni scientifiche dell'isola e propiziò la nascita di un giardino botanico all'Havana. Raggiunto poi Porto Rico, vi si trattenne con i suoi compagni fino al maggio 1797, a causa del blocco del porto di san Juan da parte della flotta inglese. Dopo un secondo soggiorno a Cuba, tornò definitamente in Messico nel 1798. Quanto all'altro gruppo, Longinos, di nuovo in dissidio con gli altri, se ne andò da solo in Guatemala dove, proprio come aveva fatto a Città del Messico, si dedicò alla creazione di un gabinetto di storia naturale; solo quando vi si trovava già da cinque mesi fu raggiunto da Mociño e de la Cerda, cui si era unito il dissettore Julian del Villar Pardo; partiti qualche giorno prima di Longinos, lungo la strada avevano esplorato il sudest del Messico. Longinos riuscì ad imporre ai compagni come prioritaria la costituzione del Gabinetto, che fu inaugurato in gran pompa nel dicembre 1796. Subito dopo Mociño e de la Cerda ripartirono esplorando gran parte dell'America centrale; ma anche su questo ritornerò nel post dedicato a Mociño. Ormai la spedizione volgeva al termine; esauriti i due anni concessi dal re, nel 1797 Sessé scrisse a Longinos di far rientrare il gruppo "guatemalteco". Ritornarono in ordine sparso: prima de la Cerda, nel dicembre 1798, portando con sé oltre 2000 disegni; poi nel febbraio 1799 Mociño che in Guatemala e in Chapas, come medico, era anche stato coinvolto in attività umanitarie; invece Longinos, malato di tubercolosi, fu costretto a rimanere in Guatemala fino alla primavera del 1801, quando partì alla volta del Messico, morendo però durante il viaggio. Finita ufficialmente la spedizione, i naturalisti avrebbero dovuto tornare in Spagna, ma la guerra lo rese impossibile fino al 1803; nel frattempo, oltre a riordinare le collezioni e a riorganizzare il manoscritti della futura Flora mexicana, Sessé si era dedicato a un'altra impresa: la costituzione presso i due principali ospedali di Città del Messico di "sale di osservazione" ovvero di laboratori per lo studio e la sperimentazione delle virtù terapeutiche delle piante indigene. Un lascito imponente I risultati della spedizione furono imponenti: le specie raccolte in oltre un decennio di attività ammontarono a circa 3500, con 200 nuovi generi e oltre 1000 specie prima ignote alla scienza. Enorme anche il lavoro dei disegnatori (anche loro meritano un post a parte), con migliaia di disegni e acquarelli, soprattutto di soggetto botanico. La fondazione di nuove istituzioni come l'orto botanico e la cattedra di botanica a Città del Messico e i gabinetti naturali (precursori dei Musei di storia naturale) voluti da Longinos a Città del Messico e Città del Guatemala può quasi essere considerata l'atto di nascita degli studi naturalistici indipendenti nell'America Latina. Non stupisce dunque che molti membri della spedizione siano celebrati dalla nomenclatura botanica; hanno dato il loro nome a almeno un genere non solo i capi riconosciuti, Sessé e Mociño, ma anche Castillo, de la Cerda e Echeverría, nonché Cervantes, che, per quanto non abbia partecipato al lavoro sul campo, con la sua attività all'Orto botanico di Città del Messico e il suo insegnamento può esserne considerato un membro a tutti gli effetti. Su di loro tornerò in altri post. Qui vorrei concludere la vicenda di Sessé (per la cui vita rimando alla sezione biografie): tornato a Madrid nel 1803 portando con sé i disegni e un erbario di circa 7500 esemplari (copie dei disegni e doppioni delle piante rimasero, come oggetto di studio e conservazione, all'Orto botanico messicano), lavorò intensamente alla pubblicazione della Flora mexicana, ma morì nel 1808 prima di poterla completare. Lo studio delle piante raccolte durante la spedizione, proseguito brevemente da Mociño, finché questi non abbandonò la Spagna nel 1812, fu continuato da botanici spagnoli come Casimiro Gomez Ortega e Mariano Lagasca, nonché dallo svizzero de Candolle, ma le turbolente vicende politiche del regno iberico ottocentesco fecero sì che si giungesse a una pubblicazione solo negli anni '80 dell'Ottocento; alcuni manoscritti della spedizione vennero anche pubblicati in Messico tra il 1887 e il 1894, in particolare la silloge Plantae novae hispaniae (1883). Una Solanacea arborea Il primo omaggio a Sessé venne già nel 1794 (quindi quando la spedizione era ancora in pieno svolgimento) da parte di Hipolito Ruiz e José Antonio Pavon, ovvero dai protagonisti di un'altra delle grandi spedizioni iberiche del secondo Settecento, quella in Perù, che gli dedicarono Sessea. In epoca molto posteriore, nel 1917, Emile Hassler ne staccò Sesseopsis (ma oggi entrambe le specie di questo genere sono state assegnate a Cestrum). Sessea è un genere della famiglia delle Solanaceae che comprende una ventina di specie distribuite soprattutto nell'America andina, in particolare in Perù, Ecuador e Colombia. Per le fioriture è molto simile a Cestrum, da cui si distingue per i frutti (bacche con semi angolati per quest'ultimo, capsule con semi alati per Sessea). Sorprendentemente per questa famiglia, comprende veri e propri alberi (in alcune specie raggiungono anche i 25 metri); rare e poco studiate, la maggior parte delle specie sono endemismi di limitatissime aree delle foreste nebulose delle Ande settentrionali; proprio per questo sono poco conosciute, oltre ad essere a rischio di estinzione, come S. sodiroi, un piccolo albero di cui sono note solo quattro stazioni in Ecuador. Altre specie si spingono invece nelle foreste umide della costa atlantica brasiliana. Qualche approfondimento nella scheda. Concludo con una curiosità: una ditta di distillati madrilena ha voluto dedicare a Martin Sessé un gin prodotto artigianalmente; è un voluto omaggio alla grande avventura della Real Expedicion Botanica, come si racconta in questa pagina. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
April 2024
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