Tra le poche testimonianze che ci sono rimaste della scienza antica, la "Storia naturale" (Naturalis historia) di Plinio il Vecchio nell'Occidente medievale fu l'opera più nota, più trascritta, più letta. Non tanto per il suo valore intrinseco (contiene molte contraddizioni e manca palesemente di spirito critico), né tanto meno per sua originalità (è una compilazione erudita che accosta 20.000 citazioni tratte da oltre 400 fonti), ma proprio perché, resi inaccessibili o perduti i testi originali, in particolare quelli greci, era quasi tutto quello che rimaneva. Ancora venerata all'inizio del Rinascimento (fu tra le primissime opere a stampa, pochi anni dopo la Bibbia di Gutenberg), ben presto perse sempre più il suo appeal, mano a mano che gli studiosi ne denunciavano gli errori, il contenuto libresco non suffragato dall'osservazione diretta, l'assenza di metodo scientifico. Gli studiosi di oggi sono divisi tra chi considera la grande enciclopedia di Plinio una specie di Reader's digest dell'antichità, e chi lo legge come un ambizioso e coerente progetto culturale, apprezzandone anche l'eleganza formale. Per Plumier, che gli dedicò uno dei suoi generi americani, Plinia, Plinio il Vecchio era semplicemente uno dei padri fondatori della botanica, degno di essere ricordato e celebrato. Un martire della scienza Il 24 agosto del 79 d.C. (o il 24 ottobre, se la data tradizionale si deve a un errore), nella sua casa di Capo Miseno l'ammiraglio Gaio Plinio, com'era sua abitudine, stava studiando in un momento di relax, quando la sorella lo avvertì di uno strano fenomeno: in cielo era comparsa una grande nuvola dalla forma simile alla chioma di un pino marittimo. Plinio, oltre che comandante della flotta, era anche uno studioso e pensò che valesse la pena di saperne di più: ordinò immediatamente di approntare una nave per andare a vedere di persona. Ma proprio mentre usciva di casa gli fu consegnata la lettera di un'amica, Rectina, che lo avvisava che la sua villa era minacciata da un'eruzione del Vesuvio e lo scongiurava di accorrere in suo aiuto dal mare, visto che da terra non c'era via di scampo. A questo punto, la passione di studioso cedette al dovere civico; Plinio ordinò di mettere in mare tutte le quadriremi per cercare di mettere in salvo più persone possibile, e si imbarcò egli stesso. Mano a mano che le navi si avvicinavano alla costa Flegrea, erano investite da un pioggia sempre più fitta di ceneri e lapilli, ma, imperturbabile, l'ammiraglio continuava a dettare a uno schiavo le sue osservazioni sull'eruzione. Quando raggiunsero Ercolano, egli dovette constatare che il mare agitato e le pietre incandescenti che si erano riversate sulla costa rendevano impossibile sbarcare. Dopo un attimo d'incertezza, ordinò di fare rotta per Stabia, all'altro capo del golfo, dove si trovava la villa di un altro amico, Pomponiano. Sospinta dal vento, che spirava dal mare verso terra, la flotta raggiunse rapidamente Stabia, dove poté gettare l'ancora. Plinio trovò l'amico al colmo dell'agitazione, con i bagagli già pronti, in attesa che il vento girasse per potersi imbarcare. Egli cercò di tranquillizzarlo anche con l'esempio: prese un bagno, cenò e poi andò tranquillamente a dormire. Era l'unico a riuscirci: la situazione si stava rapidamente deteriorando, la casa traballava per le ripetute scosse di terremoto e il cortile andava riempiendosi di cenere e lapilli. Prima che il vecchio studioso rimanesse imprigionato dallo strato crescente di cenere, fu risvegliato e raggiunse gli altri. Il gruppo era incerto se fosse più sicuro rimanere in casa o uscire, proteggendosi il capo con coperte e cuscini; Plinio consigliò la seconda alternativa e si decise di avvicinarsi alla spiaggia, per verificare se fosse ora possibile mettersi in mare. Era l'alba, ma il cielo era così nero che sembrava ancora notte. Il mare squassato dalla tempesta imponeva di attendere ancora. Sempre imperturbabile, Plinio fece stendere a terra un lenzuolo e si sdraiò. Le fiamme che cadevano e un pronunciato odore di zolfo convinsero tutti che era meglio fuggire; due schiavi aiutarono ad alzarsi Plinio che quasi subito ricadde a terra. Era morto soffocato da vapori tossici. Questa fu, secondo il racconto del nipote e figlio adottivo Plinio il Giovane, la morte di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio, uomo politico e scrittore romano. Tragica e improvvisa, gli impedì di rivedere il suo capolavoro, Naturalis historia, ovvero la Storia naturale. Una enciclopedia della natura Non solo le sue ultime ore, ma tutta la vita di Plinio il Vecchio fu divisa tra l'impegno pubblico e lo studio. Come militare servì in Germania, in Gallia, in Spagna. Sotto Vespasiano, di cui era amico, fu procuratore in Gallia e in Spagna e esercitò vari incarichi a Roma; al momento della morte, come abbiamo visto, era prefectus classis Misenensis, ovvero ammiraglio della flotta di Miseno, il cui compito principale era combattere la pirateria. Per un profilo biografico, si rimanda alla sezione biografie. A questi incarichi ufficiali dedicava il giorno; ma ogni momento di riposo e la notte erano occupati dallo studio. Uomo dalle conoscenze enciclopedie, Plinio il vecchio scrisse di argomenti tanto vari come l'arte di lanciare un giavellotto da cavallo, la storia delle guerre romane in Germania, l'oratoria, i dubbi grammaticali, la storia contemporanea. Tutte queste opere sono andate perdute, ci rimane solo l'ultima, appunto Naturalis historia, una vastissima enciclopedia sul mondo della natura che, basandosi sugli appunti che andava prendendo da tempo, l'infaticabile erudito scrisse negli ultimi tre anni di vita. Così come si è giunta, comprende 37 libri, suddivisi in dieci volumi, ed è una delle opere più vaste dell'antichità classica a noi pervenute. L'obiettivo di Plinio era tracciare un quadro onnicomprensivo "della natura, ovvero, in altre parole, della vita". Il suo lavoro non si basò su un'indagine diretta e indipendente del mondo naturale (anche se in qualche raro caso si avvalse di osservazioni personali), ma sulle notizie attinte da una miriade di fonti; nella prefazione egli vanta di avervi inserito 20.000 citazioni, tratte da 2000 libri di 100 autori selezionati. Gli studiosi moderni ne hanno individuati circa 400, 146 romani e 327 greci. Dopo un primo libro occupato dalla prefazione, Plinio inizia la sua trattazione del mondo naturale dal cielo, con l'astronomia e la meteorologia (libro 2); passa alla terra, con la geografia e i suoi popoli (3-6); è quindi la volta della vita animale, a cominciare dall'uomo, vertice della creazione, di cui tratta l'antropologia e la fisiologia (7); poi gli animali: mammiferi, serpenti, animali marini, uccelli e insetti (7-11); a occupare il centro, le piante con la botanica, l'agricoltura, l'orticultura (12-27); a cavallo tra il mondo organico e quello inorganico, la farmacologia, la magia, le acque e la vita acquatica (28-32); infine i minerali, con un ampio excursus sul loro uso nella pittura e la scultura e sulle pietre preziose (33-37). Alieno da ogni speculazione, l'atteggiamento di Plinio è quello di un uomo pratico, che guarda alla natura essenzialmente dal punto di vista dell'utilità per gli esseri umani; egli è però anche un erudito, un curiosus, sempre pronto a farsi affascinare dal multiforme mondo naturale, fino a dare credito a miti e leggende (Cuvier lo accusò di avere una particolare propensione per le storie fantastiche). Ho già detto che la botanica ha grande spazio nella Naturalis historia. Anche se la sua fonte principale è Teofrasto (seguito da Giuba di Mauretania), Plinio non ha nessun interesse per una "botanica generale" come quella delineata dal filosofo greco; guarda alle piante da una parte con spirito pratico, per l'uso che se ne può fare per ricavarne alimenti, fibre tessili, tinture, medicamenti, spezie, ornamenti, dall'altro con ammirato stupore per la loro infinita varietà. La sua esposizione è ricca di indicazioni concrete, ma anche di aneddoti più o meno curiosi, spesso introdotti dalla formula "molti dicono che...". In Naturalis historia sono descritte circa 800 piante. La trattazione inizia con gli alberi esotici e le spezie (libri 12-13), da una parte affascinanti per l'alone di mistero che li circonda e la preziosità, dall'altra prova tangibile della grandezza dell'Impero romano che domina su molte lontanissime terre. E' poi la volta delle principali colture mediterranee: la vite e la produzione del vino (14), l'olivo e gli alberi da frutto (15). Seguono gli alberi selvatici (16) e l'arboricoltura (17). La trattazione delle piante erbacee inizia con i cereali (17), seguiti dal calendario agricolo (18) e dagli ortaggi (19), i cui usi medicinali sono trattati nel libro successivo (20). Si passa poi alle piante ornamentali, in particolare quelle usate per fare ghirlande (21; l'argomento era stato trattato anche da Teofrasto, ed era importante per gli antichi, che usavano ghirlande nelle cerimonie pubbliche, nei templi, ma anche in banchetti e ogni occasione festosa o luttuosa). Il focus dell'ultima sezione è l'uso medicinale delle piante: le medicine tratte da vite, olivo e alberi da frutto (23) e dagli alberi spontanei (24), quindi l'ampia trattazione delle erbe officinali (25-27), esposte in ordine alfabetico. Sappiamo dalle sue lettere che Plinio era anche un appassionato di giardini, e infatti le piante ornamentali ricevono nella sua opera un'attenzione che non trova riscontro in nessun altro autore antico. Nella villa di Laurentum aveva fatto piantare in cerchio dei platani, sui cui tronchi si arrampicava l'edera, che poi formava dei festoni che collegavano un albero all'altro. Dietro c'era una siepe di allori e al centro un prato con bossi e diversi arbusti potati alcuni a formare il nome del proprietario, altri a obelisco; c'erano anche piante da frutto e acanti. Non mancava una pergola di vite. Storia di un longseller Perdute o inaccessibili quasi tutte le fonti originarie cui Plinio aveva attinto, la Naturalis historia nei secoli del Medioevo assurse a quasi unica testimonianza della scienza naturale degli antichi. Lo dimostra il numero eccezionale di manoscritti (anche se molti sono parziali e spesso corrotti) che ce ne tramandano il testo: circa 200. Il migliore tra i più antichi è il codice di Bamberg, che però contiene solo i libri 32-37 (che, con il loro excursus sull'arte, sono ritenuti da molti studiosi i più significativi). Inoltre, già a partire dal III secolo incominciarono a circolare diversi, più maneggevoli, compendi. Nei secoli dell'età di mezzo Plinio è un autore di riferimento, un'auctoritas, consultato, copiato, venerato. Vi attingono tra tanti altri Isidoro di Siviglia (560 ca-636) per le sue etimologie, il venerabile Beda (673 ca-735) per la meteorologia e le gemme, Vincenzo di Beauvais (1190-1264), che prende a modello il testo pliniano per il suo Speculum maius, Boccaccio le sue opere erudite. Del resto, il Medioevo ritrova in Plinio due tratti del proprio modello culturale: l'enciclopedismo e l'attrazione per il fantastico. Nel Quattrocento gli umanisti sono impegnati nell'immane compito di emendare il testo dagli errori dei copisti. Riscontrano molti errori, ma sono inclini