Nel 1696, il frate francescano Francesco Cupani pubblica lo straordinario Hortus Catholicus: è il catalogo delle circa 3000 tra specie e varietà che crescevano nello splendido giardino di Misilmeri, voluto da Giuseppe del Bosco principe di Cattolica. Accanto alle officinali di prammatica, c'erano le specie sicule, molte delle quali raccolte di persona da Cupani, assiduo esploratore della flora dell'isola, e le esotiche più rare, giunte in Sicilia grazie alla rete di corrispondenti italiani e europei abilmente coltivata dal botanico francescano. Rimase invece incompleta e inedita l'ultima opera di Cupani, l'ancor più grandioso Panphyton siculum. Il confratello Plumier volle ricordarlo con il genere Cupania, cui più tardi si affiancò Cupaniopsis. Al suo allievo Bonanno, che tentò di completarne l'opera inedita, è invece toccato il monotipico Bonannia. Un giardino straordinario e il suo catalogo Intorno al 1690, Giuseppe del Bosco, principe di Cattolica, decise di trasformare in orto botanico il Giardino Grande del suo palazzo di Misilmeri, a una quindicina di km da Palermo; già esistente almeno dal XV secolo, godeva di acque abbondanti grazie a una vicina sorgente. Non conosciamo nei particolari la genesi del progetto, che voleva anzitutto venire in soccorso delle genti bisognose del feudo attraverso la coltivazione di piante medicinali utili, ma è probabile che sia stato determinante l'incontro con il frate francescano Francesco Cupani (1657-1710), che da qualche anno si stava dedicando all'assidua esplorazione della flora siciliana. Nato a Mirto in provincia di Messina, come riferisce egli stesso nel prologo di Hortus Catholicus, Cupani inizialmente studiò medicina a Palermo, appassionandosi soprattutto di botanica; tuttavia a 24 anni entrò nel terzo ordine francescano, e lasciò lo studio della natura per la filosofia e la teologia, che in seguito insegnò prima a Verona poi a Palermo. La passione per le piante, relegata a svago marginale, si riaccese con forza al ritorno in Sicilia, alimentata dalla frequentazione di medici e speziali come Ignazio Arceri, medico del Regio nosocomio palermitano, e l'aromataro Nicola Gervasi (1632-1681), console del Collegio dei farmacisti e autore dell'Antidotarium Panormitanum Pharmaco-Chimico; di quest'ultimo, che Cupani definisce affettuosamente praceptor meus, "mio maestro", egli loda il giardino palermitano ricchissimo di piante rare. Ma la spinta determinante venne dall'esempio di Paolo Silvio Boccone, suo modello e assiduo corrispondente, che lo incoraggiò a proseguire le ricerche sulla flora indigena. Frutto di quattro anni di erborizzazioni, sfidando il caldo estremo dell'estate e i geli dell'inverno, è la prima opera edita di Cupani, Catalogus plantarum sicularum noviter adinventarum, pubblicata a Palermo nel 1692. Sono appena quattro pagine, con una lista di circa 150 piante in ordine alfabetico; secondo l'uso del tempo Cupani si avvale di nomi-descrizione polinomiali; ad esempio, l'attuale Euphorbia pithyusa subsp. cupanii figura come Tithymalus exiguus, pumilus, saxatilis, Portulaceae foliolis, flosculis rubentibus. A conclusione della lista, in una breve nota il francescano esprime la speranza di poter presto pubblicare le immagini delle piante, a meno che non lo faccia per lui il reverendo Silvio Boccone "famosissimo per la competenza erboristica", al quale ha inviato generosamente tutti gli exsiccata "mosso dall'onore della patria". Al momento dell'uscita del catalogo, il principe di Cattolica gli aveva già affidato la realizzazione del giardino di Misilmeri, in cui alle piante medicinali tanto native quanto esotiche si sarebbero affiancate ornamentali, piante esotiche rare, alberi da frutto e orticole. Per le piante medicinali e autoctone, il frate si avvalse della collaborazione di farmacisti ed erboristi come Pietro Citraro e Francesco Scaglione, nonché degli invii di numerosi corrispondenti che vivevano in parti dell'isola non esplorate di persona; ma continuò anche il lavoro sul campo, tanto che già nel 1694 fu in grado di stampare una seconda lista di piante siciliane, Syllabus plantarum Siciliae nuper detectarum, pubblicata sempre a Palermo, in cui le specie e varietà elencate sono salite a 300. Intanto il giardino cresceva grazie alla munificenza del principe, che lo trasformò in un luogo fatato con statue, fontane e addirittura uno zoo con animali esotici; lo circondava un muro coronato da oltre 600 vasi di piante esotiche, quasi un'anticipazione della ricchissima collezione di piante che racchiudevano. A farle arrivare in Sicilia fu una vasta rete di corrispondenti italiani ed europei che Cupani mise insieme forse con la mediazione iniziale di Boccone. Tra i corrispondenti più assidui troviamo infatti uno dei contatti di Padre Silvio, William Sherard, che a sua volta fece da tramite con botanici, appassionati e collezionisti britannici, gli inviò piante esotiche in cambio di semi siciliani, gli procurò libri (tra gli altri, Historia plantarum di John Ray). Determinante per la crescita del giardino fu poi Giovanni Battista Trionfetti, il curatore dell'orto botanico della Sapienza a Roma, che poté far giungere a Misilmeri le novità che affluivano a Roma grazie a gesuiti e sacerdoti viaggiatori. Tra i corrispondenti di Cupani troviamo molti altri grandi nomi della botanica del tempo: lo stesso Ray, Pitton de Tournefort, Caspar Commelin, i tedeschi Johann Georg Volkamer e Johannes Böhm. Questi scambi epistolari, oltre ad arricchire il giardino, consentirono al botanico siciliano di superare l'isolamento di una località periferica e di tenersi aggiornato sui progressi della botanica e sui grandi dibattiti del suo tempo, procurandosi i testi di riferimento indispensabili per catalogare le piante del giardino; nella nota di autorità premessa a Hortus Catholicus, egli elenca ben 90 titoli, tra i quali, oltre a testi già classici della botanica rinascimentale o del primo Seicento, troviamo libri di pubblicazione recente o recentissima, come il catalogo delle piante canadesi di Cornut (1635), Flora sinica di Boym (1656), la Centuria e il Prodromus di Breyne (rispettivamente 1678 e 1680), il catalogo delle piante olandesi di Jan Commelin (1683), i primi sei volumi di Hortus Malabaricus (1678-1686), il catalogo dell'orto botanico di Montpellier di Magnol (citato nella seconda edizione di Hortus Catholicus, e uscito lo stesso anno 1697). Come si vede, si tratta principalmente di cataloghi di orti botanici e di rassegne di flore esotiche: il problema principale che si poneva Cupani, come si evince anche dalla corrispondenza con Sherard, era infatti la corretta identificazione, per evitare di presentare come nuove piante già pubblicate in precedenza. Nonostante la grande mole di piante da identificare e descrivere, già nel 1696 Cupani fu in grado di dare alle stampe la prima edizione di Hortus Catholicus, accompagnata da un primo supplemento e seguita l'anno dopo da un secondo. E' un'opera imponente, che elenca circa 3000 tra specie e varietà; per le identificazioni e le denominazioni, Cupani rimase fedele all'insegnamento di Boccone, scegliendo una soluzione un po' datata: come punto di riferimento principale per l'identificazione dei generi (il concetto, anche se in modo ancora impreciso, si andava ormai affermando) si affidò all'autorità di Robert Morison, e al suo sistema basato sulla fruttificazione (che in qualche modo poteva essergli familiare, visto che anche Castelli, maestro del suo praeceptor Gervasi, si era basato sui frutti); per le specie e le denominazioni, oltre a Morison stesso, all'ancora più datato Pinax di Caspar Bauhin e all'Historia plantarum di Jean Bauhin. Come nelle liste precedenti, anche in Hortus Catholicus le piante si susseguono in ordine alfabetico, da Abies alba a Yucca. Per quelle già note, tipicamente Cupani parte dalla denominazione del Pinax, seguita, se differenti, da quelle di Jean Bauhin e di Morison; la voce si conclude (e questa invece è una novità) con il nome vernacolo siciliano, nel desiderio di allargare la conoscenza delle piante anche a chi non leggeva il latino. A mo' di esempio, ecco la voce iniziale (corrispondente a Abies alba Mill): Abies alba, seu foemina CBP [ovvero Caspar Bauhin Pinax], sive elate Thilia IB [ovvero Jean Bauhin], vulgo Erva di S. Filippu, o Arvulu cruci, Arvulu caccia diavuli. Ovviamente, se la pianta nel Pinax non compare, Cupani ricorre ad una o più altre autorità, ad esempio per l'attuale Hibiscus mutabilis L. a Paul Hermann, Morison e Ferrari: Althaea arborea, Rosea, Sinensis, flore multiplici HLB [Hermann, Hortus logduno-batavus], Althaea arborea, Sinensis Moris. Hist. 2 [Morison, Historia universalis Oxoniensis vol. 2], Rosa sinensis Ferrari Florae cult. vulgo Rosa Indiana. Per le piante non descritte in precedenza, Cupani usa una denominazione polinomiale, costituita dal nome generico seguito da uno o più epiteti. A tale proposito, si è spesso detto che egli abbia anticipato Linneo, facendo largo uso di nomi binomiali. Lasciando da parte i binomi ripresi da Bauhin (che a sua volta è ritenuto l'inventore dei nomi binomiali, ma non li usò in modo sistematico), vediamo se è vero con un esempio, tratto ancora dalla lettera A. Oltre a sei specie di Acetosa già descritte dai Bauhin e/o da Morison, Cupani ne descrive cinque nuove: "Acetosa Nebroides Arisari pallido-virenti folio", "Acetosa peregrina, lanceolata, vesiculis trigonis, venis sanguineis inscriptis", "Acetosa alienigena caule carens, sterilis, radice nimio reptatu, foecunda", "Acetosa lanceolato folio, e basi lata polyfido, Etnensis", "Acetosa montana angusto folio sagittae". Si tratta, evidentemente, di nomi descrizione polinomiali; anzi, nella secondo supplemento, Cupani esprime la sua perplessità di fronte a nomi troppo brevi che, egli teme, impedirebbero il riconoscimento proprio delle specie nuove. Per dirlo in altri termini, la separazione tra denominazione e descrizione, che Linneo stesso raggiungerà solo in Species plantarum, non è ancora avvenuta. Infatti, in Bibliotheca botanica, lo svedese collocò Cupani non certo tra gli innovatori o i sistematici, ma tra i curiosi, ovvero "coloro che raccolsero piante prima del tutto ignote o mal conosciute e le illustrarono con descrizioni e immagini". Il merito maggiore di Cupani sta ovviamente nell'esplorazione della flora siciliana, di cui fu instancabile raccoglitore e descrittore, segnando un passo avanti notevolissimo anche rispetto a Boccone. Da segnalare è anche l'attenzione alle produzioni agricole locali e soprattutto alle varietà delle piante fruttifere, che ne fanno un antesignano della pomologia: ad esempio, sono elencate e puntigliosamente descritte 35 varietà di mandorli, 48 di fichi, 45 di meli, 73 di peri, 48 di viti, 20 di limoni, 21 di aranci, 5 di cedri. Mentre scriveva Hortus Catholicus, Cupani già pensava a un progetto ancora più ambizioso: una vasta opera illustrata che avrebbe fatto conoscere al mondo la natura siciliana, descrivendo non solo le piante, ma anche gli animali, le conchiglie, i fossili, i minerali. Secondo quanto scrive nel prologo della prima edizione di Hortus Catholicus, intorno al 1696 il lavoro era già abbastanza avanzato: erano state incise 600 delle 800 lastre di rame previste (a pagarle fu evidentemente il generoso principe di Cattolica, che contava di trarre gloria europea dal munifico investimento); per quanto riguarda le piante era sua intenzione specificarne la denominazione secondo le indicazioni dei Bauhin e di Morison, il luogo di origine, le proprietà officinali, l'etimologia, i sinonimi in latino, il nome volgare, il segno celestiale, l'astro dominante e l'epoca più indicata di raccolta. Nel supplemento dell'anno successo, ci informa che ormai le lastre erano tutte pronte e il manoscritto a buon punto, tanto che contava, Dio volendo, di completarlo in pochi mesi. Ma, evidentemente, Dio non volle: il lavoro di raccolta e verifica si prolungò più del previsto e nel 1710 Cupani morì prematuramente, a poco più di cinquant'anni, lasciando l'opera incompleta. Torneremo più avanti sulla sorte di quell'opera sfortunata, per soffermarci sulle vicende successive del giardino di Misilmeri. Morto Cupani, che lo aveva fondato e diretto per quasi vent'anni, la direzione passò successivamente a due suoi collaboratori, Pietro Citraro e Francesco Scaglione. Nel 1714 ricevette la visita di Vittorio Amedeo II, appena divenuto re di Sicilia. Tuttavia nel 1721 Giuseppe del Bosco morì senza lasciare eredi diretti, e le proprietà e i feudi passarono al figlio di una sorella, Francesco Bonanno del Bosco. Nel corso del Settecento, i Bonanno sperperarono il patrimonio familiare. A risentirne fu anche lo splendido ma dispendioso giardino, via via sempre più trascurato. Intorno alla metà del secolo, ebbe ancora un sussulto, grazie all'arrivo da Padova dell'abile capo giardiniere Giovanni Maria Lattini, ma quando questi lasciò l'incarico, insoddisfatto del salario, il declino divenne inarrestabile. Nel 1785, all'atto della fondazione dell'orto botanico di Palermo, con il benestare del principe in carica, 2000 piante tra le più rare furono espiantate e traslate nel nuovo giardino, insieme a vasche di marmo, sedili di pietra e altro materiale. Da quel momento dell'antico Hortus Catholicus del principe Giuseppe del Bosco e di Francesco Cupani rimase solo il ricordo. Da Cupania a Cupaniopsis A testimoniare il ruolo di Cupani nella scoperta delle piante sicule sono le diverse specie che lo ricordano nell'epiteto, come Colchicum cupanii, Genista cupanii, Aira cupaniana e la già citata Euphorbia pithyusa subsp. cupanii. Tributo alla fama europea del giardino e del suo creatore è invece la dedica del genere Cupania da parte di Plumier, che cita il giardino "ricchissimo di piante fatte venire dalle più remote contrade del mondo" nonché il suo "ordinatissimo catalogo". Poi validato da Linneo, il genere Cupania, della famiglia Sapindaceae, esclusivo dell'America tropicale, dal Messico all'Argentina, con centro di diversità in Brasile, comprende circa 60 specie di alberi e arbusti, che vivono in vari habitat, dalle foreste stagionalmente aride alle foreste pluviali. Benché presentino sia fiori femminili sia fiori maschili sulla stessa pianta, sono funzionalmente dioiche e poligame, poiché i fiori staminati (maschili) e quelli nettariferi (femminili) si aprono in momenti diversi. Hanno foglie composte alternate, con nervature molto evidenti, generalmente coriacee, spesso con faccia superiore glabra e inferiore tomentosa; i fiori, piccoli, con cinque petali e cinque sepali, sono raccolti in grandi infiorescenze spesso molto ramificate e sono seguiti da capsule che contengono semi arillati. Tra le specie di maggiore diffusione, citiamo C. cinerea, originaria delle foreste umide dalla Costa Rica al Brasile, a volte coltivata come ornamentale; particolarmente notevoli i frutti, che a maturazione si aprono formano una stella coriacea con al centro semi neri avvolti in un arillo aranciato. Per la sua chioma elegante, è spesso utilizzata nelle alberature anche C. vernalis, diffusa dalla Bolivia al Brasile e all'Argentina settentrionale. A celebrare indirettamente Cupani, si è aggiunto il genere Cupaniopsis ("simile a Cupania"), stabilito da L.A.T. Radlkofer nel 1879. Anch'esso appartenente alla famiglia Sapindaceae, raggruppa una quarantina di specie di alberi e arbusti diffusi in Nuova Guinea, in Australia e nelle isole del Pacifico; ricorda Cupania per le foglie composte e i frutti a capsula. Purtroppo molte piante di questo genere, endemiche di piccole aree, sono minacciate, in pericolo di estinzione o addirittura già estinte, come C. crassivalvis della Nuova Caledonia, dichiarata estinta nel 1998. La specie più nota è l'australiana C. anacardioides, nota con il nome vernacolare tuckeroo. E' un piccolo albero originario delle foreste litoranee dell'Australia orientale e settentrionale. Più che al momento della fioritura, diventa spettacolare al momento della fruttificazione, quando produce grandi grappoli di capsule aranciate che si aprono in tre lobi, rivelando i semi scuri ricoperti da un arillo arancio brillante; sono appetiti da numerose specie di uccelli. Per la sua bellezza, anche questa specie è spesso utilizzata nelle alberature stradali, soprattutto nelle zone costiere vista la sua tolleranza alla salinità. Un'opera maledetta e una pianta tossica Per concludere, resta ancora da raccontare della sorte dell'ultima opera inedita di Cupani. Nel 1713, probabilmente per volontà del principe, sotto il titolo Panphyton siculum vennero stampate le sole immagini, con una tiratura di poche copie (se ne conoscono in tutto sette), per altro diverse tra loro, tanto da fare pensare a prove di stampa. I manoscritti furono invece affidati, perché li completasse e li preparasse per la stampa, al farmacista Antonio Bonanno, nei testi d'epoca spesso chiamato Antonino, figlio di Vincenzo, uno dei collaboratori di Cupani, e di una figlia di Nicola Gervasi (per questo motivo, è anche noto come Bonanno Gervasi). Bonanno riuscì a rivedere e predisporre un primo volume, con 187 tavole, che fu stampato nel 1719, ma lo stesso anno morì. Come abbiamo già visto, nel 1721 morì anche il principe, e con la sua morte ebbe fine ogni tentativo di pubblicare quell'opera sfortunata. I manoscritti furono ereditati da un'altra famiglia di farmacisti imparentata con i Bonanno, i Chiarelli, che custodirono gelosamente una copia di Panphyton Siculum in quattro volumi, appartenuta a Antono Bonanno con le sue annotazioni manoscritte, e 16 volumi di note manoscritte di Cupani. Desideravano pubblicarli, ma mancavano le risorse finanziarie. Il momento giusto sembrò arrivare quando entrarono in contatto con il botanico statunitense Rafinesque, che visse in Sicilia dal 1805 al 1815. Deciso a far risorgere il Panphyton, da lui ribattezzato Panphysis sicula, fece approntare copie delle incisioni e cercò di coordinare i suoi sforzi con quelli dei Chiarelli, ma poi anche lui dovette rinunciare. Nel 1815, quando ripartì dall'America, portò con sé le 121 tavole di incisioni che era riuscito a far preparare; al largo del Connecticut si inabissarono nelle acque dell'oceano, insieme alla biblioteca di Rafinesque e circa 60 casse di collezioni; il botanico salvò la vita, ma dovette ricominciare dal nulla. Non stupisce che egli abbia voluto ricordare il tentativo dell'altrettanto sfortunato Bonanno; nel 1814 pubblicò su un giornale siciliano, Specchio delle scienze, il genere Bonannia (Sapindaceae) con queste parole "Questo genere ha gran somiglianza con Cupania [...]; gli ho perciò dato il nome di Bonannia in onore di Antonino Bonanni Gervasi, discepolo ed illustratore del P. Cupani, e del P. Filippo Bonanni gesuita, autore di una conchilogia". Pubblicato su una rivista locale, il nuovo genere passò inosservato. Come nomen rejicendum, è oggi sinonimo di Blighia. Nel 1826, fu la volta del boemo Presl che in Flora Sicula creò un secondo genere Bonannia (Brassicaceae), in onore tanto di Vincenzo quanto di Antonio Bonanno "coetanei e discepoli del reverendo Cupani". Oggi è sinonimo di Brassica. Infine, nel 1843 Gussani in Florae Siculae Synopsis creò un terzo genere Bonannia (Apiaceae); anche se non lo cita esplicitamente, il riferimento a una tavola del volume curato da Bonanni, fa presumere che il dedicatario sia sempre lui; benché sia l'ultimo arrivato, fu accettato dalla comunità scientifica ed è tuttora valido come nomen conservandum. Si tratta di un genere monotipico, rappresentato dalla sola B. graeca, una rara erbacea dei pascoli montani aridi, presente in Sicilia dal Messinese al Palermitano, in Calabria nella Sila e nel Pollino e in poche località sparse in Grecia e nell'Egeo. E' un'erbacea perenne, alta fino a 30 cm, con foglie basali lanceolate e foglie cauline ridotte a guaine, e fiori gialli riuniti in ombrelle. Tutta la pianta emana una resina giallastra tossica, che può causare la morte degli agnelli.
