Sono due articoli, usciti rispettivamente sul Journal Général de France e sulla Gaceta de Madrid nel 1786 a pochi mesi di distanza, a rilanciare l'affare Dombey. Protagonista di questa seconda fase è un aristocratico, magistrato di professione e botanico per passione, Charles-Louis L'Héritier de Brutelle che, pur di pubblicare le nuove specie scoperte dallo sfortunato Dombey, non esita a inscenare una rocambolesca fuga a Londra. A fare da comprimari, tanti personaggi: un giovanissimo Redouté alle prime pennellate; il botanico Broussonet nelle vesti di complice; un prudente James Edward Smith e un riluttante Joseph Banks; Jonas Dryander nelle funzioni di cane da guardia; Cuvier e de Candolle come amici, testimoni e biografi. Alla fine, tanto rumore per nulla: le piante di Dombey in realtà L'Héritier non le pubblicherà mai; sarà però autore di tanti generi importanti, tra cui Plectranthus, Agapanthus, Eucomis, Eucalypytus, Pelargonium, Erodium. Per una strana coincidenza, anche a lui, come a Ruiz, Pavon e Dombey, è toccata una Malvacea, Heritiera, omaggio di Dryander e del giardiniere capo di Kew Aiton. Un magistrato appassionato di botanica Come abbiamo visto in questo post, Dombey tornò in Francia nell'ottobre 1785. Non ancora ricaduto nella depressione, affittò una casa a Parigi dove mise a disposizione di curiosi e studiosi le sue collezioni, prima che fossero trasferite nel Gabinetto del re. Il Journal Général de France ne informò i lettori nel numero del 14 gennaio 1786, elogiando la rarità e la ricchezza delle raccolte; quindi proseguì annunciando che il conte di Buffon, curatore del Jardin des Plantes, aveva affidato il prezioso erbario di Dombey a M. L'Héritier perché ne pubblicasse la descrizione. Con i tempi lenti dell'epoca, la notizia rimbalzò a Madrid suscitando indignazione e proteste ufficiali. L'affare Dombey tornava d'attualità. Ma prima di occuparcene, facciamo la conoscenza con il suo secondo protagonista, Charles Louis L'Héritier de Brutelle. L'Héritier era un facoltoso magistrato divenuto botanico per passione. Si racconta che in gioventù, quando era sovrintendente del Dipartimento delle acque e delle foreste, mentre visitava l'orto botanico di Parigi con alcuni colleghi, fosse così dispiaciuto dal non aver saputo riconoscere un albero (si trattava di un Celtis) da decidere di studiare la botanica da autodidatta; lo fece così bene da diventare un esperto tassonomista di stretta osservanza linneana. L'adesione al sistema di Linneo lo mise in urto con i Jussieu e Adanson, che in quegli anni andavano mettendo a punto il loro sistema naturale, ma gli procurò la stima di altri naturalisti (in particolare Cuvier, Broussonet e Thouin) e gli consentì di entrare in corrispondenza con i linneani inglesi, come Joseph Banks e James Edward Smith. Più tardi divenne giudice dell'importante Court des Aides; i contemporanei lo dipingono come un giudice integerrimo e incorruttibile. Egli era interessato soprattutto alle piante arboree e arbustive; ma la sua maggiore aspirazione - ricordo che era outsider, un dilettante agli occhi dei professori del Jardin des Plantes - era conquistare la celebrità pubblicando piante inedite. E quando si trattava della sua passione, gli scrupoli di giudice senza macchia venivano un po' meno; si dice che giungesse a corrompere i giardinieri perché lo avvisassero delle fioriture prima dei proprietari; certa è la sua abitudine di antidatare le pubblicazioni a stampa, cosa che provocò una feroce polemica con Cavanilles sulla priorità di pubblicazione di alcune Malvaceae. Verso il 1783, L'Héritier, all'epoca estremamente facoltoso, decise di pubblicare a proprie spese una serie di monografie dedicate a specie poco note o di recente introduzione coltivate nel Jardin des Plantes o in giardini privati parigini; si sarebbe trattato di edizioni di lusso, in cui le sue precisissime descrizioni sarebbero state accompagnate da incisioni a piena pagina di eccellente qualità, affidate ad artisti capaci di ritrarre le piante dal vero con immediatezza, attenzione al dettaglio e precisione scientifica. Cercando i migliori collaboratori per il suo progetto, scoprì un giovane artista, appena trasferitosi a Parigi dal Lussemburgo: Pierre-Joseph Redouté. L'Héritier curò la sua formazione come illustratore botanico, gli aprì la sua biblioteca e gli affidò l'illustrazione di alcune sue opere, a cominciare dal secondo fascicolo di Stirpes novae. Il primo fascicolo di Stirpes Novae aut minus cognitae, quas descriptionibus et iconibus illustravit, con undici incisioni, uscì nel marzo del 1785, seguito da altri cinque tra il 1786 e il 1791. In tutto, le specie descritte e le incisioni sono 84. Tra i nuovi generi qui stabiliti da L'Héritier, il più noto è sicuramente Plectranthus (1788). Alcune delle nuove specie sono "peruviane" nate dai semi inviati da Dombey, tra cui quella che il magistrato-botanico battezza Verbena tryphilla (oggi Aloysia citrodora, ovvero la notissima cedrina o erba Luisa). La circostanza dovette attirare l'attenzione di Buffon che, come abbiamo già visto, decise di affidare proprio a L'Hériter de Brutelle la pubblicazione dell'erbario di Dombey, tanto più che il magistrato offriva di pagarla di tasca sua. Una fuga in Inghilterra e un progetto mai realizzato Sulla Gaceta de Madrid dell'11 luglio 1786 esce un articolo di fuoco, ispirato da Gomez Ortega o scritto direttamente da lui, in cui si denuncia l'annunciata pubblicazione dell'erbario di Dombey come una violazione della parola data da quest'ultimo di non pubblicare nulla prima del rientro di Ruiz e Pavon. Segue una protesta diplomatica ufficiale; la Spagna chiede non solo la sospensione della pubblicazione, ma addirittura l'invio a Madrid dell'erbario, onde evitare ogni tentazione. Una richiesta pesantissima e senza appigli legali, a cui tuttavia il governo francese si adegua. Per caso, L'Héritier de Brutelle si trova proprio a Versailles quando viene a sapere che è stato trasmesso a Buffon l'ordine di ritirare l'erbario, che gli sarà comunicato il giorno dopo. Disperato, corre a casa. Con l'aiuto della moglie, dell'amico Broussonet e di Redouté, passa la notte a imballare l'erbario e a fare i bagagli; la mattina dopo (è il 7 settembre 1786) parte con la moglie per Boulogne. Alla dogana, dichiara falsamente che sta andando in Inghilterra con dei materiali richiesti da Joseph Banks, un nome così prestigioso da spegnere i sospetti dei doganieri. Quindi si imbarca per Londra, dove passa quindici mesi, da settembre 1786 a dicembre 1787, con l'intenzione di preparare Il Prodromus di una Flora del Perù e del Cile, potendo approfittare delle biblioteche e degli erbari di Smith e Banks per il confronto e la determinazione degli esemplari. L'accoglienza di Banks non è proprio entusiastica: è stato avvertito della storia da Smith, che al momento della fuga di L'Héritier si trovava a Parigi, e soprattutto è furioso per l'uso del suo nome alla dogana di Boulogne. Tuttavia poi ammette il francese come regolare visitatore della sua biblioteca, pur raccomandando al segretario Dryander di tenerlo d'occhio: non si fida di questo fanatico, capace di tutto, anche di impadronirsi del lavoro altrui. In realtà, L'Hértitier si comporta più che correttamente. Tuttavia, a Londra i suoi piani cambiano: invece di concentrarsi sulla descrizione delle piante di Dombey, è attratto dalle specie ancora inedite dell'erbario di Banks e dalle novità botaniche che crescono a Kew e in altri giardini londinesi. Nasce così la sua seconda opera principale, Sertum anglicum (1789-1793), in cui pubblica 125 specie per lo più inedite, solo pochissime delle quali sono tratte dall'erbario di Dombey; per le incisioni si affida al grande illustratore britannico James Sowerby e a Pierre-Joseph Redouté, che lo ha raggiunto a Londra nella primavera del 1787. I nuovi generi pubblicati in questa opera sono tredici, sette dei quali dedicati a botanici britannici, come ringraziamento per l'accoglienza: Boltonia, Dicksonia, Lightfootia, Pitcarnia, Relhania, Stokesia, Witheringia. Quanto ai suoi principali ospiti, Banks, Smith e Dryander, L'Héritier non può omaggiarli, visto che i generi Banksia, Smithia e Dryandra esistono già. Ma tra i nuovi generi di Sertum anglicum ce ne sono almeno tre molti importanti: Agapanthus, Eucomis e Eucalyptus. Nel dicembre 1787, calmatasi le acque anche per il rientro di Ruiz e Pavon dal Perù (nel frattempo sono morti sia Galvez, il ministro spagnolo delle Indie, sia Buffon), L'Héritier de Brutelle ritorna a Parigi, pensando di poter continuare tranquillamente il suo lavoro in patria. In effetti, l'affare Dombey si è ormai dissolto in una bolla di sapone, e, oltre a continuare la pubblicazioni di altri fascicoli di Stirpes novae e Sertum anglicum, tra il 1787 e il 1788 L'Héritier dà alle stampe un'importante monografia, Geraniologia, in cui separa da Geranium i generi Pelargonium e Erodium. Di mettere fine ai suoi progetti si incarica la storia. Vicino agli ambienti illuministi, il magistrato-botanico si schiera dalla parte della rivoluzione e si batte per la monarchia costituzionale. Nell'ottobre 1789 è nominato comandante della guardia nazionale del suo quartiere; il suo reggimento è uno di quelli che il 6 ottobre proteggono il re della folla inferocita che lo costringe a trasferire la corte da Versailles a Parigi. Nel 1790 entra come associato all'Accademia delle Scienze, ma con lo scioglimento di tutte le istituzioni dell'Antico regime perde tutte le sue entrate; nel 1793 viene arrestato e rischia la pena capitale, ma viene ben presto liberato grazie alle testimonianze degli amici botanici Desfontaines e Thouin. Poco dopo rimane vedovo e il figlio maggiore, con cui non è mai andato d'accordo, lascia la famiglia. Con il termidoro, si mantiene grazie a un lavoro sottopagato al ministero di giustizia e diviene membro del comitato dell'agricoltura e delle arti. Nel 1795 quando l'Accademia delle scienze rinasce come Istituto nazionale delle scienze e delle arti, ne diviene membro residente della sezione di botanica e di fisica vegetale, con un modesto salario. Da tempo non pubblica più nulla, ma è riuscito a conservare la sua biblioteca e il suo erbario, e accoglie volentieri a casa sua i giovani botanici, come Augustin Pyramus de Candolle. La sera del 16 agosto 1800 lo attende una morte improvvisa e tragica: mentre rientra a casa a piedi dall'Istituto, a pochi passi dalla porta di casa viene assalito da uno sconosciuto che lo trafigge più volte con una sciabola. Il cadavere viene trovato solo il mattino dopo. E' coperto di ferite, ma non mancano né il denaro né altri effetti personali. Dunque, non si è trattato di una rapina. Il caso rimane irrisolto e si diffondono le voci più fantasiose, tra cui quella (riferita da Smith) che l'assassino fosse il figlio maggiore di L'Heritier. Prima di congedarci da lui (una sintesi della sua vita nella sezione biografie), lasciamo la parola a de Candolle, che lo conobbe bene e dopo la sua morte aiutò la famiglia acquistando l'erbario: "Era un uomo secco, in apparenza freddo, ma in realtà appassionato, acrimonioso e sarcastico nella conversazione, un poco incline agli intrighi, un nemico dichiarato di Jussieu, Lamarck e anche dei nuovi metodi, ma verso di me ha dimostrato solo gentilezza di cui gli sono grato". Dalle foreste dell'Ile de France alle foreste di mangrovie Per una