Le vie della botanica sono infinite. Per una curiosa combinazione il dottissimo Jan Bode, alla latina Stapelius, mentre sta curando la sua monumentale edizione bilingue di Teofrasto, riceve le note e i disegni di alcune piante raccolte in Sud Africa dal fratello di un amico. Decide di includere anche quelle: saranno le prime piante sudafricane mai comparse in un testo a stampa. Se ne ricorderà Linneo, dedicandogli il genere Stapelia. ![]() Teofrasto, ovvero una botanica per botanici Grazie alla pubblicazione a stampa della traduzione di Gaza e dell'originale greco, le opere botaniche di Teofrasto entrarono tra i testi canonici. Tuttavia non furono mai popolari come De materia medica di Dioscoride; mentre il testo dioscorideo forniva il nome e i contenuti alla botanica applicata (materia medica) insegnata ai futuri medici, diveniva il libro di testo obbligato di tutte le facoltà di medicina europee, era chiosato e commentato da decine di studiosi, De historia plantarum e (anche di più) De causis plantarum erano più riveriti e citati di terza mano che letti e conosciuti. La ragione è proprio quella che oggi ce li fa apprezzare: l'interesse di Teofrasto per la morfologia e la fisiologia delle piante non li rendeva immediatamente fruibili per gli studenti di medicina. Nel Cinquecento si conosce un solo esempio di corso universitario focalizzato su Teofrasto: quello tenuto a Bologna nel 1560 da Ulisse Aldrovandi, quando però insegnava filosofia; quando due anni dopo passò a insegnare materia medica, ripiegò anche lui su Dioscoride. A leggere Teofrasto e a trarne stimolo per le proprie ricerche erano i pochi studiosi che coltivavano la botanica come scienza in sè, non come ancella della medicina com'era ancora prevalentemente considerata. Insomma, erano testi di botanica per botanici. Non a caso tra i loro estimatori troviamo in primo luogo Cesalpino (che tentò una classificazione delle piante su basi aristoteliche), Rondelet, che gettò le basi della scuola botanica francese (caratterizzata da una spiccata vocazione tassonomica) e i Bauhin. I pochi lavori cinquecenteschi direttamente dedicati a Teofrasto, più che di botanici, furono opera di filologi, che discettavano di problemi di critica testuale e criticavano la traduzione troppo libera di Gaza. Bisogna quindi attendere il Seicento perché uno studioso che era allo stesso tempo un medico, un filologo e un botanico si accingesse a fare per Teofrasto quello che Mattioli aveva fatto con i suoi Commentarii per Dioscoride. ![]() Un'edizione monumentale A tentare l'impresa fu un giovane medico di Amsterdam, Jan Bode à Stapel o van Stapel (di solito è noto con il nome latinizzato Johannes Badaeus Stapelius). Coltissimo, dotato di una profonda conoscenza delle lingue classiche, si propose di curare un'edizione completissima delle due opere di Teofrasto: in primo luogo, il testo greco messo a confronto con la traduzione latina di Gaza, su due colonne affiancate; a margine, le notazioni filologiche e testuali; a seguire, per ogni capitolo, le note di alcuni commentatori che lo avevano preceduto (Giulio Cesare Scaligero, Robert Constantin, Claudius Salmasius); infine i commenti di sua mano. L'interesse di quest'opera non è solo filologico. Profondo conoscitore delle piante (lui e suo padre possedevano un giardino ricco di piante esotiche), Stapelius infarcì i suoi commenti di informazioni di ogni genere sul mondo vegetale, comprese notizie sulle piante che giungevano dall'Asia e dal Nuovo mondo (sono per lo più di seconda mano, attinte da opere di altri botanici, in particolare Clusius e l'Obel). Volle inoltre arricchire la sua opera con numerose xilografie; anche se poche sono originali, si tratta in ogni caso della prima edizione illustrata di Teofrasto. Stapelius, che iniziò a lavorare all'opera intorno al 1625, subito dopo essersi laureato, morì nel 1636, a poco più di trent'anni; riuscì quindi solo affrontare solo la prima opera di Teofrasto, De Historia Plantarum. Qualche notizia sulla sua breve vita nella sezione biografie. Il padre, Engelbert Stapel, a sua volta medico di fama, completò il lavoro del figlio e lo pubblicò nel 1644, dopo altri otto anni di lavoro. Questa edizione monumentale (è uno splendido in folio di oltre 1200 pagine), molto accurata anche nella veste tipografica, riserva ancora una piccola sorpresa: quattro pagine sono dedicate alle primissime specie sudafricane mai descritte dalla scienza. Nel 1624, un missionario olandese, Justus Heurnius, mentre la sua nave, diretta a Giava, faceva rifornimento al Capo di Buona Speranza, ne approfittò per disegnare e descrivere alcune piante. Inviò questi materiali in Olanda a suo fratello Otto, amico e compagno di studi di Stapelius, a cui li passò; Stapelius colse a volo l'occasione, includendo disegni e descrizioni nella sua opera. ![]() Quella strana fritillaria... la chiamerò Stapelia Torneremo sulla storia di Heurnius, anche lui dedicatario di un genere. Per ora rimaniamo in compagnia di Stapelius e della pianta che lo celebra. Linneo era un grande ammiratore del suo commento, di cui apprezzava la competenza e la chiarezza espositiva. Non gli sfuggirono quelle quattro pagine che contenevano una preziosa primizia della flora sudafricana e scelse proprio una di quelle nuove piante per onorare lo studioso olandese, ribattezzando Stapelia quella che Heurnius aveva denominato Fritillaria crassa caput Bone Spei ("Fritillaria grassa del Capo di Buona Speranza"). In Species Plantarum, 1753, Linneo pubblicò due specie di Stapeliae: S. variegata (che è appunto la "fritillaria crassa" di Heurnius) e S. hirsuta; oggi la prima è stata trasferita a un altro genere e si chiama Orbea variegata. Ma il vero "padre delle stapelie" può essere considerato il botanico scozzese Francis Masson, che esplorò il Sud Africa da solo e insieme a Thunberg, uno dei più importanti allievi di Linneo, e poi visse per qualche anno nella Colonia del Capo, coltivando un giardino di acclimatazione. Egli aveva una vera passione per queste piante, cui dedicò il suo unico libro, Stapeliae novae, la prima monografia sul genere Stapelia (1796), in cui ne descrisse una quarantina; diede anche un grande contributo alla loro introduzione in Europa, dove iniziarono ad essere molto apprezzate dai collezionisti. A partire dall'Ottocento, diverse specie vennero trasferite in altri generi, i più noti dei quali sono Duvalia, Huernia, Caralluma, Hoodia. Oggi ammontano a una quarantina, raccolti nella sottotribù Stapeliinae; gli inglesi, con il loro senso pratico, chiamano tutto il gruppo Stapeliad. Il genere Stapelia comprende una cinquantina di specie di succulente degli ambienti aridi dell'Africa tropicale e australe (Angola, Mozambico, Malawi, Tanzania, Bostwana, Zimbawe, ma soprattutto Namibia e Sud Africa, dove si concentra la maggior parte delle specie). Appartenenti alla famiglia Apocynaceae (un tempo Asclepiadaceae), sono note soprattutto per i curiosi fiori a forma di stella che emanano odore di carogna. Questo odore, avvertibile in alcune specie anche a una certa distanza, è una strategia per attirare gli impollinatori, che sono soprattutto mosche carnarie; allo stesso fine mirano i peli, i colori e la tessitura dei petali che mimano un animale in decomposizione. Ma ci sono anche rare eccezioni: S. erectiflora e S. flavopurpurea sono gradevolmente profumate. Nonostante questa proprietà poco edificante, le Stapeliae sono ricercatissime dai collezionisti di piante succulente. Altri due membri del gruppo rendono indirettamente omaggio a Stapelius: Stapelianthus ("con fiori simili alla Stapelia"), un piccolo genere endemico del Madagascar, con fiori minuti dalle forme varie e sorprendenti; Stapeliopsis ("con aspetto simile alla Stapelia"), un piccolo genere originario della Namibia e del Sud Africa, i cui piccoli fiori sono per lo più piacevolmente profumati di miele e frutta. Per approfondimenti su Stapelia, Stapelianthus, Stapeliopsis si rimanda alle rispettive schede.