0 Comments
Paolo Boccone, che prese il nome di Silvio quando entrò nell'ordine cistercense, è uno dei più importanti botanici italiani del Seicento, certo il più noto a livello interazionale, grazie ai suoi viaggi, ai molti contatti, all'erudizione delle sue opere. Lo testimoniano i luoghi di pubblicazione, che vanno da Parigi a Oxford, da Amsterdam a Venezia, e i molti erbari che confezionò per i suoi protettori e mecenati, conservati a Lione, Parigi, Leida, Oxford, Innsbruck, Vienna, Breslavia. Il suo maggior merito fu attirare l'attenzione degli studiosi europei sulla peculiare flora siciliana, che fu uno dei primi ad esplorare. Plumier, che fu suo allievo a Roma, volle onorarlo con il genere Bocconia, poi validato da Linneo. Da Palermo a Parigi Il palermitano Paolo Boccone (1633-1704) fu una figura di caratura internazionale per le sue ricerche che, oltre alla botanica, toccarono la chimica, la mineralogia, la natura dei fossili, le eruzioni dell'Etna e molti altri argomenti. Eppure, la sua biografia è tutt'altro che chiara, e molte delle notizie che si ripetono su di lui mancano di prove: ad esempio, non è affatto provato che la sua famiglia fosse di nobili origini, né che si sia laureato a Padova, né tanto meno che abbia insegnato in quell'ateneo. Molto incerta è la cronologia della sua vita, in particolare dei viaggi che lo portarono a visitare molti paesi europei. Nacque a Palermo da una famiglia oriunda di Savona e si ritiene si sia avvicinato alla botanica, alla chimica e alla scienze naturali grazie alla frequentazione di Pietro Castelli e dell'orto botanico di Messina, ma neppure di questa notizia spesso ripetuta abbiamo alcuna evidenza; fu invece con certezza allievo del matematico Giovanni Alfonso Borelli, che conobbe a Messina e di cui intorno al 1655 seguì le lezioni a Pisa. Lasciata la Sicilia, continuò infatti gli studi a Perugia, a Padova e nella città toscana. Nella seconda metà degli anni '50 dovette fare la spola tra la Sicilia e la Toscana, dove sperava di inserirsi stabilmente alla corte del granduca. In effetti per qualche tempo divenne uno dei semplicisti di Ferdinando II; nel frontespizio di gran parte delle sue opere, non manca di ostentare questo titolo, usando formule diverse: "botanico del serenissimo duca di Toscana", "serenissimi magni Hetruriæ ducis Phylliatra", "Herboriste de Ferdinand II de glorieuse mémoire Grand-Duc de Toscane"; il suo compito principale doveva essere quella di raccogliere piante e semi per arricchire i giardini granducali, nonché gli orti dei semplici di Pisa e Firenze. Era però una posizione subordinata e poco soddisfacente (nella dedicatoria a Cosimo III di Recherches et observations naturelles del 1674 scrive più realisticamente "per qualche tempo ho avuto l'onore di essere uno degli erboristi del fu Monsignore vostro padre"); Boccone dunque si rassegnò a tornare in Sicilia, dove si fissò almeno dal 1663. Si sposò e cercò di conciliare gli impegni familiari (che egli definisce "noiosi", ovvero penosi e difficili) con le ricerche naturalistiche, specialmente con il "diletto di osservar piante", che lo portò a percorrere molte contrade dell'isola. Erano un oggetto di studio, ma anche un cespite d'entrate; nel 1668 a Catania pubblicò l'elenco di piante siciliane Manifestum botanicum de plantis Siculis, il cui scopo commerciale è palese nella riedizione dello stesso anno, Elegantissimarum plantarum cultoribus, nec non obseruatoribus perdoctis, quibus forte desunt infrascripta semina nunc recentia offeruntur, & communicantur honesto pretio per Paulum Boccone Panormitanum, ovvero un catalogo di semi offerti a studiosi e appassionati a giusto prezzo. Importante fu la frequentazione del pittore messinese Agostino Scilla, con il quale condivideva l'interesse per i fossili, la geologia, le specie marine e quelle strane forme che paiono al confine tra i regni della natura: coralli, madrepore, fossili marini, pietre a forma di conchiglia o di lingua. In questi anni risiedeva nella Sicilia orientale, tra Leontini, Messina e Catania, dove pubblicò i suoi cataloghi e il suo primo saggio naturalistico, Della pietra belzuar minerale Siciliana, dedicato a Giacomo Ruffo visconte di Francavilla e scritto sotto forma di lettera al farmacista bolognese Giacomo Zannone, uno dei suoi clienti e corrispondenti. Nel 1668 visitò Malta, dove stabilì qualche utile contatto, raccolse poche piante (nel libro sulla flora siciliana e maltese che pubblicherà qualche anno dopo a Oxford ne figurano solo tre e un fungo), ma molti fossili tra cui le ricercatissime glossopietre. Rientrò poi a Messina, dove fece escursioni e ricerche congiunte con Scilla. Ebbe anche modo di assistere all'eruzione dell'Etna, la più importante dell'epoca. Si trovava nell'isola ancora nel marzo 1669, come risulta da una lettera a Redi in cui accenna all'acquisto di semi per l'orto botanico di Pisa su incarico del granduca. La morte della moglie, avvenuta quell'anno, e la speranza di reinserirsi nell'ambiente toscano lo spinsero a lasciare l'isola. Nella seconda metà del 1669 era a Firenze, dove mostrò le sue collezioni al granduca, ma la morte di quest'ultimo nel maggio 1670 lo convinse a cercare fortuna altrove. Munito di lettere di presentazione dell'archiatra Giovanbattista Gornia, di altri medici toscani e del Gran Priore dell'ordine di Malta Valencé, si imbarcò per la Francia. Dalle raccolte botaniche, risulta che erborizzò nei dintorni di Marsiglia ed Aix e nell'Isola Ste Marguerite, di fronte a Cannes. Fu poi a Lione, dove è conservato uno dei suoi erbari e per tre mesi insegnò la bella arte della botanica a due distinte dame (come aveva già fatto in Italia con "gentiluomini di prima qualità"). Era sicuramente a Parigi all'inizio del 1671; infatti, secondo quanto egli stesso scrive nel curioso dialogo "Entretien d'un Seigneur de la Cour de France avec M. Boccone" che conclude Recherches et observations naturelles sur la production de plusieurs pierres, nell'aprile di quell'anno aveva iniziato a tenere nella sua casa parigina quelli che potremmo definire dei seminari in cui presentava le curiosità che aveva portato con sé dall'Italia e determinava le piante proposte dai partecipanti: ognuno era invitato a portarne con sé "fino a mezza dozzina, fresche o essiccate, per essere esaminate, scegliendole tra le più curiose e le più rare"; gli incontri si tenevano il giovedì all'una, ogni due settimane, e Boccone vi parlava “di piante, di animali, di pietre, di metalli, e di tutto ciò che di più raro e prezioso la natura racchiude nel suo seno”. Dal dialogo scopriamo anche che il botanico siciliano aveva portato con sé i semi di piante da offrire al Re cristianissimo per arricchire il Jardin du Roi, e a tal fine aveva preso contatto con il sovrintendente Vallot, che li aveva rifiutati, sostenendo che erano vecchi e non più vitali, anche se Boccone chiedeva di essere ricompensato solo per quelli che avrebbero germinato. Non era dunque un dono, ma una transazione commerciale. Il trattatello, stampato a Parigi appunto nel 1671, oltre al dialogo fittizio, contiene cinque saggi in forma di lettera su pietre dalle forme curiose, la pietrificazione di parti di animali e l'eruzione dell'Etna, che riproducevano in forma scritta le conferenze tenute da Boccone all'Accademia privata fondata dal medico del principe di Condé, l'abate Pierre Bourdelot. Seguì una seconda serie, intitolata Recherches et observations curieuses sur la nature du corail, con ulteriori cinque lettere sul corallo e alcuni pesci; nell'introduzione dell'editore si preannuncia la prossima uscita di un'opera illustrata totalmente dedicata alle piante. Rispetto a un opuscolo con poche immagini, si trattava di un'operazione editoriale decisamente costosa, che Boccone non poteva affrontare senza un mecenate. In realtà, proprio grazie a Bourdelot, ne aveva incontrato uno dal nome altisonante, appunto il gran Condé; ma il principe, in disgrazia per la sua partecipazione alla Fronda, era privo di ogni influenza politica e viveva lontano dalla corte, nella sua tenuta di Chantilly; Boccone dovette frequentarla con una certa assiduità e una sua erborizzazione è testimoniata dal Cahier de Chantilly, un quaderno di piccolo formato probabilmente di sua mano in cui le piante raccolte sono elencate utilizzando per lo più la nomenclatura del Pinax di Caspar Bauhin; la seconda parte del manoscritto è un erbario, non costituito da exsiccata, ma da impressioni ottenute inchiostrando esemplari secchi, una tecnica impiegata qualche anno primo anche da Fabio Colonna e perfezionata dallo stesso Boccone. Era invece un più tradizionale erbario di piante essiccate quello che Boccone avrebbe approntato per un altro principe reale in odore di Fronda, il botanofilo Gastone d'Orlèans, ugualmente conservato a Parigi; visto che il principe morì nel 1660, quando Boccone viveva ancora in Toscana ed era del tutto sconosciuto, è escluso che gli sia mai appartenuto, tanto più che contiene piante sicuramente raccolte da Boccone nelle Fiandre nel 1672; moltissimi esemplari sono invece comuni all'erbario del Principe di Condé, anche se non sappiamo quando e per chi il botanico siciliano preparò il cosiddetto "erbario di Gastone d'Orlèans". Un naturalista di fama europea Nel 1672 Luigi XIV si decise a riabilitare il gran Condé per servirsi del suo genio militare nella campagna contro l'Olanda. Una buona notizia per lui, ma non necessariamente per Boccone, che vide il suo principale protettore partire per il campo di battaglia. Forse il suo manoscritto, con le descrizioni delle piante raccolte in Sicilia, a Malta, in altre regioni italiane e in Francia e le illustrazioni a stampa diretta, era pronto, ma mancava chi lo finanziasse. Ma la cronologia si imbroglia di nuovo; non sappiamo quando abbia lasciato la Francia né se abbia visitato altri paesi, a parte una visita ad Anversa nel 1672. Di certo invece si trovava a Londra il 5 maggio 1673, giorno in cui presentò alla Royal Society, alla quale aveva donato un gabinetto di curiosità e una piccola natura morta di Agostino Scilla, una memoria su alcune pietrificazioni siciliane. Fu presumibilmente in questo ambiente che conobbe un gentiluomo appassionato di botanica e giardinaggio, Charles Hatton, che era stato allievo di Robert Morison e decise di inviare il manoscritto al suo maestro. L'arrogante Morison per una volta comprese pienamente il valore di quel materiale, e si diede da fare per prepararlo per la pubblicazione. Hatton, benché non fosse un nababbo, non fece mancare il sostegno finanziario, così nel 1674, per i tipi dell'Università di Oxford, uscì Icones et descriptiones rariorum plantarum Siciliae, Melitae, Galliae et Italiae, con la descrizione di un centinaio di piante (ci sono anche alcuni funghi), più della metà delle quali siciliane, e incisioni ricavate dalle immagini a stampa diretta; saltando i passaggi del dipinto e del disegno al tratto, i costi si riducevano di molto, ma i risultati, tranne che nei casi di piante minute o dalle forme lineari, lasciano spesso a desiderare; diverse immagini erano di qualità così bassa che Morrison le scartò e le sostituì con sette incisioni calcografiche, che furono pagate da Hatton così come la stampa. Con il libro fresco di stampa, Boccone ripartì alla volta dell'Olanda, deciso a farlo conoscere e cercare nuovi sponsor per stampare le sue opere erudite sulle curiosità naturali; sappiamo che pensò a Hieronymus van Beverningh, il protettore di Paul Hermann, visitò diversi gabinetti di curiosità, donò uno dei suoi erbari a Arnold Seyen, professore di botanica a Leida. Tra gli altri, incontrò il microscopista Johannes Swammerdam, perfezionando l'uso del microscopio che fu il primo ad applicare allo studio dei fossili. Incontrò anche il farmacista Johann Breyne, ma mancò il nipote Jacob, il collezionista e botanico di Danzica. Nel 1674 ad Amsterdam uscì Recherches et observations naturelles, che riprende ed amplia le pubblicazioni parigine e le comunicazioni alla Royal Society; le lettere, indirizzate ad eminenti esponenti della scienza italiana, francese, inglese e olandese, sono ora 29, e toccano argomenti disparati. In ogni caso, assicurarono la fama europea di Boccone. Sulle vicende successive e sulla data del rientro in Italia di nuovo la cronologia e i percorsi (ricavabili per lo più dai luoghi di raccolta delle piante citate in Museo di piante rare e da notizie sparse in varie opere) si fanno incerti e intricati. Forse tornò per qualche tempo in Francia, e certo sulla via del ritorno visitò il Delfinato e la Savoia (raccolse alla Grande Chartreuse e a Chambéry), varcò le Alpi al passo del Moncenisio, dove fece notevoli raccolte, quindi visitò il giardino reale di Torino. Fu poi la volta della Liguria, da dove passò in Corsica, visitata nel 1677. Nel 1678 era a Roma, dove ritrovò Agostino Scilla e frequentò l'accademia fisico-matematica fondata da Giovanni Giustino Ciampini, di cui condivideva il metodo sperimentale e lo spirito di ricerca. Lo si vedeva anche alle riunioni dell'Accademia reale voluta da Cristina di Svezia, cui donò l'ennesimo erbario. Passato per donazioni successive all'Istituto botanico di Genova, è probabilmente andato perduto durante la seconda guerra mondiale. Forse Boccone anche a Roma teneva lezioni ed accademie come quelle parigine; certo tra i suoi discepoli vi fu Charles Plumier, che in quegli anni studiava presso il convento dei minimi di Trinità dei monti. In questo stesso torno di anni, incominciò a corrispondere con Francesco Cupani, incoraggiandolo ad esplorare la flora siciliana. Non sappiamo come maturò la decisione, alla vigilia dei cinquant'anni, di abbracciare lo stato ecclesiastico. Nel 1682 entrò nell'ordine cistercense, assumendo il nome di Silvio (Sylvius) e svolgendo il noviziato a Firenze. Non per questo cessò di studiare e di viaggiare per raccogliere piante e oggetti naturali. Nel 1684 pubblicò a Bologna Osservazioni naturali, sempre sotto forma di lettere a medici e dotti soprattutto bolognesi e veneti, dedicate ad argomenti disparati, in cui sembrano prevalere gli aspetti più curiosi della natura, dai "fuochi naturali" di cui i contadini modenesi si servono per cucinare alle formiche o mosche odorose della campagne pisane. Delle piante si parla soprattutto per le proprietà farmacologico-terapeutiche, ma nella lettera 21 si disquisisce "delle cause della viridità perpetua di alcune piante in tutte le stagioni". Bologna non fu certo l'ultima tappa della sua vita errabonda. Nella biblioteca nazionale di Vienna sono conservati due piccoli erbari di Boccone, da lui dedicati "alla sacra maestà cesarea di Leopoldo Primo", in cui probabilmente sperava di trovare l'ennesimo mecenate. Il primo è intitolato "Piante originali e rare ostensive", è firmato Paolo Boccone ed è relativo alle piante di Icones et descriptiones; il nome secolare e il contenuto ci rimandano a una data precedente il 1682, forse addirittura agli anni francesi. Il secondo, intitolato "Piante dell'Austria", è invece firmato Silvio; sul recto di ciascun foglio sono incollate piante piuttosto comuni dei dintorni di Vienna, sul verso sintetiche indicazioni sul loro uso terapeutico, certamente di mano del botanico siciliano, di cui documentano il passaggio in Austria probabilmente negli anni '90. Sono gli anni in cui Boccone, con il nome onorifico di Plinius II, è ammesso all'Accademia curiosorum naturae di Halle, posta sotto l'alto patronato di Leopoldo I e ribattezzata Accademia cesarea leopoldina. Come risulta da Museo di piante rare, da Vienna si spostò a Brno, Bratislava, quindi potrebbe aver raggiunto Wroclaw, dove è conservato un altro erbario. Secondo una serie di documenti in gran parte inediti ritrovati dalla studiosa palermitana Floriana Giallombardo, i viaggi in Europa centrale si collocano tra il 1694 e il 1697. Ma era soprattutto di casa in Veneto. Nel 1694 fece raccolte in Dalmazia e nel 1697 pubblicò a Venezia Museo di fisica e di esperienze, l'ultima delle grandi opere miscellanee su svariati argomenti di scienze naturali, e Museo di piante rare della Sicilia, Malta, Corsica, Italia, Piemonte e Germania, la più ampia delle sue opere botaniche. L'impostazione è assai diversa rispetto alla sintetica opera oxoniense: le descrizioni delle piante, che rimangono brevi o brevissime, sono riunite in gruppi o decadi affini per qualche ragione (ad esempio, le analoghe proprietà medicinali, l'origine alpina, il profumo simile delle foglie) e si alternano a trattati più ampi, sotto forma di lettere aperte ad altrettanti dotti e mecenati. Le tavole, di buona qualità, non sono più alternate al testo, ma riunite nella seconda parte del volume; ne risulta un'opera corposa, di quasi 200 pagine di testo e 130 tavole calcografiche con 319 figure. È dedicato "ad alcuni nobili patritii Veneti protettori della botanica, e delle buone lettere", ovvero agli sponsor che aprirono la borsa per finanziare il bello e certamente costoso volume. Alle piante già pubblicate in Icones et descriptiones si sono aggiunte quasi duecento nuove specie; i nuclei principali di raccolta, il cui luogo è quasi sempre puntigliosamente indicato, sono il Moncenisio, le Alpi Apuane, la Corsica, l'Appennino modenese e la zona di Norcia/Monti Sibillini; frequenti pure le raccolte dei territori di Bologna, Roma e Padova. Se il grosso Boccone lo raccolse personalmente, qualche specie si deve a doni e invii di amici e corrispondenti; il gruppo più cospicuo gli fu donato dal domenicano francese Jacques Barrelier, che probabilmente Boccone conobbe a Parigi (e non a Roma, come scrivono alcuni). Nella prefazione, Boccone racconta che fu incoraggiato a pubblicarlo da William Sherard, che nel 1697 come lui si trovava a Venezia; quando gli mostrò le sue raccolte, l'inglese confermò che molte piante erano inedite. L'anno successivo, il volume fu recensito da John Ray sulle Transactions della Royal Society, che ne riconosce l'importanza ("ci offre una vasta collezione