Nel 1691, poco dopo essere stato nominato dalla regina Mary giardiniere reale e curatore del giardino di Hampton Court, Leonard Plukenet dà alle stampe a proprie spese il primo volume di Phytographia; è l'atto di nascita di uno straordinario corpus di immagini di rarità botaniche provenienti da tutto il mondo, che arriverà a comprendere oltre 2700 figure. Con centinaia di specie inedite o almeno mai raffigurate in precedenza, è un'opera di riferimento imprescindibile per i botanici successivi, in particolare Linneo che volle dedicare a questo botanico "unico tra tutti" una pianta dai fiori altrettanto singolari, Plukenetia (Euphorbiaceae). Collezionista ed esperto di piante esotiche In Historical and Biographical Sketches of the Progress of Botany (1790) Richard Pulteney inizia il suo profilo di Leonard Plukenet (1642-1706) lamentando come gli sia toccato il destino comune a molti grandi uomini di cadere nell'oblio poco dopo la morte. Duecento anni dopo, la situazione non sembra cambiata di molto; al contrario degli amici-rivali Hans Sloane e James Petiver, la cui opera è ben nota e oggetto di ampi studi, Plukenet continua a ricevere un'attenzione marginale, né è disponibile uno studio complessivo del suo stesso capolavoro Phytographia. Eppure si tratta di un'opera notevolissima, tale da guadagnare al suo autore l'immensa stima di Linneo che lo definì "un botanico diverso da tutti gli altri". Poco conosciamo della sua vita fino ai quarant'anni. Nativo di Westminster, Plukenet dovette frequentare la Westminster School e poi forse l'università di Cambridge dove avrebbe stretto amicizia con William Courten e Robert Uvedale; la sua immatricolazione non risulta, così come non compare tra i laureati. Poiché esercitava la medicina e si firmava MD Medical Doctor, si suppone che si sia laureato all'estero. In ogni caso negli anni '80 viveva a Londra ed era di condizione agiata, anche se non sappiamo se cioè fosse dovuto al successo professionale o a qualche eredità. Il suo nome incomincia a emergere intorno alla metà di quel decennio; è citato in una lettera di John Ray a Hans Sloane (1684) e nel 1688, insieme a William Courten, Samuel Doody e James Petiver, è calorosamente ringraziato da Ray per l'assistenza prestata per il secondo volume di Historia Plantarum. Gli uomini citati sono alcuni degli animatori del Temple Coffee House Botanical Club, che a quanto pare cominciò a riunirsi nel 1689, sia in un caffè sia nella vicina casa di Courten a Middle Temple. Era un gruppo eterogeneo di appassionati e professionisti: Courten era un mercante che aveva ereditato dalla famiglia una intricata situazione patrimoniale e legami con le Barbados e altre colonie, che seppe sfruttare per creare un ammirato gabinetto di curiosità; Doody e Petiver erano membri della gilda dei farmacisti, botanici ben più che dilettanti e uno dopo l'altro curatori del Chelsea Physic Garden; Plukenet come sappiamo era medico. Tutti erano appassionati collezionisti. Anche se non conosciamo la cronologia e la stratificazione delle sue collezioni, all'epoca Plukenet doveva già essersi fatta una solida fama di esperto di piante esotiche, che si procurava attraverso una rete internazionale di corrispondenti, coltivava nel giardino di St Margaret’s Lane e pressava in un erbario sempre più voluminoso. Come si deduce dalla profonda conoscenza della letteratura botanica che emerge dalle sue opere, doveva anche possedere una fornita biblioteca. Furono certo queste due competenze, quella di botanico autodidatta ma di grande preparazione e quello di esperto di esotiche, a convincere William e Mary (ovvero Guglielmo III d'Orange e Maria II Stuart) a nominarlo sovrintendente dei giardini reali di Hampton Court. I due sposi, divenuti sovrani d'Inghilterra e Scozia in seguito alla Gloriosa Rivoluzione, condividevano la passione per i giardini e le piante esotiche (quelle stesse che attraverso le compagnie mercantili olandesi affluivano nei Paesi Bassi dall'Asia, dal Sudafrica, dai Caraibi e dal Suriname) e nei palazzi olandesi di Honselaarsdijk e Het Loo possedevano grandi limonaie e serre riscaldate dove d'inverno venivano ricoverate le loro grandi collezioni di agrumi e esotiche non rustiche. Poco dopo l'ascesa al trono, William incaricò Christopher Wren di ristrutturare palazzo e giardino di Hampton Court; per il godimento della Regina fu creato un giardino privato in stile barocco olandese con intricati parterre a ramages e sentieri in brecciolino colorato, una fontana e un pergolato; il vecchio stagno Tudor venne prosciugato per ospitare tre nuovi giardini murati: il quadrato dei fiori, quello delle Primula auricula (una delle piante preferite della sovrana) e quello degli agrumi (piante "dinastiche" degli Orange). In ciascuno di essi il carpentiere olandese Hendrick Floris costruì una serra riscaldata lunga circa 16 metri, tra le prime e le più perfette che si fossero viste in Inghilterra. D'inverno ospitavano la splendida collezione di esotiche, che invece nella bella stagione erano esposte all'aperto. Era la più ricca e raffinata del paese, con limoni, aranci e altri agrumi, cacti e succulente, palme, piante di caffè, dracene, agave, aloe, yucche, molte bulbose. Parecchie, soprattutto le sudafricane, erano delle novità assolute. A presiedere questa meraviglia furono chiamati come capo giardiniere George London (che abbiamo già incontrato alle dipendenze del vescovo Compton a Fulham) e come sovrintendente appunto Leonard Plukenet, nominato Queen's Botanist o anche Royal Professor of Botany (presumibilmente un titolo onorifico che non comportava insegnamento). I due, ovviamente, si conoscevano già, essendo entrambi assidui membri del Temple Coffee House Botanical Club, come lo stesso vescovo Compton. L'incarico permise sicuramente a Plukenet di incrementare le sue collezioni, accedendo alle piante coltivate sia a Hampton Court sia nei giardini di altri nobili e appassionati, come il braccio destro di Gugliemo III Hans William Bentnick, il primo conte di Portland, oppure la contessa di Beaufort. Gli diede anche il prestigio internazionale per corrispondere alla pari con colleghi di altri paesi, come Paul Hermann prefetto dell'orto di Leida (dove spedì London a fare incetta di piante) o Giovanni Macchion, giardiniere dell'orto di Padova. Un immenso corpus di immagini Certamente sulla base di un lavoro iniziato da tempo, già nel 1691 Plukenet fu in grado di dare alle stampe - a proprie spese - il primo volume di Phytographia, sive stirpium illustriorum et minus cognitorum icones, che, se non si presentava come un catalogo del giardino reale, ne condivideva lo spirito. Composto unicamente di figure (dette tavole fitografiche) e dedicato sia al "venerabile sommo mecenate di tutti i botanofili", ovvero il vescovo Compton, sia al re Guglielmo III, era essenzialmente una vetrina cartacea delle piante più nuove ed esotiche, anche se non mancava qualche specie locale. John Ray lo recensì con favore per le Philosophical Transactions della Royal Society, sottolineando che tra le centinaia di piante di cui "il colto e ingegnoso autore" dava la figura e la didascalia, moltissime in precedenza non erano state né descritte né raffigurate, altre descritte ma mai raffigurate o viceversa. Certo, il testo era limitato ai "titoli", ovvero ai nomi polinomiali, ma questi ultimi contenevano note caratteristiche sufficienti per distinguere una specie dall'altra. A soddisfare i desideri dei lettori, curiosità come l'Artemisia usata dai cinesi per la moxibustione, l'altrettanto celebre radice di Ginseng, o la miracolosa "erba dei serpenti" della Virginia (oggi Aristolochia virginiana), efficace antidoto contro il morso dei serpenti. Per comprendere il significato culturale e in un certo senso pedagogico di un'opera senza precedenti in Inghilterra, va sottolineato che non si trattava di un maestoso in folio pensato per fare bella figura nelle biblioteche dei ricchi, ma di un più maneggevole ed economico in quarto destinato allo studio e alla consultazione. Per ottimizzare lo spazio e abbattere i costi, ciascuna delle 72 tavole calcografiche non raffigura una singola pianta a piena pagina, ma da un minimo di tre a un massimo di sei piante, disegnate in modo essenziale ma ben riconoscibile; dato che spesso i disegni