ad attribuirli ai copisti. Nel 1469, appena tredici anni dopo la Bibbia di Gunteberg, viene impressa a Venezia dai fratelli Giovanni e Vindelino da Spira la prima edizione a stampa. Entro il 1500 se ne contano 15 edizioni. Arrivano prestissimo anche le traduzioni in lingua moderna: la prima si deve a Cristoforo Landino ed esce sempre a Venezia nel 1489. Ma i tempi stanno cambiando e gli studiosi iniziano a guardare al testo pliniano in modo sempre più critico. Il primo attacco arriva dal medico Niccolò Leoniceno in una lettera a Poliziano del 1492, poi ampliato nel 1509 in De Erroribus Plinii ("Sugli errori di Plinio"), in cui contrappone Plinio a Teofrasto e Dioscoride e ne denuncia la mancanza di metodo scientifico e di conoscenze mediche; giunge addirittura a raccomandare ai propri colleghi di non fidarsi troppo di quel testo, pena gravissimi danni per i pazienti. Anche se a difendere Plinio si fanno immediatamente sentire molti dotti umanisti, tra cui spicca Pandolfo Collenuccio con la sua Defensa Plini, l'attacco di Leoniceno è significativo di una nuova mentalità che al sapere libresco e al prestigio degli auctores contrappone la costruzione del sapere attraverso l'indagine, l'esperienza e la verifica dei fatti. Ovviamente l'influenza di Plinio non cessa dall'oggi al domani. Così, Gessner si ispira all'impianto di Naturalis historia per le sue altrettanto enciclopediche Historia plantarum e Historia animalium; nei Discorsi Mattioli lo cita quasi ad ogni pagina; Filippo Melantone lo preferisce a Aristotele per le sue lezioni di storia naturale; Francisco Hernandez lo traduce in spagnolo con scrupolo di filologo e sapienza di medico. Ma le critiche di Leoniceno hanno lasciato il segno: il suo allievo Euricius Cordus esorta i suoi studenti a cercare la verità nella natura piuttosto che nei libri; sulla stessa linea si schierano Melchiorre Guilandino e Jacques Dalechamps (1513-88) che nella prefazione al suo importante commento a Naturalis historia, contro la tradizione filologica, difende il suo approccio che mette in primo piano la comprensione dei fatti: "Io penso che la conoscenza del significato interiore delle cose è molto più importante per i sapienti che il vigore dell'espressione e la bellezza eloquente". Nell'età dei lumi la mancanza di spirito critico di Plinio attira gli strali degli studiosi, ma allo stesso tempo l'ambizione enciclopedica non manca di esercitare il suo fascino, tanto che Buffon lo prende a modello fin dal titolo per la sua opera principale, l’Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roy; si guadagnerà così il soprannome di "Plinio di Montbard". Nell'Ottocento uno dei giudizi più drastici si deve a Cuvier che lo definisce "un autore senza spirito critico che, dopo aver passato molto tempo a fare estratti, li ha allineati insieme a riflessioni che non hanno nulla a che fare con la scienza propriamente detta, ma alternano le credenze più superstiziose alle lamentazioni di una filosofia pessimistica che non smette di accusare l'uomo, la natura e gli stessi dei". Il Novecento ha cercato di restituire a Plinio soprattutto la sua dimensione storica, valorizzandone l'importanza documentaria e leggendolo come monumento alla grandezza imperiale di Roma. Tra gli estimatori, troviamo Italo Calvino, che ne ammira soprattutto le pagine sull'astronomia nelle quali a suo parere "Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza". Una scorpacciata di frutti di Plinia Lontano dall'ammirazione senza riserve quanto dalle critiche demolitrici è il giudizio di padre Plumier, che dedicò a Plinio uno dei suoi nuovi generi americani, con queste equilibrate parole: "Caio Plinio Secondo veronese [in realtà, era comasco] ebbe tanto a cuore la botanica che nella sua Storia del mondo, dedicata all'imperatore Vespasiano o Tito, come altri preferiscono, nei libri da dodici a ventisette (secondo la divisione di Gessner) trattò le piante sotto ogni punto di vista: filosofico, storico, medico, agricolo, ecc. Morì durante l'eruzione del Vesuvio, quando era ammiraglio della flotta di Miseno". Istituito da Plumier nel 1703, il genere Plinia fu confermato da Linneo in Species Plantarum (1753); appartenente alla famiglia Myrtaceae, comprende alberi e arbusti diffusi dalle Antille e dall'America centrale al Brasile. Come altri esponenti neotropicali di questa famiglia, pone notevoli problemi di classificazione. Appartenente alla sottotribù Myrtinae della sottofamiglia Myrtoideae, forma un gruppo con gli affini Siphoneugena e Myrciaria in cui i confini tra generi e specie non sono sempre facili da determinare. Dunque, studiosi diversi gli assegnano un numero variabile di specie, da 40 a 75. Le principali caratteristiche distintive sono l'embrione con i due cotiledoni omogenei e totalmente separati, le foglie intere con nervatura centrale e nervature secondarie a spina di pesce profondamente incise, il calice deciduo che lascia una cicatrice simile a un ombelico sul frutto; in alcune specie, a colpire l'osservatore sono soprattutto i fiori che nascono direttamente sul tronco, seguiti dai frutti, così numerosi che talvolta possono coprirlo quasi interamente. La specie più nota è P. cauliflora, un albero nativo degli stati brasiliani di Minas Gerais, Goiás e São Paulo, dove è nota come jabuticaba (nome che condivide con altre specie, oggi assegnate al genere Myrciaria). In natura, fiorisce e fruttifica una o due volte l'anno, ma in coltivazione, con l'irrigazione adeguata, può produrre frutti freschi in continuazione. Simili nell'aspetto e nel gusto a acini d'uva nera, i frutti di jabuticaba sono estremamente apprezzati in Brasile (dove questo albero è considerato un simbolo nazionale, tanto che scherzosamente si dice "Se esiste solo in Brasile e non è jabuticaba, attento: non è buono"). Dolci ma con bassa acidità, vanno consumati rapidamente; si prestano alla preparazione di gelatine, marmellate e bevande fermentate. Poiché si deteriorano in fretta e non sono facili da coltivare in altri climi, sono poco noti al di fuori del Brasile; tuttavia ne esiste una piccola produzione in Sicilia. Eduli sono anche i frutti di P. edulis, un albero delle foreste costiere del Brasile, anch'essi prodotti , direttamente sul tronco; anziché neri, sono giallo-aranciati, con un gusto dolce-acido a metà tra quello della papaia e quello del mango sono noti come cambucà, mentre l'albero è detto cambucabeiro. Qualche approfondimento nella scheda.
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Questo post è un po' speciale. Siamo infatti arrivati alla centesima storia di persone e piante (ma, dato che qualche storia coinvolge più di una persona e/o più di una pianta, sono già sfilati un po' più di 110 personaggi e oltre 120 generi). Ho iniziato quasi un anno e mezzo fa nel nome di Linneo, e a lui voglio tornare per questa piccola celebrazione. Venite, vi invito a una gita estiva nell'Olanda del 1735! In gita con Linneo Sbrighiamoci, la barca ci sta già aspettando! E' il 13 agosto 1735 e il professor Burman, il nostro ospite, ci ricorda che siamo attesi; la nostra metà è il favoloso giardino De Hartekamp, creato dal ricchissimo banchiere George Clifford a Heemstede, non lontano da Harlem. E' piacevole arrivarci scivolando lungo i canali: in fondo non sono neppure 20 km; ma Linneo è impaziente: ha sentito tanto parlare di questo giardino, e del suo eccentrico proprietario. Il giovane scienziato è venuto in Olanda per laurearsi - condizione posta dal futuro suocero per concedergli la mano della sua promessa, Sara Elisabeth Moraea; ha ottemperato, ma adesso non ha nessuna intenzione di tornare nella provinciale Svezia. Al momento, se ne sta da Johannes Burman, professore di botanica all'Hortus medicus di Amsterdam e curatore dell'orto botanico della città; e in cambio dell'ospitalità, lo sta aiutando nella stesura della sua opera sulla flora di Ceylon, Hortus zeylanicus. Eccoci, siamo arrivati! Ci farà da guida il padrone di casa in persona, George Clifford. Non solo è ricchissimo - rappresenta la terza generazione di una famiglia di banchieri di origini inglesi trapiantata nei Paesi Bassi - ma come direttore della Compagnia olandese delle Indie Orientali (VOC) ha facile accesso alle piante e agli animali esotici che arrivano dal Suriname, dal Sud Africa, da Ceylon, dal Malabar, da Giava, dal Giappone. Inoltre, è ben inserito nella rete internazionale di studiosi e collezionisti, con i quali scambia attivamente semi, bulbi, piante vive e essiccate, animali e minerali rari. Il risultato è qui davanti ai nostri occhi: è un vasto giardino all'inglese con piante rare, alcune coltivate all'aperto, altre nelle quattro serre riscaldate, ciascuna adatta a un gruppo di piante diverse: i quattro continenti - l'Australia non è ancora stata scoperta - in miniatura. I vasi che vedete attorno alla casa, alle fontane, al parterre all'inizio dell'autunno troveranno ricovero nell'orangerie. Per di qua invece si va al serraglio. Dopo il giro in giardino, adesso entriamo in casa: è un vero museo con collezioni scientifiche (quanti animali imbalsamati! per non parlare dei minerali), un erbario, una ricchissima biblioteca. Linneo è estasiato: se ha mai immaginato il paradiso dei naturalisti, deve essere identico a De Hartekamp. E' abbagliato da tutto quello che vede, lui figlio del gelido nord per la prima volta a tu per tu con tanti animali e tante piante esotiche. Il padrone di casa, sì, è un dilettante, ma se ne intende, conversare con lui è molto gratificante. E a sua volta, lui, George Clifford, è abbagliato dal giovane Linneo: è un pozzo di scienza, una perla rara, questo svedese! Oltretutto, è un medico e un naturalista nella stessa persona. Clifford è un ipocondriaco, adorerebbe avere in casa un medico pronto a dar sollievo ai suoi malesseri più o meno immaginari. E così, su due piedi, gli fa la sua proposta: che ne direbbe di trasferirsi a Hartekamp - almeno per quell'inverno - come suo medico personale e sovrintendente delle collezioni? Per lo squattrinato Linneo è un'occasione splendida: un lavoro ben pagato, una biblioteca fornitissima, uno dei giardini privati più importanti d'Europa e ricche collezioni naturalistiche a sua disposizione, da studiare, incrementare, catalogare. Ma, con un sospiro, deve rifiutare questa proposta di sogno. E' già legato a Burman, con cui ha un impegno e un debito di riconoscenza. Tanto allegro era, il nostro Carl, durante il viaggio verso De Hartekamp, tanto triste è adesso, a sera, mentre torniamo a Amsterdam. Ma fa male a angosciarsi; Clifford, un miliardario poco abituato ai rifiuti, si lavora abilmente Burman: quanto vale, per lui, Linneo? cosa accetterebbe in cambio del "suo" svedese? E Burman ha un prezzo: se Clifford gli cederà quel libro introvabile, la sua rarissima copia di Natural History of Jamaica di Hans Sloane, dirà di sì, libererà Linneo dai suoi impegni. Affare fatto! Il 24 settembre Linneo si trasferisce a De Hartekamp, con una paga di 1000 fiorini annui, più il vitto e l'alloggio, come medico personale e curatore delle collezioni scientifiche; formalmente l'incarico dovrebbe durare solo quell'inverno, ma si protrarrà fino al 7 ottobre 1737. Hortus Cliffortianus, un libro seminale Il frutto