di piante rare, la maggioranza delle quali sono nuove e mai descritte"), ma rimarca tre difetti: le piante sono collocate senza alcun ordine o connessione; le descrizioni si limitano a pochi elementi, senza una sufficiente descrizione delle parti principali; mancano i sinonimi delle piante descritte da altri botanici; prosegue poi facendo le pulci a diversi passi specifici. Questa recensione agrodolce è comunque una carezza in confronto alla reazione di Antoine de Jussieu che accusò Boccone di plagio per aver pubblicato alcune piante raccolte da Barrelier (di cui per altri riconosce sempre apertamente la paternità). Dopo il grande exploit dei due Musei, Boccone dovette ritornare a Palermo; visse gli ultimi anni nella Abbazia di Santa Maria di Altofonte in Parco, a 5 km dalla città, divenendone anche priore; qui morì nel 1704. Come pioniere dello studio della flora siciliana, e più in generale mediterranea, gli è stata dedicata la rivista Bocconea, edita dalla fondazione internazionale Pro Herbario Mediterraneo. Una bella invadente Come scopritore di decine di specie inedite (intorno a 120), Boccone è ricordato dall'epiteto di numerose specie, dallo splendido Eryngium bocconei a Limonium bocconei, da Seseli bocconei a Hieracium bocconei. Il genere Bocconia si deve a Plumier che in Nova plantarum americanarum genera riserva a Boccone termini assai elogiativi: "Il reverendo padre Dom Silvio Boccone, in precedenza Paolo Boccone, nobile gentiluomo palermitano, celeberrimo in tutto il mondo letterario per le sue opere sia botaniche sia naturalistiche, che dopo aver contemplato molte parti del mondo terrestre, si accinge a meditare su quello celeste, essendo stato accolto nell'ordine cistercense a Firenze". Non fa cenno di esserne stato allievo, ma confermò la circostanza all'amico Garidel. Fatto proprio da Linneo, il genere Bocconia (Papaveraceae) riunisce una decina di specie di arbusti e piccoli alberi, diffusi nei Caraibi, in Messico e in Sud America. Hanno rami sottili, grandi foglie lobate o dentate, piccoli fiori apetali raccolti in pannocchie terminali; i rami spezzati emanano un latice giallastro o arancio, con proprietà antidolorifiche; dalla corteccia di alcune specie si ricava invece una tintura gialla. La specie più nota e diffusa è B. frutescens, nativa del Messico, delle Antille e di parti del centro e del Sud America, dove si trovi in habitat diversi, dalle foreste aride a quelle umide, incluse quelle nebulose, nonché in terreni disturbati. E' un grande arbusto o piccolo albero, alto fino a sei metri, molto ramificato, con rami sottili e intricati, che portano all'apice gruppi di grandi foglie profondamente lobate. Benché i fiori siano privi di petali, le grandi infiorescenze a pennacchio risultano piuttosto decorative. Per questo, intorno al 1920 è stata introdotta come pianta da giardino nelle Hawaii, dove si è rivelata una pericolosa infestante. Produce infatti una grande quantità di piccoli frutti, mangiati e dispersi dai semi, e cresce in fretta, sottraendo luce e nutrienti alle piante native. Non fa invece più parte del genere B. cordata, trasferita al genere Macleaya come M. cordata. Nel 1638, il medico e botanico romano Pietro Castelli ottiene dal senato di Messina il terreno e i finanziamenti per creare l'orto dei semplici universitario. E' il primo della Sicilia, anzi del Sud Italia, guarda al modello di Padova, ma due elementi lo rendono unico: la disposizione delle piante, per la prima volta sistematica, e l'attenzione alla flora endemica con le piante provenienti dalle pendici dell'Etna. Di colpo, Messina diventa una delle capitali europee della botanica, e gli allievi di Castelli Boccone e Cupani ne metteranno a frutto gli insegnamenti. A ricordarlo il genere monotipico Castellia, la cui unica rappresentante è presente in Italia solo in pochissime località di Sicilia e Sardegna. Anni romani L'orto botanico "Pietro Castelli" di Messina fu il primo della Sicilia e dell'Italia meridionale; a fondarlo nel 1638 fu il romano Pietro Castelli (1583-1661) che abbiamo già incontrato in questo post, a proposito della paternità dell'opera sugli orti farnesiani Exactissima descriptio. Il senato accademico lo aveva chiamato a Messina ad occupare la prima cattedra di medicina; malgrado all'epoca avesse già pubblicato molto e fosse da anni un personaggio di spicco dell'ambiente medico-botanico romano, la sua vita fino a quel momento presenta molti punti oscuri, a iniziare dalla stessa data di nascita. A. De Ferrari, nella voce a lui dedicata nel Dizionario biografico degli italiani (che è anche la biografia più ampia del nostro) lo dice nato a Roma "tra il 1570 e il 1575 da Francesco e Diana de Giorgi". Erik Neil, in un interessante articolo sulla nascita dell'Hortus messanensis, fa notare che la data sembra piuttosto alta se consideriamo che pubblicò le prime opere intorno al 1620, ovvero tra i 50 e i 45 anni; possiamo aggiungere che al suo arrivo a Messina avrebbe superato la sessantina. Il mistero della data di nascita può essere facilmente sciolto se identifichiamo il padre Francesco Castelli con il pittore fiammingo Frans van de Casteele o Kasteele, attivo a Roma almeno dagli anni '70 del Cinquecento e noto come Francesco de Castelli. Dalla voce a lui dedicata dal Dizionario biografico, scritta da Nicole Dacos, risulta che sua moglie si chiamava Diana de Giorgis e che la coppia ebbe tre figli: Pietro nel 1583, Michele nel 1587, Stefano nel 1595. C'era anche una sorella, Caterina Castelli, che nel 1603 sposò un altro fiammingo romanizzato, Hendrik De Raef, che a Roma si faceva chiamare Enrico o Arrigo Corvino e gestiva la celebre farmacia "All'aquila imperiale". La parentela non è sfuggita agli storici dell'arte e ai biografi della nipote, la notevole miniatrice Maddalena Corvina, figlia di Enrico e Caterina, che collaborò tra l'altro al trattato De Florum cultura di Giovanni Battista Ferrari, ma soprattutto è confermata dallo stesso Pietro Castelli che nel 1621 dedicò una delle sue prime opere, Discorso della durazione de medicamenti tanto semplici quanto composti, "alli molto illustri signori li SS. Francesco Castelli e Diana de Georgi, padre e madre miei carissimi"; segue un ditirambo che funge da epitaffio al padre, morto nell'ottobre di quell'anno. Frans van de Casteele era un pittore piuttosto noto, più volte eletto principe dell'Accademia di San Luca; poté quindi garantire al figlio maggiore una buona educazione. Pietro studiò medicina all'università di Roma, dove ebbe tra i suoi maestri Andrea Bacci, Marsilio Cagnati e Andrea Cesalpino, certamente il più influente e venerato, tanto che in Hortus Messanensis lo celebra come "medico, peripatetico e semplicista illustrissimo, e amorevolissimo maestro nostro". Una seconda figura di riferimento fu certamente il cognato Enrico Corvino che in Exactissima descriptio è definito "insigne farmacopio e botanico" ed è citato con elogio e affetto in Hortus Messanensis. La farmacia di Corvino era un punto di incontro dei naturalisti romani, frequentato tra l'altro da Federico Cesi, il fondatore dell'Accademia dei Lincei, e dall'erudito e collezionista Cassiano dal Pozzo. Grazie agli insegnamenti di Bacci e Cesalpino, e agli incoraggiamenti del cognato, Castelli dovette incominciare a farsi un nome come semplicista, ovvero come esperto di piante officinali; scrivendo di sé stesso in Hortus messanensis (pubblicato nel 1640) dice "40 anni continui ho fatto il maestro de' semplici in Roma e altrove", quindi più o meno dall'inizio del secolo; il che significa che probabilmente insegnava botanica privatamente. Improbabile che abbia terminato gli studi nel 1594, come afferma De Ferrari; certo si laureò entro il 1615, data in cui è indicato come medico nell'archivio di S. Lorenzo in Lucina. Nel 1619, presso Mascardi (l'editore dei Lincei) pubblicò la sua prima opera edita Defensio antiquorum utentium Arsenico et Sandaraca, che gli diede una certa rinomanza europea. E' il primo degli undici titoli pubblicati presso lo stesso editore fra il 1619 e il 1634, di argomento prevalentemente farmacologico, ma anche botanico, come le epistole De Elleboro (1622) in cui dimostrò che negli scritti di Ippocrate quando si parla di elleboro si fa riferimento a quello bianco (Veratrum album) e non a quello nero (Helleborus niger). In una data imprecisata divenne medico personale di Lelio Biscia (1573-1638), collezionista e mecenate delle arti, una figura influente dei pontificati di Paolo V e Urbano VIII, che lo fece cardinale nel 1626. Su sua sollecitazione scrisse un trattato sulle eruzioni del Vesuvio (Incendio del Monte Vesuvio, 1632) e annotazioni all'Antidotario romano, nella cui prefazione ricorda con riconoscenza che il cardinale gli procurò "un luogo nel fioritissimo studio di Padova con amplo stipendio". Nulla sappiamo del soggiorno padovano di Castelli, neppure se precede o segue l'incarico di lettore dei semplici presso la Sapienza che giunse nel 1625-26 grazie alla protezione del cardinale Francesco Barberini; nel 1629, alla morte di Johannes Faber, da "simplicista straordinario", che dimostrava i semplici i giorni festivi, divenne "simplicista ordinario", ovvero insegnante teorico di medicina e botanica; nel 1627 le sue lezioni trattarono i sintomi, nel 1628 le urine, nel 1629 le malattie infantili, nel 1630 i libri I e II di Dioscoride, nel 1631 i minerali. Faber era stato anche direttore dell'orto botanico pontificio e non è chiaro se Castelli gli subentrò anche in questo incarico. Diversi studiosi sostengono di sì, ma da un'amara lettera inviata anni dopo da Messina a Cassiano dal Pozzo sembrerebbe che gli sia stato preferito Tobia Aldini: "essendo io in Roma lettor de Semplici, ero senza Horto, hora ho l’horto e non la lettura de semplici [...]. Dunque Tobia [ha] l’Horto". E aggiunge "Roma non mi volse ne per Teorico ne per Prattico". A me sembrerebbe escluderlo anche il frontespizio di Hortus messanensis, in cui Castelli esibisce orgogliosamente tutti i suoi titoli; mentre si proclama "primo prefetto e fondatore dell'orto botanico universitario", per il periodo romano si descrive come "nell'arciginnasio romano dapprima lettore di filosofia, quindi di medicina e dei semplici"; certo non avrebbe passato sotto silenzio un incarico così prestigioso come la direzione dell'orto dei semplici pontificio. Un orto botanico senza uguali Come che sia, gli sembrava che la sua carriera romana fosse giunta a un punto morto, tanto che nel 1634 decise di accettare una cattedra di medicina all'ateneo di Messina, benché quella città di paresse "l'estremo d'Italia e del mondo". Dovette giungervi nell'aprile 1635, come risulta da una lettera a Cassiano dal Pozzo datata Messina li 12 d’Aprile 1635. Quasi subito iniziò la sua battaglia con il senato per ottenere la creazione di un orto botanico: "arrivato che qui fui, considerando quanto era necessario l'Horto de' semplici per compimento dello Studio, per correggere gli errori che potevano occorrere dall'ignoranza, e il danno che per difetto dei semplici era imminente, ne feci più volte istanza all'illustrissimo senato". La richiesta fu infine accolta nel 1638, con l'assegnazione di un terreno di considerevoli dimensioni (circa 580 metri x 50) situato nel fossato all'esterno delle vecchie mura e compreso tra due ponti preesistenti, il Ponte di Porta Imperiale e il Ponte della Porta della Maddalena; gli spazi sotto i ponti furono adattati per ospitare un laboratorio di chimica, un museo naturalistico e una cappella, mentre dai ponti stessi i cittadini potevano godere una vista panoramica del giardino anche durante le ore di chiusura. I più antichi documenti esistenti risalgono all'agosto 1638 e riguardano un anticipo di 100 onze per lavori murari. Nella progettazione presumibilmente fu coinvolto l'architetto e ingegnere della città di Messina Giovanni Antonio Ponzello che negli stessi creò il Teatro marittimo o Palizzata, che ridisegnò il lungomare e le vie d'accesso, con lo smantellamento delle mura di cinta liberando tra l'altro lo spazio del fossato poi occupato dal giardino; quest'ultimo, con le sue eleganti aiuole barocche, divenne così parte integrante di quel progetto complessivo che ridisegnava la città in forme aperte, ordinate e esteticamente ricercate. Stretto ed allungato, il giardino comprendeva 14 hortuli o parterres più o meno quadrati, ciascuno intitolato a un santo e a sua volta suddiviso in aiuole dalle eleganti forme geometriche con sentieri che convergevano al centro dell'hortulus, occupato da una vasca per le piante acquatiche. Più che in queste forme, indubbiamente ispirate all'orto padovano e volute, forse più che da Castelli, dal Senato ("questi signori si sono risoluti di fare un horto di semplici `a gara di quello di Padova", scrive in una lettera all'amico Cassiano), l'originalità del progetto sta nella disposizione delle piante. Mentre negli altri orti botanici coevi esse erano solitamente raggruppate in base alle loro virtù medicinali, Castelli adottò un criterio sistematico, suddividendole in quattordici classi sulla base dei frutti e in qualche caso la disposizione dei fiori, secondo l'insegnamento del suo maestro Cesalpino. Iniziando dall'hortulus I S. Petri troviamo le specie con un solo seme Unisemina; quindi nel II con un solo loculo Univascula; III con due semi Bisemina; IV con silique Siliquosa; V con tre semi Trisemina; VI con due loculi Bivascula; VII erbacee con quattro semi Quadrisemina herbacea; VIII con tre loculi Trivascula; IX legnose con quattro semi Quadrisemina surculosa; X con molti loculi Multivascula; XI con capolini Capitata; XII con corimbi Corymbifera; XIII a corona Coronaria; XIV con spine o aculei Aculeata. Una quindicesima classe era costituita da felci, muschi e piante acquatiche, poste nella vasche al centro di ogni parterre. Al di là delle semplici etichette, non sappiamo però quali piante fossero assegnate a ciascuna categoria, dato che nel catalogo che conclude Hortus Messanensis le piante sono elencate in ordine alfabetico e divise in tre gruppi di natura differente: semplici, orticole e fruttiferi, selvatiche. L'anatomista danese Thomas Bartholin che visitò il giardino nel 1644, quindi poco dopo il suo completamento, lo lodò in tono entusiastico, riferendo che, oltre a piante medicinali di ogni tipo, vantava anche piante esotiche tra cui persino un baobab. Castelli se le era procurate in primo luogo ricorrendo al cognato Enrico Corvino e, dopo la sua morte nel 1639, al nipote Francesco Corvino; molte piante gli furono poi inviate dallo speziale Girolamo Cardo di Francavilla, suo compagno di escursioni sull'Etna e molte le raccolse egli stesso nelle sue erborizzazioni sulle pendici del vulcano. Era infatti la flora etnea a rendere unico il giardino di Messina, anche se Castelli mobilitò tutti i suoi contatti per arricchirlo di piante esotiche e rare: "[mi hanno somministrato] altri amici da altre parti, e molte n'aspetto, onde spero tra pochissimo tempo dover avere un fioritissimo Horto de semplici, un Horto Hesperide, un Paradiso Terrestre". E, stando alla testimonianza di Bartholin, ma anche di altri visitatori inclusi Francis Willughby e John Ray, ci riuscì. Castelli era molto orgoglioso della sua creatura, che curava personalmente e da cui sperava di ottenere tanta gloria da essere richiamato a Roma; scriveva infatti al solito dal Pozzo che, sebbene a Messina ricevesse uno stipendio di 1000 once, e molte di più ne ottenesse come medico, "più volentieri starei in Roma per 300". E così si affretto a dare alle stampe la descrizione e il catalogo del giardino (Hortus messanensis, 1640), dedicato al papa Urbano VIII, e continuò a scrivere opere di medicina e farmacologia, "pur voglio, che per il Mondo si sappia che son vivo, non cessando dar gran voci, e risonanti bombi con le mie stampe". Ma senza esito: rimase a Messina fino alla morte nel 1661. Il magnifico giardino che aveva creato purtroppo ebbe breve vita. Ancora fiorente quando vi lavorò Malpighi, andò totalmente distrutto in seguito alla rivolta dei messinesi contro il dominio spagnolo del 1674. Infatti, quando gli spagnoli ripresero la città nel 1678, per spregio lo trasformarono prima in un pascolo per i cavalli dell'esercito poi in un campo di bietole. Bisognò attendere più di due secoli perché l'università di Messina avesse nuovamente un orto botanico. Ma nel frattempo l'insegnamento di Castelli aveva lasciato buoni frutti in un folto gruppo di discepoli: il medico Domenico Bottone, il farmacista, chimico e botanico Niccolò Gervasi, il pittore e "curioso della natura" Agostino Scilla. I due grandi botanici della generazione successiva, Paolo Silvio Boccone e Francesco Cupani, anche se non furono suoi allievi diretti come spesso si pretende, certo risentirono l'eco del suo insegnamento. Una rara graminacea mediterranea Non a caso fu un botanico siciliano, Vincenzo Tineo, a sua volta grande esploratore della flora siciliana, a dedicare al suo illustre predecessore uno dei due nuovi generi contenuti nei tre fascicoli di Plantarum rariorum Siciliae minus cognitarum, Castellia (Poaceae). E' un genere monotipico rappresentato da un'unica specie, l'annuale Castellia tuberculosa. E' una modesta graminacea che può ricordare il loglio, con ciuffi di foglie piane, lunghe fino a 20 cm, da cui emergono i culmi eretti, rigidi, alti fino a un metro, che culminano in un'infiorescenza con racemi semplici o un poco ramificata in basso, con spighette solitarie, disposte lungo la rachide in due serie laterali; la caratteristica più spiccata è il lemma arrotondato, quasi interamente ricoperto nella pagina dorsale da piccoli tubercoli uncinati e appiattiti lateralmente. In Italia è rara ed inclusa nella lista rossa delle piante a rischio; è presente solo nella Sardegna occidentale presso Cuglieri e a Linosa nell'arcipelago delle Pelagie. Specie di habitat aperti e aridi, è distribuita dalle Canarie all'Iran, passando per la sponda meridionale del Mediterraneo. Nel 