curiosa coincidenza, proprio come a Ruiz, Pavon e Dombey, anche a L'Héritier de Brutelle è toccato di essere celebrato da un genere della famiglia Malvaceae, Heritiera. A dedicarglielo fu William Aiton (anzi, potremmo dire Aiton e Dryander, visto che si tratta di un'opera a quattro mani) in Hortus kewensis, il catalogo dei Kew gardens del 1789. Come antico sovrintendente delle foreste della regione parigina L'Héritier amava gli alberi, e sarà stato sicuramente soddisfatto di questo omaggio, che ha legato per sempre il suo nome ad alberi dominanti delle foreste di alcune zone dell'Africa orientale, della regione indiana e del Pacifico. Alcune fanno parte delle foreste di mangrovie; tra di esse, la specie forse più nota, Heritiera littoralis, diffusa nelle foreste costiere dell'Oceano indiano e del Pacifico centro-occidentale, in un'area vastissima che va dall'Africa alla Micronesia. E' un albero di medie dimensioni a lenta crescita che forma larghi contrafforti basali che gli permettono di abbarbicarsi a suoli instabili e di resistere ad occasionali invasioni di acqua salina. Apprezzato per il legname, viene anche coltivato per la bellezza del fogliame, verde scuro e lucide nella pagina superiore, argentee in quella inferiore. H. fomes è invece la specie dominante delle mangrovie dell'India orientale e del Bangladesh, dove costituisce circa il 70% del manto arboreo. Sempreverde, è di dimensioni medie, ha radici munite di pneumatofori e tronco con vistosi contrafforti alla base; ha foglie coriacee ellittiche e fiori rosati o arancio riuniti in pannocchie. Anche il suo legname è molto apprezzato, ma la specie è considerata a rischio per l'eccessivo sfruttamento, la restrizione dell'habitat e la fluttuazione della salinità. Altre approfondimenti nella scheda.
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In gioventù, Joseph Dombey fu un uomo amabile, di notevole prestanza fisica e di mente acuta, uno scienziato versatile e un botanico appassionato; ma dalla grande spedizione in Sud America da cui si attendeva sicura gloria (è ironico che tutti la chiamino Spedizione di Ruiz e Pavón e non, come sarebbe giusto, Spedizione di Ruiz, Pavón e Dombey) fu totalmente distrutto nella salute fisica e mentale e nella stessa reputazione. Intorno a lui e alle sue piante scoppiò un caso diplomatico internazionale, l'affare Dombey, che coinvolse tre paesi in un momento storico delicatissimo: la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna. Ne vedremo qui la prima fase, quella di cui fu protagonista diretto. Unica consolazione in una vita infelicissima lo spettacolare genere Dombeya, dedicatogli da uno spagnolo che non si faceva condizionare dal nazionalismo, l'abate Cavanilles. Una spogliazione o il rispetto di un contratto? Come ho raccontato in questo post, mentre i suoi compagni proseguivano le ricerche in Perù, il 14 aprile 1784 Joseph Dombey si imbarcò con le sue collezioni sul Peruano, lo stesso vascello che sei anni prima lo aveva condotto a Callao con Ruiz e Pavón. Portava con sé l'erbario, le descrizioni, le collezioni di conchiglie e minerali, reperti archeologici e etnografici; le raccolte degli spagnoli, molto più copiose delle sue, viaggiavano su una nave più piccola, la San Pedro de Alcantara. Il viaggio fu particolarmente lungo e difficile. Le due navi, partite insieme, ben presto furono costrette a separarsi . Appena superato Capo Horn, il Peruano fu investito dai venti contrari e solo con grande difficoltà riuscì a raggiungere Rio de Janeiro, dove dovette essere riaddobbato. Dombey, malato da tempo, versava in uno stato di grave prostrazione fisica a causa della dissenteria e dello scorbuto. Il soggiorno in Brasile, che si protrasse dall'inizio di agosto alla fine di novembre, gli permise di recuperare in parte la salute e di integrare le sue collezioni, soprattutto con acquisti di pietre preziose, uccelli impagliati e farfalle. E' dunque soltanto il 28 febbraio 1785 che un Dombey esausto e frastornato sbarca finalmente a Cadice; lo accoglie la notizia che, per ordine di Galvez, il Ministro delle Indie, le sue 78 casse verranno poste sotto sequestro in un locale della dogana. Poco dopo si viene a sapere che la San Pedro de Alcantara, per evitare il naufragio, è stata costretta a gettare a mare tutto il carico: le collezioni di Ruiz e Pavón sono perdute. In virtù di una clausola del contratto stipulato con la Spagna nel 1777, Dombey si era impegnato a consegnare metà delle sue collezioni all'orto botanico di Madrid. E' possibile che egli pensasse in tutta sincerità di aver già assolto questo obbligo con gli esemplari scambiati in Perù e in Cile con Ruiz e Pavón; è sicuramente con costernazione che ad aprile apprende che la Spagna intende rispettare alla lettera la clausola, imponendogli di spartire le sue raccolte per reintegrare il carico perduto della San Pedro de Alcantara. Obbedendo alle indicazioni che arrivano da Parigi, Dombey si rassegna, tanto più che, raccoglitore scrupolosissimo, ogni volta che gli è stato possibile ha conservato nel suo erbario dodici esemplari di ciascuna pianta; da Madrid però arriva una seconda richiesta, ancora più dolorosa: si chiede al botanico francese di promettere di non pubblicare nulla fino al ritorno dal Perù di Ruiz e Pavón, sempre sulla base del contratto del 1777. Dombey cerca di resistere, o per lo meno di temporeggiare, in attesa di istruzioni da Parigi; temendo il sequestro dei suoi diari di campo, li affida al capitano di una nave francese in partenza per la Francia. Di una cosa è certo: dietro tutti questi maneggi c'è una persona: Casimiro Gomez Ortega che ha organizzato tutto il complotto per riservare a se stesso (o ai suoi protetti) la gloria della pubblicazione della flora peruviana. Purtroppo per Dombey, per la diplomazia francese una collezione di piante secche o una pubblicazione botanica in più o in meno non valgono una crisi diplomatica: gli ingiungono di accettare tutto, anzi il Jardin des Plantes si impegna a non pubblicare prima degli spagnoli le specie inedite nate nel giardino dai semi inviati da Dombey dal Sud America. E qui l'"affare Dombey" si tinge di giallo. Il povero botanico si sente tradito, abbandonato, vittima di una congiura; sostiene di aver subito un attentato, che una persona che gli assomigliava è stata uccisa davanti alla sua porta. La sua partenza da Cadice, dopo dieci mesi di soggiorno forzato, è quasi una fuga. Imbarcatosi sulla Jeune Henry per le Havre con le 36 casse che gli restano, rientra a Parigi il 13 ottobre 1785. Un uomo piegato e distrutto, una fine tragica L'uomo che rivede infine la dolce Francia è il fantasma del giovane e promettente botanico che ne era partito nove anni prima. Quel giovanotto dal carattere amabile è oggi un uomo ombroso, sospettoso, afflitto da un (giustificato?) complesso di persecuzione; sparite sono la forza fisica e l'acutezza del pensiero. Ben presto è travolto dalla depressione, tanto che, quando Jussieu gli offre il seggio dell'Accademia delle Scienze lasciato vacante dalla morte di Guettard, rifiuta; poco dopo (siamo all'inizio del 1786) lascia Parigi per cercare sollievo prima a Gex, poi a Lione, infine a Tullins. Nelle lettere che invia agli amici, sfoga il suo umore nero e l'odio per i suoi persecutori veri o presunti, ovvero Ortega e Galvez, Prima di lasciare Parigi, tuttavia, ha consegnato l'erbario e le sue note al Jardin des Plantes; Buffon a sua volta li ha trasmessi a L'Héritier de Brutelle, che l'anno prima ha pubblicato alcune delle "specie proibite" nate dai semi di Dombey al Jardin des Plantes in Stirpes novae; L'Héritier si mette al lavoro e annuncia la pubblicazione di una Flora peruviana. Gli spagnoli la prendono male (tornerò su questa seconda parte dell'affare Dombey in un prossimo post) e il povero Dombey è costretto a giustificarsi con il ministro Calonne, cui giura di non saperne nulla. Si sente sempre più vittima di un complotto, al punto che scrive ad André Thouin (da sempre il suo amico più caro) che è deciso ad abbandonare la Francia per sottrarsi ai suoi persecutori. Ritornato a Lione, in una crisi di disperazione nell'ottobre 1786 brucia tutti i suoi manoscritti. Vanno in fumo nove anni di osservazioni sui minerali, la geografia, la meteorologia, le miniere, il chinino e altri argomenti studiati dal versatile e sfortunato scienziato. Per sei anni vive una vita oscura di provincia. Chi lo visitò in quel periodo, come il botanico Villars, lo descrive come un uomo triste, chiuso, che ha abbandonato la lettura, gli studi, la vita pubblica, disinteressato anche agli eventi politici che scuotono il paese. Unica traccia dell'uomo del passato è il soccorso che come medico continua a prestare agli ammalati più indigenti. Furono forse i terribili eventi di cui fu teatro Lione durante il Terrore a riaccendere in lui il desiderio di partire e, allo stesso tempo, di servire nuovamente la scienza e la sua patria. A offrirgliene l'occasione fu Thomas Jefferson, all'epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti. Tra le urgenze del nuovo stato c'era quello di uniformare il sistema dei pesi e delle misure, diverse da un angolo all'altro del paese. L'illuminista Jefferson era favorevole all'adozione del razionale sistema metrico decimale, che era stato da poco introdotto nella Francia rivoluzionaria; si rivolse perciò alla repubblica sorella perché inviasse un esperto. La scelta cadde sul nostro Dombey, che il 24 nevoso (17 gennaio 1794) partì da Le Havre su un brigantino statunitense, portando con sé un peso campione del chilogrammo. Costretto da una tempesta a riparare in Guadalupa, si trovò nel bel mezzo di uno scontro tra sostenitori e avversari della rivoluzione che lo trassero in arresto come inviato ufficiale della repubblica; liberato dai filo rivoluzionari, poté poi reimbarcarsi sul brigantino che lo aveva condotto nell'isola, ma appena la nave uscì dal porto fu catturata da vascelli corsari britannici. Dombey fu fatto prigioniero e condotto nell'isola di Montserrat. Così non giunse mai negli Stati Uniti, con due conseguenze: in quel paese tuttora si usano iarde, miglia, once e libbre, mentre Dombey, spezzato da tante disgrazie, morì in prigionia. Solo sei mesi dopo, nell'ottobre 1794, la notizia della sua morte arrivò a New York e da qui in Francia. Una sintesi della sua vita sfortunata nella sezione biografie. Dombeya, dal Madagascar con fioriture A consolarci da questa tristissima storia, ci sono per fortuna le splendide piante del genere Dombeya. A dedicarlo al nostro sventuratissimo botanico nel 1786 fu Cavanilles, abbastanza equanime dal non farsi condizionare dalle accuse di tradimento e spergiuro che i suoi conterranei riversavamo sul povero Dombey. Un tempo incluso nella famiglia Sterculiaceae, oggi confluita in Malvaceae, Dombeya nell'attuale delimitazione è uno dei generi più ampi della famiglia, con circa 250 specie di piccoli alberi e arbusti diffusi in Africa, in Madagascar, nella penisola arabica e nelle isola Mascarene. Il centro di diversità è il Madagascar, dove si incontrano oltre 200 specie. Genere molto vasto e morfologicamente vario, cresce in habitat diversi, dal bosco tropicale alla boscaglia d'altitudine. Le foglie alternate e semplici possono essere lobate, cuoriformi, quasi rotonde, glabre o pelose; i fiori a cinque petali, simili a quelli della malva, bianchi, rosati, galli o