principale di quei due anni - interrotti dal lungo viaggio che porterà Linneo, a spese di Clifford, a Londra e a Parigi - è Hortus Cliffortianus, il catalogo delle piante coltivate nel giardino di Hartekamp e degli esemplari essiccati del prezioso erbario di Clifford. Linneo lo scrisse in circa nove mesi (lo completò nel luglio 1737); venne pubblicato però solo l'anno successivo, quando lo svedese aveva ormai lasciato Heemstede. E' un'opera di grande importanza nella storia della botanica: in essa, infatti, Linneo classificò e descrisse le piante, per la prima volta, seguendo la sua classificazione basata sul numero e la forma degli organi maschili e femminili dei fiori. Non compare ancora, invece, la denominazione binomiale; ogni specie è assegnata a un genere e definita con un nome-descrizione, basato sui caratteri che la distinguono dalle altre specie dello stesso genere; seguono i sinonimi usati dai principali botanici precedenti e note sulla provenienza geografica. E' un lavoro seminale, che già pone le basi di Species plantarum, dove, nell'introdurre la nomenclatura binomiale, Linneo ne riprenderà in gran parte i generi e le specie; è inoltre nell'erbario di Clifford (di cui Linneo portò con sé in Svezia numerosi doppioni) che vanno cercati i tipi di molte specie linneane. L'opera, un grande volume in folio di circa 350 pagine, si apre con una dedica al generoso mecenate George Clifford (che la promosse e ne finanziò la stampa), seguita da un excursus su coloro che, con i loro giardini botanici e la loro generosità, avevano favorito i progressi della botanica. Dopo un'avvertenza ai lettori, che contiene anche informazioni sulla provenienza delle piante (importante per ricostruire la storia della rete di botanici e collezionisti del Settecento), il testo vero e proprio inizia con il catalogo della biblioteca di Clifford, un totale di 295 titoli, quasi interamente dedicati alla botanica; anche i libri, o meglio i loro autori, secondo la mania classificatoria di Linneo, sono raggruppati in sedici classi, a partire dai padri fondatori greci e romani, per arrivare alle monografie, passando per i Commentatores, i Descriptores, gli Iconographi (ovvero i disegnatori). Grazie a questo elenco, di enorme importanza storica, conosciamo da vicino le fonti di Linneo e i suoi rapporti con la botanica prelinneana, tanto più che non manca un breve giudizio su ciascun testo (a volte di lapidaria, secca, arroganza). La maggior parte del libro è occupata dal catalogo delle piante di De Hartekamp, 2536 specie, senza distinzioni tra quelle coltivate in giardino o nelle serre e gli esemplari dell'erbario. Linneo, che aveva già concepito in Svezia le linee della sua classificazione sessuale, ha qui modo di metterla alla prova, di fronte a tante specie esotiche, alcune descritte per la prima volta. Hortus Cliffortianus è anche un libro notevole per le illustrazioni: si tratta di calcografie di estrema finezza, incise da Jan Wandelaar, che è anche l'autore della tavola del frontespizio, di alcune tavole sinottiche sulle forme e la nomenclatura delle foglie e di una decina di illustrazioni botaniche. Le altre (sono in totale 34) furono dipinte dal celebre Georg Ehret. Il frontespizio, ricco di simboli, merita qualche parola in più. Sullo sfondo di un giardino con piramidi topiarie, al centro sta Madre Terra, seduta su un leone e una leonessa, con in mano le chiavi del giardino. Ai suoi piedi un vaso con Cliffortia ilicifolia, pianta che onora il generoso mecenate, e una mappa dell'hortus. Sulla sinistra l'omaggio dei continenti: una nera (l'Africa) offre un'aloe, un'araba (l'Asia) una pianta di caffè, un'india (le Americhe) un'Hernandia. Su un alto piedistallo si erge un busto barbuto, forse un ritratto dello stesso George Clifford. Sulla destra campeggia un alto banano in fiore: è un'allusione a quello che nel 1736 Linneo riuscì a far fiorire in una delle serre di Hartekamp, destando sensazione. Ed ha le fattezze proprio di Linneo il dio Apollo, che regge la fiaccola della scienza e strappa i veli dell'ignoranza, mentre i suoi piedi calpestano un drago. Anche questa è un'allusione a un preciso episodio: durante il suo viaggio europeo, Linneo era passato da Amburgo, dove il sindaco della città gli aveva mostrato con orgoglio i resti imbalsamati di un'idra dalle sette teste. Allo svedese era bastata un'occhiata per capire che si trattava di un falso, costruito alla bell'e meglio assemblando una pelle di serpente, denti e zampe di donnola. Aveva poi dovuto allontanarsi in fretta dalla città per sfuggire alle ire del sindaco, che sperava di rivendere a caro prezzo quella reliquia. Nell'angolo destro, due amorini muniti di vanga e termometro e un vaso da cui escono fuoco e fumo ci ricordano che quel magnifico giardino non esisterebbe senza il lavoro dei giardinieri e il calore delle quattro serre riscaldate. Dopo aver finito di scrivere il libro, Linneo lasciò la tenuta di Clifford, con l'intenzione di tornare in Svezia. Ma una malattia, e le esortazioni degli amici, lo trattennero ancora in Olanda, dove si sarebbe fermato fino a maggio 1738, causando qualche malumore nel suo protettore. Rimasero tuttavia in corrispondenza almeno fino al 1741. Clifford continuò a incrementare le sue collezioni e ad abbellire il giardino; tuttavia, quando morì, nel 1760, gli eredi, poco interessati alla botanica e impoveriti da una bancarotta, vendettero all'asta la proprietà. Oggi rimane ben poco di quel favoloso giardino (il palazzo ospita una scuola per bambini portatori di handicap e poco si è conservato del parco); negli anni '50 del Novecento un'area nei dintorni di Heemstede, battezzata Linnaeushof, fu utilizzata per qualche anno per mostre floricole per poi essere trasformata, in seguito a problemi finanziari, in un parco giochi, che vanta di essere il più grande d'Europa. Agli antipodi rispetto al raffinato orto botanico di Clifford (qualche notizia in più sulla vita del banchiere-mecenate nella sezione biografie). L'inafferrabile Cliffortia Tra i numerosi corrispondenti di Clifford, c'era anche un collezionista blasonato, il margravio di Bade-Durlach, Carlo III Guglielmo, grande appassionato di piante e proprietario di due splendidi giardini, a Carlsruhe e Durlach. Fu lui a raccomandare Ehret a Clifford, e, prima di Linneo, fu il suo medico, Johann Andreas Eichrodt, nel 1733, a creare in suo onore il genere Cliffortia nel suo catalogo del giardino del margravio (Index Plantarum Horti Carlsruhani tripartitus). Ce ne informa lo stesso Linneo che, al contrario di quanto farà in Genera plantarum, in Hortus Cliffortianus spiega in dettaglio le origini dei nomi celebrativi. Dopo aver ricordato che a coniare il nome fu appunto Eichrodt, aggiunge: "Con quanto amore e quanto studio l'illustre Clifford si dedichi alla botanica lo comprende facilmente ogni botanico da questa stessa collezione, da questa stessa opera per la quale ha profuso tanta spesa. Ha meritato questa memoria presso gli uomini degni, è ben meritevole di lui quest'alberello perennante e i suoi consimili che, come stelle che sorgono rare nel vasto immenso cielo, illuminano con i loro raggi le nostre piante". E' la rarità nelle collezioni europee settecentesche più che una particolare venustà a dettare queste parole; in effetti gli esponenti del genere Cliffortia (ufficializzato in Genera plantarum, 1753) non potrebbero davvero aspirare al primo premio in una mostra di giardinaggio. Anche nel loro ambiente naturale, come vedremo, passano piuttosto inosservati, sebbene siano tutt'altro che rari. Cliffortia, affine all'europea Sanguisorba, con cui condivide i fiori privi di petali, è uno dei pochi generi della famiglia Rosaceae della flora sudafricana; ricchissimo di specie, ne comprende circa 120, 114 delle quali endemiche del Cape Botanical Kingdom, la favolosa area occidentale della provincia del Capo. Il suo ambiente di elezione è il fynbos, la macchia sudafricana formata da una vegetazione arbustiva spesso spinosa con foglie coriacee o aghiformi, adattate all'aridità. Sono le caratteristiche anche delle Cliffortiae, che, per quanto numerosissime e talvolta dominanti, sono relativamente poco conosciute e non si fanno notare, confuse in mezzo ad altri arbusti più alti, più vistosi o singolarmente simili per portamento e forma delle foglie. Variabilissime per forma (dall'alberello all'erbacea strisciante), per la morfologia delle foglie (simili a fili d'erba in alcune specie, aghiformi in altre, ovoidali e dentate in altre ancora), sembrano divertirsi a giocare a nascondino con i botanici. Quando non sono in fiore (per altri i fiori sono piccolissimi e poco vistosi) alcune specie, per convergenza evolutiva, sono talmente simili a Aspalathus (famiglia Fabaceae) e a Anthospermum (famiglia Rutaceae) da trarre in inganno; C. graminea invece a prima vista può essere scambiata per un ciuffo d'erba. Si fa notare, invece, per crescere in mezzo alle rocce, a volte anche sulle pareti a strapiombo, C. ruscifolia; si dice che gli amanti dell'arrampicata sportiva abbiano l'abitudine di afferrarsi ai suoi rami, grazie all'esteso apparato radicale che, penetrando in profondità nelle spaccature, le trasformano in un appiglio sicuro; questa particolarità ha guadagnato a questa specie il nomignolo di climber's friend, "amico dell'arrampicatore". Qualche approfondimento nella scheda. Le vie della botanica sono infinite. Per una curiosa combinazione il dottissimo Jan Bode, alla latina Stapelius, mentre sta curando la sua monumentale edizione bilingue di Teofrasto, riceve le note e i disegni di alcune piante raccolte in Sud Africa dal fratello di un amico. Decide di includere anche quelle: saranno le prime piante sudafricane mai comparse in un testo a stampa. Se ne ricorderà Linneo, dedicandogli il genere Stapelia. Teofrasto, ovvero una botanica per botanici Grazie alla pubblicazione a stampa della traduzione di Gaza e dell'originale greco, le opere botaniche di Teofrasto entrarono tra i testi canonici. Tuttavia non furono mai popolari come De materia medica di Dioscoride; mentre il testo dioscorideo forniva il nome e i contenuti alla botanica applicata (materia medica) insegnata ai futuri medici, diveniva il libro di testo obbligato di tutte le facoltà di medicina europee, era chiosato e commentato da decine di studiosi, De historia plantarum e (anche di più) De causis plantarum erano più riveriti e citati di terza mano che letti e conosciuti. La ragione è proprio quella che oggi ce li fa apprezzare: l'interesse di Teofrasto per la morfologia e la fisiologia delle piante non li rendeva immediatamente fruibili per gli studenti di medicina. Nel Cinquecento si conosce un solo esempio di corso universitario focalizzato su Teofrasto: quello tenuto a Bologna nel 1560 da Ulisse Aldrovandi, quando però insegnava filosofia; quando due anni dopo passò a insegnare materia medica, ripiegò anche lui su Dioscoride. A leggere Teofrasto e a trarne stimolo per le proprie ricerche erano i pochi studiosi che coltivavano la botanica come scienza in sè, non come ancella della medicina com'era ancora prevalentemente considerata. Insomma, erano testi di botanica per botanici. Non a caso tra i loro estimatori troviamo in primo luogo Cesalpino (che tentò una classificazione delle piante su basi aristoteliche), Rondelet, che gettò le basi della scuola botanica francese (caratterizzata da una spiccata vocazione tassonomica) e i Bauhin. I pochi lavori cinquecenteschi direttamente dedicati a Teofrasto, più che di botanici, furono opera di filologi, che discettavano di problemi di critica testuale e criticavano la traduzione troppo libera di Gaza. Bisogna quindi attendere il Seicento perché uno studioso che era allo stesso tempo un medico, un filologo e un botanico si accingesse a fare per Teofrasto quello che Mattioli aveva fatto con i suoi Commentarii per Dioscoride. Un'edizione monumentale A tentare l'impresa fu un giovane medico di Amsterdam, Jan Bode à Stapel o van Stapel (di solito è noto con il nome latinizzato Johannes Badaeus Stapelius). Coltissimo, dotato di una profonda conoscenza delle lingue classiche, si propose di curare un'edizione completissima delle due opere di Teofrasto: in primo luogo, il testo greco messo a confronto con la traduzione latina di Gaza, su due colonne affiancate; a margine, le notazioni filologiche e testuali; a seguire, per ogni capitolo, le note di alcuni commentatori che lo avevano preceduto (Giulio Cesare Scaligero, Robert Constantin, Claudius Salmasius); infine i commenti di sua mano. L'interesse di quest'opera non è solo filologico. Profondo conoscitore delle piante (lui e suo padre possedevano un giardino ricco di piante esotiche), Stapelius infarcì i suoi commenti di informazioni di ogni genere sul mondo vegetale, comprese notizie sulle piante che giungevano dall'Asia e dal Nuovo mondo (sono per lo più di seconda mano, attinte da opere di altri botanici, in particolare Clusius e l'Obel). Volle inoltre arricchire la sua opera con numerose xilografie; anche se poche sono originali, si tratta in ogni caso della prima edizione illustrata di Teofrasto. Stapelius, che iniziò a lavorare all'opera intorno al 1625, subito dopo essersi laureato, morì nel 1636, a poco più di trent'anni; riuscì quindi solo affrontare solo la prima opera di Teofrasto, De Historia Plantarum. Qualche notizia sulla sua breve vita nella sezione biografie. Il padre, Engelbert Stapel, a sua volta medico di fama, completò il lavoro del figlio e lo pubblicò nel 1644, dopo altri otto anni di lavoro. Questa edizione monumentale (è uno splendido in folio di oltre 1200 pagine), molto accurata anche nella veste tipografica, riserva ancora una piccola sorpresa: quattro pagine sono dedicate alle primissime specie sudafricane mai descritte dalla scienza. Nel 1624, un missionario olandese, Justus Heurnius, mentre la sua nave, diretta a Giava, faceva rifornimento al Capo di Buona Speranza, ne approfittò per disegnare e descrivere alcune piante. Inviò questi materiali in Olanda a suo fratello Otto, amico e compagno di studi di Stapelius, a cui li passò; Stapelius colse a volo l'occasione, includendo disegni e descrizioni nella sua opera. Quella strana fritillaria... la chiamerò Stapelia Torneremo sulla storia di Heurnius, anche lui dedicatario di un genere. Per ora rimaniamo in compagnia di Stapelius e della pianta che lo celebra. Linneo era un grande ammiratore del suo commento, di cui apprezzava la competenza e la chiarezza espositiva. Non gli sfuggirono quelle quattro pagine che contenevano una preziosa primizia della flora sudafricana e scelse proprio una di quelle nuove piante per onorare lo studioso olandese, ribattezzando Stapelia quella che Heurnius aveva denominato Fritillaria crassa caput Bone Spei ("Fritillaria grassa del Capo di Buona Speranza"). In Species Plantarum, 1753, Linneo pubblicò due specie di Stapeliae: S. variegata (che è appunto la "fritillaria crassa" di Heurnius) e S. hirsuta; oggi la prima è stata trasferita a un altro genere e si chiama Orbea variegata. Ma il vero "padre delle stapelie" può essere considerato il botanico scozzese Francis Masson, che esplorò il Sud Africa da solo e insieme a Thunberg, uno dei più importanti allievi di Linneo, e poi visse per qualche anno nella Colonia del Capo, coltivando un giardino di acclimatazione. Egli aveva una vera passione per queste piante, cui dedicò il suo unico libro, Stapeliae novae, la prima monografia sul genere Stapelia (1796), in cui ne descrisse una quarantina; diede anche un grande contributo alla loro introduzione in Europa, dove iniziarono ad essere molto apprezzate dai collezionisti. A partire dall'Ottocento, diverse specie vennero trasferite in altri generi, i più noti dei quali sono Duvalia, Huernia, Caralluma, Hoodia. Oggi ammontano a una quarantina, raccolti nella sottotribù Stapeliinae; gli inglesi, con il loro senso pratico, chiamano tutto il gruppo Stapeliad. Il genere Stapelia comprende una cinquantina di specie di succulente degli ambienti aridi dell'Africa tropicale e australe (Angola, Mozambico, Malawi, Tanzania, Bostwana, Zimbawe, ma soprattutto Namibia e Sud Africa, dove si concentra la maggior parte delle specie). Appartenenti alla famiglia Apocynaceae (un tempo Asclepiadaceae), sono note soprattutto per i curiosi fiori a forma di stella che emanano odore di carogna. Questo odore, avvertibile in alcune specie anche a una certa distanza, è una strategia per attirare gli impollinatori, che sono soprattutto mosche carnarie; allo stesso fine mirano i peli, i colori e la tessitura dei petali che mimano un animale in decomposizione. Ma ci sono anche rare eccezioni: S. erectiflora e S. flavopurpurea sono gradevolmente profumate. Nonostante questa proprietà poco edificante, le Stapeliae sono ricercatissime dai collezionisti di piante succulente. Altri due membri del gruppo rendono indirettamente omaggio a Stapelius: Stapelianthus ("con fiori simili alla Stapelia"), un piccolo genere endemico del Madagascar, con fiori minuti dalle forme varie e sorprendenti; Stapeliopsis ("con aspetto simile alla Stapelia"), un piccolo genere originario della Namibia e del Sud Africa, i cui piccoli fiori sono per lo più piacevolmente profumati di miele e frutta. Per approfondimenti su Stapelia, Stapelianthus, Stapeliopsis si rimanda alle rispettive schede. Per volontà di un papa umanista e grazie alla traduzione di un rifugiato greco in fuga di fronte all'avanzata turca, le opere botaniche di Teofrasto escono dall'oblio. Al benemerito - anche se a volta fantasioso - traduttore, Teodoro Gaza, verrà più tardi (forse) dedicato un tesoro vegetale: la prorompente Gazania. Una traduzione libera, ma meritoria Condividendo il destino di Omero e Platone, nell'Occidente medievale Teofrasto fu completamente dimenticato. I più informati sapevano che si era occupato anche di botanica, e qualcuno pensava avesse scritto De Plantis, un trattatello comunemente attribuito a Aristotele (oggi si ritiene sia stato scritto da un altro peripatetico molto più tardo, Nicola di Damasco, vissuto nel I sec. a. C.). La situazione iniziò a cambiare nel Quattrocento, quando gli umanisti riscoprirono la cultura greca. Nel 1423 Giovanni Aurispa, che fu anche tra i primi a insegnare il greco, ritornò da un viaggio a Costantinopoli con 238 volumi di testi greci. Tra di essi c'era anche un manoscritto con De historia plantarum e De causis plantarum di Teofrasto. A metà secolo, una copia del manoscritto si trovava nella biblioteca papale. Sul soglio pontifico sedeva un papa umanista, Niccolò V, che creò una vasta raccolta di codici di autori classici (ne contava 1200 al momento della sua morte), primo nucleo della futura Biblioteca apostolica vaticana. Poiché all'epoca lo studio del greco era appena agli inizi, il papa varò un vasto programma di traduzioni incaricando numerosi studiosi di tradurre integralmente dal greco in latino significative opere greche, sia pagane sia cristiane. In questo contesto, nel 1449 alla corte pontificia approdò Teodoro Gaza, un sapiente greco che oggi definiremmo un rifugiato. Nativo di Salonicco, nel 1440 era giunto in Italia per sfuggire all'avanzata turca (com'è noto, la caduta di Costantinopoli avverrà qualche anno dopo, nel 1453). Di lingua madre greca, aveva appreso il latino e aveva anche una certa cultura scientifica, avendo seguito studi di medicina presso lo Studio ferrarese. Autore fra l'altro di una grammatica greca, era un umanista molto noto e apprezzato. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Teodoro si presentava come il candidato ideale per tradurre le opere scientifiche di Aristotele e della sua scuola. Il papa gli affidò dunque sia la traduzione delle due opere botaniche di Teofrasto, sia di quelle zoologiche di Aristotele (De historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium). Un lavoro molto complesso che impegnò il greco per almeno cinque anni e si protrasse anche dopo al morte di Niccolò V. Un aneddoto, probabilmente apocrifo, vuole che, insoddisfatto del misero pagamento ricevuto dal successore Callisto III, abbia gettato platealmente il compenso ricevuto nel Tevere. Il grande lavoro di traduzione iniziò proprio con le opere di Teofrasto: prima De historia plantarum (che risulta terminata all'inizio del 1451), quindi De causis plantarum. Delle difficoltà incontrate da Teodoro ci informa la lettera dedicataria premessa alla splendida edizione manoscritta approntata per il pontefice. In primo luogo, lo stile di Teofrasto è difficile di per sé: le sue opere non erano state pensate per la pubblicazione, erano piuttosto materiali di lavoro, continuamente rivisti, di cui il filosofo si serviva per i suoi corsi; ne risulta uno stile sintetico e ellittico. In secondo luogo, il manoscritto di cui servì Teodoro (l'unico di cui disponesse) era pesantemente corrotto. In terzo luogo, egli non era un esperto di piante e sia la terminologia botanica sia l'identificazione delle specie descritte ponevano molti problemi. Per risolverli, Teodoro studiò attentamente la Naturalis historia di Plinio, che a sua volta dipendeva in parte dalle opere di Teofrasto e ne attinse la terminologia, la chiave per l'identificazione delle specie, le informazioni per interpretare i passi corrotti o colmare le lacune. Dunque la sua traduzione, all'epoca molto ammirata anche per l'eleganza formale, è molto libera e in molti passi errata. In ogni caso, fu decisiva per rimettere in circolazione Teofrasto. Nel 1483 uscì la prima edizione a stampa della traduzione di Gaza, seguita tra il 1495 e il 1498 dalla prima edizione a stampa dell'originale greco, nell'ambito della grande edizione delle opere di Aristotele per i tipi di Aldo Manuzio. Teofrasto ritornava a circolare, nel momento più opportuno per fecondare la rinascita della botanica. Gazania, un tesoro vegetale Nel 1791 Joseph Gaertner, nella sua importante De Fructibus et Seminibus Plantarum (una delle prime opere in cui nello studio delle piante è stato usato estesamente il microscopio) riclassificò una specie sudafricana già nota a Linneo come Gorteria rigens, creando il nuovo genere Gazania. Poiché l'autore non lasciò spiegazioni, sull'etimologia del nome ci sono due scuole di pensiero: secondo alcuni deriva dal sostantivo greco gaza, che significa "tesoro reale"; secondo la maggioranza degli studiosi, è un omaggio al nostro Teodoro Gaza; Gaertner fu un grande tassonomista e un pioniere degli incroci e della genetica, ed è credibile