1625 il tipografo romano Mascardi pubblica Exactissima descriptio rariorum quarundam plantarum, quæ continentur Romæ in horto Farnesiano; nel frontespizio e nella lettera dedicatoria figura come autore Tobia Aldini, medico del cardinal Farnese e prefetto del suo giardino sul Palatino, ma diversi elementi hanno indotto gli studiosi a pensare che la paternità vada attribuita a Pietro Castelli, medico illustre e futuro fondatore dell'orto botanico di Messina. Come che sia, l'opera è di grande interesse perché contiene alcune delle prime descrizioni, nonché pregevoli immagini, di piante esotiche di recentissima introduzione, tra le quali Vachellia farnesiana, dedicata propria alla famiglia Farnese nei cui giardini fiorì per la prima volta in Europa. Con o senza meriti, l'altrimenti quasi sconosciuto Tobia Aldini si fregia invece della dedica del genere Aldina (Fabaceae), americano come molte delle piante che coltivava nel giardino dei Farnese. Un giardino rinascimentale adagiato sulla Roma imperiale Fin dagli anni '20 del Cinquecento, il cardinal Farnese, futuro papa Paolo III, incominciò ad acquistare diverse vigne sul Palatino, forse già allora pensando di farvi costruire, a gloria del suo casato in ascesa, un giardino "adagiato" in senso letterale sulle glorie di Roma imperiale. In quest'area sorgeva infatti il primo vero palazzo imperiale, quello di Tiberio, di cui si vedevano imponenti vestigia. E fu su di esse che a partire dal 1565 il celebre architetto Jacopo Barozzi (detto il Vignola, 1507-1573), su incarico del "cardinal nepote" Alessandro Farnese (1520-1589) si appoggiò per creare gli Orti farnesiani, forse il più celebre giardino della Roma rinascimentale. Iniziati dal Vignola e proseguiti da Carlo Rainaldi (1611-1691), i lavori si protrassero per tre generazioni, con il cardinale Odoardo (1573-1626) e il duca di Parma Odoardo I (1612-1646), che ordinò gli ultimi grandi lavori. Ma quando trasferì la sua corte a Parma, per il giardino iniziò il declino. Oggi di quel celebre complesso rimangono alcuni elementi monumentali, sottoposti a un recente restauro: il Ninfeo della pioggia, il Teatro del Fontanone e le sovrastanti uccelliere. Possiamo però ricostruirne l'aspetto al tempo del massimo fulgore grazie a stampe dell'epoca. Il giardino, che supera un dislivello di 20 metri, comprendeva quattro terrazze sovrapposte, collegate da sentieri e scale, con elementi monumentali posti a diversi livelli lungo un unico asse longitudinale, forse sul modello del Tempio della Fortuna primigenia di Palestrina. Il visitatore dell'epoca vi accedeva da un portale monumentale progettato dal Vignola (demolito, fu ricostruito in altra posizione a metà Novecento) e si trovava immediatamente di fronte il Teatro d'ingresso, uno spazio semicircolare adornato da statue e fiancheggiato simmetricamente da due boschetti in pendio; una rampa di scale lo portava al Ninfeo della pioggia, creato da Rainaldi, un vasto ambiente a pianta rettangolare, parzialmente interrato, con nicchie, statue e una fontana decorata con rocce, concrezioni calcaree e stalattiti, che stillando acqua a gocce produceva (e produce) un suono caratteristico che ricorda lo scroscio della pioggia. Da questo ambiente due scale parallele davano accesso direttamente alla terza terrazza, mentre la seconda, una stretta striscia con alberelli in vaso e aiuole geometriche bordate di bosso, era collegata alla prima da quattro sentieri paralleli. Il punto focale della terza terrazza era il Teatro del Fontanone, una fontana monumentale racchiusa in una nicchia absidata decorata da stalattiti da cui l'acqua ricade in un ampio bacino, che faceva da base a una loggia centrale e a due voliere, due edifici a pianta pressoché quadrata che ospitavano uccelli rari ed esotici. affaccianti sul quarto e ultimo ripiano, al quale si accedeva da due scale laterali. A questo punto, il visitatore aveva raggiunto la sommità del colle e il giardino vero e proprio, che si estendeva pressoché in piano, fino al ciglio del Palatino che si affaccia sul Circo Massimo. Era un tipico giardino all'italiana con una serie di "stanze" verdi quadrate o rettangolari con parterres a ramages, bordate da alberi d'alto fusto. La piazza dei platani si distingueva dagli altri scomparti per una fontana con bacino a frastagli, circondata da 10 platani posti in cerchio; da qui, tramite due scale si scendeva al ninfeo degli specchi. Nell'angolo sud-occidentale si trovavano il Casino dei fiori e il giardino segreto, riservato all'esclusiva fruizione del principe, e all'estremo lembo, racchiuso da muri, il selvatico, con le piante lasciate allo stato naturale. Quando i Farnese lasciarono Roma, il giardino andò incontro a un progressivo degrado, e le aiuole tornarono ad essere vigne, orti e carciofaie. Nell'Ottocento, divennero una zona di scavo archeologico, e, mentre le strutture vennero conservate, quanto rimaneva dei giardini fu totalmente distrutto. All'inizio del Novecento, Giacomo Boni, soprannominato l'archeologo giardiniere per la sua passione e i suoi studi sulle piante, risistemò alcune aree a verde, da una parte guardando agli antichi giardini di Roma imperiale, dall'altra proprio agli Orti farnesiani. Per individuare le piante esotiche introdotte all'epoca del Cardinal Odoardo si rifece a Exactissima Descriptio Rarorium Quarundam Plantarum quae continentur Romae in Horto Farnesiano, che è anche il punto di riferimento dell’attuale restauro vegetale del Palatino. Una paternità contesa Il libro fu pubblicato nel 1625 dal tipografo romano Mascardi, legato all'Accademia dei Lincei di cui pubblicò alcune delle prima opere. Si tratta di un catalogo delle piante rare, per lo più di origine americana, coltivate negli Orti farnesiani al tempo del Cardinal Odoardo, cui il contatto con i gesuiti garantivano l'accesso in anteprima a piante esotiche. La paternità del libro è un piccolo giallo: nel frontespizio e nella lettera dedicatoria al cardinale figura come autore Tobia Aldini, medico del cardinal Odoardo e prefetto degli Orti farnesiani, ma già nel Settecento è stato suggerito che il vero autore potrebbe essere un altro medico attivo a Roma, Pietro Castelli. Infatti subito dopo la dedicatoria si trova un acrostico dedicato "all'eruditissimo autore" in cui la prima lettera di ogni verso forma la scritta Petrus Castellus Romanus; inoltre la nota del tipografo è sparsa di lettere maiuscole che formano la scritta Petrus Castellus e si conclude con la frase in caratteri maiuscoli In gratiam Tobiae Aldini scipsi cunta, "Ho scritto tutto per la benevolenza di Tobia Aldini". Se ne è voluto dedurre che Aldini sia solo un prestanome, o addirittura uno pseudonimo di Castelli. A me pare che la posizione più equilibrata sia quella di Lucia Tongiorgi Tomasi, secondo la quale "sembra più probabile che, sebbene Aldini sia il vero autore, si sia avvalso ampiamente dei consigli e dei suggerimenti dell'illustre botanico, specialmente nella redazione del testo latino". In effetti, Castelli è citato più volte, e potremmo senz'altro attribuire a lui, o almeno alla sua consulenza, gli excursus eruditi, mentre sembrano più farina del sacco di Aldini le puntuali informazioni sulla coltivazioni delle piante, frutto evidentemente dell'esperienza diretta in giardino. Come che sia, si tratta di un testo di grande interesse per conoscere i viaggi delle piante esotiche di fine Rinascimento. E' diviso in sedici capitoli, di lunghezza molto diseguale (da molte pagine a poche righe), ciascuno dedicato a una singola pianta esotica coltivata negli Orti farnesiani, di cui vengono fornite una descrizione spesso molto dettagliata, informazioni sull'arrivo in giardino e sulla coltivazione, le eventuali virtù medicinali e gli usi culinari. Molto pregevoli le illustrazioni in bianco e nero, che in alcuni casi ritraggono anche particolari come i frutti o i semi. Il libro esordisce con un lungo capitolo su Acacia farnesiana (oggi Vachellia farnesiana), di cui costituisce la prima attestazione in Europa; la pianta, ottenuta da semi giunti da San Domingo nel 1611 come dono del granduca di Toscana, si ambientò benissimo, tanto da fiorire copiosamente due volte all'anno; doveva costituire l'orgoglio del cardinale, quindi Aldini le dedica il capitolo più lungo, un vero trattatello di una trentina di pagine, che comprende anche un confronto con la prima acacia nota in Europa, Acacia nilotica. La seconda specie trattata è Hyiucca canedana, ovvero una Yucca che sulla base delle illustrazioni è stata identificata come Yucca gloriosa var. tristis; stranamente, la si dice giunta dal Canada, paese dove non cresce alcuna specie di questo genere, segno delle vie anche contorte di trasmissione delle piante esotiche; anche questo capitolo è un ampio trattatello, con il confronto con altre specie e informazioni dettagliate sul pane di yucca messicano, che però non è ricavato da una Yucca, ma dalla cassava o manioca. Ancora americana la terza specie, maracot, ovvero la passiflora, una pianta altamente simbolica nei cui fiori i gesuiti vedevano i segni della passione di Cristo; Aldini si mostra scettico, scrivendo: "Io non ci vedo tanto significato mistico, se non a forza; in tutta la pianta non compare affatto la croce, che è il primo e principale segno della passione del salvatore". Invece si dilunga nella descrizione della pianta, dei fiori e dei frutti, "aciduli ma dal sapore gradevole". Giunta dalle Indie nel 1620 è laurus indica (Persea indica), in realtà originaria delle Canarie. L'autore, con grande sfoggio di erudizione, si preoccupa soprattutto di negare che vada identificata con la cannella. Da qui in avanti, i capitoli si fanno sempre più brevi, riducendosi spesso a un disegno e una pagina di testo. Non tutte le piante sono identificabili (non lo è, ad esempio, Narcissus calcedonicus, unica pianta non illustrata da un disegno): citiamo hololiuchi o convolvolo peruviano, in cui riconosciamo Rivea corymbosa; glans unguentaria, ovvero Moringa oleifera; Lilionarcisso rubeo indico, presumibilmente un Hippeastrum; il ricino americano ovvero Jatropha curcas; solis flos tuberosus, ovvero il topinambur Helianthus tuberosus; Agave americana, ormai quasi una vecchia presenza nei giardini europei, dove è attestata già nella prima metà del Cinquecento. Un genere amazzonico per un esperto di piante americane Di Tobia Aldini sappiamo molto poco: non ne conosciamo né la data di nascita né quella di morte, ma soltanto che era nato a Cesena e che a partire dal 1617 il cardinale Odoardo Farnese, di cui era anche il medico personale, gli affidò la direzione degli Orti farnesiani. Dai documenti del tempo in cui è citato emerge che faceva parte dei circoli intellettuali e scientifici della Roma del primo Seicento, ed era molto stimato tanto come chimico, ovvero farmacista, quanto come semplicista, ovvero esperto di erbe medicinali. In particolare ci è rimasta una sua lettera a Faber, in quegli anni impegnato nell'edizione del Tesoro messicano, al quale potrebbe aver fornito informazioni sulle piante americane coltivate nel giardino. Nel 1621 contribuì con una lettera a Discorso della duratione delli medicamenti di Pietro Castelli, al quale inizialmente dovette essere legato da grande amicizia, che tuttavia venne meno dopo il 1626, quando, morto il cardinale, Aldini passò al servizio del cardinal Barberini come curatore del suo Museo di curiosità ed ebbe anche la direzione del giardino dei semplici vaticano, con grande dispiacere di Castelli, che aspirava a quel posto per sé. Fu probabilmente questa situazione a spingerlo a trasferirsi a Messina. Così si esprime in amara lettera a Cassiano dal Pozzo; "Roma non mi vole, e stima un Tobia per maggior semplicista, per maggior Chimico, per maggior Cosmografo, e per maggior filosofo e Medico che Dioscoride, Paracelso. Tolomeo, Aristotele e Galeno quali tutti al suo dire sono ignoranti". Dopo questa data non abbiamo altre notizie di Aldini. Nonostante una presenza un po' fantasmatica e la discussa paternità di Exactissima Descriptio, gli sono stati dedicati due generi Aldina, rispettivamente da Adanson e Endlicher, e due generi Aldinia da Scopoli e Rafinesque. L'unico valido è Aldina Endl., un piccolo genere di circa 17 specie di alberi della famiglia Fabaceae, nativi delle foreste umide di Guyana e Amazzonia settentrionale. Sono alti alberi, spesso muniti di contrafforti, con foglie composte pennate e infiorescenze terminali o ascellari, solitamente ricoperte di una peluria dorata o rugginosa. I fiori, a simmetria radiale, hanno 4-6 petali, da bianchi a giallastri, numerosi stami, e sono profumati. Il frutto è un legume drupoide, talvolta spugnoso, per favorire la dispersione fluttuando sulle acque. Il genere Vigna, cui appartengono almeno una decina di specie di legumi alimentari molti coltivati (tra cui il nostro fagiolo dell'occhio V. unguiculata) non ha nulla a che fare con vigne e vigneti. Anch'esso deve il suo nome a una persona, il medico e botanico toscano Domenico Vigna, più volte ma sempre per breve tempo prefetto del giardino dei semplici di Pisa, che ha ricevuto tanto onore da uno dei suoi successori, anche se non sembra vantare particolari meriti botanici. Un prefetto tappabuchi Gaetano Savi, prefetto dell'orto botanico di Pisa dal 1814, si propose di fare uscire dall'oblio diversi esponenti anche minori della botanica toscana dedicando loro un genere botanico. Probabilmente il più importante di questi generi (molti dei quali non più accettati) è Vigna (Fabaceae) che raggruppa una grande quantità di fagioli diffusi un po' in tutti i continenti, dal nostro fagiolo dell'occhio (V. unguiculata) agli orientali azuki (V. angularis). Il personaggio che dà loro il nome è Domenico Vigna, che insegnò botanica a Pisa e fu a più riprese prefetto dell'orto botanico pisano nella prima metà del Seicento. Gran parte delle scarse notizie che abbiamo su di lui si devono sempre a Savi, che le riprese in parte da Giovanni Targioni Tozzetti. Vigna era fiorentino, ma non ne conosciamo la data di nascita. Medico, dovette essersi formato proprio a Pisa, dato che Savi lo dice allievo di Baldelli, Malocchi e Rovezzani. Nominato medico condotto a Vico Pisano, acquistò una notevole reputazione professionale. Nel 1608, alla morte di Orazio Rovezzani, gli succedette come Professore di medicina con lettura di botanica, cattedra che mantenne fino alla morte nel 1647. Non lasciò per tanto la più redditizia professione medica, tanto che Savi commenta "in conseguenza non poteva aver tempo per badare alla Botanica". Nel 1614 fu per qualche mese prefetto dell'orto pisano, una posizione che tornò ad occupare ad interim, quasi come tappa buchi, ancora tra 1632 e il 1634. Sembra che come professore, pur non essendo un luminare, se la cavasse onorevolmente; dice infatti di lui Giovanni Targioni Tozzetti: "contuttoché non fosse un gran Botanico, pure per istruire i Giovani, e mostrare loro le piante utili, era più che sufficiente". Almeno di erbe medicinali doveva intendersi abbastanza; sappiamo che erborizzò nelle campagne di Agnano, nella Valle di Calci, presso San Giuliano, Ripafratta, Corliano, Avane e Vecchiano e, secondo Targioni Tozzetti, fu il primo a pubblicare alcune piante locali. Le sue lezioni dovevano essere piuttosto tradizionali, ovvero consistere nella lettura e nel commento a Teofrasto e Dioscoride. La sua unica opera edita è infatti Animadversiones, sive observationes in libros de historia, et de causis plantarum Theophrasti (1625), libro che Savi giudica severamente, definendolo "superficialissimo, con interpretazioni strane, ed erronee, e che non mostra gran dottrina". Ritiene però di qualche utilità la parte storica, per le notizie sui suoi predecessori all'Università e all'orto pisano, per i nomi vernacolari delle piante e la loro corretta localizzazione nonché per l'origine delle piante esotiche. Più drastico di lui Targioni Tozzetti, che dice l'opuscolo scritto in "latino barbaro" e aggiunge "in esso libro ha eseguito il suo assunto in maniera da far pietà". Anch'egli riconosce l'utilità delle sue notizie storiche, quindi ci informa che aveva tenuto lezioni su certe gomme e resine e che intendeva fare un indice di Dioscoride, progetto al quale presumibilmente rinunziò. Meritò comunque che il suo ritratto fosse esposto, insieme a quello dei suoi colleghi, nel vestibolo dell'orto botanico. Fagioli per tutti i gusti Il genere associato da Savi a questo non indimenticabile botanico è decisamente importante, perché gli appartengono alcuni dei legumi più coltivati al mondo. Linneo aveva riunito i fagioli del vecchio e del nuovo mondo nei generi Phaseolus o Dolichos; nel 1822 Savi ne staccò i due generi Malocchia e Vigna, dedicati a due dei prefetti del giardino dei semplici di Pisa, il frate Francesco Malocchi e appunto Domenico Vigna. Mentre Malocchia oggi non è più valido (è sinonimo di Canavalia), Vigna (famiglia Fabaceae) è un vasto genere di oltre 100 specie, diffuso nelle aree tropicali e subtropicali di tutti i continenti; almeno una decina hanno notevole importanza alimentare. Iniziamo dal nostro continente con Vigna unguiculata, ovvero il fagiolo dell'occhio, originario dell'Africa ma già ampiamente coltivato da Greci e Romani. Sembra sia stato domesticato in Africa forse già intorno al 2000 a.C., sia come foraggera sia come tessile, per poi diffondersi in India, in Cina e in Europa, dove forme coltivate sono note almeno dal 300 a.C. Nel Medioevo costituiva la principale fonte di proteine da legumi; fu soppiantato a partire dal Cinquecento dai più produttivi fagioli americani, divenendo una coltivazione a carattere locale. Ancora oggi è il principale legume alimentare in Africa; in Nigeria, che ne è il maggiore produttore mondiale, è coltivato anche per le fibre tratte dai lunghi peduncoli del gruppo textilis. In Cina invece è stata selezionata la sottospecie sequipedalis, con baccelli lunghi anche più di un metro: si tratta dei cosiddetti fagiolini a metro, di cui