rossi, sono raccolti in fitte cime o ombrelle pendule. Alcune specie sono coltivate come ornamentali nelle zone a clima mite. La più nota è probabilmente D. wallichii, originaria dell'Africa orientale e del Madagscar, le cui rosee infiorescenze globose le hanno guadagnato il nome improprio ma suggestivo di "ortensia tropicale". Ugualmente spettacolare grazie alle fitte cime di fiori rosa pallido con cuore porpora è la fioritura di B. burgessiae, una specie diffusa in una vasta area che si estende dal Sudan al Sudafrica, . Molto coltivato nei paesi tropicali è D. x cayeuxii, un ibrido orticolo tra le specie precedenti ottenuto dal francese Henri Cayeux nel 1895. La più stupefacente è forse un'altra malgascia, D. cacuminum, con infiorescenze rosso vivo. Qualche approfondimento su queste e altre specie nella scheda. Linneo trascorse l'estate del 1736 in Inghilterra. Lo scopo ufficiale del viaggio, finanziato dal suo datore di lavoro George Clifford, era procurarsi piante rare per arricchire le collezioni del suo mecenate; ma per il giovane studioso svedese era soprattutto l'occasione per conoscere i "colleghi" britannici e propagandare il suo nuovo sistema. Contrariamente alle aspettative, fu tutt'altro che una tournée trionfale. A Londra, i big della botanica inglese, da Sloane a Miller, lo accolsero con freddezza; né meglio andò ad Oxford, dove Dillenius, il primo titolare della cattedra di botanica sherardiana, lo apostrofò come "l'uomo che ha messo l'intera botanica in confusione". A sentire Linneo e i suoi biografi, quello che era iniziato come un increscioso incidente diplomatico si risolse tuttavia in una vittoria dello svedese e in una dimostrazione luminosa dell'efficacia del suo metodo, tanto che alla fine l'arcigno tedesco l'avrebbe pregato in lacrime di diventare il suo assistente. Probabilmente non andò davvero così, ma è certo che da quel momento tra i due ci fu reciproca stima; l'anno successo, Linneo dedicò a Dillenius la sua Critica botanica e creò in suo onore il genere Dillenia. Del resto, il botanico tedesco era uno studioso di grande valore, la cui Historia muscorum segnò una tappa decisiva nello studio delle cosiddette "piante inferiori". Linneo a Londra: una fredda accoglienza Come ho raccontato in questo post (a proposito, era il centesimo e questo è il numero duecento!), tra il 1735 e il 1737 Linneo lavorò per il ricchissimo George Clifford, borgomastro di Amsterdam e direttore della Compagnia olandese delle Indie orientali, riorganizzando e catalogando il suo orto botanico privato di Hartekamp. Clifford desiderava ardentemente arricchire le sue collezioni con qualcuna delle rarità esotiche di provenienza americana coltivate nelle serre di Londra e Oxford; per questo accettò di privarsi per qualche settimana del "suo" botanico, inviandolo in Inghilterra a far incetta di piante. Per Linneo, che nel 1735 aveva pubblicato proprio in Olanda la prima edizione di Systema naturae, era l'occasione per conoscere di persona i big della botanica britannica, di cui sperava di ottenere il riconoscimento, proprio come aveva ottenuto quello di studiosi olandesi del calibro di Gronovius e Boerhaave. Gli esiti, tuttavia, furono molto lontani dalle speranze. Freddissima fu l'accoglienza di Hans Sloane, il presidente della Royal Society, cui Linneo si era presentato munito di una lettera proprio di Boerhaave, in cui quest'ultimo invitava l'illustre collezionista ad accogliere quel giovane degno di lui, aggiungendo che "chi vi vedesse insieme, vedrà una coppia di cui il mondo difficilmente potrà vedere l'uguale". Sloane, che aveva 77 anni ed era abituato ad essere universalmente riconosciuto e riverito, non gradì per nulla l'accostamento a quell'ignoto neolaureato svedese trentenne, e si degnò appena di mostrargli le sue collezioni e il suo erbario. Le cose non andarono meglio con Philip Miller, il capo giardiniere del Chelsea Physic Garden, da cui Linneo sperava di ottenere piante rare per il suo mecenate. Dopo la brutta esperienza con Sloane, egli, che aveva sentito dire che Miller era uno scozzese piuttosto scorbutico, pensò che fosse meglio comportarsi con prudenza. Quando quest'ultimo lo accompagnò a visitare il giardino e incominciò a illustrare le piante usando i prolissi nome-descrizione e le classificazioni di Ray e Tournefort, per non irritarlo rimase in silenzio. Il giorno dopo, venne a sapere che Miller si era fatto beffe di lui con i suoi amici dicendo che "quel botanico del borgomastro di piante non sa un'acca". Era troppo per Linneo che, quanto a brutto carattere, non era da meno di Miller. Alla sua seconda visita a Chelsea, quando il giardiniere gli mostrò l'erbario, contestò le sue denominazioni, sostenendo che "se ne possono usare di migliori e più sintetiche" e cercò in ogni modo di fare sfoggio delle sue competenze. Il risultato fu di far imbufalire Miller, che non amava essere contraddetto e giudicava Linneo un arrogante presuntuoso, il cui sistema non aveva nulla a che fare con la realtà delle piante, serviva solo a mettersi in mostra e non avrebbe avuto futuro; egli avrebbe cambiato idea solo molti anni dopo, nel 1768, quando nell'ottava edizione del suo Gardeners Dictionary si convinse finalmente ad adottare il sistema linneano. Gli errori di Linneo... e quelli di Dillenius Linneo non fu accolto a braccia aperte neppure ad Oxford, dove era andato appositamente per incontrare Johann Jacob Dillenius, lo scienziato di origine tedesca che da qualche anno era il titolare della prima cattedra di botanica presso quell'università, nonché curatore dell'orto botanico. Durante il primo incontro Linneo mantenne una condotta cortese e deferente. Esordì scusandosi di dover parlare in latino, visto che non conosceva l'inglese. Dillenius bruscamente si rivolse a un altro gentiluomo che assisteva al colloquio (secondo i biografi di Linneo, si tratterebbe di James Sherard) che gli aveva chiesto chi fosse quel giovanotto, dicendo: "E' l'uomo che ha messo l'intera botanica in confusione". Poiché aveva parlato in inglese, pensava che Linneo non avrebbe capito; lo svedese, invece, non solo capì che si parlava di lui, ma anche la sostanza delle parole di Dillenius (l'inglese confusion è simile al latino confusio), ma al momento decise di abbozzare. I tre quindi si spostarono in giardino; Linneo notò una pianta che non aveva mai visto: "Che pianta è?" "Dovreste dirlo voi a me!" "Certamente, se mi permettete di esaminare un fiore." "Avanti, lo faccia." Linneo eseguì e, contando gli stami e il pistillo, ne diede il nome corretto, ma non per questo Dillenius si sciolse. Linneo era ormai convinto che il suo viaggio fosse stato inutile e, visto che incominciavano anche a scarseggiare i soldi, il giorno dopo tornò da Dillenius per congedarsi. Questa volta il cattedratico era solo. Linneo lo pregò di inviare un servitore a fissare per lui la carrozza di posta che l'avrebbe riportato a Londra, quindi, con la massima cortesia di cui era capace, gli domandò: "Perché ieri avete detto all'uomo che era con voi che sono quello che porta confusione nell'intera botanica?" Dillenius, molto imbarazzato, cercò di cambiare argomento, ma Linneo insisteva. "Venite con me", disse allora il tedesco e lo portò nella sua biblioteca. Da uno scaffale estrasse una copia di Systema naturae che aveva ricevuto da Gronovius e mostrò quelle pagine costellate della sigla NB. "Che significa?" domandò Linneo. "Sono gli errori del vostro libro" "Non sono errori, ma se lo fossero, insegnatemi meglio. Riceverò con gratitudine le vostre correzioni". "Benissimo, proviamo. Ecco, ad esempio, il genere Blitum. Lei pretende che abbia un solo stame, ma ne ha tre". Linneo e Dillenius si spostarono in giardino, Linneo esaminò un fiore di Blitum e mostrò che lo stame era effettivamente uno. "Bah, è un esemplare anomalo". Li osservarono tutti e risultò che aveva ragione Linneo. L'esame continuò con altri generi, sempre dimostrando che le descrizioni di Linneo erano corrette. A questo punto, Dillenius cambiò totalmente atteggiamento, e, stando alla versione diffusa da Linneo, l'avrebbe addirittura supplicato in lacrime di non partire ma di fermarsi ad aiutarlo a classificare l'erbario di Sherard, in cambio di metà del suo salario. E' probabile che le cose non siano davvero andate così se poco dopo Dillenius scrisse a un collega "Linneo ha certamente una conoscenza approfondita della botanica, ma il suo metodo non funziona"; e qualche anno dopo avrebbe scritto allo stesso Linneo: "Non ha dubbi che voi stesso, un giorno, rigetterete il vostro sistema". In ogni caso tra i due si era stabilita una stima reciproca; iniziarono a scriversi e a scambiarsi esemplari e le rispettive pubblicazioni. Nel 1738 Linneo dedicò a Dillenius Critica botanica e tenne poi sempre in grande considerazione le opere del collega tedesco, da cui riprese diversi generi in Species plantarum. Un grande tassonomista e l'inizio dello studio scientifico delle crittogame Per quanto ritoccato da Linneo e dai suoi biografi, l'aneddoto assume quasi il valore di un metaforico passaggio di testimone tra la vecchia scuola tassonomica di Ray e Tournefort, di cui Dillenius fu un esponente di primo piano, e il nuovo sistema linneano. Del resto, tra i due protagonisti di questa storiella, curiosamente, c'è più di una affinità. Come Linneo si era trasferito in Olanda e aveva iniziato la sua carriera classificando le collezioni di un mecenate, lo stesso aveva fatto Dillenius, spostandosi dalla nativa Germania in Inghilterra al servizio del botanico e collezionista William Sherard. Nato nel 1684 a Darmstadt, si formò e insegnò medicina e botanica all'università di Giessen; nel 1719 pubblicò una flora dei dintorni di questa città, Catalogus plantarum sponte circa Gissam nascentium, che illustrò di propria mano, essendo anche un eccellente disegnatore e incisore. E' un'opera notevole perché, accanto alle fanerogame, tratta anche le crittogame e presenta uno dei primi tentativi di classificazione dei funghi; delle 160 specie di funghi descritte, 90 erano inedite; delle 200 specie di muschi, erano sconosciute ben 140. Questo lavoro diede fama europea a Dillenius e attrasse l'attenzione di William Sherard che nel 1721 lo invitò a trasferirsi in Inghilterra per aiutarlo a catalogare il suo immenso erbario e ad allestire il catalogo del giardino di Eltham nel Kent, dove suo fratello James (anche lui appassionato botanico) coltivava piante rare. Lavorando fianco a fianco con William Sherard, che aveva studiato a Parigi con Tournefort, Dillenius divenne uno dei migliori tassonomisti della sua generazione, con un'approfondita conoscenza anche del sistema di Ray, di cui nel 1724 curò la terza edizione di Synopsis Methodica Stirpium Britannicarum, incorporandovi tra l'altra l'opera sui muschi del reverendo Adam Buddle. Stabilitosi a Eltham, Dillenius divenne il curatore di quel magnifico orto botanico privato, di cui documentò le collezioni in Hortus elthamensis, uscito infine dopo una lunga rielaborazione nel 1732; in due spettacolari volumi in folio, con 324 tavole disegnate e incise dallo stesso Dillenius, è uno dei capolavori della botanica prelinneana, per la precisione delle descrizioni (la parte tassonomica è per lo più dovuta allo stesso Sherard) e la bellezza delle immagini, in cui vengono trattate e illustrate 417 piante rare e esotiche; di grande importanza storica la