0 Comments
Per volontà di un papa umanista e grazie alla traduzione di un rifugiato greco in fuga di fronte all'avanzata turca, le opere botaniche di Teofrasto escono dall'oblio. Al benemerito - anche se a volta fantasioso - traduttore, Teodoro Gaza, verrà più tardi (forse) dedicato un tesoro vegetale: la prorompente Gazania. ![]() Una traduzione libera, ma meritoria Condividendo il destino di Omero e Platone, nell'Occidente medievale Teofrasto fu completamente dimenticato. I più informati sapevano che si era occupato anche di botanica, e qualcuno pensava avesse scritto De Plantis, un trattatello comunemente attribuito a Aristotele (oggi si ritiene sia stato scritto da un altro peripatetico molto più tardo, Nicola di Damasco, vissuto nel I sec. a. C.). La situazione iniziò a cambiare nel Quattrocento, quando gli umanisti riscoprirono la cultura greca. Nel 1423 Giovanni Aurispa, che fu anche tra i primi a insegnare il greco, ritornò da un viaggio a Costantinopoli con 238 volumi di testi greci. Tra di essi c'era anche un manoscritto con De historia plantarum e De causis plantarum di Teofrasto. A metà secolo, una copia del manoscritto si trovava nella biblioteca papale. Sul soglio pontifico sedeva un papa umanista, Niccolò V, che creò una vasta raccolta di codici di autori classici (ne contava 1200 al momento della sua morte), primo nucleo della futura Biblioteca apostolica vaticana. Poiché all'epoca lo studio del greco era appena agli inizi, il papa varò un vasto programma di traduzioni incaricando numerosi studiosi di tradurre integralmente dal greco in latino significative opere greche, sia pagane sia cristiane. In questo contesto, nel 1449 alla corte pontificia approdò Teodoro Gaza, un sapiente greco che oggi definiremmo un rifugiato. Nativo di Salonicco, nel 1440 era giunto in Italia per sfuggire all'avanzata turca (com'è noto, la caduta di Costantinopoli avverrà qualche anno dopo, nel 1453). Di lingua madre greca, aveva appreso il latino e aveva anche una certa cultura scientifica, avendo seguito studi di medicina presso lo Studio ferrarese. Autore fra l'altro di una grammatica greca, era un umanista molto noto e apprezzato. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Teodoro si presentava come il candidato ideale per tradurre le opere scientifiche di Aristotele e della sua scuola. Il papa gli affidò dunque sia la traduzione delle due opere botaniche di Teofrasto, sia di quelle zoologiche di Aristotele (De historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium). Un lavoro molto complesso che impegnò il greco per almeno cinque anni e si protrasse anche dopo al morte di Niccolò V. Un aneddoto, probabilmente apocrifo, vuole che, insoddisfatto del misero pagamento ricevuto dal successore Callisto III, abbia gettato platealmente il compenso ricevuto nel Tevere. Il grande lavoro di traduzione iniziò proprio con le opere di Teofrasto: prima De historia plantarum (che risulta terminata all'inizio del 1451), quindi De causis plantarum. Delle difficoltà incontrate da Teodoro ci informa la lettera dedicataria premessa alla splendida edizione manoscritta approntata per il pontefice. In primo luogo, lo stile di Teofrasto è difficile di per sé: le sue opere non erano state pensate per la pubblicazione, erano piuttosto materiali di lavoro, continuamente rivisti, di cui il filosofo si serviva per i suoi corsi; ne risulta uno stile sintetico e ellittico. In secondo luogo, il manoscritto di cui servì Teodoro (l'unico di cui disponesse) era pesantemente corrotto. In terzo luogo, egli non era un esperto di piante e sia la terminologia botanica sia l'identificazione delle specie descritte ponevano molti problemi. Per risolverli, Teodoro studiò attentamente la Naturalis historia di Plinio, che a sua volta dipendeva in parte dalle opere di Teofrasto e ne attinse la terminologia, la chiave per l'identificazione delle specie, le informazioni per interpretare i passi corrotti o colmare le lacune. Dunque la sua traduzione, all'epoca molto ammirata anche per l'eleganza formale, è molto libera e in molti passi errata. In ogni caso, fu decisiva per rimettere in circolazione Teofrasto. Nel 1483 uscì la prima edizione a stampa della traduzione di Gaza, seguita tra il 1495 e il 1498 dalla prima edizione a stampa dell'originale greco, nell'ambito della grande edizione delle opere di Aristotele per i tipi di Aldo Manuzio. Teofrasto ritornava a circolare, nel momento più opportuno per fecondare la rinascita della botanica. ![]() Gazania, un tesoro vegetale Nel 1791 Joseph Gaertner, nella sua importante De Fructibus et Seminibus Plantarum (una delle prime opere in cui nello studio delle piante è stato usato estesamente il microscopio) riclassificò una specie sudafricana già nota a Linneo come Gorteria rigens, creando il nuovo genere Gazania. Poiché l'autore non lasciò spiegazioni, sull'etimologia del nome ci sono due scuole di pensiero: secondo alcuni deriva dal sostantivo greco gaza, che significa "tesoro reale"; secondo la maggioranza degli studiosi, è un omaggio al nostro Teodoro Gaza; Gaertner fu un grande tassonomista e un pioniere degli incroci e della genetica, ed è credibile che apprezzasse colui che riportò in auge Teofrasto. Ovviamente, mi schiero con la seconda ipotesi, che permette al blog di ospitare la bellissima Gazania, forse (insieme a Gerbera) il più noto tra i numerosi generi di margherite sudafricane. L'altra possibile etimologia ha lasciato però traccia nella lingua inglese, in cui la Gazania è chiamata anche treasure flower, probabilmente in riferimento all'esplosiva e prorompente fioritura di molte specie e forse anche ai caldi e brillanti colori. Gazania raggruppa erbacee annuali e perenni originarie dell'Africa australe, in particolare del Sud Africa; il numero delle specie è altamente incerto perché (la cosa non sarebbe piaciuta a Teodoro Gaza, ma avrebbe sommamente divertito Teofrasto) alcune specie sono così variabili da aver mandato in tilt generazioni e generazioni di tassonomisti. Chi fosse interessato a scoprire perché, troverà un approfondimento nella scheda. E' certo invece che, soprattutto sotto forma dei numerosissimi ibridi, è una delle più popolari piante da giardino, celebre per la facilità di coltivazione, la resistenza alla siccità, la prolungata fioritura. La gamma dei colori offerti è ricchissima: giallo, bronzo, arancio, rosa, salmone, rosso aranciato, bianco, talvolta con strisce e macchie di colore contrastante. Nessuna esigenza se non il sole; come il girasole, sono eliotropiche (il capolino si orienta seguendo il corso del sole) e i fiori si chiudono nelle giornate nuvolose e dopo il tramonto. C'è stata una botanica svedese prima di Linneo; e tra quei precursori, destinato a una fama postuma inaspettata, Olaus Bromelius, che ha donato il suo nome a un genere centro e sud americano di cui non ha mai visto neppure una spina, ma soprattutto all'intera, vasta, famiglia delle Bromeliaceae. ![]() Dedicato a Clori Tra le poche opere di autori svedesi che accesero la passione per la botanica del giovane Linneo, accanto al monumentale Campi Elysii dei due Rudbeck, si colloca Chloris gothica, seu catalogum stirpium circa Gothoburgum, che vanta il primato di essere la prima