si consumano appunto i baccelli immaturi. In Africa è molto coltivato anche il fagiolo Bambara V. subterranea, originario dell'Africa occidentale, ma introdotto in altre regioni africane e in America centrale e meridionale, usato sia nell'alimentazione umana sia come mangime per gli uccelli da cortile. Come le arachidi, dopo la fecondazione il fiore si piega a terra e i frutti maturano sottoterra. Diverse specie di Vigna sono coltivate in India; tra le più apprezzate l'urad o fagiolo nero o gram neroV. mungo, che, oltre ad essere consumato stufato o in curry, viene utilizzato anche sotto forma di farina nella preparazione di pani, frittelle e dolci. Nativo dell'India è anche V. aconitifolia, noto come matki o fagiolo farfalla, anch'esso usato nei curry, ma anche come foraggio; per la sua resistenza alla siccità è stato identificato come una delle colture del futuro. Largamente coltivata non solo in India, ma in tutta l'Asia orientale è V. radiata, noto come azuki verde, mungo verde o gram verde. Nel subcontinente è usato essiccato e per lo più privo decorticato in molte preparazioni salate e dolci ma anche sotto forma di farina. Se ne ricava la farina con la quale vengono preparati i cosiddetti spaghetti di soia. I germogli, noti impropriamente come germogli di soia verde, sono consumati crudi in alternativa ai veri germogli di soia. Nel nostro giro del mondo attraverso il genere Vigna siamo così giunti in Giappone, dove V. angularis, ovvero l'azuki o fagiolo rosso è la verdura più consumata dopo la soia. Nativo della Cina o della regione himalayana, è stato domesticato intorno al 1000 a.C. per poi diffondersi in tutta l'Asia orientale. Nelle cucine di questa area è l'ingrediente di molte preparazioni, incluse quelle dolci, a base di una pasta o confettura in Giappone detta anko a base di azuki bolliti con lo zucchero. Alcune specie sono così diffuse che è difficile stabilirne l'origine; è il caso di V. luteola, presente nelle aree tropicali di tutto il mondo: alcuni studiosi la ritengono originaria dell'Africa, altri del Sudamerica. Questa specie cresce in acque basse ed è utilizzata soprattutto come foraggio. Infine, una curiosità; come la maggior parte delle specie americane, sono state spostate in altri generi due specie dai fiori molto decorativi: V. caracalla oggi è Cochliasanthus caracalla, unica specie di questo genere, mentre V. speciosa è Sigmoidotropis speciosa. Anche se siamo da tempo entrati nell'era dei cataloghi on-line, sono ancora molti i vivai e i negozi di sementi che mettono a disposizione dei clienti cataloghi cartacei. Quasi sempre, si punta sulle immagini, con didascalie e indicazioni ridotte al minimo. In fondo, è ancora il formato inaugurato dal primo catalogo commerciale di piante a noi pervenuto: il Florilegium aplissimum et selectissimun, predisposto dal mercante olandese Emanuel Sweert per la fiera di Francoforte del 1612. Le sue immagini a grandezza naturale sono così belle da aver indotto Linneo a dedicargli l'interessante genere Swertia (Gentianaceae). Florilegio o catalogo? Come sempre, anche nell'anno di grazia 1612 la fiera d'autunno di Francoforte aveva attirato visitatori da tutto l'impero e oltre; tra gli stand di maggiore richiamo, quello del mercante olandese Emanuel Sweert; non era la prima volta che partecipava alla fiera, ma quell'anno offriva una selezione particolarmente ricca di bulbi e piante esotiche, portate dalle Indie orientali e occidentali dalle navi della Repubblica delle Province Unite. Diverse vareità si vedevano per la prima volta; e c'era un'altra novità: per permettere agli acquirenti di farsi un'idea di che cosa stavano per acquistare, Sweert aveva fatto stampare un catalogo con più 500 piante magnificamente illustrate. Quell'opera dovette fare sensazione. Era lo spettacolare Florilegium aplissimum et selectissimum, stampato per conto di Sweert da due tipografi della città tedesca, Antonius Kempner e Erasmus Kempffer. Per il grande formato (34 x 21 cm), il numero di tavole (ben 110), la tecnica utilizzata (l'ancora recente calcografia), la bellezza e la cura dei disegni a grandezza quasi naturale, rientrava in un genere editoriale che stava diventando di moda, molto praticato anche da artisti e incisori di Francoforte: il florilegio, ovvero la raccolta di illustrazioni di fiori. Ma era anche altro: appunto uno catalogo commercialedi piante, il primo giunto sino a noi. Quasi tutto ciò che sappiamo sull'uomo che l'aveva commissionato proviene dal catalogo stesso. Emanuel Sweert (o Sweerts, o ancora alla latina Swertius, 1552-1612), come è dichiarato nel cartiglio del frontespizio, era nato a Zevenberger nel Brabante settentrionale, ma si era trasferito ad Amsterdam prima del 1584. Al momento della stampa del Florilegium era sessantenne, come recita la scritta che contorna il suo ritratto anteposto al testo. Nella prefazione Ad candidum lectorem rivela che fin da giovane egli aveva amato viaggiare e collezionare "le mirabili creature di Dio onnipotente" e le curiosità che i marinai olandesi portavano dalle Indie orientali ed occidentali, nonché dalle plaghe australi e settentrionali; ma su ogni cosa ad ispirare la sua massima ammirazione era la straordinaria varietà di piante, alberi, erbe e soprattutto fiori. Che le piante non si limitasse a collezionarle, ma le vendesse la dice esplicitamente l'annuncio pubblicitario stampato sul retro del frontespizio: "Signori, se qualcuno desidera acquistare questo libro e le piante e fiori che vi sono descritti, li troverà nel corso della fiera di Francoforte nella Roemerplatz o nella bottega dell'autore davanti al municipio; oppure, successivamente, alla fiera di Amsterdam e presso il tipografo Paulus Arnoldus van Ravenstein". Che, per inciso, era il marito di una delle sue figlie. Proseguendo nella lettura, risulta chiaro che Swertius era attivo sul mercato internazionale come mercante sia di piante sia di curiosità venute da tutto il mondo (conchiglie, minerali, fossili, insetti e così via) e che il suo migliore cliente era l'imperatore Rodolfo II, che cercò inutilmente di convincerlo a dirigere i suoi giardini a Praga e lo incoraggiò a pubblicare il florilegio-catalogo. Che fosse ben inserito nell'ambiente colto olandese ce lo dicono anche le due liriche che seguono la prefazione; al di là degli elogi sperticati tipici del genere encomiastico, si devono a due personaggi di un certo spessore. Il primo è il poeta neolatino Damas van Blyenburg, autore tra l'altro di una grande antologia di poesia erotica intitolata Veneres Blyenburgicae sive amorum hortus (ovvero giardino degli amori), che raccoglie 1137 poesie di 148 autori, distribuite in cinque "aiuole". Il secondo è Outgers Cluyt (Augerius Clutius), figlio del capo giardiniere dell'orto botanico di Leida all'epoca di Clusius, a sua volta botanico, viaggiatore, raccoglitore di piante e medico ad Amsterdam. Clusius era indubbiamente uno dei numi tutelari di Swertius, che volle fosse ritratto ai piedi del frontespizio, insieme a Dodoens; infatti (lasciando sottotraccia lo scopo commerciale), sempre nella prefazione egli dichiara che il primo scopo del suo libro è ridare vita alle innumerevoli forme delle piante dottamente descritte dai sapienti fiamminghi Dodoens, L'Obel e soprattutto Clusius; ma i loro testi erano corredati di piccole immagini, ben lungi dall'accontentare gli amatori; quindi prosegue "in questo grande formato ho messo ogni diligenza non solo nel rappresentare la vita, ma anche pressoché la grandezza dei fiori e dei loro bulbi o radici, così come crescono d'ordinario". Se ne è dedotto che Swertius fosse anche un'artista botanico (pittore e/o incisore) e fosse l'autore di almeno alcune di quelle splendide immagini. Su questo punto però gli studiosi sono divisi. Per alcuni, egli si limitò a far disegnare e a far incidere a artisti (o meglio ancora artigiani sconosciuti) immagini attinte da opere di Mattioli, Dodoens, L'Obel e Clusius, e per le bulbose da un florilegio pubblicato l'anno prima sempre a Francoforte, il Florilegium novum di Johann Theodor de Bry (il nonno di Maria Sybilla Merian), che a sua volta le aveva in gran parte riprese, a volte ruotandole di 180 gradi, dal florilegio di Vallet e Robin Le Jardin du roy très chrestien Henry IV. Carla Oldenburger-Ebbers pensa il contrario: poiché Sweert ottenne il privilegio di stampa del suo catalogo già nel 1609, le tavole del volume sulle bulbose (tra l'altro, molto migliori tanto nel disegno quanto nell'incisione di quelle del secondo volume, tutte attinte da erbari precedenti) potrebbero essere state preparate prima del 1612, e potrebbe essere stato de Bry a copiare da Sweert e non viceversa. La questione però è tutt'altro che risolta, quindi è impossibile definire lo status professionale dell'olandese: solo vivaista e mercante, o anche pittore e incisore? Da parte mia, propendo per la prima ipotesi: mente de Bry era un brillantissimo incisore, di cui conosciamo molti altri lavori, non ci è nota nessun altra opera di Sweert; difficile pensare che abbia potuto produrre disegni così precisi e raffinati e padroneggiare a tal punto la tecnica dell'incisione a bulino se non fosse stato un professionista. Il suo status di mercante è invece confermato dall'atto di battesimo del più giovane dei suoi figli, Hieronymus, nato nel 1603 (che invece è un pittore noto, padre di un anche più noto omonimo, tipografo, editore, incisore e poeta). Ma è ora di sfogliare questo splendido catalogo. Scritto in quattro lingue (latino, olandese, tedesco e francese) per raggiungere una clientela internazionale, dopo una paginetta con succinte istruzioni di coltivazione, elenca le specie e varietà poste in vendita, con descrizioni essenziali (spesso limitate al colore), seguite dalle tavole calcografiche. E' diviso in due parti o libri. Il primo, più cospicuo, è dedicato alle piante all'epoca più amate e ricercate, ovvero le bulbose, per un totale di 330 specie o varietà e 67 tavole e si conclude con un elenco di "piante esotiche delle Indie orientali e occidentali e altre, che vedono ora la luce con l'opera di Emanuel Sweert, ovvero inedite", in tutto 27, tutte bulbose o rizomatose. Il secondo libro elenca 243 specie tra perenno da fiore e le tipiche piante da aranciera, come limoni, oleandri e melograni, illustrate in 43 tavole. Non mancano però anche altre curiosità, come la melanzana (mala insana), il pomodoro (poma amoris) e la patata (papas americanorum) o i cinque "fiori africani" della tavola 26 che sono riconoscibilissimi Tagetes (per inciso, originari del Messico). Tra le bulbose, tralasciando i generi minori, di cui sono poste in vendita una o due varietà, troviamo in ordine alfabetico 38 varietà di anemoni, 8 di crochi primaverili e 6 di crochi autunnali, 10 di colchici, 4 di ciclamini, 2 di corona imperiale e 7 di fritillaria, 5 di gladioli (compreso il misterioso Gladiolus maximus capitis aut promontorii bonae spei magnitudine alias species superans), 44 di giacinti, 30 di iris, 16 di gigli, 9 di "Moly" ovvero di Allium e affini, 5 di Narcisso-lyrion, ovvero di bucaneve e Leucojum, 55 di narcisi (ma all'epoca sotto quest'etichetta poteva capitare di tutto), 7 di Ornithogalum, 12 di ranuncoli, 10 di Satyrion, ovvero vari tipi di orchidee, 32 tulipani, tra cui diversi di quelli fiammati che di lì a qualche anno avrebbero scatenato la tulipomania. Tra le iris, va segnalata Iris latifolia alba [f]loris caeruleis che Lamarque, attestando che era coltivata da molto tempo al Jardin de Roy, volle battezzare Iris swertii; oggi è considerata sinonimo di Iris pallida subsp. pallida. Tra i Narcissus, all'epoca un'etichetta generica che si assegnava spesso e volentieri a bulbose esotiche ignote, ne troviamo due, uno proveniente dalle Indie orientali, l'altro dalle Indie occidentali, "dette Swertius", che non avevano ancora fiorito, a conferma che il nostro era un importatore, in contatto con capitani e marinai delle Compagnie delle Indie olandesi, ma anche che il mercato era desideroso di accaparrarsi novità anche "a scatola chiusa". L'opera era stampata in bianco e nero, ma ne esistono anche esemplari colorati a mano con maggiore o minore cura, presumibilmente venduti a prezzi diversi. Ebbe un notevole successo, trascendendo lo scopo iniziale (del resto, sia Sweert sia Rodolfo, che secondo la prefazione avrebbe incoraggiato l'opera, morirono in quello stesso 1612), tanto che se ne conoscono diverse edizioni: una uscita ancora a Francoforte nel 1614 presso Kaempfer, e due a Amsterdam, presso Johannes Janson, rispettivamente nel 1646 e nel 1654. Non più un catalogo, ormai, ma un bel libro da sfogliare per godere le figure. Petali come una tavolozza di pittore Nella didascalia che accompagna il ritratto Sweert è definito "principe dei rizotomi batavi", nel frontespizio della seconda parte "studioso di botanica". Ma fu come pittore (o presunto tale) che Linneo decise di immortalarlo dedicandogli il genere Swertia. In Hortus cliffortianus, separando da Gentiana Swertia perennis, una specie con fiori a stella azzurro-violacei spruzzati di macchie più scure, egli infatti scrive "Ho chiamata Swertia questa pianta, i cui fiori si fregiano di molte screziature, come poste sulla tavolozza di un pittore, da Emanuel Swertius, al quale dobbiamo tante piante egregiamente dipinte". Il genere Swertia (Gentianaceae) comprende oggi più di 150 specie di erbacee perenni, biennali o annuali native degli ambienti subartici, subalpini e montani dell'emisfero boreale e delle montagne dell'Africa tropicale. Sono simili alle genziane, ma hanno fiori a stella raccolti in pannocchie. Anche la nostra flora ne annovera una specie, S. perennis (la specie tipo di Linneo), nota con il nome comune genzianella stellata; piuttosto rara, è presente sparsamente in tutto l'arco alpino, dalle Alpi marittime al Cadore, nonché in poche stazioni dell'Appennino tosco-emiliane. Anche al di fuori della penisola, questa specie, legata all'ambiente delle torbiere umide, ha una distribuzione fortemente discontinua; in Europa vive nelle montagne di orogenesi alpina (oltre alle Alpi, i Pirenei, le Alpi dinariche, i Carpazi, i Sudeti, la Foresta Boema, il Caucaso) ma anche nelle paludi torbose dell'Europa centrale e della Russia; una seconda area va dalla Manciuria al Giappone, e, quindi, attraverso le Curili e le Aleutine, raggiunge l'Alaska e da qui tutta la costa dell'America settentrionale, fino alla California. Si ritiene che il centro di dispersione del genere sia l'Asia; in Cina sono presenti 75 specie e in India 40, anche in questi caso sparsamente disperse nell'Himalaya occidentale e orientale e nei Ghati occidentali. Diverse specie hanno una lunga tradizione di piante officinali. La più nota di questo gruppo è probabilmente S. chirayita, una biennale originaria dell'Himalaya temperato, usata nella medicina tradizionale indiana, pakistana e tibetana per curare una larga gamma di malattie, dai disordini epatici alla malaria al diabete. S. japonica è invece una delle erbe medicinali più popolari in Giappone, apprezzata per le sue virtù stomatiche e antidiarroiche. Sul mercato asiatico, le specie officinali sono molto richieste, tanto che l'eccessiva raccolta in natura ne mette a rischio la sopravvivenza. Al momento, la coltivazione è ancora occasionale o presente in piccole aree. Nonostante l'indubbio valore estetico, rara è anche la coltivazione nei giardini. Tra le poche eccezioni, S. bimaculata, una biennale o perenne di breve vita originaria dell'Asia orientale, con fiori a coppa bianchi puntinati di viola e due vistosi nettari per ogni lobo, talvolta offerta da vivai specializzati. Richiede terreno fresco, acido, umido, e posizioni semi ombreggiate. A differenza della vicina Virginia, la cui flora aveva destato l'interesse di botanici e appassionati fin dall'inizio del Seicento, perché iniziassero le ricerche naturalistiche in Maryland si dovette attendere la fine del secolo e la trasformazione in colonia reale. Evento decisivo fu la nomina a governatore di Francis Nicholson, patrono delle arti e delle scienze e deciso sostenitore della chiesa anglicana. Il vescovo Compton ne approfittò per inviare nella colonia il giovane pastore gallese Hugh Jones, nella speranza che, come Banister in Virginia, riuscisse a unire con successo l'attività pastorale alle raccolte botaniche. Ma, al contrario di Banister, Jones non sapeva nulla di piante e, nonostante la buona volontà e l'insegnamento a distanza di Petiver, ebbe molta difficoltà a conciliare i due compiti. A supportarlo nel 1698 giunsero da Londra ben due naturalisti: William Vernon, designato dalla Royal Society, e David Krieg, amico e agente di Petiver. Anche se il loro soggiorno nella colonia fu breve, segnò il vero inizio dell'esplorazione della flora del Maryland, con la raccolta di diverse centinaia di specie, in parte pubblicate da Ray nel terzo volume di Historia Plantarum. Sia Krieg sia Vernon sono celebrati da generi validi della famiglia Asteraceae: Krieg dal piccolo Krigia e Vernon dal grande Vernonia e, indirettamente, da Vernoniopsis e Vernonanthura. Un pastore e apprendista botanico La tragica morte di John Banister fu un duro colpo per il vescovo Compton e per i botanofili londinesi che si riunivano nel Temple Coffee House Botanical Club; con essa si interrompeva il flusso di nuove piante americane garantito dalle raccolte del solerte pastore. Due anni dopo, nel 1694, la nomina a governatore del Maryland di Francis Nicholson, che durante il suo mandato in Virginia aveva favorito l'attività di Banister e più in generale l'esplorazione delle risorse naturali, riaccendeva le speranze. Si cercò un ecclesiastico che, come il defunto, potesse unire all'attività pastorale le raccolte naturalistiche. Su segnalazione di Edward Lhwyd, curatore dell'Ashmolean Museum di Oxford, un candidato non ideale ma passabile fu individuato nel gallese Hugh Jones (ca. 1671-1701), assistente di Lhwyd nella raccolta di fossili. Di piante non sapeva