trattazione delle succulente sudafricane, che fu ampiamente riutilizzata da Linneo. Catalogare l'immenso erbario del maggiore dei fratelli Sherard richiedeva un impegno anche più gravoso: rendendosi conto che non gli restava molto da vivere, nel suo testamento William lasciò all'università di Oxford la sua biblioteca, il suo erbario e un lascito di 3000 sterline, a condizione che venisse istituita una cattedra di botanica da affidare al professor Dillenius, che avrebbe dovuto completarne lo studio e la catalogazione. Sherard morì nel 1728, ma Dillenius, ancora impegnato a Eltham, poté assumere il nuovo incarico solo nel 1734. Possiamo credere che non gli sarebbe davvero spiaciuto essere affiancato da Linneo, come lui aveva affiancato il vecchio Sherard; nelle sue lettere, spesso lamenta di aver perso tempo e denaro (sembra che i fratelli Sherard lo pagassero molto poco) in quel compito immane, di cui non venne mai a capo, anche perché, probabilmente, preferiva ricerche più originali, in particolare lo studio delle sue amate crittogame. Frutto di un lavoro ventennale, il suo capolavoro è infatti Historia muscorum (1741), in cui vengono trattati, oltre ai muschi, altri gruppi di "piante inferiori": funghi, alghe, licheni, epatiche, antocerote e licopodi, per un totale di 661 taxa. Anche in questo caso, le 85 tavole che illustrano il grosso volume di 576 pagine sono di sua mano. I funghi sono classificati sulla base delle caratteristiche del corpo fruttifero (criterio poi fatto proprio da Linneo) e vengono creati numerosi generi, che poi furono mantenuti dallo svedese. Ogni voce comprende una dettagliata descrizione, la lista dei sinonimi e l'indicazione degli eventuali usi. Era un'opera costosa, di cui furono stampate solo 250 copie, vendute al prezzo di una ghinea l'una, che si rivelò un insuccesso finanziario; per recuperare almeno in parte le spese, Dillenius ne preparò una versione abbreviata, priva di illustrazioni, che conteneva solo i nomi, l'habitat e una breve descrizione, rimasta però allo stadio di manoscritto. Per raccogliere il materiale necessario, nel 1726, egli aveva fatto una lunga escursione in Galles, ma soprattutto ricorse al contributo di numerosissimi corrispondenti in Inghilterra e all'estero. Morì nel 1747 in seguito a un colpo apoplettico. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Dillenia ovvero una chicca per elefanti Nel 1736 Clifford ottenne alcuni semi di una pianta indiana detta syalita; seminati a Hartekamp, germinarono, ma le pianticelle sopravvissero solo due settimane. Quanto bastava perché Linneo potesse includere anche questa specie nel catalogo del giardino, Hortus Cliffortianus (1737), traendo la descrizione da Hortus Malabaricus e da Herbarium Amboinense di Rumphius; stando a queste fonti, si trattava di un albero di notevole bellezza; Linneo ritenne capitasse proprio al momento giusto per ingraziarsi il bisbetico professore tedesco e la denominò Dillenia indica, con queste parole: "Ho nominato questo albero dai bellissimi fiori e dai frutti enormi in onore di Dillenius, dottore in medicina, botanico incomparabile dei tempi nostri, professore sherardiano a Oxford e membro dell'Accademia Leopoldina". Confermò poi il genere in Species Plantarum, 1753. Dillenia L, che dà il nome alla famiglia Dilleniaceae, comprende un centinaio di specie di alberi, arbusti e liane tropicali, diffusi tra il Madagascar, l'India, il sud-est asiatico e l'Oceania occidentale. La specie più nota è proprio D. indica; è un grande arbusto o un piccolo albero con chioma tendenzialmente tondeggiante e spettacolari fiori candidi che possono ricordare quelli di Magnolia grandiflora, seguiti da enormi frutti tondeggianti giallo-verdastro. Di sapore tra l'acido e l'amarognolo, in India sono aggiunti ai curry o usati per preparare marmellate e gelatine. A esserne ghiotti sono soprattutto gli elefanti (i frutti crescono molto in alto, dove non sono raggiungibili da animali più piccoli), tanto da essere noti come "mela degli elefanti". Di grande valore ornamentale e talvolta usata in giardini e alberate in aree a clima tropicale è D. philippinensis, endemica delle Filippine; simile alla precedente, ha fiori con cinque sepali candidi che circondano una doppia corona di stami rossi e porpora, seguiti da frutti globosi. Di quest'albero, detto catmon, viene utilizzato tutto: il legname; la corteccia da cui si ricava un colorante rosso; i sepali carnosi eduli; i frutti, il cui sapore dovrebbe ricordare quello di una mela acida, usati per preparare salse e confetture e aromatizzare il pesce; corteccia e foglie hanno proprietà astringenti, antinfiammatorie, antimicrobiche e analgesiche. Può essere coltivata come pianta da interni o da serra in grandi contenitori. Qualche notizia in più nella scheda. Alla fine, le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark non furono pubblicate né da B.S. Barton né da nessun altro botanico americano, ma in Inghilterra dal tedesco Frederick Pursh (nato Friedrich Pursch). Uno smacco per l'orgoglio nazionale degli Stati Uniti, appena usciti malconci dalla guerra del 1812 contro la perfida Albione. Insieme alla rivalità con altri botanici, primo fra tutti Thomas Nuttal, sta forse qui l'origine della leggenda nera che ha dipinto Pursh come mentitore seriale, plagiario, tassonomista mediocre e temerario, barbaro dalle fattezze tartare e, soprattutto, ubriacone senza speranza. Sicuramente la sua fu una vita inquieta e errabonda, conclusa precocemente nella miseria e nell'alcolismo. Rimangono a ricordarlo Flora Americae Septentrionalis, la prima flora del Nord America a comprendere specie continentali, raddoppiando il numero delle piante nordamericane fino ad allora pubblicate, e il genere Purshia, coraggioso e splendido ornamento dei monti e dei deserti del Nord America occidentale, il cui primo esemplare, ancora una volta, fu raccolto durante la spedizione di Lewis e Clark. Può essere ironico che, a celebrare un uomo accusato di essere troppo dedito alla birra, siano piante che non temono gli ambienti più aridi. Un inquieto botanico di talento Le vicende americane di Fredrick Pursh si intrecciano continuamente con quelle dei diversi personaggi che, in vario modo, ebbero a che fare con le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark: Thomas Hamilton, Bernard McMahon, il professor Barton, lo stesso Lewis. E alla fine fu proprio lui a pubblicarle per primo, nei due volumi di Flora Americae Septentrionalis, usciti a Londra tra la fine del 1813 e l'inizio del 1814. Tedesco, era nato a Großenhain in Sassonia nel 1774 con il nome di Friedrich Trauttgott Pursch; si era poi trasferito a Dresda, come apprendista giardiniere del Reale orto botanico, dove aveva ricevuto ottime basi teoriche da Johann Heinrich Seidel. La collaborazione a una flora dei dintorni della città gli permise di acquisire anche qualche esperienza editoriale. Spirito inquieto e avventuroso, nel 1799 lasciò la Germania per gli Stati Uniti, dove servì successivamente come giardiniere presso diversi privati tra Baltimora e Filadelfia. Nel 1803 Thomas Hamilton lo assunse come giardiniere capo di Woodlands, in sostituzione di John Lyon. Poté così conoscere i numerosi naturalisti e botanici che frequentavano la casa, tra cui Henry Muhlenberg, William Bartram e Benjamin Smith Barton; desideroso di liberarsi del lavoro nelle aiuole per dedicarsi completamente all'esplorazione e allo studio delle piante, nel 1805 lasciò anche Hamilton per passare al servizio di Barton, come curatore dell'erbario e raccoglitore. Per suo conto, intraprese infatti alcune spedizioni, in cui si mosse a piedi, con la sola compagnia di un cane, la prima delle quali, tra aprile e novembre 1806, lo portò in Virginia e sulle montagne tra le Caroline e la Georgia. Nel frattempo, a Filadelfia incominciavano ad arrivare le piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, gli essiccata affidati per volontà del presidente Jefferson alla American Philosophical Society in vista della pubblicazione da parte di Barton, e i semi a Hamilton e McMahon. Ma il lavoro di Barton, secondo la sua abitudine di molto progettare e poco concludere, non faceva alcun progresso. Fu così che, probabilmente dietro suggerimento di McMahon, nell'aprile 1807 Lewis incontrò Pursh e, impressionato dalla sua competenza, gli chiese di illustrare le "sue" piante, dietro il compenso di 60 dollari. Poco dopo, Pursh partì per la sua seconda escursione botanica, che lo portò sulle montagne tra Pennsylvania e Vermont in direzione dei grandi laghi. Di ritorno a Filadelfia a ottobre, si stabilì a casa di McMahon e lavorò tutto l'inverno ai disegni, e presumibilmente anche alle descrizioni, visto che da parte del professor Barton, che avrebbe dovuto occuparsene, non si registrava alcun progresso. Lo scontento di Pursh verso il dilatorio professore cresceva. Nel 1809, probabilmente anche in questo caso grazie alla raccomandazione di McMahon, fu assunto come curatore dell'Elgin Botanical Garden di New York, appena fondato da David Hosack. Lasciando Filadelfia, portò con sé i disegni, le descrizioni e i doppioni dell'erbario della spedizione (compreso qualche esemplare che aveva "sezionato" per avere un proprio campione), forse già con l'intenzione di pubblicare le piante in proprio, decisione probabilmente rafforzata dalla tragica morte di Lewis, avvenuta nell'ottobre 1809. Neppure a New York il nostro inquieto botanico si trattenne a lungo; nel 1810 visitò le Indie Occidentali, anche per ragioni di salute, e nel 1811, viste anche le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che sarebbero sfociate nella guerra del 1812, partì per Londra. A spingerlo a questo passo, oltre alla speranza di trovare uno sponsor e un editore, la possibilità di consultare le biblioteche e gli erbari di numerosi botanici che avevano esplorato la flora nordamericana prima di lui. Nella capitale inglese Pursh trovò il protettore che cercava nella persona di Aylmer Bourke Lambert, vicepresidente della Linnean Society, grande collezionista di erbari e esperto di conifere (il suo nome è ricordato da Pinus lambertina). Dunque, con grande smacco dei botanici americani, le piante della grande spedizione "nazionale" di Lewis e Clark furono finalmente pubblicate a Londra da un tedesco. Prima di esaminare meglio Flora Americae Septentrionalis, un cenno alle successive vicende di Pursh. L'opera gli procurò una certa fama almeno in Inghilterra, se subito dopo gli venne affidata la cura dei cataloghi di alcuni giardini botanici; ma egli non era tipo da accontentarsi di un tranquillo lavoro editoriale. Desiderava ripartire e riprendere la ricerca sul campo. Nel 1814 respinse l'invito a dirigere il neo istituito orto botanico dell'Università di Yale; nel 1816 accettò invece quello di lord Selkirk di aggregarsi come botanico al nuovo insediamento del Red River in Canada. Partito dall'Inghilterra nel febbraio di quell'anno, si trovava già in Canada quando il progetto fallì in seguito all'assassinio del capo della spedizione, Robert Semple. Nei quattro anni che gli restavano da vivere, povero, senza alcun sostegno ufficiale e afflitto da problemi crescenti di alcoolismo, Pursh fece diverse escursioni botaniche nel paese, in particolare nel bacino del San Lorenzo e nell'isola di Anticosti, con l'intenzione di scrivere una flora del Canada. Aveva già raccolto circa 