che apprezzasse colui che riportò in auge Teofrasto. Ovviamente, mi schiero con la seconda ipotesi, che permette al blog di ospitare la bellissima Gazania, forse (insieme a Gerbera) il più noto tra i numerosi generi di margherite sudafricane. L'altra possibile etimologia ha lasciato però traccia nella lingua inglese, in cui la Gazania è chiamata anche treasure flower, probabilmente in riferimento all'esplosiva e prorompente fioritura di molte specie e forse anche ai caldi e brillanti colori. Gazania raggruppa erbacee annuali e perenni originarie dell'Africa australe, in particolare del Sud Africa; il numero delle specie è altamente incerto perché (la cosa non sarebbe piaciuta a Teodoro Gaza, ma avrebbe sommamente divertito Teofrasto) alcune specie sono così variabili da aver mandato in tilt generazioni e generazioni di tassonomisti. Chi fosse interessato a scoprire perché, troverà un approfondimento nella scheda. E' certo invece che, soprattutto sotto forma dei numerosissimi ibridi, è una delle più popolari piante da giardino, celebre per la facilità di coltivazione, la resistenza alla siccità, la prolungata fioritura. La gamma dei colori offerti è ricchissima: giallo, bronzo, arancio, rosa, salmone, rosso aranciato, bianco, talvolta con strisce e macchie di colore contrastante. Nessuna esigenza se non il sole; come il girasole, sono eliotropiche (il capolino si orienta seguendo il corso del sole) e i fiori si chiudono nelle giornate nuvolose e dopo il tramonto. C'è stata una botanica svedese prima di Linneo; e tra quei precursori, destinato a una fama postuma inaspettata, Olaus Bromelius, che ha donato il suo nome a un genere centro e sud americano di cui non ha mai visto neppure una spina, ma soprattutto all'intera, vasta, famiglia delle Bromeliaceae. Dedicato a Clori Tra le poche opere di autori svedesi che accesero la passione per la botanica del giovane Linneo, accanto al monumentale Campi Elysii dei due Rudbeck, si colloca Chloris gothica, seu catalogum stirpium circa Gothoburgum, che vanta il primato di essere la prima descrizione scientifica della flora di una provincia svedese. L'autore è il medico Olaf Bromel (più comunemente noto nella grafia latinizzata Olaus Bromelius), vissuto nella seconda metà del Seicento. Di pochi anni più giovane del primo Rudbeck, anche Bromelius studia medicina a Uppsala quindi in Olanda, dove, come altri medici-botanici svedesi tra Seicento e Settecento - Linneo compreso - consegue la laurea. Membro del collegio medico, insegnante di materia medica, sovrintendente delle farmacie di Stoccolma, nel 1676 è un professionista autorevole, tanto che è chiamato a far parte di una commissione di laici e religiosi incaricata dal re di esaminare alcuni casi di stregoneria. Anche se i lavori della commissione si conclusero con alcune condanne al rogo, si ritiene che proprio i suoi lavori e le sue indagini abbiano messo fine in Svezia alla stagione della caccia alle streghe. Gli scritti botanici di Bromelius risalgono però a un periodo successivo, quando viene nominato medico cittadino di Gotheborg e capo medico delle province di Elsborg e Bohuslan nella Svezia sud-occidentale. La sua prima opera sulle piante (1687) è un breve manuale destinato agli agricoltori, dal curioso titolo Lupulogia (contiene infatti anche parti dedicate alla coltivazione del luppolo). Dall'attenta esplorazione del distretto di Gothland nasce la sua opera più importante, appunto Chloris gotica (1694), che è un catalogo della flora della città e dei suoi dintorni. Un'opera di buon livello, tanto da essere conosciuta e apprezzata anche al di fuori della Svezia. Il titolo contiene una piccola civetteria: non Flora, la dea mediterranea delle fioriture, è chiamata a presiedere ai vegetali delle terre dei Goti, ma la sua compagna, la ninfa Clori, la verde. E' anche la prima opera in cui, accanto ai nomi latini, vengono usati i nomi svedesi delle piante. Come altri scienziati del tempo, Bromelius fu anche un collezionista che, nella sua personale Wunderkammer, raccolse monete, animali impagliati, piante e semi, minerali e fossili. Dopo di lui, la raccolta fu incrementata dal figlio Magnus (1679-1731, nobilitato con il nome di von Bromel), importante scienziato e padre della paleontologia svedese. Qualche notizia in più, tra le non molte che ci sono giunte su Olaus Bromelius, nella biografia. Bromeliae e Bromeliaceae L'opera di Bromelius era ben nota a Plumier che in Nova plantarum americanarum genera, lo celebra come "famosissimo dottore dell'arte medica, botanico peritissimo" e soprattutto come colui che "studiando e raccogliendo i fiori nei boschi e nei prati gotici, a prezzo di grandi fatiche, con la sua Chloris gothica ha coronato Flora stessa". Questi sperticati elogi accompagnano e giustificano la dedica di una delle piante da lui scoperte nelle Antille, con la creazione del nuovo genere Bromelia, che nel 1753 sarà confermato da Linneo. Una dedica importante, grazie alla quale lo studioso della flora della terra dei Goti diventa il padre eponimo di un'intera, importante famiglia di piante del nuovo mondo, di cui non vide né conobbe neppure un esemplare: le Bromeliaceae (Bromeliad in inglese, ma semplicemente bromelia in molte lingue, tanto per complicare la vita a chi fa ricerche in rete). E' la famiglia dell'ananas, della Tillandsia e di molte altre amatissime piante d'appartamento, dalla Guzmania alla Billbergia. Quanto al genere tipo, Bromelia, comprende una sessantina di specie, caratteristiche soprattutto delle aree aride, in un aerale che va dal Messico all'Argentina, passando per il Brasile, dove nella vasta savana del Cerrado trova la sua massima biodiversità con circa metà delle specie. Sebbene anche in Italia si stia diffondendo l'abitudine di chiamare sbrigativamente bromelia qualsiasi Bromeliacea, è improbabile che nelle vostre case ci sia una specie del genere Bromelia. Infatti non sono molto usate come piante ornamentali per le dimensioni in genere ragguardevoli e l'estrema spinosità delle foglie. Nel loro habitat naturale sono erbacee terrestri imponenti, con foglie spinose e infiorescenze con lunghe brattee colorate; alcune di esse (come la gigantesca B. sylvicola, una specie endemica del Mato Grosso che può raggiungere anche i tre metri) vengono utilizzate per racchiudere tra siepi vive impenetrabili i recinti di bestiame. Dalle foglie di diverse specie vengono ricavate fibre tessili, note con il nome di chaguar; anche i frutti eduli trovano impiego sia nella farmacopea tradizionale sia nella preparazione di bevande. Qualche approfondimento nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. Nella seconda metà del Cinquecento, a Siviglia il medico Nicolas Monardes sperimenta i semplici che arrivano dalle Americhe e li coltiva nel suo giardino; è il primo a descriverli in un'opera scientifica dal lunghissimo titolo che ben presto diventa un bestseller, tradotto e letto in tutta Europa. Linneo gli dedicherà il genere Monarda, una soave labiata dalle foglie profumate e dai bellissimi fiori. Ma indirettamente, lo celebra anche Monardella. Un giardino americano in calle de las Sierpes Nel 1503 a Siviglia nasce la Casa de contractacion, l'organismo per il quale devono passare tutte le merci americane, sulle quali va versata un'imposta del 20% (il quinto real). La Casa è anche un luogo di studio e formazione scientifica, attraverso il quale scorre un incessante flusso di materiali, curiosità e notizie etnografiche che conquistadores e trafficanti riversano sulla madre patria. A Siviglia arrivano sempre più numerose anche le piante americane (inizialmente dalle isole, poi dalla Tierra Firme, com'è chiamato il territorio continentale attorno al golfo dei Caraibi, quindi dal Perù e dalla Florida) che, oltre a suscitare curiosità, vengono immediatamente rivestite di ogni possibile potere taumaturgico. Tra i sivigliani che si appassionano della flora del nuovo mondo, c'è anche Nicolas Monardes, un medico coltissimo, che appena può trasferirsi in una casa con un terreno coltivabile, trasforma la prima in un gabinetto di curiosità, la seconda in un giardino di acclimatazione delle specie del nuovo mondo. Prova a seminare tutti i semi che riesce a procurarsi: coltiva soprattutto le piante medicinali che usa nel suo lavoro, ma anche piante da frutto, come la guaiava, e qualche ornamentale, come la hierba del sol (cioè il girasole Helianthus annuus) e i flores de sangre (ovvero i nasturzi Tropeolum majus). Già diffuso come ornamentale negli altri giardini della città, ma appassionatamente studiato da Monardes per le sue virtù medicinali, c'è anche il tabacco; il dottore è un estimatore anche del peperoncino - che a quanto racconta era già popolarissimo negli orti sivigliani, dove se ne coltivavano esemplari alti come un albero - migliore nel gusto e molto meno costoso del pepe. Si duole di non poter sperimentare l'ananas: gliene sono pervenuti solo esemplari seccati o in conserva (tra l'altro, piuttosto acida, per essere stata preparata con frutti poco maturi). Gioiose notizie del nuovo mondo Il giardino di Monardes non è sopravvissuto ai secoli, ma ne sappiamo qualcosa grazie a quanto racconta l'autore nel suo capolavoro, un libro con un titolo da fare invita a Lina Wertmuller: Historia medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales, que sirven en medicina (1565-74, in tre volumi). Monardes è un vero uomo del suo tempo, con un piede nel passato e l'altro nel futuro. E' uno stretto seguace della teoria galenica, che ritiene che le malattie siano dovute a uno squilibrio dei quattro umori (bile nera, bile gialla, flemma, sangue) e vadano curate ristabilendo l'equilibrio; d'altra parte, non ha alcuna arroganza eurocentrica e pratica già il metodo sperimentale: interroga con passione soldati e avventurieri, clienti e viaggiatori per scoprire i segreti della farmacologia indigena del nuovo mondo; ma poi sottopone a verifica le proprietà medicinali delle sostanze medicinali americane (vegetali, ma anche sostanze di origine animale e minerale) provandole sui suoi pazienti nel corso di una carriera trentennale. Quando è possibile, coltiva le piante nel suo orto per avere sottomano il materiale fresco. Così ci racconta come, afflitto da un forte mal di denti, ricorre con successo a un cataplasma di foglie di tabacco e "carlo santo" (Aristolochia serpentaria) raccolte in giardino. L'Historia medicinal è un libro molto importante per la conoscenza della flora americana; per la prima volta vengono presentate al pubblico europeo in una pubblicazione scientifica quasi cento piante americane, selezionate per le loro virtù medicinali vere o presunte. Monardes ha anche uno scopo pratico immediato: in un momento di difficoltà economica - la sua impresa di import-export specializzata in farmaci americani ha appena fatto fallimento - vuole sia ristabilire la sua rispettabilità scientifica sia convincere i clienti delle virtù medicinali delle piante americane che sono, lo ribadisce a più riprese, molto più economiche di quelle che a caro prezzo i portoghesi trasportano dalle Indie orientali, ma anche più piacevoli e più efficaci. Riesce nel suo intento: non solo l'opera sarà un successo commerciale (tradotta in latino e