nulla e aveva seguito i corsi di teologia per non più di un anno, eppure il vescovo Compton, ritenendo imminente la partenza della flotta del tabacco diretta in Virginia, si affrettò ad ordinarlo pastore. Invece, a causa della guerra con la Francia, la partenza fu rinviata di mesi, permettendo al neo-reverendo di frequentare il Club e ricevere almeno un'infarinatura di zoologia e di botanica. Doody, Petiver e James Ayrey (un mercante e collezionista il cui negozio era vicino a quello di Petiver) lo accompagnarono a cercare fossili nella cava di calce di Charlton presso Greenwich e ad erborizzare nel Kent. Doody gli procurò un termometro e forse un densimetro, Petiver gli impartì istruzioni su come raccogliere e conservare ogni sorta di "collezione filosofica" e gli diede una copia della sue centurie e forse altri libri, nonché materiali come la carta necessaria per essiccare gli esemplari e bottiglie per conservare gli animali sotto spirito. Jones giunse in Maryland solo nel giugno 1696. La situazione, da ogni punto di vista, era più complessa rispetto alla Virginia. Il Maryland, la cui economia si basava principalmente sulla coltivazione del tabacco, era molto meno florido della colonia gemella; la popolazione era costituita principalmente da servi bianchi a contratto, in gran parte maschi, frequentemente falcidiati da malattie ed epidemie; l'importazione di schiavi neri era appena agli inizi ma in crescita. Le piantagioni erano per lo più piccoli appezzamenti circondati da foreste e gli spostamenti rimanevano difficili. Fino al 1689 la colonia era stata amministrato da un governatore-proprietario cattolico della famiglia Calvert, che aveva favorito una certa tolleranza religiosa; oltre a cattolici, c'erano quaccheri, non conformisti, e anche anglicani, ma senza una chiesa organizzata. Questa fu stabilita solo nel 1691, quando il Maryland divenne un colonia reale; così, quando Jones arrivò ad Annapolis, la capitale, per presentarsi al governatore Nicholson, scoprì che i suoi doveri ecclesiastici sarebbero stati tutt'altro che una sinecura. Gli fu affidata la grande Christ Church Parish, ancora scarsamente abitata ma geograficamente vasta, con due sedi che lo costringevano a faticosi spostamenti. I doveri ecclesiastici assorbirono gran parte del suo tempo, lasciandone ben poco alle "collezioni filosofiche", già di per sé problematiche per un novellino immerso in un ambiente pressoché sconosciuto e in gran parte selvaggio. I suoi sponsor londinesi furono delusi: decisamente, Jones non era un nuovo Banister: nell'autunno e nell'inverno del suo primo anno in Maryland inviò pochi esemplari, imperfettamente conservati, per lo più già noti e non accompagnati dalle dettagliate note naturalistiche e dai disegni a cui li aveva abitati il compianto pastore-naturalista. Petiver cercò di ovviare con una specie di corso per corrispondenza, inviando a Jones liste di esemplari, doppioni della sua collezione, istruzioni pratiche e libri di botanica tra cui, oltre ai suoi Musei petiveriani, Historia plantarum di Ray e Paradisus batavus di Hermann. Oltre a doni come formaggi e generi di prima necessità, nei suoi pacchi c'erano anche medicinali, visto che un pastore in quella colonia ancora in via di formazione doveva occuparsi della cura non solo delle anime, ma anche dei corpi. Due nuovi invii di Jones raggiunsero l'Inghilterra alla fine del 1697 e nel 1698, per lo più in cattive condizioni a causa del lungo viaggio; finalmente nell'autunno del 1698 Petiver ricevette una collezione ben preparata e ben conservata, anche se lamentò che si trattasse essenzialmente di fiori, senza frutti e semi, "dai quali si ricavano le caratteristiche più essenziali o la denominazione". Preoccupato di perdere la priorità rispetto al rivale Plukenet, che in Almagestum botanicum (1696) aveva già pubblicato diverse specie virginiane raccolte da Banister, sollecitò Jones a intensificare le raccolte; gli chiese anche di inviargli il maggior numero possibile di esemplari della medesima pianta, in modo che egli potesse restituirgli i doppioni con le sue osservazioni. Qualche invio giunse ancora, ma a quel punto alle difficoltà che già conosciamo si era aggiunto il declino fisico: il giovane ecclesiastico gallese si ammalò di tisi e ne morì all'inizio del 1701. Due raccoglitori sono meglio di uno Già prima di questo infausto esito, Petiver e i suoi amici-rivali del Botanical Club e della Royal Society avevano deciso di affiancare al troppo indaffarato e troppo inesperto Jones un naturalista più preparato, ma soprattutto impegnato a tempo pieno. Nella seduta del 10 novembre 1697 della Royal Society, William Byrd II (figlio di William Byrd I, il piantatore virginiano che era stato amico, ospite ed esecutore testamentario di Banister) riferì che il governatore Nicholson intendeva offrire 25 sterline annue a un naturalista per "fare osservazioni e descrizioni di tutti i prodotti naturali di queste parti, e scriverne la storia" e chiedeva alla Royal Society di individuare la persona adatta. La scelta cadde su William Vernon (ca. 1667-ca. 1715), membro del St Peter's College di Cambridge, noto soprattutto come raccoglitore e studioso di muschi e già lodato da Ray per la profonda conoscenza della flora britannica. Ottenuti due o tre anni di congedo dall'Università, Vernon accettò l'incarico e si preparò a partire al più presto per l'America, dove contava di rimanere almeno due anni. La sua missione era sponsorizzata dalla Royal Society, quindi indirettamente dal Temple Coffee House Botanical Club; ma come sappiamo i suoi membri (in particolare Hans Sloane e James Petiver) erano divisi da una forte rivalità. Fu così che Petiver decise di giocare una seconda carta, inviando in Maryland un altro naturalista a lui legato: il medico tedesco David Krieg (1667-1713). Nato in Sassonia, quest'ultimo, dopo aver studiato all'Università di Lipsia, si era trasferito a Riga, diventando uno dei corrispondenti di Petiver, che lo aveva ospitato a casa sua quando nel 1696 egli si era spostato a Londra; inoltre lo aveva introdotto al Botanical Club e gli aveva fornito lettere di presentazione per Jacob Bobart, il prefetto dell'orto di Oxford, e per John Ray, che viveva nel suo rifugio di Black Nottley. Sicuramente nel novembre 1697, poco prima della partenza di entrambi per il Maryland, incontrò anche Vernon, ma i due viaggiarono separatamente e anche più tardi non raccolsero insieme, divisi da una presumibile rivalità; l'inglese arrivò in colonia nel marzo 1698, il tedesco (accompagnato dal "cacciatore di farfalle" di Petiver, un ragazzo chiamato Isaac) vi giunse due settimane dopo. Si era pagato il viaggio servendo come chirurgo di bordo, mentre il giovane Isaac forse viaggiò come ragazzo di cabina. Krieg dovette mettersi immediatamente all'opera, mentre Vernon, che dipendeva dal governatore e era tenuto a concordare le sue mosse con lui, dovette iniziare le raccolte solo a maggio. Non conosciamo nei particolari gli itinerari di nessuno dei due. Certamente visitarono Annapolis e i suoi dintorni ed esplorarono la costa orientale della baia di Chesapeake. L'unica lettera superstite di Krieg, scritta a maggio, ne attesta la presenza nel basso corso del Choptank River, mentre da una lettera inviata a luglio da Vernon a Sloane sappiamo che egli al momento si trovava ad Annapolis ed aveva già deciso di tornare in Inghilterra alla fine dell'estate. Non conosciamo le ragioni di questo rientro anticipato: alcuni hanno parlato di dissapori con il governatore Nicholson, altri al contrario ritengono che Vernon abbia preferito rinunciare piuttosto che rimanere in quella difficile colonia dopo la partenza del suo protettore; Nicholson infatti si accingeva a lasciare il Maryland per assumere nuovamente il governo della Virginia. Dunque, dopo circa cinque mesi di raccolte, lasciata l'America forse a settembre o a ottobre, tra novembre e dicembre sia Vernon sia Krieg erano nuovamente a Londra. Vernon presentò alcuni esemplari in una delle sedute del venerdì del Temple Coffee House Botany Club e gli sponsor si spartirono il bottino: Petiver fece la parte del leone, ricevendo da Krieg piante, insetti e conchiglie e molti esemplari anche da Vernon; altri li ottenne Sloane, altri ancora il vescovo Compton (che però lamentò che ci fossero pochi semi) e l'arcivescovo di Canterbury Tenison. Attraverso Sloane e Petiver, diverse centinaia di nuove specie furono inviate per l'identificazione a Ray, che incontrò molte difficoltà sia per l'incompletezza degli esemplari sia per la mancanza di note di accompagnamento; in ogni caso, nel terzo volume di Historia plantarum (uscito nel 1704) poté elencare 450 specie originarie del Maryland e determinarne 225. Tra il 1698 e il 1702 diverse specie furono inoltre pubblicate sulle Transactions della Royal Society da Petiver. Né Ray né Petiver (né Plukenet, che a sua volta pubblicò alcune specie del Maryland in Almatheum Botanicum, uscito nel 1705) indicano il nome dei raccoglitori, quindi non sappiamo che cosa fu raccolto rispettivamente da Jones, Vernon e Krieg. Nonostante il cambiamento di programma e le difficoltà incontrate da Ray, le raccolte dei due "inviati speciali" dovettero soddisfare a sufficienza le aspettative della Royal Society: nella seduta dell'11 gennaio 1699 fu deliberata sia l'ammissione di Krieg sia lo stanziamento di 20 sterline per inviare Vernon a caccia di piante nelle Canarie. Quasi immediatamente, egli si recò a Deale per imbarcarsi, ma mancò la partenza della flotta. Quando scoprì che non erano previste altre partenze prima di novembre, decise di rimanere a fare raccolte nel Kent e nei dintorni di Canterbury fino all'autunno. Ma ormai aveva perso la voglia di viaggiare. La missione alle Canarie sfumò, Vernon continuò per qualche anno a raccogliere in Inghilterra, specializzandosi in briofite e nel 1702 ritornò a Cambridge. Poco alla volta anche i suoi contatti con l'ambiente dei botanici e dei botanofili vennero meno, tanto che non sappiamo praticamente nulla dei suoi ultimi anni, neppure dove e quando morì. Il destino di Krieg dopo l'avventura americana fu amaro. Rimase a Londra ancora qualche mese, occupato a riordinare le sue raccolte e forse a fare disegni per Petiver; a maggio si imbarcò per Riga, dove era di ritorno il 14 giugno 1699. Per due anni esercitò la medicina nella città baltica, che offriva ben poche opportunità a un naturalista, come lamenta nelle lettere all'amico Petiver. Nel 1701 fu assunto come medico personale da Louis de Guiscard-Magny, ambasciatore della Francia in Svezia; lo raggiunse a Stoccolma e lo accompagnò a Parigi, dove ebbe modo di frequentare il Jardin des Plantes e conoscere Plumier e Vaillant. Quando scoprì che l'ambasciatore lo voleva al suo fianco come medico militare nella campagna prevista per l'anno successivo, decise di tornare a Riga. Lo faceva con riluttanza; avrebbe preferito un clima più caldo, magari un viaggio nelle Antille al servizio dell'amico Petiver. Lasciata Parigi nella primavera del 1702, dopo una breve visita a Strasburgo, dove viveva un fratello chirurgo, e alla famiglia a Schwarzeburg, nel gennaio 1703 era di ritorno a Riga. Anche se erano anni difficili per la città baltica a causa della Grande guerra del Nord tra Russia e Svezia, continuò a fare raccolte naturalistiche, nella speranza di scrivere una storia naturale della Livonia; si mantenne in contatto con gli amici inglesi, inviando loro curiosità, insetti e minerali, e ricevendo in cambio libri e strumenti. Il suo sogno era lasciare quella città provinciale dove nessuno condivideva i suoi interessi e tornare in America, o per lo meno a Londra. Ma rimase appunto un sogno. Nel 1710 Riga fu posta sotto assedio dai Russi; in città scoppiò una pestilenza che, insieme alla fame, fece 22.000 vittime. Una di loro era Krieg. Asteraceae grandi e piccole Nessun botanico ha pensato di rendere omaggio a Jones, mentre sia Krieg sia Vernon sono onorati da almeno un genere di Asteraceae. Krigia e Vernonia, ben diversi per grandezza e distribuzione, si devono al botanico tedesco Johann Christian Daniel von Schreber, che li pubblicò nel 1791 nella sua riedizione del linneano Genera Plantarum, purtroppo senza alcuna dedica esplicita. Krigia è un piccolo genere di 7 specie, distribuite tra il Canada sud-orientale, gli Stati Uniti centrali e orientali e il Messico nord-orientale. Sono erbacee perenni o annuali, con una radice fibrosa o a fittone da cui emergono gambi eretti e solitamente non ramificate, con foglie lanceolate, dentate o lobate a rosetta e capolini per lo più solitari, gialli o arancione, molto simile a quelli dei generi Hieracium e Pilosella. Vernonia è invece un grande genere cosmopolita cui sono attribuite quasi 350 specie, ma inteso in senso lato è giunto a comprenderne anche 1000; va inoltre considerato che le specie in aree in contatto tendono ad ibridarsi con facilità. Gli studi hanno identificato due centri di biodiversità: uno in America, l'altro in Africa e nell'Asia sud-orientale. Possono essere erbacee annuali o perenni, spesso di grandi dimensioni, arbusti da piccoli a grandi, rampicanti o piccoli alberi, con foglie alternate semplici, da lanceolate a strettamente lineari. I capolini, raccolti in cime o corimbi terminali o ascellari, sono composti da un involucro a coppa o cilindrico formato da 5-6 serie di brattee embricate che proteggono il ricettacolo sul quale si inseriscono i flosculi tubolosi, usualmente bisessuali e fertili. La corolla tubolare e lobata può essere viola, blu o anche bianco-crema. I frutti sono acheni dotati di pappo. Diverse specie nordamericane sono coltivate nei giardini. Tra di esse V. arkansana (spesso commercializzata come V. crinita), originaria degli Stati Uniti centrali, un'alta perenne che tra agosto e settembre produce grandi capolini viola dall'aspetto un po' scompigliato; la rusticissima V. fasciculata, nativa di una fascia che va dal Manitoba in Canada agli Stati Uniti centro-settentrionali, che produce alti steli non ramificati che culminano in un denso corimbo di fiori magenta; V. lettermannii, originaria dell'Arkansas e dell'Oklahoma, con foglie filiformi e centinaia di piccoli fiori viola scuro; simile è V. noveboracensis, che tende ad espandersi con stoloni sotterranei, con fiori viola, ma anche lilla e bianchi. Diverse specie africane, come V. colorata, sono utilizzate come verdura da foglia; dato che crescono rapidamente e si rigenerano dopo i tagli, producendo una grande massa di foraggio che resiste molto bene alla siccità, sono note, oltre che con diversi nomi locali, con il nome inglese ironweed, erba di ferro, dovuto ai fusti rigidi e talvolta color ruggine, ma anche alla veloce crescita e alla robustezza. La specie più importante di questo gruppo, la più consumata nonché ingrediente dello Ndolé, il piatto nazionale del Cameroon, V. amygdalina, è stata trasferita al genere Gymnanthemum come G. amygdalinum; è anche una importante pianta medicinale. Secondo Plants of the World on line (ma l'accordo non è universale) va ricondotta a questa specie come sinonimo anche Vernonia condensata, poi Vernonanthura condensata, in precedenza ritenuta un endemismo brasiliano, mentre si tratta appunto di una specie africana, introdotta all'epoca della tratta degli schiavi. Dai semi di V. galamensis viene invece ricavato un olio con un alto contenuto di acido vernolico, utilizzato nell'industria delle vernici e come plastificante. Oltre ad essere il patrono dell'importantissimo genere Vernonia, William Vernon è celebrato indirettamente anche da due dei tanti generi che ne sono stati separati, Vernoniopsis e Vernonanthura. Il primo ("simile a Vernonia") è un genere endemico del Madagascar, con una o due specie di arbusti o piccoli alberi con corimbi terminali di numerosi capolini con lungo ricettacolo e corolla biancastra. Il secondo (da Vernonia + anthura, da anthera e oura "coda", in riferimento alle antere con base frequentemente caudata) è un grande genere separato nel 1995 da Vernonia, da cui differisce per la distribuzione più meridionale (dal Messico all'Argentina, passando per le Antille), le infiorescenze piramidali o tirsoidi anziché corimbose, l'habitus tipicamente arbustivo con steli legnosi fin dalla base anziché erbacei, e appunto le antere con code prominenti alla base. Il genere comprende una sessantina di specie; la più nota era probabilmente Vernonanthura condensata che, come abbiamo visto è stata trasferita a Gymnanthemum ed è per lo più ritenuta sinonimo di G. amygdalinum. Anche in questo genere troviamo piante interessanti per i nostri giardini, come V. nudiflora (in precedenza Vernonia angustifolia), un arbusto originario del Brasile e dell'Argentina, con foglie lineari e bei fiori viola. V. polyanthes ci ricorda invece quanto è pericoloso introdurre specie aliene in ambienti fragili: nativa del Brasile, all'inizio degli anni '90 del Novecento è stata introdotta in Mozambico come pianta nettarifera per le api; da qui si è diffusa nel vicino Zimbabwe e in diversi ambienti è rapidamente diventata una specie dominante ai danni della vegetazione nativa. Si ritiene generalmente che il primo occidentale a creare una raccolta sistematica di piante cinesi sia stato il chirurgo e mercante James Cuninghame, che negli anni a cavallo tra Seicento e Settecento operò dapprima ad Amoy quindi a Chusan, raccogliendo circa 600 specie, diverse delle quali furono prontamente pubblicate da James Petiver e Leonard Plukenet. La penetrazione del commercio inglese in estremo oriente era ancora agli inizi, e presto gli inglesi abbandonarono questi avamposti dove gli scarsi guadagni non erano tali da compensare la rapacità dei funzionari cinesi. Dopo la relativamente fortunata parentesi cinese, per Cuninghame iniziarono i guai: inviato a Pulo Condore in Cocincina, fu tra i pochi sopravvissuti a un massacro e dovette subire due anni di penosa prigionia; né più solida era la situazione dell'emporio della compagnia a Banjarmasin