furono tratti non da piante vive ma da esemplari d'erbario, non sempre sono dotate di fiori e frutti. Dopo il primo volume, ne seguirono a ritmo serrato altri tre: la seconda parte nello stesso 1691 (tav. 73-120), la terza parte nel 1692 (tav, 121-250) e l'immensa quarta parte (tav. 122-328) nel 1696; insieme a quest'ultima uscì Almagestum botanicum, sive, Phytographiae Plukenetianae Onomasticon, Methodo Synthetico digestum, un volume di 400 pagine con le descrizioni, i nomi e i sinonimi di ben 6000 piante; per quelle raffigurate in Phytographia, Plukenet aggiunse anche le referenze bibliografiche e molte note critiche, che dimostrano una conoscenza approfondita della precedente letteratura botanica e un esame molto serio per giungere a identificazioni corrette. Impressionante per le dimensioni e l'erudizione, il lavoro di Plukenet si segnala anche per la notevole accuratezza delle descrizioni. Gli sono estranee invece preoccupazioni tassonomiche che vadano al di là di genere e specie: tanto nella Phytographia quanto nel Almagestum le specie, designate con un nome descrizione polinomio che ha come primo termine il nome generico, sono disposte infatti in ordine alfabetico. D'altra parte, le immagini di specie diverse dello stesso genere, pubblicate una di fianco all'altra nella medesima pagina, sono di per se stesse uno strumento di identificazione di straordinaria efficacia, che oggi ci è familiare, ma era all'epoca una novità assoluta. Nel 1700 seguì ancora un'appendice, Almagesti botanici mantissa, con ulteriori 25 tavole, altri sinonimi e note e gli indici completi delle due opere. Nel 1705, un anno prima della morte, Plukenet pubblicò infine Amaltheum botanicum (ovvero "Cornucopia botanica") con le tavole e le descrizioni di un centinaio di specie di origine per lo più cinese o indiana; per quest'ultimo volume, avendo evidentemente esaurito i fondi, si rassegnò ad indire una pubblica sottoscrizione. Tutti insieme, questi libri di Plukenet vanno a costituire un enorme corpus di 2740 figure, di fondamentale importanza per documentare la prima introduzione di nuove specie dalle Americhe, dal Sudafrica e dall'Asia orientale. Benché di piccole dimensioni e di qualità diseguale (furono affidate ad artisti diversi, tra cui spicca l'incisore fiammingo Michael Vandergucht), testi e illustrazioni divennero un riferimento imprescindibile per i botanici successivi. Morto nel 1706, Plukenet lasciò un immenso erbario di oltre 8000 esemplari che fu venduto dalla famiglia al vescovo di Norwich, uno dei sottoscrittori dell'Amaltheum. Qualche anno dopo, confluì anch'esso nell'erbario di Sloane, così come una collezione di circa 1500 insetti pressati e incollati su carta. Come altri collezionisti inglesi del suo tempo, Plukenet si servì di una vasta rete di corrispondenti e fornitori, che in parte coincide con quella di Petiver, di cui facevano parte botanici, giardinieri, collezionisti e appassionati, mercanti dediti al commercio internazionale, residenti nelle colonie nordamericane e un buon numero di medici e chirurghi al servizio della compagnia delle Indie. Tra i nomi più significativi, per le colonie americane spicca John Banister, di cui, con il permesso del vescovo Compton, Plukenet pubblicò diverse tavole, ma importanti invii si devono anche al medico tedesco David Krieg che visitò il Maryland; le numerose piante del Capo, punto di passaggio obbligato per le navi dirette nelle Indie orientali, si devono per lo più a chirurghi navali come Alexander Brown, che fece raccolte anche a Sant'Elena, o Patrick Adair che raccolse anche nelle Comore. Ci portano invece rispettivamente in India e in Cina le raccolte di Samuel Browne e James Cunnighame, soggetto principale di Amaltheum botanicum. Il primo, chirurgo del Fort St George (oggi Madras), raccolse nel Malabar e corrispose con Petiver e Ray, che mise in contatto con Kamel; il secondo, medico al servizio della Compagnia delle Indie nella factory di Chusan, fu il primo europeo a fare significative raccolte in Cina. Un botanico e una pianta senza uguali Prima di concludere, vale la pena di approfondire le relazioni con Petiver, Sloane e Ray che forse spiegano perché, nonostante l'enorme influenza sui botanici successivi, il nome di Plukenet abbia finito per essere dimenticato. I quattro facevano parte degli stessi ambienti, erano assidui del Temple Coffee House Botanical Club, si scambiavano fornitori ed esemplari. All'inizio erano indubbiamente amici. In Almagestum botanicum, Plukenet ringrazia ripetutamente Petiver e Sloane per avergli procurato esemplari rari; come abbiamo visto, la recensione di Ray alla prima parte di Phytographia è elogiativa. Eppure, qualcosa si guastò. Come collezionisti, Plukenet, Petiver e Sloane era naturalmente rivali, dal momento che ciascuno avrebbe voluto gloriarsi della collezione più vasta e ricca di rarità. In questa specie di gara, facendo capo alla medesima rete di raccoglitori, non devono essere mancati gli sgarbi. Per Petiver lo fu senza dubbio la pubblicazione stessa delle piante dei suoi corrispondenti Browne e Cunningham in Amaltheum botanicum, che privò della primogenitura i suoi articoli per la Royal Society. Ad aprire le ostilità fu per altro Plukenet, che nella Mantissa non risparmiò le critiche né a Petiver né alla Storia naturale della Giamaica di Sloane, definita "un caos". Ray, che all'epoca si proclamava ancora amico di Plukenet, cercò di fare da paciere, ma dovette arrendersi di fronte al suo pessimo carattere che così definisce in una lettera a Sloane: "E' un uomo pieno di puntiglio, piuttosto presuntuoso e supponente, incapace di accettare consigli". Se Ray e Sloane, signorilmente, si limitarono ad esprimere le loro riserve anche scientifiche nella corrispondenza privata, Petiver lo fece in pubblico. Nel suo articolo sulle piante indiane di Browne, pubblicato sulle Philosophical Transactions, lo colpisce nell'orgoglio: "Quel celebratissimo botanico, il dr. Plukenet, può ben vantarsi delle sue innumerevoli specie di piante, visto che le moltiplica, come ha fatto con questa, rendendola tre erbe diverse". Ora ci è chiaro perché il "Botanico della Regina" non abbia mai fatto parte della Royal Society e perché la sua opera sia stata apprezzata più nel continente che in patria. Tra i suoi più fervidi ammiratori vi fu certamente Linneo, che fece larghissimo uso del corpus di Plukenet (che egli conosceva in un'edizione complessiva, pubblicata nel 1720) citandolo in quasi pagina di Species plantarum. In Critica botanica, dedicandogli il genere Plukenetia, ne tesse un vero encomio: "La Plukenetia ha una struttura dei fiori unica tra le piante, come lo è Plukenet tra i botanici. Egli preferì le piante a ogni ricchezza; non risparmiò nulla per illustrare quelle rare per le quali ardeva più di ogni altro". Plukenetia L. (famiglia Euphorbiaceae) comprende una ventina di specie di liane e rampicanti volubili diffuse nelle aree tropicali di tutto il mondo. I fiori che avevano stupito Linneo sono curiosi sia per la struttura (privi di petali hanno un calice globoso che si apre in quattro lobi valvati), sia per la disposizione, con uno o due fiori femminili alla base e molti fiori maschili disposti lungo l'asse del racemo. Curiosi anche i frutti, con quattro lobi angolati o alati, che si aprono in quattro cocci bivalvi che contengono un seme. Sono proprio i semi a costituire il maggiore punto di interesse di diverse specie, compresa la più nota, P. volubilis, conosciuta come sacha ichi o arachide degli Inca. Originaria del Sud America tropicale, ma coltivata anche altrove, è una liana con foglie cuoriformi e piccoli fiori raccolti in cime seguiti da curiosi frutti verdi, capsule con 4-7 punte che a maturazione si aprono mostrando una polpa biancastra che avvolge grandi semi. Non commestibili da crudi, lo diventano previa tostatura. Ricchissimi di proteine e di oli, se ne ricava un olio considerato salutare per l'alta presenza di acidi grassi polinsaturi. Qualche approfondimento nella scheda.