descrizione scientifica della flora di una provincia svedese. L'autore è il medico Olaf Bromel (più comunemente noto nella grafia latinizzata Olaus Bromelius), vissuto nella seconda metà del Seicento. Di pochi anni più giovane del primo Rudbeck, anche Bromelius studia medicina a Uppsala quindi in Olanda, dove, come altri medici-botanici svedesi tra Seicento e Settecento - Linneo compreso - consegue la laurea. Membro del collegio medico, insegnante di materia medica, sovrintendente delle farmacie di Stoccolma, nel 1676 è un professionista autorevole, tanto che è chiamato a far parte di una commissione di laici e religiosi incaricata dal re di esaminare alcuni casi di stregoneria. Anche se i lavori della commissione si conclusero con alcune condanne al rogo, si ritiene che proprio i suoi lavori e le sue indagini abbiano messo fine in Svezia alla stagione della caccia alle streghe. Gli scritti botanici di Bromelius risalgono però a un periodo successivo, quando viene nominato medico cittadino di Gotheborg e capo medico delle province di Elsborg e Bohuslan nella Svezia sud-occidentale. La sua prima opera sulle piante (1687) è un breve manuale destinato agli agricoltori, dal curioso titolo Lupulogia (contiene infatti anche parti dedicate alla coltivazione del luppolo). Dall'attenta esplorazione del distretto di Gothland nasce la sua opera più importante, appunto Chloris gotica (1694), che è un catalogo della flora della città e dei suoi dintorni. Un'opera di buon livello, tanto da essere conosciuta e apprezzata anche al di fuori della Svezia. Il titolo contiene una piccola civetteria: non Flora, la dea mediterranea delle fioriture, è chiamata a presiedere ai vegetali delle terre dei Goti, ma la sua compagna, la ninfa Clori, la verde. E' anche la prima opera in cui, accanto ai nomi latini, vengono usati i nomi svedesi delle piante. Come altri scienziati del tempo, Bromelius fu anche un collezionista che, nella sua personale Wunderkammer, raccolse monete, animali impagliati, piante e semi, minerali e fossili. Dopo di lui, la raccolta fu incrementata dal figlio Magnus (1679-1731, nobilitato con il nome di von Bromel), importante scienziato e padre della paleontologia svedese. Qualche notizia in più, tra le non molte che ci sono giunte su Olaus Bromelius, nella biografia. ![]() Bromeliae e Bromeliaceae L'opera di Bromelius era ben nota a Plumier che in Nova plantarum americanarum genera, lo celebra come "famosissimo dottore dell'arte medica, botanico peritissimo" e soprattutto come colui che "studiando e raccogliendo i fiori nei boschi e nei prati gotici, a prezzo di grandi fatiche, con la sua Chloris gothica ha coronato Flora stessa". Questi sperticati elogi accompagnano e giustificano la dedica di una delle piante da lui scoperte nelle Antille, con la creazione del nuovo genere Bromelia, che nel 1753 sarà confermato da Linneo. Una dedica importante, grazie alla quale lo studioso della flora della terra dei Goti diventa il padre eponimo di un'intera, importante famiglia di piante del nuovo mondo, di cui non vide né conobbe neppure un esemplare: le Bromeliaceae (Bromeliad in inglese, ma semplicemente bromelia in molte lingue, tanto per complicare la vita a chi fa ricerche in rete). E' la famiglia dell'ananas, della Tillandsia e di molte altre amatissime piante d'appartamento, dalla Guzmania alla Billbergia. Quanto al genere tipo, Bromelia, comprende una sessantina di specie, caratteristiche soprattutto delle aree aride, in un aerale che va dal Messico all'Argentina, passando per il Brasile, dove nella vasta savana del Cerrado trova la sua massima biodiversità con circa metà delle specie. Sebbene anche in Italia si stia diffondendo l'abitudine di chiamare sbrigativamente bromelia qualsiasi Bromeliacea, è improbabile che nelle vostre case ci sia una specie del genere Bromelia. Infatti non sono molto usate come piante ornamentali per le dimensioni in genere ragguardevoli e l'estrema spinosità delle foglie. Nel loro habitat naturale sono erbacee terrestri imponenti, con foglie spinose e infiorescenze con lunghe brattee colorate; alcune di esse (come la gigantesca B. sylvicola, una specie endemica del Mato Grosso che può raggiungere anche i tre metri) vengono utilizzate per racchiudere tra siepi vive impenetrabili i recinti di bestiame. Dalle foglie di diverse specie vengono ricavate fibre tessili, note con il nome di chaguar; anche i frutti eduli trovano impiego sia nella farmacopea tradizionale sia nella preparazione di bevande. Qualche approfondimento nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. ![]() Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). ![]() Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. ![]() Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. Nella seconda metà del Cinquecento, a Siviglia il medico Nicolas Monardes sperimenta i semplici che arrivano dalle Americhe e li coltiva nel suo giardino; è il primo a descriverli in un'opera scientifica dal lunghissimo titolo che ben presto diventa un bestseller, tradotto e letto in tutta Europa. Linneo gli dedicherà il genere Monarda, una soave labiata dalle foglie profumate e dai bellissimi fiori. Ma indirettamente, lo celebra anche Monardella. ![]() Un giardino americano in calle de las Sierpes Nel 1503 a Siviglia nasce la Casa de contractacion, l'organismo per il quale devono passare tutte le merci americane, sulle quali va versata un'imposta del 20% (il quinto real). La Casa è anche un luogo di studio e formazione scientifica, attraverso il quale scorre un incessante flusso di materiali, curiosità e notizie etnografiche che conquistadores e trafficanti riversano sulla madre patria. A Siviglia arrivano sempre più numerose anche le piante americane (inizialmente dalle isole, poi dalla Tierra Firme, com'è chiamato il territorio continentale attorno al golfo dei Caraibi, quindi dal Perù e dalla Florida) che, oltre a suscitare curiosità, vengono immediatamente rivestite di ogni possibile potere taumaturgico. Tra i sivigliani che si appassionano della flora del nuovo mondo, c'è anche Nicolas Monardes, un medico coltissimo, che appena può trasferirsi in una casa con un terreno coltivabile, trasforma la prima in un gabinetto di curiosità, la seconda in un giardino di acclimatazione delle specie del nuovo mondo. Prova a seminare tutti i semi che riesce a procurarsi: coltiva soprattutto le piante medicinali che usa nel suo lavoro, ma anche piante da frutto, come la guaiava, e qualche ornamentale, come la hierba del sol (cioè il girasole Helianthus annuus) e i flores de sangre (ovvero i nasturzi Tropeolum majus). Già diffuso come ornamentale negli altri giardini della città, ma appassionatamente studiato da Monardes per le sue virtù medicinali, c'è anche il tabacco; il dottore è un estimatore anche del peperoncino - che a quanto racconta era già popolarissimo negli orti sivigliani, dove se ne coltivavano esemplari alti come un albero - migliore nel gusto e molto meno costoso del pepe. Si duole di non poter sperimentare l'ananas: gliene sono pervenuti solo esemplari seccati o in conserva (tra l'altro, piuttosto acida, per essere stata preparata con frutti poco maturi). ![]() Gioiose notizie del nuovo mondo Il giardino di Monardes non