1000 esemplari, quando tutta la sua collezione fu distrutta in un incendio. Era l'ultimo colpo alle sue speranze. Morì a Montreal, ad appena 46 anni. Una sintesi di questa vita inquieta nella sezione biografie. Un'opera importante e molte polemiche Arrivato a Londra presumibilmente nel novembre 1811, ospite di Lambert, Pursh si mise immediatamente al lavoro. Già nel febbraio 1812 scrisse a James Edward Smith, proponendogli di pubblicare sulle Transactions della Linnean Society una relazione sulle piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Con l'incoraggiamento di Lambert, che gli fece aprire le porte delle biblioteche e delle collezioni di Banks e Smith, il progetto si ampliò a una flora dell'America settentrionale. Con una certa disinvoltura, senza il permesso dei raccoglitori, Pursh incominciò ad includervi non solo le specie di Lewis e Clark e quelle raccolte da lui stesso nel corso delle escursioni fatte al servizio di Barton e Hosack, ma anche le piante di cui era venuto a conoscenza grazie alla liberalità di Muhlenberg e di altri amici con i quali aveva erborizzato (senza né citarli né ringraziarli). Una disinvoltura che spiacque allo stesso Smith, il quale, a quanto pare, quando seppe in che modo Pursh era venuto in possesso degli esemplari raccolti da Lewis e Clark, non solo rifiutò di pubblicarli, ma evitò di venire a trovarsi nella stessa stanza con lui. Nella primavera del 1812, Pursh incontrò Nuttall, suo successore come raccoglitore di Barton, che gli mostrò le sue collezioni. Inoltre, in seguito a complesse circostanze, erano pervenuti a Lambert i duplicati delle collezioni dell'inglese John Bradbury, che nel 1811 aveva raccolto insieme a Nuttall lungo il fiume Missouri e poi da solo oltre Fort Mandan. Senza il permesso dell'autore (intrappolato dalla guerra negli Stati Uniti), Pursh decise di includere nella sua opera un'appendice con quaranta piante inedite raccolte da Bradbury. Anche Nuttall si lamentò in tal senso; tuttavia, poiché egli aveva ripercorso parte dell'itinerario di Lewis e Clark, raccogliendo le stesse piante, questa accusa è forse infondata. Tramontata la possibilità di pubblicare il suo lavoro sulle Transactions, Pursh si rivolse al Botanical Magazine, un mensile con il quale collaboravano sia lui sia Nuttall, in quella che divenne quasi una gara per la primogenitura. I due volumi di Flora Americae Septentrionalis uscirono ufficialmente il 10 gennaio 1814, ma poiché la stampa era stata completata qualche settimana prima, già a dicembre alcune copie vennero distribuite a personaggi influenti in vista della presentazione nella riunione mensile della Linnean Society. L'opera contiene la descrizione di 470 generi e 3076 specie, cui va aggiunto il supplemento con le 40 specie di Bradbury; tra di esse, quelle raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark sono 132; solo 24 sono illustrate da disegni eseguiti dallo stesso Pursh a Filadelfia. Benché preceduta di pochi anni da Flora Boreali-Americana di André Michaux (1803) e seguita quasi immediatamente da The Genera of North American Plants di Thomas Nuttall (1818), l'opera di Pursh riveste una notevole importanza storica. Rispetto alla flora del francese, che rendeva conto delle piante degli Stati atlantici, allarga il campo a molte specie continentali, sia delle Montagne rocciose sia della costa pacifica; inoltre la precedenza cronologica rispetto a Nuttall ha imposto molte delle sue denominazioni. Tra i generi da lui creati, vorrei ricordare Calochortus e soprattutto Lewisia e Clarkia, in onore dei due capi della celebre spedizione; tra le specie, Gaillardia aristata, Arbutus menziesii, Gaultheria shallon, Euphorbia marginata, Ribes sanguineum, Philadelphus lewisii, Linum lewisii. Inutile dire che i botanici americani non la presero affatto bene. Tra i più drastici, Constatine Samuel Rafinesque che nella sua recensione del 1819 segnalò 43 errori macroscopici e così si espresse: "L'ignoranza presiede tutta l'opera. Gli errori, gli spropositi, le denominazioni improprie che la costellano sono innumerevoli. Cambiare un nome buono con uno cattivo è un'assurda temerarietà. Eppure a tale temerarietà inclina Mr. Pursh; vorrei però avvisare tanto lui quanto chi volesse seguire la sua autorità, che sarebbe meglio tornasse a scuola, e imparasse l'abc della botanica, come fanno i bambini quando imparano l'alfabeto". Non mancarono dicerie sulla persona stessa di Pursh; già Barton aveva diffuso la fama della sua propensione all'alcool. John Francis, un amico di Hosack che soggiornò a Londra negli anni in cui vi viveva Pursh, disse di lui: "E' il peggiore nemico di sé stesso: è ubriaco al mattino, a mezzogiorno e alla sera". Un aneddoto, probabilmente falso, vuole che, per vedere Flora Americae septentrionalis finita, Lambert fosse costretto a chiuderlo a chiave nell'attico che gli aveva messo a disposizione con gli esemplari, libri, carta, inchiostro, cibo e birra. Un altro contemporaneo che lo incontrò a Montreal lo descrisse come un uomo brillante, sicuramente entusiasta della botanica, ma incolto, tagliato con l'accetta, con fattezze tartare, un barbaro nativo della Russia (una diceria che dovette essere diffusa, se si pensa che nei necrologi usciti in Canada è definito "il celebre botanico Frederick Pursh, nato in Russia"). Purshia, rose dei deserti Tra le piante della spedizione di Lewis e Clark, Pursh descrisse un arbusto raccolto lungo il Columbia River come Tigarea tridentata. Nel 1816, de Candolle riconobbe la sua appartenenza a un genere proprio, che battezzò Purshia in onore del nostro discusso botanico, la cui opera, al di là dei metodi disinvolti e degli innegabili errori, fu comunque una pietra miliare nella storia della botanica americana. Lo dimostrano anche le successive dediche di un genere Purshia da parte di due botanici tedeschi, Sprengel (1817) e Dennstedt (1818). A essere valido, per la regola della priorità, è quello di de Candolle. Purshia DC. della famiglia Rosaceae comprende 5-8 specie di arbusti endemici dell'America nordoccidentale, dal British Columbia in Canada al Messico settentrionale. Crescono in ambienti aridi sia di montagna sia delle steppe desertiche temperate. Sono arbusti o anche piccoli alberi con foglie piccole, profondamente lobate, e fiori molto decorativi con cinque petali più o meno separati bianchi, gialli o rosa e vistosi stami gialli. I frutti sono acheni piumati, che vengono facilmente dispersi dal vento. Molto resistenti alla siccità e adattabili ai suoli poveri grazie ai noduli sulle radici che ospitano i batteri azoto-fissatori Frankia, sono piante pioniere, spesso con un ruolo di specie dominante. Il genere oggi comprende anche le specie meridionali un tempo incluse in Cowania. La specie a più ampia diffusione è quella descritta da Pursh, Purshia tridentata, una specie montana con delicati fiori giallo pallido che può diventare un alberello alto fino a cinque metri. Il nome inglese antelope bush, antelope bitterbush sottolinea la sua importanza nell'alimentazione di Antilocapra americana e altri ungulati. Le radici amare erano usate dai nativi come medicinale, mentre dai semi veniva ricavata una tintura violacea. Di notevole importanza ecologica anche Purshia stansburyana, nativa dell'Ariziona e del Messico settentrionale, le cui fronde forniscono un'eccellente pastura a molti ungulati selvatici, inclusi alce, cervo mulo e bighorn del deserto. I suoi fiori bianchi dai grandi petali la fanno assomigliare a una rosellina; poiché il suo habitat preferito sono le rocce, su cui si abbarbica grazie alle profonde radici, è infatti detta cliffrose. Stansbury's cliffrose. Ulteriori informazioni sulle altre specie nella scheda. Curioso destino, quello di William Forsyth: reputato dai contemporanei un'autorità indiscussa soprattutto nel campo delle piante da frutto, scrisse un best seller che resistette per decenni, stampato e ristampato; un successo professionale che raggiunse il suo apice con la creazione del Forsyth's plaister, che inizialmente gli procurò fama, onori e denaro, ma poi finì per rovinare i suoi ultimi anni (e la sua reputazione presso i posteri). Ora è ricordato soprattutto grazie alla solare forsizia, che con le sue esplosive fioriture annuncia l'arrivo della primavera. Un prototipo di giardino roccioso... Abbiamo incontrato William Forsyth tra i sette padri fondatori della (futura) Royal Horticultural Society: a lui si rivolse Wedgwood per chiedergli di coinvolgere Banks, e sicuramente fu lui il principale organizzatore della fatidica riunione del 7 marzo 1804. Del resto, in quel momento era un'autorità: curatore dei giardini reali di Kensington e Saint James, autore di un volume di successo sull'arboricoltura, godeva del sostegno di membri del parlamento e dell'ammiragliato. Ma andiamo con ordine. Nato nel 1737 a Old Medrum, nei pressi di Aberdeen, Forsyth era uno dei numerosissimi giardinieri scozzesi che a partire dalla seconda metà del Settecento per circa un secolo quasi monopolizzarono l'orticultura inglese. Come molti conterranei, venne a cercare fortuna a Londra. Dopo aver perfezionato la sua formazione con Philip Miller al Chelsea Physic Garden, nel 1763 fu nominato capogiardiniere di Syon House, il grande parco londinese di proprietà del duca di Northumberland che proprio in quegli anni veniva riplasmato come giardino paesaggistico da Capability Brown. Nel 1771, quando l'ottuagenario Miller fu costretto al pensionamento dal Comitato dei farmacisti, gli subentrò come giardiniere capo a Chelsea; la sua assunzione fu subordinata all'accettazione di regole ferree imposte dal Comitato, che mal aveva sopportato l'indipendenza e il caratteraccio di Miller; il Comitato si riservava di decidere ogni particolare della sistemazione del giardino, e Forsyth doveva chiederne l'autorizzazione per ogni più piccolo spostamento, oltre che per scambiare piante e semi con altre istituzioni. Nonostante questo (e le condizioni finanziarie poco brillanti, con una paga annua di 50 sterline), si trattava di un incarico prestigioso: all'epoca - Kew era ai suoi esordi - Chelsea era il più importante orto botanico del paese. Forsyth lo curò per 13 anni. Durante la sua gestione, il giardino si arricchì di nuove specie, soprattutto tropicali, grazie ai buoni rapporti con vivaisti (come Gordon e Lee), collezionisti come lo stesso duca di Northumberland e Fothergill, e lo staff di Kew (il capo giardiniere Aiton e, ovviamente, lo stesso Banks). Forsyth stimolò anche l'attività di cacciatori di piante, come John Fraser. Tra le piante esotiche che giunsero in quegli anni a Chelsea, Caesalpinia pulcherrima, il pimento (Pimenta dioica), l'anatto (Bixa orellana), il mogano (Swietenia mahagoni), Guaiacum officinale, Senna alata. Sull'esempio del suo predecessore, Forsyth mantenne inoltre fitte relazioni e scambi con altre istituzioni botaniche e singoli studiosi nel resto d'Europa. Due furono le imprese più impegnative in cui si trovò coinvolto: in primo luogo, la ricollocazione delle piante che a partire dal 1773 ricevettero una collocazione sistematica basata sul sistema di Linneo; in secondo luogo, la creazione di quello che è considerato il più antico giardino roccioso europeo. Nel 1771 la Società dei Farmacisti decise infatti di creare un'area adatta alla coltivazione di piante che richiedono un substrato roccioso. Il progetto probabilmente