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Nella primavera del 2019, al termine di un lavoro di ricerca e restauro che ha coinvolto storici e botanici, nei giardini di Fulham Palace, la millenaria residenza dei vescovi londinesi, sono state aperte al pubblico "The Bishop Compton Beds", un gruppo di aiuole piantate con alcune specie che crescevano qui tra fine Seicento e inizio Settecento, ai tempi del vescovo Henry Compton. Figura politica di una certa influenza, Compton fu soprattutto un grande appassionato di piante esotiche, responsabile della prima introduzione di molte specie principalmente dalle colonie del Nord America. A ricordarlo, Comptonia peregrina, unica specie vivente di questo genere della famiglia Myricaceae. Intrighi politici e piante esotiche Nel giugno 1688 al re d'Inghilterra, l'impopolare Giacomo II, nacque il sospirato erede maschio, che avrebbe ricevuto un'educazione cattolica. Si profilava l'incubo di una dinastia cattolica (e assolutista) sul trono inglese. Subito incominciarono a circolare voci secondo le quali il bimbo, nato morto, era stato sostituito con un altro neonato. Il 30 giugno 1688 sette uomini politici inglesi, poi passati alla storia come i Sette immortali, scrissero al principe Guglielmo d'Orange, nipote del re e marito di sua figlia Maria, fino a quel momento erede al trono, per sollecitarlo ad intervenire militarmente per sostenere i diritti della consorte. E' l'atto d'inizio della Gloriosa rivoluzione che portò alla cacciata di Giacomo II, alla salita al trono di Guglielmo III e Maria II e all'instaurazione di una monarchia parlamentare sancita dalla Dichiarazione dei Diritti del 1689. I sette altolocati nobiluomini erano tutti laici, ad eccezione di uno: Henry Compton (1632-1713), il vescovo anglicano di Londra. Niente da stupirsi, se consideriamo le sue fiere posizioni protestanti e il suo legame personale con William e Mary, di cui nel 1677 aveva anche officiato il matrimonio. Henry era il sesto e ultimo figlio di Spencer Compton, secondo conte di Northampton, che morì in battaglia durante la guerra civile, quando il ragazzo aveva solo undici anni. Più tardi egli viaggiò a lungo all'estero e rientrò in Inghilterra solo con la Restaurazione, quando per un breve periodo militò come cornetta in un reggimento di cavalleria. Dopo pochi mesi però decise di entrare al servizio della Chiesa e, dopo essersi laureato a Cambridge, nel 1661 prese gli ordini. Dopo tutta una serie di incarichi minori, nel 1674 fu nominato vescovo di Oxford; ma già l'anno successivo divenne decano della Cappella reale e dal dicembre 1675 vescovo di Londra. Questa rapida promozione è in genere attribuita, oltre alle sue origini altolocate, alla protezione di un altro dei futuri "immortali", il conte di Danby, di cui condivideva la difesa delle prerogative della Chiesa d'Inghilterra e le posizioni anticattoliche. Fu così che la vita del vescovo Compton incominciò a intrecciarsi con quella della principessa Mary e della sorella minore Anne. Il re Carlo II gli affidò infatti l'educazione religiosa delle nipoti, che Compton educò nella fede protestante (e forse anche nella passione dei fiori). Come vescovo, aveva posizioni molto liberali verso i dissidenti religiosi e sostenne anche economicamente i protestanti perseguitati che trovavano rifugio in Inghilterra; era invece ferocemente avverso ai cattolici. Ciò lo portò a scontrarsi con l'erede al trono, il duca di York (ovvero il futuro Giacomo II) che si oppose alla suo nomina ad arcivescovo di Canterbury e nel 1785, alla sua salita al trono, lo allontanò dalla Cappella reale e dal Consiglio privato; nel 1686, quando rifiutò di sospendere John Sharp, rettore di St Gile's-in-the-Fields, per i suoi scritti antipapisti, fu egli stesso sospeso. Aveva dunque più di una ragione per sostenere la causa di William e Mary, anche se nel maggio 1688 era stato reintegrato nell'ambito di una serie di provvedimenti con cui Giacomo aveva cercato di recuperare il consenso della Chiesa d'Inghilterra. Entrambe le principesse gli erano assai affezionate, in particolare lo era la più giovane, Anne. E fu proprio da lui che ella si rifugiò nel novembre 1688, pochi giorni dopo lo sbarco di Guglielmo in Inghilterra, per sottrarsi al padre e chiedere aiuto per raggiungere il marito, il principe danese Georg che si trovava ad Oxford (anche il loro matrimonio era stato officiato da Compton). Forse memore dei suoi trascorsi militari, il vescovo la scortò fino ad Osford, insieme al fido capo giardiniere George London e a un nutrito gruppi di armati. Nell'aprile 1689, essendosi rifiutato di farlo l'arcivescovo di Canterbury William Sancroft, fu ancora lui a incoronare William e Mary nella chiesa di Westminster. Sperava indubbiamente di essere ricompensato con la nomina a primate d'Inghilterra, ma quando nel 1690 Sancroft fu dichiarato decaduto proprio per quel rifiuto, la scelta dei sovrani cadde su John Tillotson; Compton ne fu così deluso da lasciare ogni attività politica. Nel 1792, quando Anne diventò regina, rientrò nel consiglio privato, fu nominato lord elemosiniere e membro della commissione per l'unione tra Inghilterra e Scozia, incarico che però non gli fu confermato; né, nel 1694, alla morte di Tillotson, la sua antica allieva gli concesse il sospirato arcivescovato di Canterbury. Ne fu così deluso da lasciare il partito whig per quello tory, ma soprattutto trovò consolazione nella passione per la botanica e il giardinaggio, che l'aveva accompagnato almeno dalla sua nomina a vescovo di Londra, quando aveva deciso di trasformare i giardini della residenza di Fulham, creandovi una ricchissima collezione di esotiche. Il giardino risaliva almeno al XVI secolo, cosa che ne fa il secondo giardino botanico per antichità della capitale inglese. Si dice che il vescovo Grindal (1519-1583) vi abbia introdotto le tamerici (Tamarix gallica) dalla Francia; di certo vi faceva coltivare dell'uva di cui faceva omaggio alla regina Elisabetta. Ma a renderlo famoso fu proprio Compton. Forse perché coinvolto nella ricostruzione di Londra dopo l'incendio del 1666 (come vescovo, si occupò della riedificazione della cattedrale di St Paul), Compton era particolarmente interessato all'introduzione di alberi da legname che potessero reintegrare il patrimonio forestale britannico. Fu così che nei terreni che si allungavano lungo il Tamigi (un appezzamento molto più vasto degli attuali 13 acri) creò uno dei primi arboreti a noi noti. A popolarlo erano soprattutto alberi rustici nordamericani; infatti, come vescovo di Londra, Compton era il responsabile dell'organizzazione della Chiesa nelle colonie americane; manteneva i contatti con i pastori, che sceglieva il più possibili tra persone interessate alle scienze naturali, e li incoraggiava a spedirgli piante utili o semplicemente curiose. Il più produttivo di questi collaboratori fu il pastore John Banister che aveva già una formazione botanica, avendola studiato a Oxford; tra 1683 e il 1688, grazie a lui fecero il loro arrivo a Londra i primi esemplari di Cornus amomum, Lindera benzoin, Liquidambar styraciflua, Acer negundo e soprattutto Magnolia virginiana, la prima magnolia a raggiungere l'Europa. Compton era amico e corrispondente di molti botanici e assiduo frequentatore, insieme al suo capo giardiniere, del Temple Coffee House Botany Club, un club informale di appassionati e naturalisti che forse a partire dal 1689 prese l’abitudine di riunirsi ogni venerdì presso un caffè londinese per discutere di botanica e mettere a confronto le proprie collezioni. Corrispondeva regolarmente con Jacob Bobart il giovane, il curatore dell'orto botanico di Oxford; apriva volentieri il suo giardino a botanici come Leonard Plukenet, che sicuramente descrisse alcune delle sue piante in Phytographia, John Ray, che incluse in Historia plantarum quindici novità, per lo più introdotte da Banister, e il farmacista James Petiver, che a sua volta faceva incetta di piante grazie a una vasta rete di capitani e chirurghi di marina. Fu sicuramente attraverso Petiver che Compton ottenne Rhus chinensis, inviato dalla Cina da James Cunningham. Altri alberi che dovette far piantare sono citati dai visitatori che li videro nei decenni successivi. Willam Watson, che nel 1755 ispezionò il giardino, notò grandi esemplari di Acer saccharinum, Gleditsia triacanthos, Juglans nigra, tutti americani, e il mediterraneo Pinus pinea. Nel 1766 il botanico scozzese John Hope visitò a sua volta il giardino e misurò alcuni alberi: una quercia da sughero di 40 piedi, un noce nero di 65 piedi