nelle principali lingue europee, avrà 25 edizioni in sei lingue prima della fine del secolo), ma imporrà nell'immaginario collettivo europeo l'idea della favolosa virtù terapeutica delle piante europee; a dimostrarlo basta il titolo dell'edizione inglese, Ioyfull newes out of the newe founde worlde, "Gioiose notizie che arrivano dal nuovo mondo" (traduzione di J. Frampton, 1577). Ancora una volta non si tratta di un testo di botanica, ma di un manuale di farmacologia; tuttavia la descrizione delle essenze vegetali è chiara e precisa, almeno quando il medico sivigliano conosce direttamente la pianta; spesso in effetti in Europa erano commercializzate parti come cortecce e radici essiccate o prodotti come resine e balsami. Proprio con questi ultimi si apre il primo volume dove si parla di resine di origine vegetali quali copal, animé, tacamahaca e dei balsami del Perù e del Tolù; poi si passa ai purganti (che occupavano un ruolo centrale nella dottrina galenica, come restauratori dell'equilibrio tra gli umori), con l'olio del "fico dell'inferno" (Jatropha curcas), la "cañafístola" americana (Cassia grandis), considerata superiore a quella asiatica (C. fistula), le "nocciole purgative" (Jatropha multifida), ma soprattutto la radice di mechoacán (Convolvulus mechoacan), considerato il purgante ideale, molto preferibile alla gialappa (Exogonium purga) che per i suoi drastici effetti Monardes chiama "mechoacan furioso". Un capitolo a parte meritano il guayaco e il "palo santo" (Guaiacum officinale e G. sanctum), insuperabili contro la sifilide; il succedaneo americano (Smilax pseudo-china) della radice di China asiatica (S. china); le salsapariglie americane (Smilax spp.), di cui vengono esaminate diverse qualità. La trattazione del tabacco occupa da sola un trattatello con tanto di ricette degli svariati preparati; in ogni caso Monardes, pur considerandolo praticamente una panacea, lo raccomanda essenzialmente per impacchi o per clisteri ed è ben consapevole degli effetti stupefacenti del fumo, che accosta addirittura a quelli della coca. E' poi il primo a descrivere e introdurre nella farmacopea il sassofrasso (usato come succedaneo meno costoso del guayaco), la "cebadilla" (Schoenocaulon officinale), le cannelle americane Dicypelium caryophilatum e Canella alba, il pepe lungo (Piper angustifolium) - questi ultimi presentati come migliori e concorrenziali rispetto alle pregiate spezie asiatiche. Per un approfondimento su alcune specie medicinali descritte da Monardes, si rimanda al blog Plantas en America. Sebbene trattate più rapidamente, fanno la loro comparsa anche specie alimentari: il peperone, il mais, l'ananas, la guayaba, la granadilla, il fico d'India, la batata, la manioca e le noccioline americane, chiamate "frutto che cresce sotto terra". Tra le piante decorative, il girasole e la cappuccina, entrambe descritte in toni entusiastici. Altre notizie sulla vita di Monardes, piuttosto movimentata anche se non visitò mai l'America e non si allontanò dalla città natale se non per gli studi, nella biografia. Posso offrirvi una tazza di tè? Linneo che, presumibilmente aveva ricavato da Historia medicinal il nome specifico della nocciolina americana, Arachis ipogea (= "leguminosa che cresce sotto terra"), non mancò di dedicare un genere (in Species Plantarum, 1753) al medico spagnolo. Contrariamente a quanto si sostiene in alcune pubblicazioni, non si tratta di una delle tante specie descritte nel libro (che provenivano essenzialmente dalle Antille, dall'istmo di Panama e dal Perù, tranne tre dalla Florida), ma è ovviamente americano: Monarda, famiglia Lamiaceae (o Labiate), comprende una quindicina di specie di erbacee annuali o perenni, originarie delle praterie nordamericane. Conosciute in Europa almeno dal Seicento - furono tra quelle introdotte dai Tradescant - alcune di esse sono comunque piante medicinali, con le quali si preparano profumate tisane, molto più piacevoli dei drastici purganti prediletti dal dottore spagnolo. M. dydima, comunemente nota come tè degli Oswego, ha anche avuto un ruolo nella storia statunitense; quando, con il famoso Boston tea party, iniziò il boicottaggio del tè importato dalla Compagnia delle Indie, per un breve periodo fu usata come succedaneo, secondo l'uso appunto degli indiani Oswego. M. didyma e M. fistulosa sono anche splendide piante da giardino, soprattutto grazie ai numerosi ibridi orticoli. Come al solito, approfondimenti nella scheda. La nostra storia tuttavia non finisce qui. Nel 1834 il tassonomista George Bentham, in suo lavoro dedicato alle Labiate (Labiatarum genere et species) distacca dal genere Pycanthemum alcune specie e crea il genere Monardella (cioè "piccola monarda"), per la somiglianza nell'aspetto generale con Monarda fistulosa. Così al dottor Monardes riesce il colpaccio: due dediche al prezzo di una! Anche per Monardella, si rinvia alla scheda. Lo storico della scienza D. Sutton l'ha definito "una delle opere di storia naturale più durature che siano mai state scritte [...] che ha formato le basi del sapere occidentale per i successivi 1500 anni". E' innegabile: con la Materia medica del greco Dioscoride, che aveva già alle spalle quasi un millennio di storia, hanno fatto i conti tutti gli studiosi che tra Quattrocento e Seicento hanno fondato la botanica moderna. Ripercorriamo le tappe della storia di questo long seller e scopriamo anche il genere che ne celebra l'autore, Dioscorea. Prima vita: la composizione In un momento imprecisato della terza metà del primo secolo (tra il 50 e il 70 d.C.) un medico greco, nato in Cilicia, Dioscoride Pedanio, scrive il trattato Περὶ ὕλης ἰατρικῆς Peri hules iatrikēs, più noto con il titolo latino De materia medica ("Sulle sostanze medicinali"). L'argomento è l'illustrazione delle sostanze vegetali, animali, minerali utilizzate in campo medico; il testo, distribuito presumibilmente in cinque volumi, tocca oltre 800 sostanze, tra cui 583 piante, delle quali vengono forniti la denominazione, se possibile la distribuzione geografica, una breve descrizione della parte utilizzata, il procedimento di raccolta, preparazione, somministrazione, le indicazioni terapeutiche e la posologia. Dioscoride aveva a lungo viaggiato e nella sua opera confluiscono le conoscenze degli autori che lo avevano preceduto, la sapienza popolare e le sue stesse esperienze come medico-erborista. Polemizzando con i contemporanei che esponevano le sostanze in ordine alfabetico, adotta per il suo trattato un ordine logico, difficile da cogliere per noi, ma che doveva basarsi sulle loro proprietà mediche. Il primo libro tratta le sostanze aromatiche e oleose; il secondo gli animali, i cereali, le erbe orticole e piccanti; il terzo radici, succhi, erbe e semi usati come cibo o medicamento; il quarto i narcotici e i veleni; il quinto i vini e le sostanze minerali. Il focus è sull'uso medico; le descrizioni quindi sono essenziali e, presumibilmente, non erano accompagnate da illustrazioni. Una sintesi delle poche informazioni biografiche pervenuteci su Dioscoride nella biografia. Seconda vita: il Dioscoride greco Soprattutto nella parte orientale dell'impero, l'opera di Dioscoride si afferma come testo di riferimento; lo attestano le citazioni in altri autori, come Galeno, medico di M. Aurelio, e i relativamente numerosi manoscritti. Ma il successo vuol dire anche rimaneggiamenti. L'ordine scelto da Dioscoride rendeva l'opera difficile da consultare; nel IV secolo Oribase, medico dell'imperatore Giuliano, ne predispose un indice. Forse in Italia venne confezionato un estratto, che comprende una parte delle notizie sulle piante, riorganizzate in ordine alfabetico. Accompagnato da miniature che ritraevano le piante, questo Erbario alfabetico è la fonte di due spettacolari codici: il Dioscoride di Vienna e il Dioscoride napoletano. Il Dioscoride di Vienna è considerato da molti il più bel manoscritto antico a noi pervenuto; fu donato alla principessa bizantina Anicia dal popolo di Costantinopoli verso il 512-513; è il più antico erbario figurato della cultura occidentale, con 383 disegni di piante. Dopo complesse vicende, fu acquistato e portato a Vienna dall'ambasciatore imperiale a Costantinopoli, Ogier Ghiselin de Busbecq. Il Dioscoride di Napoli, più recente ma dipendente dallo stesso archetipo (ovvero dal medesimo manoscritto precedente, oggi perduto), comprende 170 pagine illustrate. E' stato recentemente oggetto di una importante pubblicazione a cura dell'Università di Napoli e della casa editrice Aboca. Molti materiali nel sito della Biblioteca nazionale di Napoli. Entrambe sono opere spettacolari, più pensate come oggetti di lusso che come libri di studio o consultazione, in cui le illustrazioni prevalgono sul testo. Terza vita: il Dioscoride latino Anche nella parte occidentale dell'impero, l'opera di Dioscoride circolò dapprima nella versione greca; tuttavia nella tarda antichità incominciarono ad esserne tratte traduzioni in latino; ce ne sono pervenuti alcuni manoscritti, risalenti al VII-X secolo (senza figure). Ma anche in Occidente abbondano i rimaneggiamenti. Uno dei più antichi è il Liber medicinae ex herbis foemininis, un testo anonimo forse del III secolo, che estrae la descrizione di una settantina di piante, accompagnate da illustrazioni. Intorno al XII secolo, forse in connessione con la scuola di Salerno, viene approntata una versione in ordine alfabetico (Dioscorides alfabeticus), che interpola all'opera di Dioscoride notizie tratte da molte altre fonti. Questa edizione diventerà quella più diffusa (non ci sono manoscritti della vecchia traduzione latina posteriori al X secolo) e sarà glossata intorno al 1300 da Pietro da Abano. La versione glossata da Pietro sarà anche il primo Dioscoride stampato (nel 1478 da Medemblik, a Colle Val d'Elsa). Citato anche da Dante, nel Medioevo dunque Dioscoride è conosciuto attraverso questa versione spuria ed ampiamente citato - o meglio copiato - nelle enciclopedie come lo Speculum naturae di Vincenzo da Beauvais, nei manuali medici e nei ricettari farmaceutici. Le miniature che accompagnano i manoscritti medioevali sono spesso di grande qualità artistica, ma molto fantasiose. Quarta vita: il Dioscoride arabo Anche più vitale si rivelava intanto Dioscoride in un'altra area, quella dell'Oriente islamizzato. Il testo è trasmesso attraverso una complessa trafila di traduzioni, dal greco al siriano, dal siriano all'arabo, dall'arabo al persiano. Anche nel mondo islamico abbondano le opere più o meno rimaneggiate, tra cui erbari con illustrazioni non molto più attendibili di quelle occidentali. Ma Dioscoride è anche un autore di prestigio, che ispira molte opere originali in campo medico, a partire dal IX secolo. Tutti i grandi nomi della medicina araba gli pagano un debito. Ad esempio, per limitarci a un nome noto anche in Occidente, Ibn Sina (da noi chiamato Avicenna) trae da De Materia medica gran parte del capitolo sui semplici del suo Canone di medicina. Quinta vita: il Rinascimento E' stato sostenuto che il Rinascimento non aveva bisogno di riscoprire Dioscoride perché non era mai stato dimenticato. Ma, come abbiamo visto, quello che circolava nel Medioevo occidentale era un Dioscoride di seconda