si deve non Forsyth - che ebbe un ruolo di esecutore - ma a Stanesby Alchorne, il prefetto dell'orto, e a Uriah Bristow, membro del Comitato e più tardi Maestro della Società. Poiché i farmacisti non avevano fondi, per la costruzione si ripiegò inizialmente su materiali di recupero, in particolare pietre provenienti dalla Torre di Londra (che Alchorne pagò di tasca sua). Venne poi in soccorso Joseph Banks, che nel 1772 donò un carico di pietra lavica trasportato dall'Islanda. Con questi materiali Forsyth creò un monticello ovale di pietra dal diametro di appena 40 passi, che venne decorato con un assortimento di oggetti bizzarri: minerali insoliti; madrepore e coralli; una conchiglia gigante portata da Cook dai mari del Sud (che esiste tuttora); un busto dello stesso Banks. Chiamato semplicemente The Rock e costruito nel corso dell'estate del 1773, fu la prima struttura del genere in Europa. Sfortunatamente, non ci sono rimaste né informazioni su quali piante vi crescessero né illustrazioni d'epoca (la più antica è del 1890). Sotto l'opprimente tutela del Comitato e con una paga sempre più insoddisfacente mano a mano che la sua famiglia cresceva insieme alla sua reputazione di eccellente giardiniere, Forsyth si trovò a combattere con difficoltà economiche e organizzative: nel 1774 riuscì a strappare all'avaro Comitato il permesso di vendere le piante eccedenti e di coltivare una parte dell'orto a proprie spese e per il proprio uso; nel 1775, mentre continuavano i grandi lavori di trapianto richiesti dalla ricollocazione sistematica, ottenne l'assunzione di un terzo aiuto giardiniere, ma solo da marzo a ottobre. Nel 1777 rimase senza esito la sua richiesta di un aumento salariale, rimasto invariato da anni nonostante il rincaro del costo della vita. Un mastice miracoloso? A sollevarlo da queste difficoltà giunse nel 1784 la nomina a Sovrintendente dei giardini reali di Kensington e St. James; in questa nuova veste, Forsyth dovette occuparsi della coltivazione di verdure e della cura delle piante da frutto. Molte erano vecchie, in cattive condizioni, affette da cancri e altre malattie del legno. Per riportarle in salute, oltre a rimuovere accuratamente le parti malate, Forsyth mise a punto la ricetta di un particolare mastice che, a suo dire, non solo chiudeva i fori e consolidava l'albero, ma consentiva la ricrescita di legno nuovo e sano. Il ritrovato (Forsyth ne manteneva segreta la composizione) suscitò l'immediato interesse delle alte sfere: disporre di alberi sani, in particolare querce, era essenziale per la marina inglese, civile e miliare, specie dopo la perdita delle colonie americane, che si aggiungeva alla costante diminuzione delle foreste britanniche. Nel luglio del 1789 (una decina di giorni dopo la presa della Bastiglia) i due rami del parlamento incaricarono un comitato di vagliare l'efficacia del mastice (noto come Forsyth's plaister) e di riferirne al Tesoro; visto il parere favorevole, nel maggio 1791 quest'ultimo dispose il pagamento a Forsyth di un premio di 1500 sterline in cambio della ricetta miracolosa. Eccola: uno staio di letame fresco, mezzo staio di calce, mezzo staio di cenere di legna, una sedicesima parte di sabbia di fiume, cui potevano aggiungersi, per rendere la miscela più fluida, urina e sapone. Per quanto possa apparirci bizzarra, non è molto dissimile dalle ricette in uso all'epoca (e da certi mastici e paste per tronchi ancora oggi usati, tra l'altro, nell'agricoltura biodinamica). L'opinione pubblica si divise: ad alcuni pareva uno spreco di denaro pubblico, per non dire una soperchieria o un caso di manifesta corruzione, che si fosse pagata una cifra enorme - vi ricordate la paga di Forsyth a Chelsea? - per un prodotto ben poco dissimile da quelli usuali. Altri - come capita anche oggi - furono invece sedotti proprio dalla semplicità della procedura e dal basso costo degli ingredienti di un prodotto che si voleva miracoloso, tanto più che a metterlo a disposizione di tutti aveva pensato lo stesso Forsyth, rivelandone pubblicamente la formula in appendice a Observation on the diseases, defects, and injuries in all kinds of Fruit and Forest Trees ("Osservazioni sulle malattie, i difetti, le lesioni di ogni tipo degli alberi da frutto e forestali"), uscito sempre nel 1791. A difendere a spada tratta il ritrovato di Forsyth (oltre a uomini politici, membri dell'ammiragliato e uomini della strada) fu soprattutto l'agronomo James Anderson nel suo Recreation in agricolture (1799). Sul versante opposto, il critico più reciso fu Thomas Andrew Knigth che nel 1801, nella seconda edizione di A Treatise on the Culture of Apple and Pear ("Trattato sulla coltivazione delle mele e delle pere"), avanzò alcuni dubbi, ribaditi più estesamente l'anno successivo in Some doubts relative to the efficacy of Mr. Forsyth's plaister in filling up the holes in trees ("Alcuni dubbi sull'efficacia del mastice di Forsyth nel riempire i buchi degli alberi"). Grande esperto di alberi da frutto (è considerato il padre della pomologia britannica), studioso della fisiologia vegetale che per alcuni aspetti anticipò Mendel, prove sperimentali alla mano, Knight dimostrò che il preteso mastice miracoloso non era certo in grado di far rinascere il legno morto; era solo una pasta che riempiva i buchi in modo tale che "era impossibile distinguere il legno nuovo dal vecchio". La risposta di Forsyth non si fece attendere; in appendice alla sua fortunata opera A Treatise on the culture and management of Fruit-Trees ("Trattato sulla coltivazione e la gestione degli alberi da frutto"), uscito anch'esso nel 1792, attaccò, senza nominarlo esplicitamente, il "libello" di Knight e allegò le testimonianze dell'efficacia del suo mastice, che gli giungevano da ogni dove, da San Pietroburgo a Madras. Knight, a sua volta, rincarò la dose, giungendo a insinuare che Anderson fosse in combutta con Forsyth. La polemica si trascinò per anni, sempre più violenta. Intanto, il trattato di arboricoltura di Forsyth conosceva uno strepitoso successo: senz'altro il più letto e più influente manuale sull'argomento di primo Ottocento, fu ristampato per almeno un trentennio, ne fu pubblicata un'epitome negli Stati Uniti e traduzioni in altri paesi. Anche se oggi molte delle pratiche che vi sono consigliate (prima tra tutte il trattamento delle lesioni del legno) sono superate, ne emerge chiaramente la profonda padronanza del soggetto da parte dell'autore. Il quale, probabilmente, non era dunque né un ciarlatano né un imbroglione: credeva in buona fede che il suo mastice fosse in grado di rigenerare il legno, senza rendersi conto che le piante non traevano giovamento dal plaister in quanto tale, ma dall'accurata rimozione delle parti malate. Quanto a Knight, Forsyth se ne vendicò come poté: come organizzatore della riunione che portò alla nascita dell'Horticultural Society, usò tutta la sua influenza per escluderne l'arcinemico, benché fosse uno scienziato rinomato e un protetto di Banks. Del resto, una vendetta di breve durata; Forsyth mori pochi mesi dopo (una sintesi della sua vita nella sezione biografie) e Knight non solo entrò a fare parte della Society, ma a partire dal 1811 ne divenne presidente (incarico che mantenne per 27 anni). Alla scoperta delle solari forsizie In una simile atmosfera polemica, è improbabile che un botanico britannico avrebbe dedicato un genere a Forsyth; a commemorarlo tuttavia pensò il danese Martin Vahl che nel stesso anno della sua morte gli dedicò Forsythia, riconoscendo come appartenente a un nuovo genere Syringa suspensa, un arbusto giapponese descritto per la prima volta da C. P. Thunberg nel 1784. Il genere Forsythia, della famiglia Oleaceae, comprende una decina di specie di arbusti di origine soprattutto orientale (Cina, Corea, Giappone), con l'eccezione di F. europaea, nativa della penisola balcanica. Oggi è difficile immaginare un giardino o un parco senza le immancabili forsizie, che con le loro prorompenti fioriture color oro sono un vero e proprio araldo della primavera. Eppure sono arrivate da noi da meno di 150 anni. Dopo la segnalazione di Thunberg, bisogna aspettare un altro grande divulgatore della flora giapponese, Franz von Siebold, perché la prima Forsythia asiatica raggiunga l'Europa: è ancora F. suspensa, importata in Olanda intorno al 1830 e approdata in Inghilterra, nei famosi vivai Veitch, nel 1855. Nel 1864, il cacciatore di piante Robert Fortune introduce la varietà eretta (F. suspensa var. fortunei). Lo stesso Fortune, nel suo primo viaggio in Cina (1844-45) in un vivaio cinese si era imbattuto nella seconda specie decisiva per i moderni ibridi, F. viridissima. F. suspensa e F. viridissima sono infatti i genitori di F. x intermedia, nata da un incrocio casuale nell'orto botanico di Gottinga in Germania nel 1878. Nei decenni seguenti, numerosi altri ibridi x intermedia vengono attenuti dai vivaisti tedeschi; il più fiorifero e vigoroso di tutti è probabilmente 'Spectabilis', creato nel 1908 dal vivaio tedesco Spath, ancora oggi molto diffuso. Dopo la prima guerra mondiale, sono invece gli ibridatori statunitensi a dominare il campo; tra le cultivar più note, 'Lynwood' (nata da uno sport di 'Spectabilis' in Irlanda, ma resa popolare da vivaisti americani) e 'Arnold Giant', creata nell'Arnold Arboretum nel 1946. Ancora più tardiva è la conoscenza e la diffusione delle altre specie. F. europaea fu scoperta nel 1897 in Albania; la scoperta di F. giraldiana, un'altra specie cinese, si deve invece al missionario italiano Giuseppe Giraldi, che la raccolse nello Shanxi nel 1897. Solo nel Novecento di aggiungeranno la giapponese F. japonica, descritta nel 1914 da Tomitaro Makino, lettore di botanica all'Università di Tokio, e la coreana F. ovata, raccolta nel 1917 da Takenoshi Nakai sulla Montagna di Diamante nella Corea centrale. Altri approfondimenti nella scheda. Nel 1545 nasce l'Orto botanico di Padova; coincidenza vuole che entrambi i suoi primi curatori si accapiglino con Mattioli. Il secondo, il tedesco italianato Melchiorre Guilandino, approda all'istituzione dopo una vita avventurosa; la guida per 23 anni e diventa un prestigioso professore, il primo a illustrare le piante dal vivo. Linneo gli dedica lo spinoso genere Guilandina. Gli esordi dell'Orto botanico di Padova Nel 1545, su sollecitazione del medico e professore universitario Francesco Bonafede, il Senato della Repubblica veneta delibera la creazione di un giardino dei semplici, destinato alla formazione degli studenti di medicina dell'Università di Padova. Nasce così quello che si vanta di essere il più antico Orto botanico universitario, inserito addirittura nella lista dei siti Unesco patrimonio dell'umanità. Per una curiosa coincidenza, a dirigerlo furono chiamati, uno dopo l'altro, i due arcinemici di Mattioli: Luigi Anguillara e Melchiorre Guilandino. Il primo "prefetto dell'orto" fu appunto Luigi Anguillara, che resse l'istituzione dal 1547 al 1561, portandola subito a un livello di eccellenza come riferiscono le testimonianze dei visitatori dell'epoca. Era giunto a Padova preceduto dalla fama dei suoi viaggi botanici a Cipro, in Grecia, nella Dalmazia, in Provenza e nella stessa Italia; nonostante le malignità di Mattioli, era un botanico eccellente, come dimostrò anche nella sua opera maggiore, Semplici (1561). Non altrettanto versato fu, a quanto pare, nel settore