e un acero rosso (Acer rubrum) di quasi 30 piedi. Egli cita anche vari alberi che quell'anno erano stati abbattuti per fare spazio a nuove costruzioni: Lindera benzoin, Acer negundo, Juniperus virginiana, nonché un cedro del Libano piantato nel 1683. Altre testimonianze citano Liridodendron tulipifera, Diospyros virginiana e. tra gli arbusti e i piccoli alberi, Rhododendron viscosum, Rhus typhina, Sassafras albidum, Crataegus crus-galli, tutti probabilmente giunti a Londra grazie a Banister. C'erano anche altre mediterranee, come Celtis australis, Cercis siliquastrum, Phillyrea latifolia, Più difficile sapere che cosa il vescovo facesse coltivare nelle aiuole e nella magnifica serra, di cui non conosciamo né l'ubicazione né le dimensioni, benché i contemporanei ne parlino con ammirazione. Le collezioni dovevano comprendere almeno un migliaio di specie, ma andarono disperse subito dopo la morte di Compton (avvenuta nel 1713); le rarità da serra furono da lui lasciate in eredità all'orto botanico di Oxford, ma nessuna è sopravvissuta e non ne conosciamo nemmeno la lista. Qualche indizio ce lo forniscono diverse testimonianze più o meno dirette. Tra il 1675 e la morte nel 1682, visse a Fulham il pittore Alexander Marshal, famoso per i suoi dipinti di fiori e piccoli animali; tra gli altri dipinse tulipani, garofani e Primula auricola in forme variegate e doppie che potrebbero aver fatto parte della collezione di Compton. Petiver cita una pianta di goji (Lycium barbarum), arrivata evidentemente dalla Cina, mentre l'architetto John Evelyn, che visitò la serra nel 1681, vi poté ammirare un Sedum arboreum in fiore (oggi Aeonium arboreum) giunto da Madera. C'era anche una Passiflora caerulea e Clematis hederacea (oggi identificata come Campsis radicans). La maggior parte delle esotiche da serra dovevano però essere passate attraverso l'Olanda, con la quale, come sostenitore di William e Mary, Compton dovette avere intense relazioni. Nel 1691 si recò ad Amsterdam insieme a Guglielmo III e gli fu donato un florilegio, noto come Compton Codex e oggi custodito al British Museum, con una quarantina di disegni di piante sudafricane raccolte durante la spedizione in Namaqualand del 1685-86; a sua volta egli donò all'orto botanico di Amsterdam varie specie americane che allungano la lista di alberi e arbusti di oltre oceano: Aralia spinosa, Euonymus americanus, Physocarpus opulifolius, Taxodium distichum, Yucca aloifolia f. draconis. Il vescovo dovette invece riportare con sé dall'Olanda una notevole collezione di Pelargonium (tra quelli identificati, P. triste e P. capitatum) e alcune delle novità recentemente portate da Hermann dalla colonia del Capo, come Hermannia althaeifolia e la calla Zantedeschia aethiopica. Arrivava sicuramente dalle serre dell'orto botanico di Amsterdam l'allora ancora rarissima pianta di caffè, e probabilmente anche un ammirato Cereus che apriva i suoi fiori di notte. I vescovi di Londra hanno abitato a Fulham per oltre 1000 anni, dall'VIII secolo al 1975, quando il palazzo e i giardini sono stati ceduti alla municipalità di Hammersmith. All'inizio del secolo è iniziato un vasto programmi di restauri che ha coinvolto sia il palazzo sia i giardini, finanziato con i proventi della Lotteria Nazionale. Nel 2019 sono state aperte al pubblico aiuole (The Bishop Campton Beds) piantate con alcune specie coltivate ai tempi del vescovo Compton; tra gli alberi - quasi tutti a limitato sviluppo per non ombreggiare eccessivamente le altre specie - Diospyros virginiana, Celtis australis, Cercis siliquastrum e, ovviamente, Magnolia virginiana; tra gli arbusti, Rhododendron viscosum, Rhus typhina, Crataegus crus-gallii; ai loro piedi, tra le altre, Zantedeschia aetiopica, Asarum canadense, Adiantum pedatum, Dicentra cucullaria, Trillium sessile, Mertensia virginica. A giudicare dalle fotografie, per ora le aiuole appaiono ancora piuttosto spoglie, ma sono appunto recentissime. Un fossile vivente Anche se, come abbiamo visto, le collezioni di Compton furono disperse subito dopo la sua morte, il lascito del vescovo al giardinaggio inglese è imponente. Sandra Morris, che, basandosi sulle citazioni di Ray e Plukenet, l'erbario di Petiver confluito in quello di Sloane e le testimonianze di Watson e Hope, tra il 1991 e il 1993 ha pubblicato su "Garden History" due articoli, dedicati rispettivamente a alberi e arbusti il primo, alle piante erbacee il secondo, è riuscita a identificare 89 alberi o arbusti e 61 erbacee. Per diverse specie, la loro presenza a Fulham, retrodata l'introduzione in Inghilterra di parecchi decenni. Il vescovo meritava dunque l'omaggio di un genere botanico. A pensarci fu L'Héritier de Brutelle; ma dato che il nuovo genere avrebbe dovuto essere pubblicato nel secondo fascicolo di Stirpes novae che non uscì mai, a pubblicarlo per primo in Hortus kewensis (1789) fu Aiton, che precisa anche che la pianta in questione, Comptonia asplenifolia, fu introdotta in Inghilterra nel 1714, l'anno dopo la morte del vescovo, da un'altra grande collezionista, la contessa di Beaufort, una degli acquirenti della collezione di Compton. Oggi la pianta si chiama Comptonia peregrina ed è l'unico rappresentante vivente del genere Comptonia, famiglia Myricaceae. I paleontologi ne hanno identificato dozzine di specie fossili, distribuite in tutto l'emisfero settentrionale, la più antica delle quali risale al Cretaceo, 65 milioni di anni fa. Si tratta dunque di un vero fossile vivente, oggi confinato al Nord America orientale (dalla Nuova Scozia e al Manitoba a nord alla Georgia settentrionale a sud). E' un arbusto alto da un metro a un metro e mezzo, che si espande attraverso rizomi, con foglie dai margini dentati che ricordano singolarmente quelli delle felci, da cui il nome comune sweet fern, "felce dolce". L'aggettivo si riferisce al soave profumo delle foglie, percepibile anche a una certa distanza, dovuto alla presenza di oli essenziali. Per lo più monoica, porta in genere fiori femminili e maschili su piante diverse; i primi sono dei piccoli gattici arrotondati con brattee rossastre, mentre i secondi, più vistosi, sono gattici allungati giallo-verdastro. Dove trova le condizioni adatte, può formare dense colonie. Pianta adattata al freddo, è più comune nel settore più settentrionale dell'areale, dove cresce soprattutto in foreste aperte di conifere con suolo povero e acido, mentre più a sud ha una distribuzione sparsa, su suolo sabbioso, in praterie, savane e boscaglie, talvolta in querceti e pinete aperte, anche periodicamente allagati. Come adattamento agli incendi, produce semi che rimangono dormienti per decenni e germinano solo quando un incendio offre condizioni ottimali, riducendo la competizione degli alberi e degli arbusti più alti. Come adattamento a suoli poveri, è invece in grado di fissare i nitrati grazie a noduli delle foglie che non ospitano micorrize ma batteri. Qualche informazione in più nella scheda. Del medico veneziano Lionardo Sesler (o Leonardo, ma lui preferiva firmarsi nel primo modo) oggi ci rimangono un ritratto, un manoscritto copiato di sua mano, una lettera pubblicata nell'opera di un amico con la dedica di un nuovo genere - ormai ridotto a sinonimo - e poche notizie non sempre affidabili. Eppure intorno alla metà del Settecento il suo nome era noto anche al di fuori dei confini della Serenissima, e anche di più lo era l'orto botanico privato che aveva creato nell'isola di Sant'Elena, nel sestiere Castello. Fu il ricordo indelebile di quel giardino a spingere Scopoli a dedicargli il genere Sesleria, di casa nei prati aridi anche di casa nostra, divenuto così il suo ricordo più importante e concreto. Un medico veneziano appassionato di piante Intorno al 1745 un giovanissimo Giovanni Antonio Scopoli giunse a Venezia, deciso ad approfondire lo studio della medicina e della botanica, alla quale aveva incominciato ad appassionarsi esplorando le sue montagne. Tra i luoghi che frequentava si può dire quotidianamente spicca il giardino che il medico veneziano Lionardo ( o Leonardo) Sesler aveva creato nell'isola di Sant'Elena, all'estremità orientale della città, così evocato dallo stesso Scopoli nella prima edizione di Flora carniolica (1760): "Nella nostra memoria rimane indelebile il giardino, di sovente visitato, bellissimo