è sopravvissuto ai secoli, ma ne sappiamo qualcosa grazie a quanto racconta l'autore nel suo capolavoro, un libro con un titolo da fare invita a Lina Wertmuller: Historia medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales, que sirven en medicina (1565-74, in tre volumi). Monardes è un vero uomo del suo tempo, con un piede nel passato e l'altro nel futuro. E' uno stretto seguace della teoria galenica, che ritiene che le malattie siano dovute a uno squilibrio dei quattro umori (bile nera, bile gialla, flemma, sangue) e vadano curate ristabilendo l'equilibrio; d'altra parte, non ha alcuna arroganza eurocentrica e pratica già il metodo sperimentale: interroga con passione soldati e avventurieri, clienti e viaggiatori per scoprire i segreti della farmacologia indigena del nuovo mondo; ma poi sottopone a verifica le proprietà medicinali delle sostanze medicinali americane (vegetali, ma anche sostanze di origine animale e minerale) provandole sui suoi pazienti nel corso di una carriera trentennale. Quando è possibile, coltiva le piante nel suo orto per avere sottomano il materiale fresco. Così ci racconta come, afflitto da un forte mal di denti, ricorre con successo a un cataplasma di foglie di tabacco e "carlo santo" (Aristolochia serpentaria) raccolte in giardino. L'Historia medicinal è un libro molto importante per la conoscenza della flora americana; per la prima volta vengono presentate al pubblico europeo in una pubblicazione scientifica quasi cento piante americane, selezionate per le loro virtù medicinali vere o presunte. Monardes ha anche uno scopo pratico immediato: in un momento di difficoltà economica - la sua impresa di import-export specializzata in farmaci americani ha appena fatto fallimento - vuole sia ristabilire la sua rispettabilità scientifica sia convincere i clienti delle virtù medicinali delle piante americane che sono, lo ribadisce a più riprese, molto più economiche di quelle che a caro prezzo i portoghesi trasportano dalle Indie orientali, ma anche più piacevoli e più efficaci. Riesce nel suo intento: non solo l'opera sarà un successo commerciale (tradotta in latino e nelle principali lingue europee, avrà 25 edizioni in sei lingue prima della fine del secolo), ma imporrà nell'immaginario collettivo europeo l'idea della favolosa virtù terapeutica delle piante europee; a dimostrarlo basta il titolo dell'edizione inglese, Ioyfull newes out of the newe founde worlde, "Gioiose notizie che arrivano dal nuovo mondo" (traduzione di J. Frampton, 1577). Ancora una volta non si tratta di un testo di botanica, ma di un manuale di farmacologia; tuttavia la descrizione delle essenze vegetali è chiara e precisa, almeno quando il medico sivigliano conosce direttamente la pianta; spesso in effetti in Europa erano commercializzate parti come cortecce e radici essiccate o prodotti come resine e balsami. Proprio con questi ultimi si apre il primo volume dove si parla di resine di origine vegetali quali copal, animé, tacamahaca e dei balsami del Perù e del Tolù; poi si passa ai purganti (che occupavano un ruolo centrale nella dottrina galenica, come restauratori dell'equilibrio tra gli umori), con l'olio del "fico dell'inferno" (Jatropha curcas), la "cañafístola" americana (Cassia grandis), considerata superiore a quella asiatica (C. fistula), le "nocciole purgative" (Jatropha multifida), ma soprattutto la radice di mechoacán (Convolvulus mechoacan), considerato il purgante ideale, molto preferibile alla gialappa (Exogonium purga) che per i suoi drastici effetti Monardes chiama "mechoacan furioso". Un capitolo a parte meritano il guayaco e il "palo santo" (Guaiacum officinale e G. sanctum), insuperabili contro la sifilide; il succedaneo americano (Smilax pseudo-china) della radice di China asiatica (S. china); le salsapariglie americane (Smilax spp.), di cui vengono esaminate diverse qualità. La trattazione del tabacco occupa da sola un trattatello con tanto di ricette degli svariati preparati; in ogni caso Monardes, pur considerandolo praticamente una panacea, lo raccomanda essenzialmente per impacchi o per clisteri ed è ben consapevole degli effetti stupefacenti del fumo, che accosta addirittura a quelli della coca. E' poi il primo a descrivere e introdurre nella farmacopea il sassofrasso (usato come succedaneo meno costoso del guayaco), la "cebadilla" (Schoenocaulon officinale), le cannelle americane Dicypelium caryophilatum e Canella alba, il pepe lungo (Piper angustifolium) - questi ultimi presentati come migliori e concorrenziali rispetto alle pregiate spezie asiatiche. Per un approfondimento su alcune specie medicinali descritte da Monardes, si rimanda al blog Plantas en America. Sebbene trattate più rapidamente, fanno la loro comparsa anche specie alimentari: il peperone, il mais, l'ananas, la guayaba, la granadilla, il fico d'India, la batata, la manioca e le noccioline americane, chiamate "frutto che cresce sotto terra". Tra le piante decorative, il girasole e la cappuccina, entrambe descritte in toni entusiastici. Altre notizie sulla vita di Monardes, piuttosto movimentata anche se non visitò mai l'America e non si allontanò dalla città natale se non per gli studi, nella biografia. ![]() Posso offrirvi una tazza di tè? Linneo che, presumibilmente aveva ricavato da Historia medicinal il nome specifico della nocciolina americana, Arachis ipogea (= "leguminosa che cresce sotto terra"), non mancò di dedicare un genere (in Species Plantarum, 1753) al medico spagnolo. Contrariamente a quanto si sostiene in alcune pubblicazioni, non si tratta di una delle tante specie descritte nel libro (che provenivano essenzialmente dalle Antille, dall'istmo di Panama e dal Perù, tranne tre dalla Florida), ma è ovviamente americano: Monarda, famiglia Lamiaceae (o Labiate), comprende una quindicina di specie di erbacee annuali o perenni, originarie delle praterie nordamericane. Conosciute in Europa almeno dal Seicento - furono tra quelle introdotte dai Tradescant - alcune di esse sono comunque piante medicinali, con le quali si preparano profumate tisane, molto più piacevoli dei drastici purganti prediletti dal dottore spagnolo. M. dydima, comunemente nota come tè degli Oswego, ha anche avuto un ruolo nella storia statunitense; quando, con il famoso Boston tea party, iniziò il boicottaggio del tè importato dalla Compagnia delle Indie, per un breve periodo fu usata come succedaneo, secondo l'uso appunto degli indiani Oswego. M. didyma e M. fistulosa sono anche splendide piante da giardino, soprattutto grazie ai numerosi ibridi orticoli. Come al solito, approfondimenti nella scheda. La nostra storia tuttavia non finisce qui. Nel 1834 il tassonomista George Bentham, in suo lavoro dedicato alle Labiate (Labiatarum genere et species) distacca dal genere Pycanthemum alcune specie e crea il genere Monardella (cioè "piccola monarda"), per la somiglianza nell'aspetto generale con Monarda fistulosa. Così al dottor Monardes riesce il colpaccio: due dediche al prezzo di una! Anche per Monardella, si rinvia alla scheda. Lo storico della scienza D. Sutton l'ha definito "una delle opere di storia naturale più durature che siano mai state scritte [...] che ha formato le basi del sapere occidentale per i successivi 