amministrativo; forse per questo, o per le calunnie del velenoso Mattioli (che lo apostrofava con frasi come "Ho visto la coglioneria dei pareri dell’Anguillara, né mai harei pensato che questa bestiaccia scannata fosse stato così mariolo, ignorantissimo, invidiosissimo, malignissimo [...] invero non si può tanto svilirlo e vituperarlo che non meriti peggio") nel 1561 diede le dimissioni, per trasferirsi a Ferrara come medico del duca e professore di quella Università. Dalla Borussia con furore Dopo pochissimi mesi gli subentrò proprio quel Melchiorre Guilandino protagonista di una lunga e feroce disputa con Mattioli. Arrivava da lontano, addirittura dalla baltica Königsberg (la patria di Kant); secondo gli usi del tempo aveva latinizzato in Guilandinus il suo vero nome, Melchior Wieland; amava definirsi "borusso", dal nome latino della sua patria, la Prussia. Al momento di assumere l'incarico, il botanico prussiano era sui quarant'anni e aveva alle spalle una vita alquanto burrascosa. Dopo essersi probabilmente laureato in medicina, era venuto in Italia, dove aveva vissuto qualche anno in Sicilia e a Roma, in terribili ristrettezze. A metà degli anni cinquanta lo ritroviamo in Veneto grazie all'ambasciatore veneto alla curia pontificia, Marino Cavalli, che lo aveva conosciuto a Roma, apprezzandone la competenza botanica. Si trasferisce a Padova, brillantissimo centro universitario dove sta nascendo la nuova scienza; stringe amicizia e condivide la casa con uno dei protagonisti di questa svolta, il medico Gabriele Falloppio. La querelle con Mattioli inizia nel 1556 con una lettera privata a Gessner in cui Guilandino solleva - in tono sferzante - critiche a "quel Dio dei botanici" e alle sue identificazioni; nonostante gli inviti alla moderazione dello svizzero, la lettera viene data alle stampe, in De stirpium aliquid nominibus vetustis ac novis (1557), insieme ad altri scritti in cui Mattioli è esplicitamente chiamato in causa. Il senese per ora incassa: corregge gli errori nella nuova edizione dei Commentarii e risponde con una lettera, non al "cane arrabbiato barbaro Borusso" ma "all'Eccellentissimo S.or Gabriele Falloppia a cui sta in casa, acciò che lo corregga della sua temerarietà e poltroneria". Nel 1558 Guilandino rincara la dose con Apologiae adversus Petr. Andream Mattheolum liber primus, in cui si esaminano cento errori contenuti nell'opera di Mattioli, accusato di non sapere né il greco né il latino e di aver plagiato i grandi botanici del tempo, senza aggiungere una riga di novità. Dopo una seconda lettera senza risposta a Falloppio - questa volta privata - l'infuriatissimo Mattioli si convince che dietro all' "infame bestia", al "tristo furfante, mal nato e peggio allevato" ci fosse proprio Falloppio. Visto il silenzio dell'anatomista, concluse: "non potrò credere altrimenti se non che voi siate stato la balestra e egli il bolzone" (ovvero, Guilandino era stata la freccia, ma Falloppio la balestra che l'aveva scagliata). Ma nel frattempo Guilandino parte per l'Oriente, deciso a sfruttare i contatti e la rete diplomatica veneziana per esplorare dal vivo le piante del Mediterraneo orientale e del nord Africa, ponendosi come meta finale le favolose Molucche. Mattioli saluta con sollievo la sua partenza, augurandogli addirittura che i turchi "lo puniscano con un palo", e non manca di cercare di danneggiarlo, inviando una lettera piena di malignità al figlio di Marino Cavalli, all'epoca Bailo veneziano a Costantinopoli. Non conosciamo nei dettagli il viaggio di Guilandino in Oriente, tranne che, ottenuto un salvacondotto da Solimano il Magnifico grazie a Jean de la Vigne, ambasciatore della Francia a Costantinopoli, cercò di raggiungere la Persia, ma dovette tornare indietro a causa della guerra; toccò quindi il Turkmenistan, la Siria, la Palestina, l'Egitto. Qui si imbarcò alla volta della Sicilia e, da qui, per Lisbona (con l'idea di cercare un passaggio per l'India), ma la nave fu catturata dai corsari algerini. Condotto ad Algeri, fu venduto come schiavo e rimase in cattività nove mesi, finché l'amico Falloppio, conosciuta la sua sorte, si recò in Grecia e lo riscattò per l'ingente somma di duecento scudi. Le avventure non erano finite: la nave che doveva riportarlo in Italia fece naufragio e Guillandino si salvò a stento. Fu soccorso da alcuni nobili genovesi e nel 1561 era di nuovo a casa. Ma in queste vicissitudini tutti gli esemplari, tutti i preziosissimi appunti erano andati perduti. Curatore dell'Orto e Ostensore dei semplici Ma torniamo a quel 20 settembre 1561 in cui Guillandino diventa curatore dell'Orto: nella sua nomina contano la protezione di Marino Cavalli; la fama di grande erudito; la conoscenza delle piante orientali acquisita nello sfortunato viaggio; la provenienza da quel mondo tedesco che con Fuchs, Bock, Cordus e Brunfels era all'avanguardia nella scienza botanica. Nel 1564, all'incarico di curatore unisce la docenza, con il titolo di "Ostensore dei semplici". E' una cattedra innovativa, non basata sulla lettura del testo di un'autorità (in particolare Dioscoride, l'argomento principale delle cattedre di Materia medica); è piuttosto un laboratorio pratico che parte dalle piante vive coltivate nell'orto botanico; e per questo, le lezioni non si terranno ex catedra nella sede universitaria di palazzo Bo, ma proprio in mezzo alle aiuole. E' la prima cattedra di botanica della storia. Nel 1567, quando Bernardino Trevisan lasciò l'incarico "teorico", i due insegnamenti furono riuniti e affidati entrambi a Guilandino, che continuò - nonostante qualche mugugno - a tenere le sue lezioni all'aperto, nella sede dell'Orto, fino alla morte, avvenuta nel 1589. Tralasciando la seconda puntata della polemica con Mattioli - il combattivo borusso pubblicò una seconda serie di accuse in uno scritto del 1562 - che per fortuna con gli anni e i crescenti impegni di entrambi i contendenti si andò affievolendo, nei suoi ventitré anni di gestione il nostro tedesco italianizzato fece dell'Orto padovano una delle istituzioni scientifiche più importati d'Europa. Si deve a lui la trasformazione delle collezioni, da giardino dei semplici, destinato essenzialmente alla coltivazione delle piante medicinale, in giardino botanico che accoglieva le piante rare ed esotiche che grazie alle esplorazioni geografiche, ai viaggi e ai commerci affluivano sempre più numerose in Europa. Da una parte, Venezia, con quanto rimaneva dello "Stato de Mar", era in ottima posizione per fare da tramite tra l'Europa e il Levante; dall'altra, Guiladino seppe costruire una rete di contatti e scambi con altri importanti studiosi europei. Fu per questa via che arrivarono a Padova il bulbocastano (Bunium bulbocastanum), oggetto - tanto per non smentirsi - di una polemica con Mattioli, i tulipani, i lillà. Non abbiamo cataloghi per quest'epoca, ma sappiamo che nel 1591, due anni dopo la morte del nostro, le specie coltivate nell'Orto erano 1200. Migliorò anche l'irrigazione, facendo costruire una prima canalizzazione che deviava le acque di un fiumicello; e riuscì a convincere i Rettori ad assumere un secondo giardiniere. Alla sua morte, lasciò la sua copiosa biblioteca alla Repubblica di Venezia; ancora oggi, a margine dei libri che gli sono appartenuti, si possono leggere i suoi feroci commenti a quelli che riteneva svarioni dei colleghi: Error, Falsum, Falsa Omnia (e passando al volgare "Questa è una coglionaria", "Animalaccio"). Una sintesi della sua vita nella biografia. Guilandina, una spinosa arrampicatrice All'ipercritico prussiano Linneo nel 1747 in Flora zeylanica dedica il genere Guilandina, poi confermato in Species Plantarum (1753). Ma, evidentemente, le polemiche devono essere nel suo destino: in uno studio del 1973, Guilandina è stato declassato a sottogenere di Caesalpinia; da allora, i botanici si sono rimpallati la classificazione: è un genere autonomo; no fa, parte di Caesalpinia, ma...; è un genere autonomo, però... Solo di recente (ottobre 2016) uno studio ha definitivamente risolto la questione, dimostrando, sulla base di dati molecolari, l'indubbia indipendenza del genere, anche se ne rimangono ancora incerti i confini (da sette a diciannove specie). Guilandina è un genere pantropicale della famiglia Fabaceae, appartenente alla tribù Caesalpineae e al gruppo informale Caesalpinia; comprende liane e arbusti sarmentosi armati di spine ricurve; i fiori sono unisessuali, anche se in alcune specie hanno l'apparenza di ermafroditi (ma con antere prive di polline). La caratteristica più interessante è data dai semi, duri e globosi, adatti a fluttuare sulle onde oceaniche, per essere dispersi a lunga distanza, il che spiega perché sia presente nei Caraibi, in Madagascar, in alcune isole della Polinesia, nel Sud est Asiatico, in Giappone. La specie tipo è Guillandina bonduc, una liana tropicale dai fiori gialli, spinosa, che si arrampica sulla vegetazione. Visto lo status ancora incerto di molte specie potenzialmente appartenenti a questo genere, taccio prima che dall'aldilà mi arrivi un Error, Falsum (e di peggio). Poche notizie in più nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. Nel 1751, l'arrivo a Madrid di Pehr Loefling, discepolo prediletto di Linneo, scuote lo stagnante ambiente della botanica spagnola. Finalmente nella capitale nasce un orto botanico, destinato a diventare la più importante istituzione botanica del paese; con tatto e consumata abilità diplomatica, Loefing riesce ad appianare le ostilità iniziali. Della sua strategia di avvicinamento fa anche parte la dedica da parte del maestro di quattro nuovi generi ad altrettanti botanici spagnoli. Ed ecco nate Queria (ma - ed è appena giusto - il nome non è più valido), Minuartia, Ortegia e Velezia. In difesa dell'onore botanico della Spagna Nel Settecento, il progresso delle nazioni passa anche attraverso la botanica. Per la valorizzazione economica del territorio, è indispensabile la rilevazione delle risorse naturali, in primo luogo botaniche, tanto per un'agricoltura più produttiva e razionale quanto per una pratica medica e farmaceutica più efficace. Anche la nuova dinastia dei Borboni, installatasi in Spagna proprio all'inizio del secolo e riconosciuta dalle potenze europee nel 1714 con la pace di Utrecht, è coinvolta in questo processo. Sebbene il paese iberico nel Rinascimento fosse stato all'avanguardia nel campo della botanica, da almeno un secolo gli studi naturalistici sono stagnanti. Non mancano certamente né studiosi né investigatori sul campo, ma sono legati a modelli del passato: contrariamente a quanto è avvenuto almeno da un cinquantennio in Inghilterra come in Francia, in Olanda come in Svezia, la botanica in Spagna non è ancora una scienza autonoma, rimane un'ancella della medicina e anche più della farmacia (tutti i personaggi che incontreremo in questa storia sono farmacisti-raccoglitori, più che botanici). A metà del secolo, anche il modello teorico dominante, che è quello di Pitton de Tournefort, è decisamente superato. Ecco perché José de Carvajal, segretario di stato di Ferdinando VI, decidendo di aggregare una squadra di scienziati alla spedizione che doveva fissare i confini tra Spagna e Portogallo in America meridionale (Expedition de Limites de Orinoco) pensò di chiedere l'aiuto dell'astro delle scienze naturali europee, Carlo Linneo. Fu così che Pehr Loefling, giovanissimo e brillante