e ricchissimo di piante rare, creato a Sant'Elena dal dottor Leonardo Sesler, uomo sommamente curioso delle scienze naturali". In quegli anni a Venezia Sesler era senza dubbio una riconosciuta autorità per "l'osservazione e la coltivazione delle piante" (anche queste sono parole di Scopoli), ma le informazioni che ci rimangono su di lui sono poche e sfuggenti. Stando a Saccardo, la sua famiglia era di origini tedesche, ma nacque a Venezia, in quale anno non sappiamo. Mosé Giuseppe Levi nel 1835, dunque una sessantina di anni dopo la sua morte, riferisce che morì nel 1785 all'età di ben 102 anni; sarebbe nato dunque nel 1683, una data davvero improbabile. La data di morte è invece confermata tra l'altro da un suo ritratto a penna conservato nella biblioteca dell'orto botanico padovano, in cui lo vediamo intento a leggere un manoscritto con molte correzioni; sul tavolo di fronte a lui, due volumi, uno forse un testo medico di Falloppio, l'altro indubbiamente il dizionario di Miller, e un cartiglio che recita: "Neque Leo, neque Nardus, sed Lionardus" (Non sono né leone, né nardo [un animale e una pianta] ma Leonardo). Alto e segaligno, con gli occhiali, non è certo un ottuagenario; purtroppo però il ritratto non è datato e anche il Garden's Dictionary, con le sue 8 edizioni, non ci aiuta. Sempre secondo Levi fu medico molto stimato, specializzato in ostetricia (a questo potrebbe alludere il volume di Falloppio); presumibilmente si laureò a Padova e certamente fu legato a Giulio Pontedera, prefetto dell'orto padovano dal 1719 al 1757, visto che sempre nella biblioteca dell'istituzione patavina è conservato un manoscritto di mano di Sesler che consiste in una copia della prima parte del primo volume della storia dell'Orto Botanico di Padova dello stesso Pontedera. Se la data di nascita riferita da Levi fosse affidabile, i due sarebbero stati quasi coetanei (anzi il minore d'età risulterebbe Pontedera, nato nel 1688). C'è da dubitarne, se consideriamo che una seconda amicizia padovana ci porta a tutt'altra data: si tratta di Vitaliano Donati, con il quale Sesler potrebbe aver erborizzato in Veneto, Friuli e Istria negli anni '40. E proprio in appendice all'edizione olandese (1757) della Storia naturale dell'Adriatico di Donati compare l'unica opera edita di Sesler: la lettera nella quale egli istituisce in onore dell'amico il genere Vitaliana, sulla base di una pianticella da lui raccolta sul monte Pellegrino sopra Cividale (oggi Androsace vitaliana); la lettera testimonia anche la sua grande ammirazione sia per il giovane amico e la sua sensazionale scoperta della natura animale dei coralli, sia per Linneo, definito omnium naturalium rerum lumen fulgentissimum. Come si è visto, agli anni '40 ci riporta anche la testimonianza di Scopoli. Molte delle piante rare che egli notò nel giardino di Sant'Elena dovevano essere il frutto delle erborizzazioni di Sesler nei territori della Serenissima; la sua fama dovette però superarne i confini, tanto da essere citato anche da von Haller. Secondo Levi, quando Sesler fu nominato chirurgo dell'ospedale di San Pietro e Paolo, sempre nel sestiere Castello, vi trasferì il giardino, ma colui che gli successe nell'anno della sua morte "quasi cignale ne ha lo interamente guastato, poiché meglio gli piacque vedervi sorgere piante di frutta saporite". Difficile credere che Sesler mantenesse il "grave suo ufficio" (così lo definisce Levi) a 102 anni! Forse se gliene togliamo venti o trenta, i conti tornano di più... Sempre a Padova e agli anni '40 ci riporta infine una terza documentata frequentazione di Sesler: quella con l'abate Filippo Vicenzo Farsetti: il ricchissimo nobiluomo nel 1744 affidò all'architetto Paolo Posi il compito di trasformare la sua villa di Santa Maria della Sala presso Padova in una residenza degna di Versailles; il parco, progettato dal francese Charles-Louis Clérisseau, si arricchì di templi, laghetti, labirinti, parterres, boschetti. Ma Farsetti volle anche un orto botanico ricco di piante rare; Lionardo Sesler, stimatissimo "fiorista" (cioè esperto di piante anche ornamentali) fu il suo principale consulente; secondo alcune fonti ne fu addirittura il direttore o curatore, ma è difficile pensarlo, visto che continuava a risiedere a Venezia e ad esercitarvi molto attivamente la medicina. Là dove fioriscono i prati di Sesleria Fu tuttavia il giardino di Sant'Elena tanto ammirato da Scopoli a fare entrare il medico veneziano nella lista dei dedicatari di generi botanici; il grato botanico trentino volle infatti dedicargli Sesleria, stabilito sulla base di una graminacea che cresceva copiosa nei luoghi sassosi nei pressi di Idrija (attuale Slovenia); Scopoli non le assegnò un nome specifico, ma potrebbe trattarsi di S. caerulea. Oggi al genere sono assegnate da 30 a 40 specie, una delle quali in Nord Africa, le altre diffuse dall'Europa all'Iran, con centro di diversità nei Balcani, dove ne vive circa l'80%. Ne è ben fornita anche la flora italiana, con una dozzina di specie, cinque delle quali endemiche: S. calabrica (Massiccio del Pollino e Catena dell'Orsomarso a cavallo tra Lucania e Calabria); S. italica (Appennini centrali e settentrionali, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria Marche e Lazio); S. nitida (Appennini centrali e meridionali, Sicilia); S. pichiana (Appennini settentrionali, con stazioni sparse dal Piemonte e dalla Liguria all'Emilia); S. x tuzsonii (endemismo del Monte Procinto nelle Alpi Apuane, possibilmente sinonimo di S. autumnalis). Specie pioniere dei prati aridi e rocciosi, soprattutto nelle aree montane, le Sesleriae sono le erbe dominanti dei seslerieti, talvolta insieme ai carici. Nelle Alpi, il seslerieto da Sesleria caerulea colonizza pendii aridi, scoscesi e assolati su substrati calcarei della fascia montana e prealpina ed è ricco di fioriture, con specie come Aster alpinus, la stella alpina Leontopodium alpinum, Potentilla aurea, Anemone alpina, Viola calcarata e l'orchidea Gymnadenia nigra (sin. Nigritella nigra). Insieme a Carex sempervirens costituisce il seslerieto-sempervireto. Negli Appennini, dove è presente dal piano montano a quello alpino in pendii fortemente aridi e lungo le creste esposte al vento, il seslerieto è dominato da S. juncifolia o da S. appenina, anch'esse con un ricco corteggio di compagne tra cui spiccano Pedicularis elegans subsp. elegans, Carex kitaibeliana, Helianthemum oelandicum subsp. incanum, Androsace villosa, Astrantia tenorei, Leontopodium nivale, Gentiana dinarica, Pulsatilla alpina subsp. millefoliata, Linum alpinum. Oltre a costituire la base dei tappeti di fiori multicolori che ammantano le montagne, le Sesleriae stanno entrando anche in giardino, per la robustezza, le scarse esigenze, e l'indubbio valore decorativo; quelle più facilmente disponibili nei vivai sono S. caerulea, apprezzata per i ciuffi sempreverdi di foglie glauche, e S. autumnalis, interessante anche per le spighette argentee prodotte a partire da settembre. Da Sesleria intorno alla metà del secolo scorso è stato separato il molto affine genere Sesleriella, con una o due specie di minuscole erbe rupicole delle Alpi orientali (Italia, Svizzera, Austria e Slovenia): si tratta di S. sphaerocephala, e forse da S, leucocephala, oggi per lo più considerata una variante cromatica della precedente. Altre notizie nelle rispettive schede di Sesleria e Sesleriella. Negli anni '70 del Settecento, il dottor Fothergill era il medico più quotato e più pagato d'Inghilterra. Quacchero, usava i suoi ingenti guadagni per opere di bene, ma anche per togliersi qualche capriccio: primo fra tutti un giardino che, a sentire Banks, era superato per ricchezza di piante esotiche solo dai giardini reali di Kew. Indaffaratissimo, il dottore non aveva tempo per occuparsene di persona, ma aveva al suo servizio uno stuolo di giardinieri, senza parlare dei cacciatori di piante che sguinzagliava ai quattro angoli del mondo. Così, secondo il suo biografo, nel giardino di Upton il circolo polare artico si incontrava con l'equatore. A ricordarlo, il genere nordamericano Fothergilla, dedicatogli da Linneo in riconoscimento dei suoi molti meriti come patrono del giardinaggio britannico. Strade nuove per la medicina Meno noto di altri parchi londinesi, il West Ham