o terza mano. Era ora di tornare al testo autentico: come diceva Leonhardt Fuchs, perché bere l'acqua inquinata quando si può attingere alla fonte? Due generazioni di studiosi sono impegnate a ritrovare il vero De Materia medica liberandolo dalle parti spurie. La prima è rappresentata dai filologi come Ermolao Barbaro che nel 1481 predispone una nuova traduzione partendo dal testo greco, corredata di un commento; pubblicata molto più tardi, sarà seguita nel secondo decennio del Cinquecento da nuove traduzioni come quella di Ruel in Francia o di Marcello Adriani in Italia. La seconda, dopo il 1530, è quella dei medici e dei naturalisti, che intendono tornare a Dioscoride per rivitalizzare la pratica medica e lo studio delle piante. De materia medica diventa un testo canonico dell'insegnamento della medicina e tutto il gotha della medicina (e della botanica, che al tempo erano la stessa cosa) del '500 tiene lectiones su Dioscoride: tra gli altri, Francesco Frigimelica, Gabriele Falloppio, Ulisse Aldrovandi, Luca Ghini in Italia; Guillaume Rondelet in Francia; Valerius Cordus in Germania; Caspar Bauhin in Svizzera. Il culmine di questo filone sono probabilmente i Commentari a Dioscoride di Pietro Andrea Mattioli (1544). Vista l'importanza assunta da Dioscoride nella formazione dei futuri medici, l'obiettivo fondamentale dei medici-botanici della generazione di Fuchs è identificare correttamente, descrivere e classificare le specie trattate dal medico greco, mentre cresce l'interesse per le piante in sé, non solo per il loro uso farmaceutico. Su questa via, anche se Dioscoride è ancora un punto di riferimento, incominciano ad emergerne i limiti in modo sempre più clamoroso: i botanici tedeschi o olandesi hanno molta difficoltà a ritrovare la flora dell'Europa centro-settentrionale in un manuale di farmacologia nato nel Mediterraneo orientale; non parliamo poi delle nuove piante che arrivano grazie alle scoperte geografiche. Brasavola (1500-55) dirà esplicitamente che Dioscoride avrà forse descritto l'1 per cento delle piante del pianeta (era molto, molto ottimista!); Monardes si chiederà retoricamente come avrebbe potuto conoscere le piante del Nuovo Mondo. Ma, prima di finire definitivamente nello scaffale dei classici, ancora all'inizio del Settecento, quando ormai la strada maestra della botanica passa attraverso le ricognizioni sul campo, Dioscoride ha ancora un sussulto: tra il 1701 e il 1702, Joseph Pitton de Tournefort parte appositamente alla volta del Levante per una spedizione sulle sue orme, allo scopo di identificare correttamente le piante descritte nel De Materia medica (ne identificherà circa 400, intorno al 45%); ancora alla fine del secolo, John Sibthorp riprenderà la ricerca con due spedizioni botaniche il cui frutto sarà uno dei capolavori della botanica di primo Ottocento, la Flora Graeca (1806-40). Finalmente, la Dioscorea Sarebbe strano se un personaggio di tale importanza nella storia della botanica non fosse celebrato da un nome di genere. Infatti, ci pensò il solito Plumier, che gli dedicò il genere Dioscorea, confermato poi da Linneo. E' un genere molto importante, tanto che le specie di uso alimentare sono ben note con il nome volgare igname. Detta anche yam, è una pianta alimentare essenziale per la sopravvivenza di oltre 100 milioni di persone, la cui coltura occupa 5 milioni di ettari in 47 paesi dell fascia tropicale e subtropicale. Ricco di carboidrati e povero di proteine, secondo B. Laws (autore di 50 piante che hanno cambiato il corso della storia) il suo consumo è tuttavia anche una delle concause della sottoalimentazione dei paesi più poveri del mondo. Dal punto di vista botanico, Dioscorea è un grande genere con oltre 600 specie (alcune delle quali di uso ornamentale), che ha anche dato il proprio nome alla famiglia delle Dioscoreaceae. Come sempre, altri approfondimenti nella scheda. Chi è l'autore di un'opera a cui hanno messo mano decine di persone? Chi l'ha concepita? Chi ne ha dettato il testo? Chi l'ha scritta materialmente? Chi l'ha rivista? Chi ne ha curato l'editing e la stampa? Ripercorrendo la storia di un eccezionale testo botanico di fine Seicento, l'Hortus Malabaricus, probabilmente non troveremo la risposta, ma conosceremo indiani, portoghesi, olandesi che lavorano insieme alla prima opera etno-botanica della storia. Molti avrebbero meritato di dare il proprio nome a un genere, ma alla fine ci sono riusciti solo in tre, e più fortunati sono stati gli ultimi arrivati, i Commelin, che hanno dato il loro nome al notissimo genere Commelina. Prima tappa: 1670-1675, Cochin, Malabar Nel 1602 a Amsterdam viene fondata la Compagnia olandese delle Indie Orientali (Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, meglio nota con la sigla VOC); per circa 150 anni - fino all'affermazione dell'Inghilterra come superpotenza coloniale - essa avrà il monopolio del commercio delle spezie lungo le rotte che collegano l'Europa al Capo di Buona Speranza, all'India e all'Indonesia. Nei luoghi strategici vengono creati avamposti commerciali, che sono allo stesso tempo porti, empori e fortezze. Uno di essi è Cochin, sulla costa indiana del Malabar, strappato nel 1663 ai Portoghesi. A differenza di questi ultimi, che avevano cercato di imporre la religione cattolica, gli olandesi calvinisti si dimostrano molto più tolleranti. Anche i rapporti con il sovrano del Malabar (detto Samoothirippadu, che nelle lingue occidentale diventa Zamorin) sono relativamente positivi. E' in questo contesto che Hendrik van Rheede, governatore del Malabar olandese tra 1670 e il 1677, progetta un'opera senza precedenti: esplorare e catalogare l'intera flora locale, allo scopo fondamentale di individuare piante medicinali utili contro le malattie tropicali. L'aspetto più originale, che sicuramente contribuisce alla riuscita del progetto, è il coinvolgimento dell'intellighenzia locale; l'opera è affidata a un'équipe di 15-16 persone che comprende medici e studiosi indiani, capeggiati dal medico ayurvedico Itty Achudan; un disegnatore, il frate carmelitano Johannis Mathei, noto come padre Matteo; traduttori dalla lingua locale (il malayam) al portoghese, dal portoghese all'olandese e infine dall'olandese al latino (lingua della redazione finale). Essenziale - per assicurare i contatti con l'équipe indiana e permettere il lavoro di raccolta degli esemplari - è anche la benevola assistenza del re di Cochin e dello Zamorin di Calcutta. Per due anni, il territorio viene accuratamente esplorato da un centinaio di raccoglitori; ciascun esemplare è portato a Cochin e accuratamente disegnato da padre Matteo; quindi Achudan detta in malayan la descrizione della pianta, corredata di note mediche e etnografiche (spesso tratte da manoscritti su foglie di palma, tramandati di generazione in generazione nella sua famiglia di medici); il suo lavoro è discusso con gli altri membri dell'équipe e validato dalla supervisione di tre medici-bramini. Alla fine, vengono catalogate e descritte circa 800 piante; gli esemplari, inseriti in fogli di carta corredati con i nomi in malayam, latino, olandese e altre lingue e accompagnati dai disegni e dalle descrizioni vengono quindi spediti a Amsterdam, per essere trasformati in un'opera a stampa. Seconda tappa: 1678-1703, Amsterdam, Paesi Bassi Prima che il materiale così raccolto sia pubblicabile occorre ancora molto lavoro e il coinvolgimento di molte altre persone (medici, botanici, incisori, tipografi...). L'intero testo deve essere rivisto da botanici e medici europei; bisogna realizzare le tavole calcografiche e curare la stampa; insomma per completare l'opera, che alla fine comprenderà 12 volumi di circa 200 pagine ciascuno, in folio, con 794 calcografie (712 delle quali a doppia pagina), saranno necessari altri venticinque anni; il primo volume esce nel 1678, l'ultimo nel 1703. Van Reede nel 1678 rientra ad Amsterdam e affida la redazione dell'opera, iniziata in India dal suo collaboratore, il pastore Johannes Casearius, a Arnold Seyen, professore di medicina a botanica a Leida. Poco dopo la pubblicazione del primo volume, questi però muore. Il principale curatore dell'opera a questo punto diventa il botanico dilettante Jan Commelin che, in collaborazione con diversi studiosi, redigerà i volumi 2-11 e parzialmente il volume 12. Saranno 25 anni di lavoro che si interromperà solo con la morte. Il poco che ancora rimane sarà portato a termine dal nipote, Caspar Commelin, che redigerà anche un indice plurilingue delle specie citate. Jan Commelin era un mercante di prodotti farmaceutici che, grazie al successo commerciale, aveva fatto carriera fino a diventare borgomastro della città di Amsterdam; appassionato di botanica, gli era stata affidata la direzione dell'Hortus medicus della capitale olandese quindi la sovrintendenza di tutte le aree verdi della città. Il nipote era un medico e botanico che, in un certo senso, aveva "ereditato" dallo zio la carica di direttore dell'Hortus medicus, ne terminò le opere e insegnò medicina e botanica all'Università di Amsterdam. Altre notizie sui due botanici olandesi nella sezione biografie. Linneo consultò e apprezzò il grande libro sulla flora del Malabar: anzi arrivò ad affermare che a suo parere le uniche descrizioni affidabili era quelle dell'Hortus Elthamensis di Dillenius, del Nova plantarum americanarum genera di Plumier e dell'Hortus malabaricus di van Reede; anzi queste ultime erano le più accurate delle tre. Non stupisce quindi che nell'assegnare il nome a piante del subcontinente egli abbia ripreso molti nomi dell'Hortus malabaricus; K. S. Manilal, studioso e curatore delle edizioni moderne inglese e malayan dell'opera ha calcolato che Linneo ha riutilizzato 258 nomi malayan. Fonte: B. Dharmapalan, Hortus Malabaricus, Celebrating a Tricentennal of a Botanic Epic, http://nopr.niscair.res.in/bitstream/123456789/14856/1/SR%2049(10)%2026-28.pdf Casearia, ovvero amici filosofi Tra i tanti personaggi che abbiamo incontrato in questa storia, cinque hanno avuto l'onore di dare il loro nome a un genere. Nella lotteria del Who's who della botanica, l'assegnazione non sempre corrisponde però ai meriti. L'ideatore (che viene sempre citato come "autore" dell'opera, di cui probabilmente non ha scritto una riga), Hendrik van Rheede si è visto assegnare Rheedia, un genere di alberi tropicali della famiglia delle Clusiacaee oggi non più accettato (è sinonimo di Garcinia); ha dato anche il nome specifico a Entada rheedi, una Fabacaea di origine africana dagli enormi baccelli. Ugualmente sfortunato Itty Achudan; nell'Ottocento Carl Ludwig Blume - un botanico olandese di origine tedesca che aveva lavorato a lungo nell'Asia olandese - gli dedicò il genere Achudemia, che tuttavia oggi è considerato una sezione del genere Pilea (Urticacaee). Più fortunato nella memoria postuma Johannes Casearius, il giovane pastore al quale van Rheede aveva affidato la versione latina dell'opera. Ma sfortunatissimo nella vita reale: la morte precoce gli impedì di andare oltre il secondo volume. Il suo contributo avrebbe potuto essere ben più importante, visto che gli si deve anche la stesura del disegno generale, esposto nella prefazione. Giovanissimo studente di teologia a Leida (all'epoca doveva essere sui diciotto anni) gli era capitata la ventura di condividere l'abitazione con Spinoza; il filosofo prese a esporgli gli elementi essenziali della filosofia di Descartes, che più tardi pubblicò nella sua unica opera edita in vita, I principi della filosofia di Cartesio (1663). In una lettera ad un altro membro del suo circolo, Simon de Vries, lo invita a non essere geloso di Casearius e della sua intimità con lui; dice anzi di odiarlo per il suo infantilismo e la sua superficialità, ma di amarlo per il suo talento, che fa bene sperare per il futuro. Casearius frequentò ancora Spinoza per qualche tempo; poi, dopo aver completato gli studi di teologia a Leida e Utrecht, divenne pastore ad Amsterdam e si sposò. Nel 1668 come pastore della VOC fu inviato a Cochin e collaborò con van Rheede all'edizione latina di Hortus Malabaricus fino al 1677, quando morì di dissenteria a poco più di trent'anni. Memore del suo contributo, il botanico austriaco von Jacquin volle dedicargli Casearia, un importante genere di alberi tropicali della famiglia Salicaceae (un tempo Flacourtiaceae). Ampiamente distribuito nella fascia tropicale e subtropicale di America, Asia, Africa e isole del Pacifico, comprende 180-200 specie di arbusti o alberi, alcuni dei quali di notevoli dimensioni. Come altre piante di questa famiglia, contengono principi attivi e alcune specie sono state ampiamente utilizzate nella medicina popolare in America e in Asia, in particolare come antisettici, cicatrizzanti e anestetici. Ad esempio, C. sylvestris, un grande arbusto nativo delle Antille, dell'America centrale e della parte settentrionale di quella meridionale, dove è noto con vari nomi, tra cui il brasiliano guacatonga, ha una lunga storia di usi medicinali in tutti i paesi in cui vive: la sua corteccia e le sue foglie sono state usate per combattere le ulcere, i morsi di insetti, addirittura le piaghe della lebbra. C. decandra, un alberello deciduo diffuso dai Caraibi al Brasile, ha invece frutti eduli, che vengono raccolti in natura e consumati a livello locale. Ugualmente eduli sono i frutti della sudamericana C. rupestris, un albero molto ornamentale delle foreste semidecidue, con una elegante chioma piramidale. Qualche approfondimento nella scheda. Chi sono i petali di Commelina? Ma il genere più noto e familiare è indubbiamente toccato agli ultimi venuti, ovvero ai due Commelin, zio e nipote, che sono per altro anche i più illustri nella storia della botanica come fondatori dell'Orto botanico di Amsterdam. Già Plumier nel 1703 dedicò loro il genere Commelina (famiglia Commelinacae), celebrandoli come autori di un'altra opera comune ai due, il catalogo dell'Hortus medicus di Amsterdam. Probabilmente l'assegnazione si basa sul fatto che il fiore della specie da lui descritta (si tratta presumibilmente di Commelina erecta) in apparenza ha due soli petali, ciascuno dei quali rappresenta uno dei due botanici olandesi. Linneo - che usò come specie di riferimento Commelina communis - confermerà l'omaggio, ma con una precisazione: questa pianta può bene rappresentare i Commelin, perché ha due petali vistosi, mentre il terzo è insignificante; i primi due stanno per due illustri botanici (Jan e Caspar), mentre il terzo per un altro Commelin (Caspar il giovane, morto a trent'anni) a cui la morte non ha permesso di fare nulla. Il genere Commelina è diffuso in tutta l'area tropicale e subtropicale, comprende circa 170 specie e ha dato il proprio nome alla famiglia delle Commelinacaee. Per altre notizie, si rimanda alla scheda. Nel Cinquecento nel curriculum di ogni futuro medico c'era l'accurato studio dei testi di medicina e farmacologia ereditati dall'antichità, che di ogni pianta indicavano le virtù e gli usi. Ma come essere certi che a un dato nome greco o latino corrispondesse davvero la pianta giusta, conosciuta con infiniti nomi volgari? Fuchs risolve il problema con una trovata degna dell'uovo di Colombo; e si guadagna per sempre la riconoscenza dei botanici e il nome di uno dei generi più amati, una vera superstar del giardinaggio: la Fuchsia. Piante ritratte dal vero La conoscenza delle piante era essenziale per la medicina; infatti da esse - i semplici, come venivano chiamate - veniva ricavata la maggior parte dei medicamenti. Dunque non solo era importante conoscerne le diverse virtù medicamentose, ma bisognava distinguerle con sicurezza. Tuttavia le confusioni erano all'ordine del giorno: la stessa pianta veniva chiamata con nomi diversi nelle varie regioni e anche la più accurata delle descrizioni era spesso insufficiente per un riconoscimento sicuro; impossibile poi usare i "sacri testi" della medicina classica ignorando a quale pianta reale corrispondessero i nomi greci e latini di Dioscoride piuttosto che Plinio. Il medico e botanico tedesco Leonhardt Fuchs risolve il problema in modo semplice e geniale: accompagnare le descrizioni delle piante e i loro nomi nelle varie lingue con illustrazioni dal vero, dettagliate ed affidabili. Già prima gli herbaria (cioè i libri di descrizioni di piante e delle loro proprietà medico-farmacologiche) erano spesso illustrati; ma le illustrazioni era irrealistiche, grossolane, spesso ricavate dalle descrizioni stesse, quindi creavano più dubbi di quanti non ne risolvessero. La novità del libro di Fuchs De historia stirpium commentarii insignes ("Notevoli commenti sulla storia delle piante"), pubblicato nel 1542, consiste sostanzialmente nella qualità delle illustrazioni delle piante, per la prima volta ritratte dal vero con grande precisione; per la loro realizzazione il botanico diresse una piccola équipe di artisti: il pittore Albrecht Meyer disegnava le piante dal vero, ritraendone i particolari nelle diverse stagioni; il copiatore Heinrich Füllmaurer trasferiva i disegni su tavole di legno; l'incisore Vitus Adelphus Spreckle incideva le matrici e colorava le incisioni ad acquarello (il libro era stampato in bianco e nero, ma in alcuni esemplari, più costosi, le xilografie erano successivamente colorate a mano). Per la prima volta nella storia del libro, i nomi degli artisti che avevano collaborato alla realizzazione dell'opera è riportato del testo, in cui sono presenti anche i loro ritratti. L'eccezionale qualità delle illustrazioni di De historia stirpium è frutto di tre circostanze: il perfezionamento dell'arte della stampa, che ormai permetteva di stampare da matrici di legno (xilografia) con incisioni di notevole qualità e finezza; l'ideale del naturalismo, diffuso dal Rinascimento, che propugnava una riscoperta diretta della natura, da studiare di per se stessa e non come specchio del creatore; l'esigenza pratica di dotare gli studenti di medicina e i medici praticanti di uno strumento efficace. In effetti, Fuchs era un medico rinomato e un professore universitario. Le tavole del testo di Fuchs sono importanti nella storia dell'illustrazione botanica, perché in qualche modo ne fissano le convenzioni che - con minime modificazioni - rimarranno invariate per secoli: la pianta viene disegnata intera, con tanto di radici, nel momento del suo massimo rigoglio, completa di fiori in boccio, fiori sbocciati, frutti. Esse in effetti costituirono un modello, molto imitato quando non semplicemente riprodotto con vere operazioni di pirateria editoriale. A oltre due secoli dalla loro realizzazione, saranno ancora utilizzate nel 1774 in un'opera di Salomon Schinz. Un peperoncino latino L'opera è meno innovativa per i contenuti. Fuchs - anche se dichiarava di partire dalle proprie esperienze di medico e da conoscenze dirette - per la descrizione delle piante note e delle loro proprietà si rifaceva ai testi classici; del resto, una delle sue aspirazioni era che gli studenti e i medici potessero identificare con certezza le piante descritte dagli antichi, in primo luogo Dioscoride. Su questa strada commise anche errori, ad esempio identificando piante tedesche con piante mediterranee, che semplicemente non conosceva. Il libro descrive 497 piante, accompagnate da 517 illustrazioni e ordinate in ordine alfabetico sulla base del nome greco. Ogni voce ha una struttura ricorrente da cui ben si può notare il carattere prescientifico dell'opera:
Tra le circa cento piante descritte per la prima volta, De historia stirpium contiene anche la più antica descrizione di alcune piante americane: il mais (chiamato Turcicum frumentum), quattro varietà di peperone o peperoncino, alcuni tipi di zucche, un fagiolo americano, una specie di Tagetes. E' curioso che anche in questo caso Fuchs assimili queste piante a specie descritte dagli autori classici e non sembri conoscerne la provenienza: le zucche e il fagiolo americano sono semplicemente inseriti nei generi corrispondenti del vecchio mondo, il Tagetes (chiamato già con il nome latino Tagetes indica) è assimilato a una specie di Artemisia (e il nome è collegato alla divinità etrusca Tages). Il caso più divertente è quello del peperoncino, identificato con una pianta descritta da Plinio con il nome siliquastrum, grazie al fatto che la bacca è grande (siliquastrum significa letteralmente 'con un grande baccello'). Quanto al mais, Fuchs deve rassegnarsi ad ammettere che gli antichi non lo conoscevano (è descritto nell'ultima parte del volume, dove egli elenca le specie prive di nome greco), ma pensa che arrivi dalla Grecia, ai suoi tempi sottomessa dai turchi (donde il nome Turcicum frumentum, il nostro granoturco). Pur con questi limiti, il testo è un caposaldo della nascente botanica e ottenne un immediato successo, tanto che già l'anno successivo l'autore ne predispose un'edizione ridotta (quindi più maneggevole e meno costosa) in lingua tedesca, Neue Kreüterbuch (1543). Di entrambe le versioni e delle traduzioni che ne vennero ricavate in olandese, francese, tedesco, spagnolo uscirono ben 39 edizioni nel corso della vita di Fuchs (che morì nel 1566). Quanto alle incisioni, furono largamente riprodotte e plagiate per almeno duecento anni. Approfondimenti sulla vita di Fuchs nella sezione biografie. Un fiore rosa fucsia Un personaggio del calibro di Fuchs non poteva essere ignorato dal buon padre Plumier, che nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) aveva celebrato i big della botanica dedicando loro molte delle nuove piante scoperte nei suoi viaggi nelle Antille. Anzi, bisognava scegliere una pianta degna di tanto personaggio. La sua scelta cadde sulla magnifica Fuchsia triphylla flore coccineo (oggi Fuchsia triphylla). Intorno al 1788 le prime fucsie arriveranno nei giardini inglesi; e sarà fuchsiomania, che da allora non è mai cessata. Per altre notizie sul genere Fuchsia, si rimanda come sempre alla scheda. Il vecchio Fuchs ha avuto anche l'onore di battezzare un giovanissimo colore: nel 1859 il chimico francese François-Emmanuel Verguin produsse sinteticamente una nuova anilina che chiamò fuchsina; anche se poco dopo il nome fu cambiato in magenta, per celebrare la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, il color fucsia è rimasto; e come la pianta da cui prende il nome, è amatissimo, soprattutto dalle ragazzine. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
September 2024
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