1500 anni". E' innegabile: con la Materia medica del greco Dioscoride, che aveva già alle spalle quasi un millennio di storia, hanno fatto i conti tutti gli studiosi che tra Quattrocento e Seicento hanno fondato la botanica moderna. Ripercorriamo le tappe della storia di questo long seller e scopriamo anche il genere che ne celebra l'autore, Dioscorea. ![]() Prima vita: la composizione In un momento imprecisato della terza metà del primo secolo (tra il 50 e il 70 d.C.) un medico greco, nato in Cilicia, Dioscoride Pedanio, scrive il trattato Περὶ ὕλης ἰατρικῆς Peri hules iatrikēs, più noto con il titolo latino De materia medica ("Sulle sostanze medicinali"). L'argomento è l'illustrazione delle sostanze vegetali, animali, minerali utilizzate in campo medico; il testo, distribuito presumibilmente in cinque volumi, tocca oltre 800 sostanze, tra cui 583 piante, delle quali vengono forniti la denominazione, se possibile la distribuzione geografica, una breve descrizione della parte utilizzata, il procedimento di raccolta, preparazione, somministrazione, le indicazioni terapeutiche e la posologia. Dioscoride aveva a lungo viaggiato e nella sua opera confluiscono le conoscenze degli autori che lo avevano preceduto, la sapienza popolare e le sue stesse esperienze come medico-erborista. Polemizzando con i contemporanei che esponevano le sostanze in ordine alfabetico, adotta per il suo trattato un ordine logico, difficile da cogliere per noi, ma che doveva basarsi sulle loro proprietà mediche. Il primo libro tratta le sostanze aromatiche e oleose; il secondo gli animali, i cereali, le erbe orticole e piccanti; il terzo radici, succhi, erbe e semi usati come cibo o medicamento; il quarto i narcotici e i veleni; il quinto i vini e le sostanze minerali. Il focus è sull'uso medico; le descrizioni quindi sono essenziali e, presumibilmente, non erano accompagnate da illustrazioni. Una sintesi delle poche informazioni biografiche pervenuteci su Dioscoride nella biografia. ![]() Seconda vita: il Dioscoride greco Soprattutto nella parte orientale dell'impero, l'opera di Dioscoride si afferma come testo di riferimento; lo attestano le citazioni in altri autori, come Galeno, medico di M. Aurelio, e i relativamente numerosi manoscritti. Ma il successo vuol dire anche rimaneggiamenti. L'ordine scelto da Dioscoride rendeva l'opera difficile da consultare; nel IV secolo Oribase, medico dell'imperatore Giuliano, ne predispose un indice. Forse in Italia venne confezionato un estratto, che comprende una parte delle notizie sulle piante, riorganizzate in ordine alfabetico. Accompagnato da miniature che ritraevano le piante, questo Erbario alfabetico è la fonte di due spettacolari codici: il Dioscoride di Vienna e il Dioscoride napoletano. Il Dioscoride di Vienna è considerato da molti il più bel manoscritto antico a noi pervenuto; fu donato alla principessa bizantina Anicia dal popolo di Costantinopoli verso il 512-513; è il più antico erbario figurato della cultura occidentale, con 383 disegni di piante. Dopo complesse vicende, fu acquistato e portato a Vienna dall'ambasciatore imperiale a Costantinopoli, Ogier Ghiselin de Busbecq. Il Dioscoride di Napoli, più recente ma dipendente dallo stesso archetipo (ovvero dal medesimo manoscritto precedente, oggi perduto), comprende 170 pagine illustrate. E' stato recentemente oggetto di una importante pubblicazione a cura dell'Università di Napoli e della casa editrice Aboca. Molti materiali nel sito della Biblioteca nazionale di Napoli. Entrambe sono opere spettacolari, più pensate come oggetti di lusso che come libri di studio o consultazione, in cui le illustrazioni prevalgono sul testo. ![]() Terza vita: il Dioscoride latino Anche nella parte occidentale dell'impero, l'opera di Dioscoride circolò dapprima nella versione greca; tuttavia nella tarda antichità incominciarono ad esserne tratte traduzioni in latino; ce ne sono pervenuti alcuni manoscritti, risalenti al VII-X secolo (senza figure). Ma anche in Occidente abbondano i rimaneggiamenti. Uno dei più antichi è il Liber medicinae ex herbis foemininis, un testo anonimo forse del III secolo, che estrae la descrizione di una settantina di piante, accompagnate da illustrazioni. Intorno al XII secolo, forse in connessione con la scuola di Salerno, viene approntata una versione in ordine alfabetico (Dioscorides alfabeticus), che interpola all'opera di Dioscoride notizie tratte da molte altre fonti. Questa edizione diventerà quella più diffusa (non ci sono manoscritti della vecchia traduzione latina posteriori al X secolo) e sarà glossata intorno al 1300 da Pietro da Abano. La versione glossata da Pietro sarà anche il primo Dioscoride stampato (nel 1478 da Medemblik, a Colle Val d'Elsa). Citato anche da Dante, nel Medioevo dunque Dioscoride è conosciuto attraverso questa versione spuria ed ampiamente citato - o meglio copiato - nelle enciclopedie come lo Speculum naturae di Vincenzo da Beauvais, nei manuali medici e nei ricettari farmaceutici. Le miniature che accompagnano i manoscritti medioevali sono spesso di grande qualità artistica, ma molto fantasiose. ![]() Quarta vita: il Dioscoride arabo Anche più vitale si rivelava intanto Dioscoride in un'altra area, quella dell'Oriente islamizzato. Il testo è trasmesso attraverso una complessa trafila di traduzioni, dal greco al siriano, dal siriano all'arabo, dall'arabo al persiano. Anche nel mondo islamico abbondano le opere più o meno rimaneggiate, tra cui erbari con illustrazioni non molto più attendibili di quelle occidentali. Ma Dioscoride è anche un autore di prestigio, che ispira molte opere originali in campo medico, a partire dal IX secolo. Tutti i grandi nomi della medicina araba gli pagano un debito. Ad esempio, per limitarci a un nome noto anche in Occidente, Ibn Sina (da noi chiamato Avicenna) trae da De Materia medica gran parte del capitolo sui semplici del suo Canone di medicina. ![]() Quinta vita: il Rinascimento E' stato sostenuto che il Rinascimento non aveva bisogno di riscoprire Dioscoride perché non era mai stato dimenticato. Ma, come abbiamo visto, quello che circolava nel Medioevo occidentale era un Dioscoride di seconda o terza mano. Era ora di tornare al testo autentico: come diceva Leonhardt Fuchs, perché bere l'acqua inquinata quando si può attingere alla fonte? Due generazioni di studiosi sono impegnate a ritrovare il vero De Materia medica liberandolo dalle parti spurie. La prima è rappresentata dai filologi come Ermolao Barbaro che nel 1481 predispone una nuova traduzione partendo dal testo greco, corredata di un commento; pubblicata molto più tardi, sarà seguita nel secondo decennio del Cinquecento da nuove traduzioni come quella di Ruel in Francia o di Marcello Adriani in Italia. La seconda, dopo il 1530, è quella dei medici e dei naturalisti, che intendono tornare a Dioscoride per rivitalizzare la pratica medica e lo studio delle piante. De materia medica diventa un testo canonico dell'insegnamento della medicina e tutto il gotha della medicina (e della botanica, che al tempo erano la stessa cosa) del '500 tiene lectiones su Dioscoride: tra gli altri, Francesco Frigimelica, Gabriele Falloppio, Ulisse Aldrovandi, Luca Ghini in Italia; Guillaume Rondelet