Park è un vasto parco situato nel borgo di Newham, uno dei quartieri nordorientali della "Grande Londra". Oltre a un roseto, ospita un importante arboreto con la collezione nazionale di Liquidambar. Un esemplare storico di Gingko biloba, piantato nel 1763, sta a testimoniare che nel XVIII secolo qui c'era un giardino che fu definito il "secondo per importanza dopo Kew". Era il parco di Upton House, una elegante casa di campagna che, dopo essere passata attraverso varie mani ed essere stata ribattezzata Ham House, fu demolita nel 1872. Poco dopo il parco passò alla città di Londra che ancora lo gestisce. A far piantare quell'albero a lato della casa (lo mostra chiaramente la deformazione della chioma) era stato il celebre John Fothergill (1712-1780) che l'anno prima aveva acquistato la proprietà con i proventi della sua fortunata carriera di luminare della medicina. Fothergill, uno dei numerosi figli di un fattore e predicatore quacchero, nacque nel 1712 nella fattoria di famiglia, chiamata Carr End, presso Bainbridge nello Yorkshire. Forse furono i racconti del padre, che in gioventù aveva visitato più volte le colonie americane per conto dei fratelli quaccheri, a fargli sognare ed amare la natura esotica. A sedici anni fu collocato come apprendista presso un altro fratello quacchero, un farmacista di Bradford che era anche libraio e incoraggiò il suo amore per lo studio. Fothergill avrebbe voluto iscriversi all'università, ma i dissidenti religiosi non erano ammessi negli atenei inglesi. Così si immatricolò ad Edimburgo per seguire i corsi di farmacia; ma fu notato dal celebre professore di anatomia Monro I che lo convinse a passare a medicina. Tra i suoi condiscepoli Alexander Russell, che sarebbe rimasto suo intimo amico per tutta la vita. Durante gli anni di Edimburgo Fothergill approfondì la conoscenza del latino e perfezionò un metodo basato sull'analisi e il confronto tra le "autorità" e i casi reali. Nel 1736 si laureò con una tesi sugli emetici e si trasferì a Londra per il praticantato presso l'ospedale St Thomas, dove studiò per due anni con un altro professore eminente, sir Edward Wilmot. Nell'estate del 1740, in compagnia di alcuni amici facoltosi, visitò l'Olanda, il Belgio, la Germania e la Francia, quindi si stabilì a Londra. Come laureato a Edimburgo, non aveva la licenza per praticare in Inghilterra e dovette dedicarsi all'assistenza dei più poveri: un'esperienza che gli permise di crearsi una reputazione di medico abile, gentile e caritatevole. Egli stesso più tardi avrebbe commentato: "Mi sono arrampicato sulle spalle dei poveri fino alle tasche dei ricchi". Nell'ottobre del 1744 fu il primo laureato di Edimburgo ad essere ammesso al Royal College of Physicians di Londra; poté così esercitare legalmente e aprire uno proprio studio. Quello stesso anno tenne la sua prima conferenza alla Royal Society, dedicata a un argomento allora inedito: la respirazione bocca a bocca. Da quel momento la sua reputazione non fece che crescere, come dimostrano le varie istituzioni mediche e scientifiche che lo accolsero tra i propri membri: il Collegio di medicina di Edimburgo (1754), la Royal Society (1763), l'American Philosophical Society (1770), la Reale società di medicina di Parigi (1776). Tra il 1746 e il 1748 Londra fu colpita da un'epidemia di scarlattina. Fothergill riuscì a salvare molti pazienti abbandonando le inutili cure tradizionali, basate su salassi e purganti, e trattandoli con vino, minerali acidi attenuati e blandi emetici. Frutto di questa esperienza fu Account of the Sore Throat Attended with Ulcers, che contiene anche una delle prime descrizioni della difterite. Nel 1748-49, allo scoppio di un'epidemia di peste bovina, raccomandò di isolare gli animali infetti e di sospendere mercati e fiere fino all'eradicazione del contagio. Era anche un deciso sostenitore dell'inoculazione del vaiolo, per la quale fu consultato persino dalla zarina Caterina II. Nel 1773, in Affection of the Face, fu il primo a identificare e battezzare la nevralgia del trigemino. Ormai era un medico alla moda, il più conteso da nobili pazienti e il meglio pagato di Londra. Si dice che negli anni '70 lavorasse anche venti ore al giorno, guadagnando la somma allora enorme di 5000 sterline l'anno (equivalente a 700.000 sterline di oggi). Durante l'epidemia di influenza del 1774-75 giunse a visitare sessanta pazienti al giorno. Era anche un filantropo, impegnato in molte battaglie civili. Si batté per la riforma delle carceri, presentò una proposta per l'istituzione di bagni pubblici, finanziò la pubblicazione della cosiddetta "Bibbia quacchera" e la fondazione della Ackworth School nello Yorkshire, destinata ai bambini della comunità quacchera. Amico di Benjamin Franklin, finanziò la pubblicazione dei suoi scritti sull'elettricità, di cui scrisse la prefazione; come membro della comunità quacchera, oltre che con Franklin era in contatto con altri correligionari delle colonie, della cui situazione era ben informato e che visitò a più riprese. Un altro dei suoi amici era l'abolizionista e educatore di Filadelfia Anthony Benezet. Nel 1775, dopo il Boston Tea Party, insieme a Franklin e David Barclay elaborò una proposta conciliatrice che però cadde nel vuoto. A questo punto, fu uno dei firmatari della petizione presentata al re dai quaccheri per caldeggiare un accordo pacifico. Il giardino dove il circolo polare incontra l'Equatore Tra tanti impegni professionali e sociali, Fothergill trovava ancora incredibilmente tempo per coltivare gli studi naturalistici, una passione diffusa tra i fratelli quaccheri, cui erano vietati divertimenti più mondani come il gioco, il teatro o i balli. Collezionava minerali, insetti e conchiglie, finché grazie a un confratello scoprì le piante. Come scrive egli stesso in una lettera a Linneo del 1774, si trattava del mercante Peter Collinson che lo convinse a investire una parte dei suoi guadagni nella creazione di un giardino botanico. Deciso a fare le cose in grande, nel 1762, Fothergill acquistò una proprietà di una trentina di acri nei pressi di Stratford, che all'epoca faceva parte della contea dell'Essex. Fece ampliare la casa, ribattezzata Upton House, e negli anni successivi estese la superficie della proprietà fino a 60 acri (24 ettari). Immediatamente mise mano alle sue vaste risorse finanziarie e alla rete di amici e corrispondenti per creare un giardino raffinatissimo, sul quale Banks si espresse in questi termini: "Secondo me, nessun altro giardino europeo, appartenga a un reale o un privato, è così ricco di piante rare e preziose. E' secondo solo a Kew per attrarre visitatori dall'estero". Per riuscire in tanta impresa, Fothergill affrontò "spese raramente sostenute da un singolo individuo. [...] si è procurato da ogni parte del mondo un gran numero delle piante più rare, e le ha protette negli edifici più grandi che il paese abbia mai visto". Nella mappa dell'Essex, disegnata nel 1777 da Chapman e André, Upton compare come un giardino recintato di 5 acri (2 ettari) circondato da un parco alberato. Più tardi (Fry, History of the Parishes of East and West Ham, 1888) fu descritto così: "Un canale tortuoso, a forma di mezzaluna, divideva il giardino in due parti, aprendosi occasionalmente su arbusti esotici rari. Dalla casa una porta a vetri dava accesso a una successione di serre fredde e calde, che si estendevano per quasi 260 piedi [circa 80 metri] e contenevano oltre 3400 diverse specie esotiche. All'esterno, in piena terra c'erano quasi 3000 specie diverse di erbacee e arbusti". Tra le piante coltivate all'aperto, c'erano moltissime specie di perenni da fiore, gruppi di arbusti e molti sempreverdi che rendevano il giardino interessante anche d'inverno, alberi rari provenienti per lo più dall'America settentrionale ma anche dalle Antille, dal Levante, dall'India e dalla Cina. Fothergill fece anche allestire uno dei primissimi giardini rocciosi, che forse precede quello di Chelsea (1773). Il fiore all'occhiello erano però le grandiose serre, dove aranci e mirti fiorivano liberamente e c'era addirittura un esemplare di tè (Camellia sinensis) che gli fu spedito dalla Cina nel 1769; trapiantato all'esterno, ma protetto d'inverno con una serra mobile e stuoie, fiorì per la prima volta nel 1774 (una novità assoluta