allievo del luminare svedese, fu catapultato in Spagna, con il duplice compito di capeggiare l'équipe dell'Orinoco e di convertire i botanici spagnoli al metodo del maestro. Questo post è dedicato al secondo aspetto; un secondo sarà dedicato a Loefling e al suo contributo alla conoscenza della natura in Spagna e Venezuela. Il compito, per così dire diplomatico, del giovane naturalista svedese non era semplice: l'ambiente dei botanici spagnoli gli era decisamente ostile, e non senza responsabilità di Linneo stesso. Con il suo solito tono tronfio, nel 1736 in Bibliotheca botanica aveva dichiarato che la flora spagnola era tanto ricca quanto misconosciuta a causa dell'enorme "barbarie botanica" che imperversava nel paese. Ce n'era abbastanza per pungere l'orgoglio nazionale dei botanici spagnoli, in particolare del loro decano, José Quer y Martinez (1695-1764), che si affrettò a rispondere con un'apologia della scienza spagnola intitolata Discurso analítico sobre los métodos botánicos e rincarò la dose con il Catálogo de los autores españoles, que han escrito de Historia Natural in cui esaltò il contributo degli scienziati iberici alla conoscenza della flora e della fauna del nuovo mondo. Di fronte ai posteri, Quer ha pagato cara la sua ostilità a Linneo: medico e farmacista, era un ottimo raccoglitore e conoscitore di piante (il suo erbario, oggi conservato a Ginevra, comprende circa 2000 esemplari); tuttavia, mancava di metodo e si ostinò fino alla fine a non utilizzare la denominazione binomiale nella sua Flora española, che nacque già obsoleta. Di conseguenza, un po' ingiustamente è passato alla storia come il medico e botanico pasticcione e passatista che si è opposto a grande Linneo. La nascita del Real Jardin botanico de Madrid Diversamente dal collega, un atteggiamento non pregiudizialmente ostile verso Loefling e Linneo assunse il secondo uomo della botanica iberica, il farmacista Joan Minuart (Quer e Minuart saranno rispettivamente primo e secondo professore di botanica al Real jardin botanico); in effetti, la botanica catalana era la più avanzata del paese, grazie soprattutto alla famiglia Salvador che aveva collaborato con Tournefort e i Jussieu e manteneva contatti con gli ambienti scientifici d'oltralpe. Anche Minuart, allievo di Jaime Salvador, si era formato nel credo tournefortiano, ma era un uomo di animo buono e aperto che fece un'ottima impressione su Loefling; ammise che il metodo di Linneo era molto interessante, ma non faceva per lui: era troppo vecchio per cambiare, e la sua vista ormai indebolita gli impediva di mettersi a contare cose così piccole come stami e pistilli. Altre notizie su di lui nella biografia. Erano ovviamente i più giovani a vedere nell'arrivo di Loefling, giunto a Madrid nel 1751, un'opportunità per svecchiare la botanica del paese. La favorevole circostanza spinse il farmacista reale Josè Ortega a proporre al ministro Carvajal la trasformazione in Hortus Regius del piccolo giardino botanico privato creato nel 1744 dal duca di Atrisco, a partire da semi raccolti nei suoi viaggi in Spagna, Italia, Francia. "Un orto botanico o una scuola reale di botanica - scrisse nell'esposto - introdurranno la deliziosa scienza nel paese e, di conseguenza, da una parte lavorerà il gruppo madrileno, mentre dall'altra lo svedese potrà far mostra delle grandi cose che offre". E' il primo passo per la fondazione del Real jardin botanico inaugurato nel 1755, a Migas Calientes, alla periferia di Madrid. José Ortega aveva una buona conoscenza dell'Europa perché il re Ferdinando VII lo aveva inviato in varie capitali europee per raccogliere informazioni al fine di creare una Reale Accademia delle Scienze. Accolse Loefling calorosamente e si mostrò assai aperto al metodo linneano: "il più affamato di tutti", lo definisce Loefling. Una vera amicizia nacque poi con Cristobal Velez, un quarantenne farmacista madrileno che aprì allo svedese la sua casa e la sua biblioteca; purtroppo morì precocemente nel 1753. Bisogna attendere però la generazione successiva per la definita affermazione del metodo linneano in Spagna, soprattutto grazie a Casimiro Gomez Ortega, nipote di José Ortega e figura eminente della botanica spagnola di fine secolo. Qualche notizia in più su Ortega e Velez nella sezione biografie. Minuscole piante spagnole Per vincere la resistenza degli spagnoli, oltre alla simpatia personale, alla pazienza e alla dimostrazione quotidiana della competenza come naturalista, che ne faceva un esempio vivente della validità del metodo del maestro, Loefling seppe anche sfruttare la vanità umana. Ormai la parola di Linneo negli ambienti scientifici europei aveva la pregnanza di un oracolo e ottenere la dedica di una pianta in Species plantarum (a cui stava giusto lavorando e che uscirà nel 1753) era la più o meno confessata aspirazione di tutti i botanici europei. In una lettera di quell'anno al medico e naturalista tedesco Ludwig, Linneo espresse grande entusiasmo per alcune "minutissimae plantae Hispanicae" (minuscole piante spagnole) che gli erano state inviate dall'allievo; e su suo suggerimento, le incluse nell'opera, creando i quattro generi Queria, Minuatia, Ortegia e Velezia. Oggi sono tutti annoverati nella famiglia Caryophyllaceae/Dianthaceae. Con una certa giustizia poetica, Queria è un nome non valido (le sue specie sono ora incluse Minuartia); Ortegia è un genere monospecifico con la specie O. hispanica; Velezia è un piccolo genere di due specie, V. rigida e V. quadridentata. Quindi, alla fine, l'omaggio maggiore è toccato al buon Minuart, con il genere Minuartia, uno dei più vasti della famiglia, ben conosciuto dagli amanti della flora alpina per i suoi cuscinetti di fitte foglioline che ricordano il muschio, trapuntati dalle minute stelline bianche dei fiori. Per maggiori informazioni sui tre generi, si rimanda alle rispettiva schede. Se immaginate i botanici come dolci signori con gli occhiali che con il vascolo a tracolla se ne vanno in giro trasognati a raccogliere fiorellini, la storia di Linneo e Siegesbeck vi farà cambiare idea. Scoprirete anche che nell'assegnare i nomi alle piante lo svedese non era sempre guidato dalle migliori intenzioni. Ma attenzione! E' una storia a luci rosse, vietata ai minori. Ditelo con i fiori! All'inizio, la pretesa di Linneo di ribattezzare le piante con il nuovo sistema binomiale suscitò parecchia ostilità e le ironie di colleghi ben più rinomati dell'allora oscuro medico svedese. Ma chi pretendeva di essere, un secondo Adamo? Tuttavia, mano a mano che il sistema si affermava, Linneo divenne davvero un'autorità riconosciuta, a cui ci si rivolgeva per conoscere il "vero nome" di ogni essere vivente. Non solo: essere eternato dal nome di una nuova specie, magari un lussureggiante arbusto fiorifero, divenne un onore a cui molti aspiravano. Così, lo scienziato svedese si rese conto di avere nelle mani il grande potere di conferire a colleghi ed allievi "l'unica gloria accessibile ai botanici", secondo le sue stesse parole. Ma egli qualche volta ne abusò, usandolo per fini un po' meno nobili. Almeno, fu quello che capitò al botanico sassone Johann Georg Siegesbeck. L'uscita del Systema Naturae nel 1735, con l'innovativa classificazione basata sui caratteri sessuali delle piante, aveva suscitato una tempesta di critiche, dovute sia a motivazioni scientifiche (rispetto ai consolidati sistemi di Tournefort e Ray, veniva giudicata del tutto arbitraria) sia alla sua supposta immoralità. Il critico più feroce fu proprio Siegesbeck, il quale nel libretto dedicato a smontare l'opera linneana Epicrisis in clar. Linnaei nuperrime evulgatum systema plantarum sexuale, et huic superstructam methodum botanicam (1737) definì il nuovo sistema "un disgustoso meretricio". Come si poteva credere- ironizzava - che 20 o più mariti (gli stami) si spartissero una sola moglie (il pistillo)? Era una bestemmia contro il buon Dio e le sue piante innocenti! Immediatamente Linneo rispose per le rime, battezzando Siegsbeckia una insignificante Asteracea che emanava cattivo odore, prosperava in zone disabitate e per di più era dotata di piccoli uncini grazie ai quali "le rimaneva appiccicato qualsiasi frammento di lanugine e di peluria". La polemica tra i due livorosi naturalisti si trascinò per anni, tanto più che Linneo riteneva che fosse tutta colpa dell'infamia gettatagli addosso dal rivale se per qualche anno la sua carriera accademica aveva segnato il passo. Non si degnò tuttavia di rispondere di persona alle grottesche argomentazioni del tedesco, affidando la difesa del suo sistema ad amici come Browallius e Gleditsch. Nel 1741 Siegesbeck rispose con Consideratio epicriseos Siegesbeckianae in Linnaei systema plantarum sexuale et methodum botanicam huic superstructam in cui definiva quello di Linneo "metodo lascivo"; c'era una bella differenza, secondo lui, tra la poligamia e il meretricio: la prima era sancita dal Vecchio Testamento, la seconda no (dunque, una pianta in cui molte mogli - i pistilli - soddisfacessero un solo marito - lo stame - gli sarebbe andata benissimo!). Nel 1744 un curioso incidente diplomatico rinfocolò l'astio. All'Università di Uppsala era arrivato un pacchetto di semi di Siegesbeckia orientalis; scherzosamente, Linneo gli appose l'etichetta "Cuculus ingratus"; seconda la più classica legge di Murphy, per una serie di circostanza sfortunate il sacchetto fu rispedito per errore proprio al botanico sassone, che divenne ancora più furibondo. Nonostante amici comuni cercassero di fare da pacieri, Linneo si rifiutò di scusarsi, dicendo che non lo avrebbe fatto neanche in cambio della più ricca raccolta di piante. A soffrirne fu la botanica, visto che da quel momento Siegesbeck non inviò più piante siberiane a Uppsala. Ma anche Linneo non perdonava. Ancora negli anni '60, quando il suo arcinemico era già morto da qualche anno, redigendo una lista di 33 botanici contemporanei, sotto forma di "esercito di Flora", assegnò a se stesso il grado di generale (sempre modesto, il vecchio Carl!) e a Siegesback l'ultimissimo posto, con il grado di sergente maggiore. Qualche notizia in più su di lui nella biografia. Fonte: A. Johnsson, Odium botanicorum. The polemic between Carl Linnaeus and Johann Georg Siegesback, Abstract in http://www.phil-hum-ren.uni-muenchen.de/GermLat/Abstr1/Av348e.htm Le virtù della Siegesbeckia Ma la povera Siegesbeckia, vittima inconsapevole di questa storia incresciosa, è davvero così abominevole? Effettivamente sia i semi sia il fiore emanano cattivo odore; l'aspetto non è certo attraente, ma la pianta è dotata di grandi virtù medicinali che la riabilitano del tutto. In Cina - dove pure è chiamata con il nome poco lusinghiero di "erba maiale pungente" per la sua puzza e il gusto aspro - è usata come medicamento da almeno 1000 anni. Le ricerche farmacologiche confermano le sue proprietà antireumatiche, antinfiammatorie, analgesiche, immunitarie e regolatrici della pressione bassa. E' anche valida per curare eczemi, orticarie e pruriti. Pare che sia efficace anche contro l'insonnia. L'estratto di Siegesbeckia entra nella composizione di costosi cosmetici per la pelle, per le sue proprietà calmanti e rigeneranti. Non male per il brutto anatroccolo della botanica! Approfondimenti nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
August 2024
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