in Francia; Valerius Cordus in Germania; Caspar Bauhin in Svizzera. Il culmine di questo filone sono probabilmente i Commentari a Dioscoride di Pietro Andrea Mattioli (1544). Vista l'importanza assunta da Dioscoride nella formazione dei futuri medici, l'obiettivo fondamentale dei medici-botanici della generazione di Fuchs è identificare correttamente, descrivere e classificare le specie trattate dal medico greco, mentre cresce l'interesse per le piante in sé, non solo per il loro uso farmaceutico. Su questa via, anche se Dioscoride è ancora un punto di riferimento, incominciano ad emergerne i limiti in modo sempre più clamoroso: i botanici tedeschi o olandesi hanno molta difficoltà a ritrovare la flora dell'Europa centro-settentrionale in un manuale di farmacologia nato nel Mediterraneo orientale; non parliamo poi delle nuove piante che arrivano grazie alle scoperte geografiche. Brasavola (1500-55) dirà esplicitamente che Dioscoride avrà forse descritto l'1 per cento delle piante del pianeta (era molto, molto ottimista!); Monardes si chiederà retoricamente come avrebbe potuto conoscere le piante del Nuovo Mondo. Ma, prima di finire definitivamente nello scaffale dei classici, ancora all'inizio del Settecento, quando ormai la strada maestra della botanica passa attraverso le ricognizioni sul campo, Dioscoride ha ancora un sussulto: tra il 1701 e il 1702, Joseph Pitton de Tournefort parte appositamente alla volta del Levante per una spedizione sulle sue orme, allo scopo di identificare correttamente le piante descritte nel De Materia medica (ne identificherà circa 400, intorno al 45%); ancora alla fine del secolo, John Sibthorp riprenderà la ricerca con due spedizioni botaniche il cui frutto sarà uno dei capolavori della botanica di primo Ottocento, la Flora Graeca (1806-40). ![]() Finalmente, la Dioscorea Sarebbe strano se un personaggio di tale importanza nella storia della botanica non fosse celebrato da un nome di genere. Infatti, ci pensò il solito Plumier, che gli dedicò il genere Dioscorea, confermato poi da Linneo. E' un genere molto importante, tanto che le specie di uso alimentare sono ben note con il nome volgare igname. Detta anche yam, è una pianta alimentare essenziale per la sopravvivenza di oltre 100 milioni di persone, la cui coltura occupa 5 milioni di ettari in 47 paesi dell fascia tropicale e subtropicale. Ricco di carboidrati e povero di proteine, secondo B. Laws (autore di 50 piante che hanno cambiato il corso della storia) il suo consumo è tuttavia anche una delle concause della sottoalimentazione dei paesi più poveri del mondo. Dal punto di vista botanico, Dioscorea è un grande genere con oltre 600 specie (alcune delle quali di uso ornamentale), che ha anche dato il proprio nome alla famiglia delle Dioscoreaceae. Come sempre, altri approfondimenti nella scheda. Chi è l'autore di un'opera a cui hanno messo mano decine di persone? Chi l'ha concepita? Chi ne ha dettato il testo? Chi l'ha scritta materialmente? Chi l'ha rivista? Chi ne ha curato l'editing e la stampa? Ripercorrendo la storia di un eccezionale testo botanico di fine Seicento, l'Hortus Malabaricus, probabilmente non troveremo la risposta, ma conosceremo indiani, portoghesi, olandesi che lavorano insieme alla prima opera etno-botanica della storia. Molti avrebbero meritato di dare il proprio nome a un genere, ma alla fine ci sono riusciti solo in tre, e più fortunati sono stati gli ultimi arrivati, i Commelin, che hanno dato il loro nome al notissimo genere Commelina. ![]() Prima tappa: 1670-1675, Cochin, Malabar Nel 1602 a Amsterdam viene fondata la Compagnia olandese delle Indie Orientali (Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie, meglio nota con la sigla VOC); per circa 150 anni - fino all'affermazione dell'Inghilterra come superpotenza coloniale - essa avrà il monopolio del commercio delle spezie lungo le rotte che collegano l'Europa al Capo di Buona Speranza, all'India e all'Indonesia. Nei luoghi strategici vengono creati avamposti commerciali, che sono allo stesso tempo porti, empori e fortezze. Uno di essi è Cochin, sulla costa indiana del Malabar, strappato nel 1663 ai Portoghesi. A differenza di questi ultimi, che avevano cercato di imporre la religione cattolica, gli olandesi calvinisti si dimostrano molto più tolleranti. Anche i rapporti con il sovrano del Malabar (detto Samoothirippadu, che nelle lingue occidentale diventa Zamorin) sono relativamente positivi. E' in questo contesto che Hendrik van Rheede, governatore del Malabar olandese tra 1670 e il 1677, progetta un'opera senza precedenti: esplorare e catalogare l'intera flora locale, allo scopo fondamentale di individuare piante medicinali utili contro le malattie tropicali. L'aspetto più originale, che sicuramente contribuisce alla riuscita del progetto, è il coinvolgimento dell'intellighenzia locale; l'opera è affidata a un'équipe di 15-16 persone che comprende medici e studiosi indiani, capeggiati dal medico ayurvedico Itty Achudan; un disegnatore, il frate carmelitano Johannis Mathei, noto come padre Matteo; traduttori dalla lingua locale (il malayam) al portoghese, dal portoghese all'olandese e infine dall'olandese al latino (lingua della redazione finale). Essenziale - per assicurare i contatti con l'équipe indiana e permettere il lavoro di raccolta degli esemplari - è anche la benevola assistenza del re di Cochin e dello Zamorin di Calcutta. Per due anni, il territorio viene accuratamente esplorato da un centinaio di raccoglitori; ciascun esemplare è portato a Cochin e accuratamente disegnato da padre Matteo; quindi Achudan detta in malayan la descrizione della pianta, corredata di note mediche e etnografiche (spesso tratte da manoscritti su foglie di palma, tramandati di generazione in generazione nella sua famiglia di medici); il suo lavoro è discusso con gli altri membri dell'équipe e validato dalla supervisione di tre medici-bramini. Alla fine, vengono catalogate e descritte circa 800 piante; gli esemplari, inseriti in fogli di carta corredati con i nomi in malayam, latino, olandese e altre lingue e accompagnati dai disegni e dalle descrizioni vengono quindi spediti a Amsterdam, per essere trasformati in un'opera a stampa. ![]() Seconda tappa: 1678-1703, Amsterdam, Paesi Bassi Prima che il materiale così raccolto sia pubblicabile occorre ancora molto lavoro e il coinvolgimento di molte altre persone (medici, botanici, incisori, tipografi...). L'intero testo deve essere rivisto da botanici e medici europei; bisogna realizzare le tavole calcografiche e curare la stampa; insomma per completare l'opera, che alla fine comprenderà 12 volumi di circa 200 pagine ciascuno, in folio, con 794 calcografie (712 delle quali a doppia pagina), saranno necessari altri venticinque anni; il primo volume esce nel 1678, l'ultimo nel 1703. Van Reede nel 1678 rientra ad Amsterdam e affida la redazione dell'opera, iniziata in India dal suo collaboratore, il pastore Johannes Casearius, a Arnold Seyen, professore di medicina a botanica a Leida. Poco dopo la pubblicazione del primo volume, questi però muore. Il principale curatore dell'opera a questo punto diventa il botanico dilettante Jan Commelin che, in collaborazione con diversi studiosi, redigerà