in Europa) e raggiunse la ragguardevole altezza di 20 metri. Con una vita professionale tanto intensa, Fothergill riusciva a godersi il giardino solo occasionalmente, rubando qualche ora ai suoi pazienti. Lo affidò alle abili cure di un esercito di 15 giardinieri; tra i suoi protetti, c'erano anche quattro pittori, incaricati di immortalare le piante più rare in acquerelli su pergamena. Uno di loro era Sidney Parkinson, l'artista del primo viaggio di Cook. Ma per lui lavorarono anche artisti rinomati come Ehret e Miller. Alla sua morte, una collezione di 2000 dipinti su pergamena fu acquistata da Caterina II ed è stata solo recentemente ritrovata in un museo di San Pietroburgo. Egli aveva anche un'ampia biblioteca e un erbario di circa 600 esemplari, diversi dei quali testimoniano la prima introduzione in Europa di specie esotiche; dopo la sua morte fu acquistato da Joseph Jekyll, il nonno di Gertrude Jekyll, ed ora è custodito nel Garden Museum di Londra. Ovviamente, il primo fornitore di Fothergill fu l'amico Collinson, che lo coinvolse nelle sottoscrizioni delle "scatole di Bartram". Anche John Bartram era quacchero e presto instaurò una corrispondenza diretta con Fothergill che dopo la morte di Collinson nel 1768 finanziò per diversi anni le spedizioni di suo figlio William. Cospicue furono anche le raccolte di Humphrey Marshall, pure lui quacchero e cugino dei Bartram, che in cambio ricevette denaro e strumenti scientifici, tra cui un telescopio, un barometro e un microscopio. Diverse piante del Levante gli arrivarono dall'amico Alexander Russell che, come ho raccontato qui, gli inviò tra l'altro i semi del primo Arbutus andrachne a fiorire in Inghilterra. Stabilì contatti con viaggiatori e capitani di marina e fu direttamente coinvolto dall'amico Joseph Banks nel primo viaggio di Cook (1768-1771); come ho anticipato, il pittore ufficiale era il suo protetto Sidney Parkinson, che purtroppo vi trovò la morte. Stessa sorte toccò al suo servitore Thomas Richmond, che accompagnava Banks come aiutante di campo, e morì di ipotermia nella Terra del fuoco. Nel 1771, insieme a Banks appena rientrato dai mari del sud ed una cordata di altri collezionisti, inviò in Sierra Leone Henry Smethman e Andreas Berlin alla ricerca di insetti e piante; dall'Africa, gli inviò piante anche William Brass, uno dei raccoglitori di Banks. Nel 1775 si associò con il collega Robert Pitcairn, presidente del Royal College of Physician, per inviare Archibald Menzies a esplorare le montagne dell'Europa centrale. Per i suoi raccoglitori (i primi ad essere finanziati da un privato e non da un sovrano o da un orto botanico) Fothergill redasse anche sintetiche istruzioni (Directions for Taking Up Plants and Shrubs and Conveying them by Sea); raccomanda loro di preferire piante alte circa un piede, raccolte con un buon pane di terra; per i lunghi viaggi, devono essere sistemate in scatole lunghe quattro piedi, profonde e alte due; quando la scatola è piena a metà, deve essere trasportata a bordo della nave e racchiusa in una fitta rete sostenuta da archetti, in modo da tenere lontani topi di bordo e altri animali; devono essere assicurate la massima pulizia e una eccellente ventilazione. Il capitano va però avvertito dei pericoli della salsedine e in caso di cattivo tempo, bisogna provvedere a una copertura con un canovaccio. Ovviamente Fothergill era assiduo cliente dei più riforniti vivai britannici e scambiava piante con altri appassionati, come John Ellis. Fu tra i finanziatori del Gardener's Dictionary di Miller, alle cui abili mani talvolta affidava la moltiplicazione dei semi ricevuti dai suoi corrispondenti in giro per il mondo; lo stesso faceva con il non meno abile James Gordon. Dopo la morte di Fothergill nel 1780, gran parte delle piante vennero vendute all'asta (tranne ovviamente i grandi alberi del parco, qualcuno dei quali, come il Gingko biloba posto a fianco della casa, è arrivato fino a noi); buona parte delle tropicali furono acquistate da un altro medico collezionista, John Coakley Lettsom, un protetto di Fothergill che lo aveva aiutato a laurearsi e ad avviare la carriera. Lettsom gli dedicò una reverente biografia (Memoirs of John Fothergill, 1786) e elencò le piante tropicali del giardino nel catalogo Hortus uptonensis (ca. 1783). Nel ricordare commosso il giardino ormai scomparso del suo patrono, scrisse: "In quell'angolo fu creata una perpetua primavera, dove l'elegante proprietario talvolta si ritirava per qualche ora a contemplare i prodotti vegetali dei quattro quarti del mondo riuniti nella sua proprietà. Qui sembrava che il globo fosse stato alterato e che il Circolo polare artico si congiungesse con l'Equatore". Come Anamelis divenne Fothergilla Al dottor Fothergill è accreditata l'introduzione in Inghilterra di non meno di cento specie di piante, per lo più erbacee, anche se non manca qualche albero o arbusto. Tra questi ultimi, forse anche la specie che immortala il suo nome, Fothergilla gardenii. Sembra che il primo a raccoglierla sia stato un altro amico e corrispondente di John Bartram, il medico scozzese Alexander Garden, che ne parla in una serie di lettere a Linneo, a partire dal 1765. Il grande botanico svedese riteneva si trattasse di una nuova specie di Hamamelis, ma Garden, che aveva potuto confrontarla dal vivo con H. virginiana, pensava andasse attribuita a un genere a sé, che al momento egli battezzò provocatoriamente Anamelis (con alfa privativa: una non-Hamamelis). Per convincere Linneo, lo bombardò di lettere e gli inviò anche esemplari conservati sott'alcool. Linneo cedette solo nel 1773, con grande soddisfazione del medico scozzese che in una lettera del maggio di quell'anno commentò: "Sono veramente felice che questo elegantissimo arbusto, che io chiamavo Anamelis, abbia finalmente ottenuto il posto appropriato, perché mi addolorava molto che fosse costretto a schierarsi sotto bandiere altrui". Nella tredicesima edizione di Systema vegetabilium (1774) Linneo lo fece definitivamente felice immortalando insieme Fothergill, suo corrispondente al quale era grato per quanto aveva fatto a favore della scoperta di nuove piante, e il tenace scopritore. Fothergilla gardenii è una delle tre-quattro specie del piccolo genere Fothergilla (famiglia Hamamelidaceae) endemico degli Stati Uniti sud-orientali, dal Nord Carolina alla Florida; è un arbusto nano, meno diffuso nei nostri giardini di F. latifolia (per alcuni F. major), una specie montana originaria degli Allegheny. Spesso coltivati sono anche gli ibridi tra le due specie, noti come F. x intermedia, che in alcune cultivar hanno foglie blu polvere. Decidue, le Fothergillae in primavera prima di emettere le nuove foglie producono copiose fioriture di fiori bianchi crema privi di petali e con sepali ridotti, ma resi vistosi dai numerosissimi stami lunghi anche due o tre centimetri che si raggruppano in infiorescenze simili a folti piumini. In autunno tornano a dare spettacolo con le foglie che, prima di cadere, si tingono di rosso o arancio brillante. Altre informazioni nella scheda. Dopo Euricius e Valerius Cordus, un'altra coppia padre-figlio della Germania del Cinquecento: quella costituita dai due Joachim Camerarius, il Vecchio e il Giovane. Il primo in gioventù fu amico di Euricius, poi divenne una colonna dell'intellighenzia luterana e un notissimo filologo; il secondo studiò in Italia, divenne un medico conteso da principi e sovrani, il riformatore della medicina della sua città, l'autore di un noto testo sugli emblemi, a metà tra erudizione, filosofia morale e naturalismo. Per noi è soprattutto un creatore di giardini: il suo, ricchissimo di piante esotiche, e quelli che aiutò a realizzare o progettò per il langravio d'Assia e il vescovo di Eichstätt. Proprio come quest'ultimo esiste ormai solo nelle magnifiche figure di Hortus Eystettensis, così anche il giardino di Camerarius sopravvive nelle pagine di un libro e di un manoscritto. Auspice Plumier, Linneo gli dedicò il piccolo genere Cameraria. Un emblematico figlio d'arte Abbiamo incontrato Joachim Camerarius il Vecchio (1500-1574) a Erfurt nel 1520, quando, ventenne, aprì una sfortunata scuola latina insieme a Euricius Cordus. Dopo quell'infelice esordio, divenne un intellettuale di punta del Luteranesimo. Professore