nel Borneo, diretto per poche settimane da Cuninghame prima che fosse distrutto e gli inglesi espulsi del paese. Allo sfortunato chirurgo-mercante non rimase che ritornare in patria; ma non vi arrivò mai, probabilmente perendo in mare. Robert Brown volle ricordarlo dedicandogli una delle sue scoperte cinesi: lo splendido "abete cinese", ovvero Cunninghamia lanceolata. Che deve però dividere con un quasi omonimo, il "raccoglitore del re" Allan Cunningham. Una sequela di disastri Richard S. Morel l'ha soprannominato "il botanico più sfortunato dell'Asia"; in effetti, anche se sventure di ogni genere erano il corollario abituale delle vite dei cacciatori di piante dei tempi eroici, è difficile trovare una sequela di catastrofi che eguagli quelle che costellarono i viaggi di James Cuninghame (o Cunningham, ca. 1665–1709). Molto poco sappiamo della sua giovinezza. Cuninghame era scozzese e doveva essere nato intorno al 1665, visto che nel 1686, quando si immatricolò alla facoltà di medicina di Leida, risulta ventunenne. Presumibilmente non si laureò: infatti era chirurgo e non medico, ma non sappiamo né dove né come completò gli studi. Nella seconda metà del 1696 era di ritorno da un viaggio nelle Indie orientali, nel corso del quale doveva aver già raccolto qualche curiosità naturale. Fu così che entrò in contatto con Hans Sloane, all'epoca segretario della Royal Society, e strinse amicizia con James Petiver. Avendo saputo che si preparava a ripartire per la Cina, quest'ultimo gli consegnò una lista di piante desiderabili e gli raccomandò di cercare di procurarsi disegni o pitture di piante cinesi, nonché di raccogliere per lui ogni tipo di curiosità. Cuninghame lasciò l'Inghilterra alla fine del 1697, presumibilmente a bordo della Tuscan, che non apparteneva né alla Compagnia delle Indie né alla rivale New Company, ma a qualche mercante indipendente, i cosiddetti interlopers "intrusi" (si è fatto il nome di Henry Gough). Insieme a un'altra nave di cui non conosciamo il nome, nel gennaio 1698 la Tuscan fece scalo nell'isola di La Palma nelle Canarie, dove Cuninghame fece le sue prime raccolte (circa 150 esemplari, un decimo della flora dell'isola) e si produsse un grave incidente. Una parte dei marinai si ammutinò e disertò; per cercare di catturarli, il capitano inglese usò le maniere forti, finendo per scontrarsi con le autorità spagnole, con il risultato che la nave fu posta sotto sequestro e la ciurma messa agli arresti. Solo dopo qualche giorno, vennero rilasciati e la Tuscan poté riprendere il mare. A metà febbraio passarono l'equatore, quindi doppiarono il Capo di Buona Speranza, proseguendo senza fare scali fino a Batavia, dove gettarono l'ancora a giugno. Cuninghame ne approfittò per raccogliere altre 121 piante. A luglio erano ad Amoy (oggi Xiamen), uno dei pochi porti cinesi aperti agli occidentali. Il soggiorno nell'isola di Amoy si protrasse per sei mesi. Cuninghame (che era qui in veste di mercante, non di chirurgo) trovò il tempo per osservare e descrivere nel suo diario le tecniche di fabbricazione della carta, dell'ottone, del colorante rosso estratto dai semi di Gardenia jasminoides, l'estrazione del salnitro, i nidi commestibili di uccelli e l'ambra grigia. Ovviamente continuò le raccolte, mettendo insieme esemplari d'erbario di 176 specie e semi di 84. Inoltre raccolse una quarantina di "Miscellanea", incluso un esemplare del leggendario "agnello di Tartaria" o barometz segnalando che si trattava della radice di una felce (oggi identificata come Cibotium barometz). Infine commissionò a un artista locale circa 800 acquarelli della flora di Amoy. Di ritorno in Inghilterra verso la metà del 1699, egli poté presentare questo bottino ai suoi amici e ne fu premiato con l'ammissione alla Royal Society. Dopo meno di sei mesi, era di nuovo in partenza, questa volta come chirurgo di bordo della Eaton, una nave della Compagnia delle Indie inviata nell'isola di Chusan (oggi Zhoushan) nella speranza di crearvi una stazione commerciale. Durante il viaggio, la nave dovette fare scalo sia all'isola dell'Ascension, sia al Capo, visto che nell'erbario di Cuninghame si trovano esemplari provenienti da entrambe le località. Anche a Chusan egli continuò alacremente la sua attività di raccolta, estesa anche alle vicine Crocodile Islands; inviò inoltre alla Royal Society alcune lettere poi pubblicate sulle Philosophical Transactions, su argomenti come la coltivazione del tè o certi coralli e altre curiosità sottomarine. Nel 1702 la Compagnia delle Indie decise di abbandonare l'emporio di Chusan, che si era mostrato poco redditizio a causa dei forti dazi; Cuninghame, che doveva essersi ben comportato, fu promosso capo in seconda e inviato nell'isola di Pulo Condore (oggi Côn Sơn) nel Vietnam meridionale per aprirvi un insediamento. Venne costruito un forte e per proteggerlo furono ingaggiati mercenari Makassar. Nel marzo 1705 questi ultimi si ammutinarono, incendiarono la stazione e uccisero sedici uomini che cercavano di spegnere le fiamme. Gli inglesi chiesero l'aiuto delle autorità locali, ma queste, dopo aver catturato e giustiziato i Makassar, si rivolsero contro i britannici, completando il massacro. Solo Cuninghame e pochi altri sopravvissero. Allo sfortunato naturalista, ferito, fu imposta la gogna (kang) e fu trascinato di fronte alle autorità per una sorta di processo. Tre i capi d'accusa: aver stabilito l'insediamento di Pulo Condore contro la volontà del re di Cocincina; non aver presentato a quest'ultimo un tributo adeguato; essere in comunicazione segreta con la Cambogia, con cui la Cocincina era in guerra. Ogni difesa fu inutile; per due anni egli venne tenuto prigioniero con appena il necessario per sopravvivere. Rilasciato nell'aprile 1707, poté raggiungere Batavia. Forse per ricompensarlo di tante sofferenze, la Compagnia lo inviò a Banjarmasin in Borneo come capo di quella stazione commerciale. Tre settimane dopo il suo arrivo, anche quest'ultima venne attaccata e distrutta, sebbene con perdite umane minori rispetto a Pulo Condore, e la Compagnia delle Indie venne espulsa dal Borneo. A Cuninghame non restava che rientrare in Inghilterra. Nel gennaio 1709 scrisse l'ultima lettera a Petiver e Sloane, annunciando il suo rientro. Tuttavia non giunse mai a casa: probabilmente morì durante il viaggio di ritorno. Invece i manoscritti e le raccolte arrivarono sani e salvi a Londra. Una collezione di grande importanza storica A parte qualche esemplare occasionale, era la prima volta che un naturalista di valore faceva raccolte sistematiche in Cina. Nel complesso, gli esemplari inviati da Cuninghame ai suoi corrispondenti londinesi (in primo luogo Petiver e Sloane, ma anche il rivale Plukenet) ammontano a circa 600; vista la loro novità, Petiver e Plukenet fecero a gara per pubblicarli quanto prima. Tra le circa 1000 specie descritte da James Petiver nelle centurie dei Musei Petiveriani (1696-1703) figurano una cinquantina di esemplari raccolti da Cunninghame; accanto alle piante troviamo serpenti, conchiglie, farfalle e altri insetti. Nel 1703, nelle Philosophical Transactions lo stesso Petiver pubblicò un resoconto su una settantina di piante raccolte di Cunninghame a Chusan; infine in Gazophylacii naturae (1702–09), ne descrisse un'altra ventina, insieme a conchiglie raccolte all'Ascension e Pulo Condore, falene, coleotteri e un millepiedi delle Indie Orientali. Ancora più ampio è l'utilizzo dei materiali di Cunninghame da parte di Plukenet. In Amaltheum botanicum vengono descritte circa 400 piante risalenti alle sue raccolte di Chusan, circa metà delle quali sono anche raffigurate nel terzo volume di Phytographia. Infine, nel terzo volume di Historia Plantarum, John Ray descrisse 22 specie raccolte da Cunninghame ad Amoy. Tra le specie più notevoli, tra gli alberi troviamo in primo luogo quella destinata ad immortalare il nome di Cunninghame, Cunninghamia lanceolata, e Cryptomeria japonica; tra gli arbusti, Camellia japonica, Loropetalum chinense, Chimomanthus praecox, Hibiscus tiliaceus e Abelmoschus manihot, nonché il nespolo giapponese Eriobotrya japonica (recentemente riclassificata come Rhaphiolepis bibas). Grazie ai semi inviati a Petiver, ma anche a Uvedale, qualche specie dovette essere introdotta in coltivazione; potrebbe essere il caso di due specie di crisantemi osservati a Chusan. Gli erbari e la collezione di acquarelli, che Petiver definiva "herbarium nostrum sinicum pictum", dovettero passare a Petiver, e dopo la morte di questi, essere inglobati nelle collezioni prima di Sloane, poi del British Museum. Sotto il titolo Drawings of Chinese Flowers, Plants, and Fruits, in colours, by a native artist, at Emuy, i dipinti sono oggi custoditi alla British Library; recentemente digitalizzati, sono consultabili a questo indirizzo. Un genere per due Nel 1791 si ricordò di questo sfortunato pioniere dello studio della flora cinese J. C. D. von Schreber, dedicandogli Cunninghamia (Rubiaceae). Trattandosi di un nome illegittimo e superfluo, non viene preso in considerazione, al contrario del secondo genere Cunninghiamia (Cupressaceae) creato nel 1826 da Robert Brown. In una pubblicazione più tarda, quest'ultimo ne spiega chiaramente la motivazione: "Il genere deve essere denominato Cunninghamia, per commemorare i meriti del sig. James Cunningham, un eccellente osservatore ai suoi tempi, da cui questa pianta fu scoperta"; ma aggiunge: "e in onore del sig. Allan Cunningham, l'assai meritevole botanico che accompagnò il sig. Oxley nella sua prima spedizione nell'interno del Nuovo Galles del Sud, e il capitano King in tutti i suoi viaggi di ricognizione della costa della Nuova Olanda". Insomma, Brown prese due piccioni con una fava e dedicò Cunninghamia a due differenti botanici quasi omonimi. Sul secondo, assai importante per la storia dell'esplorazione della flora australiana, sarà necessario tornare in altri post. Per ora, soffermiamoci sull'interessantissimo genere Cunninghamia. Con due specie, C. lanceolata, originaria della Cina meridionale, e C. konishii, forse endemica di Taiwan, ma presente anche in Indocina - ma per molti si tratta di una varietà della precedente, C. lanceolata var. konishii-, è considerato il genere più primitivo tra le Cupressaceae, tanto che alcuni botanici l'hanno assegnato a una famiglia propria (Cunninghamiaceae). Sono alberi di notevoli dimensioni (anche più di 50 metri), di portamento conico e piramidale, con rami tendenzialmente orizzontali ma pendenti alle estremità. Gli aghi, piatti, coriacei, verde scuro o glauco, si dispongono a spirale lungo i rami; la pagina inferiore (e talvolta anche quella superiore) è caratterizzata da due bande di stomi bianche o verde chiaro. Monoiche, hanno fiori maschili cilindrici raccolti in amenti all'estremità dei rami; quelli femminili sono strobili giallo-verdastro lunghi circa un cm. I frutti sono coni verdastri, da ovali a globosi, ricoperti da scaglie disposte a spirale. In Cina C. lanceolata è molto apprezzata per il legname, leggero, durevole, profumato e non attaccato dai parassiti. La sua coltivazione è anzi in costante crescita, andando a costituire circa un terzo delle piantagioni di alberi da legname e un quarto della produzione di legname della Cina. Introdotto in occidente a inizio Ottocento da William Kerr, in Europa rimane una pianta per intenditori, presente in pochi parchi e arboreti. Altre informazioni nella scheda. In anni decisivi per la storia della botanica inglese, tra fine Seicento e inizio Settecento, il farmacista James Petiver riesce a conquistare prestigio nella società colta grazie alla sua formidabile collezione di esemplari d'erbario, conchiglie, insetti, fossili e così via, seconda solo a quella del ben più ricco Hans Sloane. Raggiunge l'intento tessendo una straordinaria rete di contatti, con almeno un centinaio di corrispondenti tra Europa, Americhe, Asia meridionale e orientale, Africa occidentale e Sudafrica: studiosi e appassionati come lui, ma soprattutto persone comuni, giardinieri, capitani di marina, medici, chirurghi e sacerdoti che vivono nelle colonie e contribuiscono chi con un esemplare, chi con molti, pur di essere citati nelle sue Centurie e di partecipare al progresso delle scienze. Un modello di cui farà tesoro lo stesso Linneo, che lo ricordò con il monotipico genere Petiveria. Come nacque una grande collezione Nel 1706, con la morte del curatore Samuel Doody, tra i farmacisti londinesi riprese l'eterno dibattito: aveva senso continuare a mantenere il costoso Physic Garden di Chelsea, o era meglio liberarsi di quell'impianto mangia-soldi? Per valutare la situazione finanziaria, venne formato un comitato che fu anche incaricato di prendere contatto con il proprietario del terreno, sir Charles Cheyne, per verificarne l'eventuale acquisto. Cheyne chiese una cifra irraggiungibile: 400 sterline. Nonostante ciò, il comitato si pronunciò a favore del mantenimento del giardino e per far fronte ai debiti indisse una sottoscrizione straordinaria, alla quale, per dare l'esempio, i suoi membri aderirono per primi. Il seguito tra gli altrui soci fu modesto, ma il giardino sopravvisse. Gran parte del merito va ascritto al membro più autorevole del comitato stesso, il farmacista James Petiver (1663-1718), che succedette a Doody come curatore del giardino, ma anche come "dimostratore di botanica". I suoi compiti principali erano due: da una parte, impartire lezioni di botanica pratica ("dimostrazioni") ai giovani apprendisti, da tenersi almeno due volte al mese nel Physic Garden nei mesi estivi; dall'altra, organizzare la Grande erborizzazione annuale, con la partecipazione di maestri ed apprendisti. Abbiamo già incontrato Petiver come amico di Doody e attivo membro del Temple Coffee House Botanical Club; è ora di conoscerlo meglio. Figlio di un merciaio di Rugby, poco dopo la morte di quest'ultimo dovette interrompere gli studi e sempre ne ebbe rammarico, soprattutto per non aver potuto acquisire una sufficiente padronanza del latino, all'epoca la lingua ufficiale delle scienza. Nel giugno 1677, quattordicenne, iniziò il suo apprendistato sotto Charles Feltham, il farmacista del St Bartholomew's Hospital di Londra. Intorno al 1680 conobbe Whatts e cominciò a frequentare il giardino di Chelsea, stringendo amicizia con Doody; a quanto risulta dal suo erbario, almeno dal 1683 prese regolarmente parte agli herborizing organizzati dalla Società dei farmacisti. Nel 1685, terminati i previsti otto anni di apprendistato, ottenne la licenza e tra il 1686 e il 1687 aprì una propria farmacia all'insegna della Croce bianca in Aldersgate Street (nei pressi dell'attuale Barbican Centre), che avrebbe gestito fino alla fine dei suoi giorni. A questo punto doveva già essersi fatto un nome come esperto botanico, visto che nel 1688, insieme all'amico Doody, viene ringraziato da John Ray per l'aiuto prestato per il secondo volume di Historia Plantarum. Probabilmente attraverso Doody, conobbe Sloane, rientrato dalla Giamaica nel 1689 con un'enorme collezione di naturalia, e incominciò a frequentare il Temple Coffee House Botanical Club, di cui diventò la personalità più nota dopo lo stesso Sloane. Forse incoraggiato dall'esempio di questi, decise di creare una propria collezione, che sarebbe stato anche il migliore biglietto da visita per garantire a lui, semplice farmacista "illetterato", l'accesso alla società colta londinese. Non aveva le enormi disponibilità finanziare di Sloane, ma poteva trarre profitto da un altro vantaggio: come farmacista e fornitore di farmaci di alcuni ospedali londinesi, nella sua bottega già affluivano spezie e piante medicinali da molte parti del mondo; era dunque in contatto con membri della Compagnia delle Indie e mercanti che praticavano il commercio internazionale. Come risulta dalle sue lettere, almeno dal 1690 Petiver incominciò a tessere quella formidabile rete di contatti che gli avrebbe permesso di essere il più importante collezionista del suo tempo dopo il ricchissimo Sloane. Uno dei suoi primi corrispondenti documentati è il chirurgo Samuel Browne, che lavorava per la Compagnia delle Indie orientali a Fort St George in Bengala (oggi Chennai). Non solo Browne raccolse per lui molte piante, che gli inviò in Inghilterra accompagnate da note con i nomi locali, ma a sua volta lo mise in contatto con altre persone: il reverendo George Lewis, collezionista di conchiglie, e soprattutto il missionario gesuita Georg Joseph Kamel, pioniere dello studio della flora delle Filippine. A sua volta Petiver fece da tramite tra Kamel e Ray, che pubblicò l’opera del missionario moravo in appendice al terzo volume di Historia Plantarum. Si tratta solo del nucleo iniziale di una vastissima rete di corrispondenti e contributori, che giunse a comprendere oltre cento persone: alcuni erano noti scienziati, come Boerhaave o Tournefort, oppure collezionisti e proprietari di grandi giardini come i fratelli Sherard, la duchessa di Beaufort o il vescovo Compton, ma la stragrande maggioranza era costituita da persone comuni: chirurghi, medici, capitani di nave, mercanti, sacerdoti, giardinieri che contribuirono chi con un esemplare, chi con dozzine e dozzine di piante, insetti e altri animali, conchiglie, fossili, spediti da vari paesi europei, dalla Cina, dall’India, dal Sud Africa, dal Sud e dal Nord America. È stato sottolineato che almeno un terzo di queste persone era legato in un modo o nell’altro al commercio triangolare, o in altri termini alla tratta degli schiavi. Oltre a Browne, i contributori più importanti furono Hendrik Oldenland, il curatore dell’orto botanico della VOC a Table Bay, e James Cunninghame, un chirurgo scozzese che lavorava per la Compagnia delle Indie nelle basi di Zhoushan e Amoy (oggi Xiamen) in Cina e fu il primo europeo a raccogliere un significativo erbario di piante cinesi. Per i suoi contributori, Petiver giunse a stilare prima liste di "desiderata", poi vere e proprie istruzioni stampate sulle modalità