i volumi 2-11 e parzialmente il volume 12. Saranno 25 anni di lavoro che si interromperà solo con la morte. Il poco che ancora rimane sarà portato a termine dal nipote, Caspar Commelin, che redigerà anche un indice plurilingue delle specie citate. Jan Commelin era un mercante di prodotti farmaceutici che, grazie al successo commerciale, aveva fatto carriera fino a diventare borgomastro della città di Amsterdam; appassionato di botanica, gli era stata affidata la direzione dell'Hortus medicus della capitale olandese quindi la sovrintendenza di tutte le aree verdi della città. Il nipote era un medico e botanico che, in un certo senso, aveva "ereditato" dallo zio la carica di direttore dell'Hortus medicus, ne terminò le opere e insegnò medicina e botanica all'Università di Amsterdam. Altre notizie sui due botanici olandesi nella sezione biografie. Linneo consultò e apprezzò il grande libro sulla flora del Malabar: anzi arrivò ad affermare che a suo parere le uniche descrizioni affidabili era quelle dell'Hortus Elthamensis di Dillenius, del Nova plantarum americanarum genera di Plumier e dell'Hortus malabaricus di van Reede; anzi queste ultime erano le più accurate delle tre. Non stupisce quindi che nell'assegnare il nome a piante del subcontinente egli abbia ripreso molti nomi dell'Hortus malabaricus; K. S. Manilal, studioso e curatore delle edizioni moderne inglese e malayan dell'opera ha calcolato che Linneo ha riutilizzato 258 nomi malayan. Fonte: B. Dharmapalan, Hortus Malabaricus, Celebrating a Tricentennal of a Botanic Epic, http://nopr.niscair.res.in/bitstream/123456789/14856/1/SR%2049(10)%2026-28.pdf ![]() Casearia, ovvero amici filosofi Tra i tanti personaggi che abbiamo incontrato in questa storia, cinque hanno avuto l'onore di dare il loro nome a un genere. Nella lotteria del Who's who della botanica, l'assegnazione non sempre corrisponde però ai meriti. L'ideatore (che viene sempre citato come "autore" dell'opera, di cui probabilmente non ha scritto una riga), Hendrik van Rheede si è visto assegnare Rheedia, un genere di alberi tropicali della famiglia delle Clusiacaee oggi non più accettato (è sinonimo di Garcinia); ha dato anche il nome specifico a Entada rheedi, una Fabacaea di origine africana dagli enormi baccelli. Ugualmente sfortunato Itty Achudan; nell'Ottocento Carl Ludwig Blume - un botanico olandese di origine tedesca che aveva lavorato a lungo nell'Asia olandese - gli dedicò il genere Achudemia, che tuttavia oggi è considerato una sezione del genere Pilea (Urticacaee). Più fortunato nella memoria postuma Johannes Casearius, il giovane pastore al quale van Rheede aveva affidato la versione latina dell'opera. Ma sfortunatissimo nella vita reale: la morte precoce gli impedì di andare oltre il secondo volume. Il suo contributo avrebbe potuto essere ben più importante, visto che gli si deve anche la stesura del disegno generale, esposto nella prefazione. Giovanissimo studente di teologia a Leida (all'epoca doveva essere sui diciotto anni) gli era capitata la ventura di condividere l'abitazione con Spinoza; il filosofo prese a esporgli gli elementi essenziali della filosofia di Descartes, che più tardi pubblicò nella sua unica opera edita in vita, I principi della filosofia di Cartesio (1663). In una lettera ad un altro membro del suo circolo, Simon de Vries, lo invita a non essere geloso di Casearius e della sua intimità con lui; dice anzi di odiarlo per il suo infantilismo e la sua superficialità, ma di amarlo per il suo talento, che fa bene sperare per il futuro. Casearius frequentò ancora Spinoza per qualche tempo; poi, dopo aver completato gli studi di teologia a Leida e Utrecht, divenne pastore ad Amsterdam e si sposò. Nel 1668 come pastore della VOC fu inviato a Cochin e collaborò con van Rheede all'edizione latina di Hortus Malabaricus fino al 1677, quando morì di dissenteria a poco più di trent'anni. Memore del suo contributo, il botanico austriaco von Jacquin volle dedicargli Casearia, un importante genere di alberi tropicali della famiglia Salicaceae (un tempo Flacourtiaceae). Ampiamente distribuito nella fascia tropicale e subtropicale di America, Asia, Africa e isole del Pacifico, comprende 180-200 specie di arbusti o alberi, alcuni dei quali di notevoli dimensioni. Come altre piante di questa famiglia, contengono principi attivi e alcune specie sono state ampiamente utilizzate nella medicina popolare in America e in Asia, in particolare come antisettici, cicatrizzanti e anestetici. Ad esempio, C. sylvestris, un grande arbusto nativo delle Antille, dell'America centrale e della parte settentrionale di quella meridionale, dove è noto con vari nomi, tra cui il brasiliano guacatonga, ha una lunga storia di usi medicinali in tutti i paesi in cui vive: la sua corteccia e le sue foglie sono state usate per combattere le ulcere, i morsi di insetti, addirittura le piaghe della lebbra. C. decandra, un alberello deciduo diffuso dai Caraibi al Brasile, ha invece frutti eduli, che vengono raccolti in natura e consumati a livello locale. Ugualmente eduli sono i frutti della sudamericana C. rupestris, un albero molto ornamentale delle foreste semidecidue, con una elegante chioma piramidale. Qualche approfondimento nella scheda. ![]() Chi sono i petali di Commelina? Ma il genere più noto e familiare è indubbiamente toccato agli ultimi venuti, ovvero ai due Commelin, zio e nipote, che sono per altro anche i più illustri nella storia della botanica come fondatori dell'Orto botanico di Amsterdam. Già Plumier nel 1703 dedicò loro il genere Commelina (famiglia Commelinacae), celebrandoli come autori di un'altra opera comune ai due, il catalogo dell'Hortus medicus di Amsterdam. Probabilmente l'assegnazione si basa sul fatto che il fiore della specie da lui descritta (si tratta presumibilmente di Commelina erecta) in apparenza ha due soli petali, ciascuno dei quali rappresenta uno dei due botanici olandesi. Linneo - che usò come specie di riferimento Commelina communis - confermerà l'omaggio, ma con una precisazione: questa pianta può bene rappresentare i Commelin, perché ha due petali vistosi, mentre il terzo è insignificante; i primi due stanno per due illustri botanici (Jan e Caspar), mentre il terzo per un altro Commelin (Caspar il giovane, morto a trent'anni) a cui la morte non ha permesso di fare nulla. Il genere Commelina è diffuso in tutta l'area tropicale e subtropicale, comprende circa 170 specie e ha dato il proprio nome alla famiglia delle Commelinacaee. Per altre notizie, si rimanda alla scheda. Nel Cinquecento nel curriculum di ogni futuro medico c'era l'accurato studio dei testi di medicina e farmacologia ereditati dall'antichità, che di ogni pianta indicavano le virtù e gli usi. Ma come essere certi che a un dato nome greco o latino corrispondesse davvero la pianta giusta, conosciuta con infiniti nomi volgari? Fuchs risolve il problema con una trovata degna dell'uovo di Colombo; e si guadagna per sempre la riconoscenza dei botanici e il nome di uno dei generi più amati, una vera superstar del giardinaggio: la Fuchsia. ![]() Piante ritratte dal vero La conoscenza delle piante era essenziale per la medicina; infatti da esse - i semplici, come venivano chiamate - veniva ricavata la maggior parte dei medicamenti. Dunque non solo era importante conoscerne le diverse virtù medicamentose, ma bisognava distinguerle con sicurezza. Tuttavia le confusioni erano all'ordine del giorno: la stessa pianta veniva chiamata con nomi diversi nelle varie regioni e anche la più accurata delle descrizioni era spesso insufficiente per un riconoscimento sicuro; impossibile poi usare i "sacri testi" della medicina classica ignorando a quale pianta reale corrispondessero i nomi greci e latini di Dioscoride piuttosto che Plinio. Il medico e botanico tedesco Leonhardt Fuchs risolve il problema in modo semplice e geniale: accompagnare le descrizioni delle piante e i loro nomi nelle varie lingue con illustrazioni dal vero, dettagliate ed affidabili. Già prima gli herbaria (cioè i libri di descrizioni di piante e delle loro proprietà medico-farmacologiche) erano spesso illustrati; ma le illustrazioni era irrealistiche, grossolane, spesso ricavate dalle descrizioni stesse, quindi creavano più dubbi di quanti non ne risolvessero. La novità del libro di Fuchs De historia stirpium commentarii insignes ("Notevoli commenti sulla storia delle piante"), pubblicato nel 1542, consiste sostanzialmente nella qualità delle illustrazioni delle piante, per la prima volta ritratte dal vero con grande precisione; per la loro realizzazione il botanico diresse una piccola équipe di artisti: il pittore Albrecht Meyer disegnava le piante dal vero, ritraendone i particolari nelle diverse stagioni; il copiatore Heinrich Füllmaurer trasferiva i disegni su tavole di legno; l'incisore Vitus Adelphus Spreckle incideva le matrici e colorava le incisioni ad acquarello (il libro era stampato in bianco e nero, ma in alcuni esemplari, più costosi, le xilografie erano successivamente colorate a mano). Per la prima volta nella storia del libro, i nomi degli artisti che avevano collaborato alla realizzazione dell'opera è riportato del testo, in cui sono presenti anche i loro ritratti. L'eccezionale qualità delle illustrazioni di De historia stirpium è frutto di tre circostanze: il perfezionamento dell'arte della stampa, che ormai permetteva di stampare da matrici di legno (xilografia) con incisioni di notevole qualità e finezza; l'ideale del naturalismo, diffuso dal Rinascimento, che propugnava una riscoperta diretta della natura, da studiare di per se stessa e non come specchio del creatore; l'esigenza pratica di dotare gli studenti di medicina e i medici praticanti di uno strumento efficace. In effetti, Fuchs era un medico rinomato e un professore universitario. Le tavole del testo di Fuchs sono importanti nella storia dell'illustrazione botanica, perché in qualche modo ne fissano le convenzioni che - con minime modificazioni - rimarranno invariate per secoli: la pianta viene disegnata intera, con tanto di radici, nel momento del suo massimo rigoglio, completa di fiori in boccio, fiori sbocciati, frutti. Esse in effetti costituirono un modello, molto imitato quando non semplicemente riprodotto con vere operazioni di pirateria editoriale. A oltre due secoli dalla loro realizzazione, saranno ancora utilizzate nel 1774 in un'opera di Salomon Schinz. ![]() Un peperoncino latino L'opera è meno innovativa per i contenuti. Fuchs - anche se dichiarava di partire dalle proprie esperienze di medico e da conoscenze dirette - per la descrizione delle piante note e delle loro proprietà si rifaceva ai testi classici; del resto, una delle sue aspirazioni era che gli studenti e i medici potessero identificare con certezza le piante descritte dagli antichi, in primo luogo Dioscoride. Su questa strada commise anche errori, ad esempio identificando piante tedesche con piante mediterranee, che semplicemente non conosceva. Il libro descrive 497 piante, accompagnate da 517 illustrazioni e ordinate in ordine alfabetico sulla base del nome greco. Ogni voce ha una struttura ricorrente da cui ben si può notare il carattere prescientifico dell'opera:
Tra le circa cento piante descritte per la prima volta, De historia stirpium contiene anche la più antica descrizione di alcune piante americane: il mais (chiamato Turcicum frumentum), quattro varietà di peperone o peperoncino, alcuni tipi di zucche, un fagiolo americano, una specie di Tagetes. E' curioso che anche in questo caso Fuchs assimili queste piante a specie descritte dagli autori classici e non sembri conoscerne la provenienza: le zucche e il fagiolo americano sono semplicemente inseriti nei generi corrispondenti del vecchio mondo, il Tagetes (chiamato già con il nome latino Tagetes indica) è assimilato a una specie di Artemisia (e il nome è collegato alla divinità etrusca Tages). Il caso più divertente è quello del peperoncino, identificato con una pianta descritta da Plinio con il nome siliquastrum, grazie al fatto che la bacca è grande (siliquastrum significa letteralmente 'con un grande baccello'). Quanto al mais, Fuchs deve rassegnarsi ad ammettere che gli antichi non lo conoscevano (è descritto nell'ultima parte del volume, dove egli elenca le specie prive di nome greco), ma pensa che arrivi dalla Grecia, ai suoi tempi sottomessa dai turchi (donde il nome Turcicum frumentum, il nostro granoturco). Pur con questi limiti, il testo è un caposaldo della nascente botanica e ottenne un immediato successo, tanto che già l'anno successivo l'autore ne predispose un'edizione ridotta (quindi più maneggevole e meno costosa) in lingua tedesca, Neue Kreüterbuch (1543). Di entrambe le versioni e delle traduzioni che ne vennero ricavate in olandese, francese, tedesco, spagnolo uscirono ben 39 edizioni nel corso della vita di Fuchs (che morì nel 1566). Quanto alle incisioni, furono largamente riprodotte e plagiate per almeno duecento anni. Approfondimenti sulla vita di Fuchs nella sezione biografie. ![]() Un fiore rosa fucsia Un personaggio del calibro di Fuchs non poteva essere ignorato dal buon padre Plumier, che nel suo Nova plantarum americanarum genera (1703) aveva celebrato i big della botanica dedicando loro molte delle nuove piante scoperte nei suoi viaggi nelle Antille. Anzi, bisognava scegliere una pianta degna di tanto personaggio. La sua scelta cadde sulla magnifica Fuchsia triphylla flore coccineo (oggi Fuchsia triphylla). Intorno al 1788 le prime fucsie arriveranno nei giardini inglesi; e sarà fuchsiomania, che da allora non è mai cessata. Per altre notizie sul genere Fuchsia, si rimanda come sempre alla scheda. Il vecchio Fuchs ha avuto anche l'onore di battezzare un giovanissimo colore: nel 1859 il chimico francese François-Emmanuel Verguin produsse sinteticamente una nuova anilina che chiamò fuchsina; anche se poco dopo il nome fu cambiato in magenta, per celebrare la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859, il color fucsia è rimasto; e come la pianta da cui prende il nome, è amatissimo, soprattutto dalle ragazzine. |
Se cerchi una persona o una pianta, digita il nome nella casella di ricerca. E se ancora non ci sono, richiedili in Contatti.
News
Da gennaio è in libreria La ragione delle piante, che costituisce l'ideale continuazione di Orti della meraviglie. L'avventura delle piante continua! CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
May 2023
Categorie
All
|