di raccolta, conservazione e spedizione, che costituiscono un modello e un'anticipazione delle indicazioni di Linneo ai suoi apostoli. Col tempo, la sua bottega di Aldersgate Street si trasformò in una specie di centro di interscambio, dove da tutto il mondo giungevano pacchi di esemplari, libri, lettere con richieste di consulenza ma anche di materiali. Per Petiver, infatti, il collezionismo di naturalia era anche un'attività lucrativa: se tratteneva per sé gli esemplari che considerava più prestigiosi o interessanti, altri li vendeva a caro prezzo ad altri collezionisti. Collezionista e dimostratore Con la sola eccezione di un viaggio nei Paesi Bassi di cui parleremo più avanti, Petiver limitò le sue attività di raccolta diretta a qualche escursione in Inghilterra; oltre che nei dintorni di Londra, sono documentati viaggi nelle Midlands, in Essex, a Bath, a Bristol, nell'Essex e nel Suffolk. Il grosso delle sue collezioni arrivava però dai suoi corrispondenti che lo misero in contatto, letteralmente, con tutti i continenti (eccetto l'ancora inesplorata Oceania), permettendogli di accumulare una collezione che, oltre a centinaia e centinaia di altri esemplari, comprendeva almeno 5000 piante essiccate. A partire dal 1695, cominciò a pubblicare gli esemplari più curiosi, rari o significativi in una serie di cataloghi, dapprima senza immagini, poi illustrati, organizzati come "centurie", ovvero in serie di cento esemplari. Il primo è Musei Petiveriani centuria prima (1695), che descrive cento tra insetti, conchiglie, fossili e piante provenienti da Europa, America settentrionale, Africa occidentale, Asia meridionale e orientale; tra il 1698 e il 1703 seguirono altre cinque centurie, per un totale di seicento naturalia. Petiver pubblicò inoltre dozzine di brevi articoli nella rivista The Monthly Miscellany e molti contributi nelle Transactions della Royal Society, di cui divenne membro nel 1695 (nella stessa seduta dell'amico Samuel Doody). I suoi lavori più rilevanti sono la relazione sulle piante indiane ricevute da Browne An account of some Indian plants (1698) e due scritti di entomologia: Gazophylacium naturae et artis (1702–6), un catalogo illustrato degli insetti britannici, e Papilionum Brittaniae Icones, la prima rassegna completa dei lepidotteri inglesi che lo ha fatto salutare come «padre delle farfalle britanniche», che non di rado ha battezzato con il nome comune che portano ancora oggi. Petiver era anche un abile uomo d’affari e mise la sua competenza manageriale al servizio sia della Royal society, sia del Chelsea Physic Garden, anche se, di fronte ai suoi mille impegni professionali (oltre che del St Bartholomew, divenne anche farmacista della Charterhouse school and hospital), il suo incarico di dimostratore passava un po’ in secondo piano, tanto che presto dovette essere affiancato da Isaac Rand; il suo maggior merito fu sistematizzare e estendere le escursioni botaniche. Mentre in precedenza se ne teneva solo una all’anno, con Petiver e Rand il loro numero crebbe fino a sei, una al mese per tutta la bella stagione, a partire da aprile. Accompagnati dal dimostratore, gli apprendisti raggiungevano località come Hampstead Head, Putney e Greenwich per escursioni di una ventina di miglia; durante il pranzo, che di solito si teneva in qualche osteria, le piante venivano esaminate e identificate e ne venivano descritte le particolarità e le virtù medicinali. L’ultima escursione, detta General Herborizing, poteva durare due giorni, coprire una sessantina di miglia, era riservata ai maestri e ai loro ospiti, spesso membri eminenti dei Collegi dei medici e dei chirurghi, ed era anche un’importante occasione sociale. Anche il Chelsea Physic Garden poté beneficiare della rete di Petiver per un sensibile arricchimento delle collezioni. In particolare, nel 1711, per incarico di Hans Sloane, Petiver si recò in Olanda per trattare l’acquisto delle collezioni di Paul Hermann, messe all’asta dalla vedova; fu l’occasione per conoscere di persona Boerhaave e per rinnovare la collaborazione e gli scambi tra i due orti botanici. Tra il 1711 e il 1714, Petiver pubblicò sulle Philosophical Transactions una serie di articoli molto interessanti per chi studia la storia delle introduzioni delle piante esotiche, perché vi recensì le piante rare recentemente introdotte dal Nord America, dalla Cina e dalla Provincia del Capo e coltivate con successo nei giardini del vescovo di Londra a Fulham, in quello della duchessa di Beaufort e soprattutto a Chelsea. A partire dal 1716, la sua salute cominciò a declinare. Alla sua morte, nel 1718, le sue collezioni furono acquistate da Sloane, che ebbe a lamentare il grande disordine in cui erano tenute; ora sono in parte conservate nel Natural History Museum di Londra. Un'erbacea... odorosa Anche Petiver fa parte del nutrito gruppo di naturalisti omaggiati da Plumier e Linneo con la dedica di un genere botanico. Il francese fece in tempo a vedere il primo catalogo della sua collezione, e lo loda per la ricchezza dei materiali e il buon ordine in cui sono disposti (il che contrasta con le lamentele di Sloane, ma anche con ciò che riferiscono alcuni viaggiatori che ebbero l'occasione di vederle di persona). Linneo attinse ampiamente alle pubblicazioni di Petiver sia per le piante esotiche, da lui documentate per la prima volta, sia per gli insetti, e apprezzava il fatto che in alcuni dei suoi contributi sulle Transactions il farmacista avesse abbozzato una classificazione naturale. Il genere Petiveria L. (appartenente a una famiglia propria, Petiveriaceae) comprende una sola specie, P. alliacea: caratterizzata come dice il nome da un forte odore di aglio, è una grande erbacea perenne cespugliosa, con foglie intere obovate e infiorescenze a spiga di piccoli fiori biancastri, cui nei paesi d’origine (gran parte dell’America subtropicale e tropicale, dalle Florida al Perù) sono attribuite innumerevoli proprietà terapeutiche; per l’odore, è però utilizzato anche come repellente. Qualche informazione in più nella scheda. Intorno al 1862, in viaggio in Giappone, il grande botanico e viaggiatore Karl Maksimovič scoprì un bellissimo albero. Ne portò con sé i semi all'orto botanico di San Pietroburgo e, dato che si trattava di una pianta inedita, decise di dedicarlo a un personaggio orami un po' dimenticato della storia russa, in cui probabilmente riconosceva una sorta di antenato: il mercante, viaggiatore e diplomatico Evert Ides che a fine Seicento guidò la prima ambasceria russa in Cina per incarico di Pietro il Grande. Nacque così il genere Idesia, con la sua unica specie I. polycarpa, che per la sua bellezza gli anglofoni hanno semplicemente soprannominato Chinese Wonder Tree, l'albero meraviglioso della Cina. Da mercante a ambasciatore Intorno ai trent'anni, con già alle spalle un decennio di esperienza nel commercio internazionale, nel 1687 il mercante Evert Ysbrant Ides (1657-1708/9) decise di trasferirsi nel Quartiere tedesco (Nemeckaja sloboda) di Mosca. Per i russi, anche lui era un nemec, un tedesco, come chiamavano tutti gli europei occidentali venuti a cercare fortuna in Russia, ma per noi è difficile persino indicarne la nazionalità. La sua famiglia era olandese (il suo nome può essere scritto all'olandese Evert Ysbrandszoon o alla tedesca Eberard Isbrand) e l'olandese era la sua lingua madre (o almeno quella in cui redasse il suo diario di viaggio); tuttavia il nonno si era trasferito a Glückstadt nell'Holstein, un territorio di lingua tedesca ma appartenente in unione personale al re di Danimarca. Ecco perché può essere definito indifferentemente olandese, danese o tedesco. Di certo aveva solidi contatti con la madre patria ed era un mercante specializzato nel commercio internazionale lungo le rotte del Baltico che univano i Paesi Bassi alla Russia, passando per Amburgo, dove visse per qualche anno. Il Quartiere tedesco stava per conoscere il momento d'oro grazie al favore del giovane zar Pietro (quindicenne quando Ides si trasferì in Russia), che amava evadere dal vicino palazzo sulla Yauza per visitare i mulini, le botteghe, le manifatture che lo animavano, ammirare gli ultimi ritrovati della tecnica occidentale e chiacchierare con quegli uomini pieni di iniziativa. Il giovane monarca vi trovò il primo amore (nella persona di Anna Mons, figlia di un mercante di vini della Vestfalia), molti amici, che poi sarebbero divenuti i suoi principali consiglieri, e un appoggio determinante nel momento dell'assunzione effettiva del potere, quando esautorò la reggente Sof'ja Alekseevna. Tra i "tedeschi" che fecero fortuna in quegli anni decisivi anche l'intraprendente Ides. A Mosca fece presto a diventare uno dei membri più influenti della Sloboda; nel 1691 lo zar stesso gli fece visita, accompagnato dal suo principale consigliere militare, il generale di origine scozzese Patrick Gordon, e lo nominò consigliere di Stato. Nel 1692 il suo giro di affari era tale che versò all'erario russo 6000 rubli di dazi. Nel 1692 Pietro decise di inviare a Pechino un'ambasceria per verificare l'applicazione del trattato di Nerčinsk, firmato nell'agosto del 1689, che da una parte regolava le questioni di confine, sorte in seguito agli sconfinamenti cosacchi nella valle dell'Amur, dall'altro gettava le basi per relazioni diplomatiche e commerciali permanenti. Forse l'idea fu suggerita a Pietro dalla stesso Ides, che desiderava allargare i suoi traffici; in ogni caso, lo zar lo scelse come capo della missione, di cui gli affidò anche l'organizzazione logistica. Un compito impegnativo, viste anche le dimensioni della delegazione che, tra nobili, consiglieri, mercanti, soldati, servitori, comprendeva inizialmente più di 250 persone; Ides, affiancato dal segretario di ambasciata Adam Brand, poté mettersi in viaggio solo il 14 marzo 1692, in slitta visto che le strade erano ancora impraticabili. Dopo aver toccato Vologda e attraversato la Suchona ghiacciata, il gruppo superò gli Urali settentrionali e a Perm si imbarcò per risalire la Kama fino a Solikamsk; il 14 maggio, a mezzo miglio dalla città, venne superato il fiumicello Isolkat, che segnava lo spartiacque tra l'Europa e l'Asia. Ides volle solennizzare quel momento: la domenica di Pentecoste si recò a un monastero su un'alta e verde collina e qui prese il suo ultimo pasto in Europa, concludendolo con un brindisi alla "cara Europa". Sempre navigando lungo il corso di diversi fiumi, la delegazione toccò Tobol'sk, all'epoca capitale della Siberia occidentale, quindi a ottobre la fortezza di Enisejsk, dove si fermò per due mesi. Il viaggio riprese all'inizio del 1693; scendendo in slitta lungo il corso di fiumi ghiacciati, l'11 febbraio fu raggiunta Irkutsk, a metà marzo fu attraversato il Bajkal, anch'esso ghiacciato; il 19 marzo erano a Ulan-Ude, dove li sorprese un terremoto. Addentrandosi in direzione sud est nel territorio allora noto come "Grande Tartaria", a maggio i russi attraversarono i monti Jablobnovij nei pressi di Čita, quindi si imbarcarono su una zattera, raggiungendo Nerčinsk a luglio. Ormai, secondo la testimonianza di Brand, erano ridotti a un piccolo gruppo di 9 "tedeschi" e 12 russi. Tutti quei notabili, evidentemente, non avevano creduto di proseguire un viaggio che, di tappa in tappa, si faceva più difficile. Il primo contatto con i cinesi avvenne all'inizio di settembre. A Zizikar li attendeva la delegazione cinese, formata da 80 persone e guidata da un mandarino, che li avrebbe scortati fino a Pechino. Il momento più emozionante fu indubbiamente il raggiungimento della Grande Muraglia (27 ottobre). Il 3 novembre Ides entrò a Pechino, dove fu ospitato dai gesuiti (che già avevano propiziato il riavvicinamento tra Russia e Cina e la pace di Nerčinsk) e fu onorevolmente ricevuto dal figlio del Cielo, l'imperatore Kangxi, ma sul piano diplomatico non ottenne nulla, anche per le solite incomprensioni protocollari che ancora nel Settecento e nell'Ottocento avrebbero impedito un dialogo costruttivo tra la Cina e le potenze europee. In particolare, l'imperatore si indignò quando scoprì che, nei documenti ufficiali, il nome di Pietro precedeva il suo. Notevoli invece i risultati economici: ai Russi fu concesso di inviare ogni tre anni a Pechino una carovana di 200 mercanti (un sistema che poi sarà perfezionato dal trattato di Kiatka del 1728). Lo stesso Ides ebbe un buon rientro economico, con un utile del 50% dell'investimento iniziale. Il 19 febbraio 1794, i russi lasciarono Pechino e, ripercorrendo quasi il medesimo itinerario dell'andata, rientrarono a Mosca nei primi giorni del 1695, dopo quasi tre anni d'assenza. Sia all'andata sia al ritorno, avevano percorso territori quasi ancora sconosciuti, affrontando percorsi impervi, fiumi ghiacciati, paludi, freddo e fame, in mezzo a popolazioni talvolta ostili. Ides era un uomo curioso e un acuto osservatore. Nel corso del viaggio tenne un diario in cui annotò non solo i piccoli e grandi eventi, ma anche le caratteristiche degli ambienti naturali, le condizioni climatiche, l'idrografia, la vegetazione, le popolazioni locali e le loro usanze. Fu il primo autore a menzionare il ritrovamenti di mammut e a collegare la conservazione dei loro tessuti molli con le condizioni climatiche siberiane. Doveva anche essere un buon cartografo, visto che corresse l'unica carta fino ad allora disponibile dell'Impero cinese, quella molto imperfetta del sindaco di Amsterdam Nicolaas Witsen. Dopo il ritorno in Russia, Ides non sembra aver fatto parte del cerchio più ristretto dei collaboratori di Pietro, anche se molto probabilmente lo accompagnò in Olanda nel 1697/98 e forse fece da tramite con lo stesso Witsen, a cui sicuramente fece visita, visto che il sindaco curò l'edizione olandese del suo diario di viaggio (uscito ad Amsterdam nel 1704 con il titolo Driejaarige Reize naar China te Lande gedaan by the Moscow). Ides condivideva con Witsen (e con lo zar Pietro) l'interesse per le costruzioni navali: il metropolita di Kazan e l'arcivescovo di Novgorod sul Don gli commissionarono la costruzione di tre navi, che Pietro giudicava le migliori mai costruite in Russia. Nel 1698 Ides aprì una polveriera e una fabbrica di armi sul fiume Vora. Nel 1700 fu nominato commissario dell'ammiragliato ad Archangel'sk, di nuovo con il compito di costruire alcune navi. Intorno al 1703, nei pressi di Mosca gestiva un'altra polveriera, fondata dal suo conterraneo David Bacheracht. Morì, presumibilmente a Archangel'sk, nel 1708 o nel 1709. Il libro di viaggio di Ides, che per la prima volta descriveva luoghi largamente sconosciuti in Europa, ottenne una certa risonanza internazionale. L'edizione era pregevole, arricchita da alcune incisioni e dalla famosa carta ridisegnata dal mercante-ambasciatore; inoltre, ad aggiungere interesse, includeva in appendice una "Breve descrizione della Cina" scritta da Dionysius Kao, che nella prefazione di Witsen è presentato come un cinese convertito al cattolicesimo, che aveva viaggiato molto e aveva affidato il manoscritto a "sua eccellenza l'ambasciatore moscovita" (ovvero allo stesso Ides). Nel 1707 uscì la prima tradizione tedesca, mentre un'edizione francese fu inclusa in Voyage de Corneille Le Brun par la Moscovie, da Persien, et aux Indes Orientales, pubblicato ad Amsterdam nel 1718. Se ne servì addirittura Daniel Defoe che nel sequel di Robinson Crusoe (The Farther Adventures of Robinson Crusoe, 1719) fa viaggiare il suo eroe dalla Cina alla Russia seguendo a rovescio l'itinerario di Ides. A far conoscere lo straordinario viaggio dell'ambasceria russa, del resto, aveva pensato anche Adam Brand, che batté sul tempo il suo principale pubblicando il proprio resoconto (Beschreibung der chinesischen Reise) già nel 1698. Il libro divenne anche più popolare di quello di Ides e fu presto tradotto in inglese, francese, olandese, spagnolo; Brand provvide anche a mandarne un estratto a Leibnitz che lo tradusse in latino e lo pubblicò in Novissima sinica (1697). Meravigliosa Idesia La figura di Ides ha attirato l'interesse anche dei botanici, per ben due volte. Un primo genere Idesia - si tratta di un doppione del linneano Dyospiros - gli fu dedicato nel 1777 da Scopoli che però non spiegò il perché. Più evidenti le motivazioni del secondo Idesia, creato nel 1866 da Karl Ivanovič Maksimovič, e non solo perché egli le espone esplicitamente: "In onore dell'olandese Eberhard Ysbrants Ides, che all'inizio del secolo scorso fu per primo inviato in Cina dall'imperatore Pietro, e fece conoscere i suoi viaggi con l'ottima opera intitolata Dreijährige Reise nach China". Non è inverosimile supporre che in Ides Maksimovič riconoscesse un precursore di se stesso: anche questo grande botanico viaggiò molto in Oriente, dedicando tra l'altro il suo primo lavoro alla regione dell'Amur, contesa tra Cina e Russia, da cui erano iniziate le ostilità tra i due paesi. La fa pensare anche l'eccezionale bellezza della pianta scelta per celebrare Ides, Idesia polycarpa, unica specie di questo genere della famiglia Salicaceae. Quest'albero di medie dimensioni è originario della Cina orientale temperata, della Corea e del Giappone. Deciduo, ha attraenti foglie a cuore, grandi e lucide. Invece i fiori, piccoli e giallastri, che si aprono all'inizio dell'estate, più che per la bellezza si fanno notare per il dolcissimo profumo. Ma l'attrattiva più clamorosa arriva in autunno, quando l'albero si ricopre letteralmente di racemi penduli di bacche rosso-aranciate. Per ottenere questa esplosione di colore, tuttavia, è necessario avere sia un esemplare femminile sia un maschio impollinatore. Si tratta infatti di una specie dioica. L'albero è talmente notevole che nei paesi anglosassoni lo chiamano Chinese Wonder Tree. Qualche notizia in più nella scheda. |
Se cerchi una persona o una pianta, digita il nome nella casella di ricerca. E se ancora non ci sono, richiedili in Contatti.
CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
August 2024
Categorie
All
|