a Wittenberg, fu a fianco di Melantone che aiutò a scrivere la Confessione augustana; più tardi ne fu anche il primo biografo. Ebbe un ruolo importante nella riforma in senso protestante delle università di Tubinga (insieme a Fuchs) e di Lipsia, dove visse dal 1539 alla morte. Fu uno dei maggiori umanisti della sua generazione, autore di opere di vario argomento e di numerose traduzioni, nonché curatore di fondamentali edizioni critiche, la più importante delle quale è la prima edizione a stampa del testo greco del Tetrabiblos di Tolomeo. Suo figlio Joachim, che per distinguerlo dal padre è noto come Camerarius il Giovane (1534-1598), cresciuto in questa atmosfera intellettuale, poté giovarsi della fitta rete di contatti del padre, che includeva importanti umanisti e le maggiori personalità del mondo riformato. Dopo aver ricevuto un'ottima formazione classica a Wittenberg con Melantone e a Lipsia con il padre, si orientò verso la medicina. Il suo primo maestro fu Johann Crato von Krafftheim, medico cittadino a Breslavia, che si era laureato a Padova e gli consigliò di fare lo stesso; fu così che nel 1559 Joachim il Giovane partì per l’Italia. Per due anni seguì i corsi a Padova, poi si spostò a Bologna dove si laureò con Ulisse Aldrovandi, con il quale sarebbe rimasto in corrispondenza per tutta la vita. In Italia strinse preziosi legami con molti altri naturalisti, che gli sarebbero stati molto utili al suo ritorno in Germania. Infatti Camerarius il Giovane, oltre che un medico di notevole talento, era anche un umanista e un collezionista che non avrebbe potuto né scrivere le sue opere né arricchire le sue collezioni e il suo giardino senza il contributo di tanti amici e corrispondenti. Dopo la laurea nel 1562, viaggiò ancora per qualche mese in Italia quindi rientrò a Norimberga che sarebbe rimasta la sua residenza fino alla morte. Divenne medico cittadino; la sua competenza era tale che spesso veniva consultato da principi e sovrani. Fu anche molto impegnato nella riforma della medicina della sua città; nel 1571 propose al Consiglio cittadino di istituire un Collegium Medicum che ne regolasse la pratica: solo i medici laureati dovevano essere autorizzati a fare diagnosi e i farmacisti dovevano essere posti sotto il controllo dei medici. Il Collegium venne infine istituito nel 1592 e Camerarius ne fu il decano fino alla morte. Oltre a scrivere di argomenti medici, Camerarius era un intellettuale di vasti interessi, un appassionato collezionista di immagini, piante, minerali, fossili, oggetti naturali in genere. Alla morte di Gessner, di cui era amico, fu lui ad acquistarne i manoscritti e i disegni. Gli studi naturalistici, la competenza di filologo, il moralismo di matrice luterana e il fascino per le immagini si conciliano in Symbola et emblemata, un'opera in quattro libri (o centurie), ciascuno dei quali contiene cento emblemi. Essa si inquadra in un filone che ebbe ampio successo tra tardo Cinquecento e Seicento, quello dei libri di emblemi, ma se ne distingue perché Camerarius sceglie i suoi emblemi esclusivamente dal mondo naturale: le piante (I libro), i quadrupedi (II libro), gli uccelli e i volatili (III libro), gli animali acquatici (IV libro). Ognuno dei quattrocento emblemi ha una struttura quadripartita: sulla pagina di sinistra, l’emblema vero e proprio, un’immagine posta in una cornice circolare, simile a una medaglia; lo sormonta il motto, una frase sentenziosa contenente un insegnamento morale; al piede un epigramma in versi; sulla pagina di destra, un commento con riferimenti sia ad autori classici o alla Bibbia, sia alla letteratura naturalistica. Le immagini, dovute al pittore e incisore Hans Siebmacher e realizzate con la tecnica allora nuova della calcografia, sono assai attraenti e furono riutilizzate per secoli. Giardini veri (e filosofici), giardini dipinti Come molti naturalisti del tempo, Camerarius aveva vasti interessi, ma la botanica era il suo campo d'elezione: è stato notato che in Symbola et emblemata, i testi delle centurie sugli animali sono per lo più un collage della letteratura di riferimento, mentre nella centuria sulle piante si nota una profonda conoscenza diretta e sono frequenti le osservazioni di prima mano. Infatti, a partire dal 1569 Camerarius poteva studiarle nel suo giardino, dove accanto ai semplici c'erano moltissime piante esotiche; era considerato il più raffinato della Germania meridionale. A farci sapere che cosa vi coltivasse, provvide lo stesso Camerarius con la sua maggiore opera di botanica, Hortus Medicus et Philosophicus , che di quel giardino è almeno in parte il catalogo. Seguito da un opuscolo di Johann Thal sulla flora della regione dello Harz e illustrato da xilografie di Jost Amman e altri artisti, tra cui Joachim Jungermann (nipote di Camerarius), contiene una lista in ordine alfabetico di piante adatte alla coltivazione nei giardini tedeschi di cui vengono forniti i nomi, i sinonimi, la provenienza e note di coltivazione; lo stile è sintetico e le note erudite sono sporadiche, così come le eventuali proprietà officinali. Dalla medicina farmaceutica, l’interesse si va spostando verso le piante in sé, come sottolinea il titolo: hortus medicus sì, ma anche philosophicus, ovvero scientifico: è ora che le piante, da ingrediente delle ricette dei medici, diventino oggetto di studio dei naturalisti. Ci sono piante native, magari alpine, il cui interesse estetico è emerso dai viaggi dei primi esploratori della flora locale, come Valerius Cordus e Gessner, ma moltissime sono esotiche, soprattutto provenienti dall’Italia e dal Mediterraneo orientale. Alcune delle specie che Camerarius coltivava nel suo giardino erano souvenir dei suoi viaggi in Italia come il “bellissimo Antirrhinum dai fiori gialli che cresce spontaneo tra Savona e Genova" . Molte le acquistava dai mercanti di Norimberga che si rifornivano soprattutto ad Anversa, la porta europea delle piante provenienti dalle Indie orientali e occidentali. Ma moltissime le aveva avute da altri botanici e appassionati: il fornitore più assiduo probabilmente era Carolus Clusius, che in quegli anni era a Vienna ed aveva accesso alle specie provenienti dall’Impero ottomano; ma le piante del Levante gli arrivavano anche dai contatti italiani: Aldrovandi, i prefetti di Padova Guilandino e Cortuso, il farmacista Calzolari, i botanici viaggiatori Prospero Alpini e Giuseppe Casabona, prefetto dell'orto di Firenze. Nel 1568 il langravio Gugliemo IV di Assia-Kassel fece allestire uno spettacolare giardino nell'isola di Fulda, ai piedi del suo castello di Kassel. Per selezionare le piante più adatte, si avvalse della consulenza di Camerarius, che gli mise a disposizione i suoi contatti e aiutò il giardiniere capo, che faceva continuamente la spola tra Kassel e Norimberga, a procurarsi piante e elementi decorativi presso i mercanti della città. Era considerato il massimo esperto di giardinaggio della Germania, era un uomo colto e raffinato abituato a frequentare principi e corti; è dunque logico che il vescovo Johann Konrad von Gemmingen abbia pensato a lui quando decise di creare un giardino senza pari a Eichstätt. Il fatto che fosse luterano, evidentemente, non era un ostacolo. Tuttavia Camerarius morì quasi subito e il compito, come ho raccontato in questo post, passò al meno colto ma molto intraprendente Basilius Besler. Ci sono però legami molto forti tra l'Hortus Eystettensis (inteso sia come giardino sia come libro) e il giardino dello stesso Camerarius, Non solo talee, bulbi, barbatelle e semi passarono da un giardino all'altro, ma il vecchio medico e botanico anticipò il progetto del vescovo di far ritrarre dal vero le piante di Eichstätt facendo eseguire uno splendido florilegio manoscritto che documenta le più belle e rare specie del suo giardino. Mai pubblicato, il Camerarius Florilegium si credeva perduto finché venne riscoperto all'inizio del secolo e messo all'asta da Christie nel 2002. Ad aggiudicarselo è stata la biblioteca di Erlangen. È una spettacolare opera d’arte che ritrae 473 specie coltivate, indigene o esotiche, per lo più a grandezza naturale, disposte secondo la successione delle stagioni. Alcune sono collocate in vasi, altre affiancate sulla stessa pagina in una composizione armonica, che anticipa, appunto, lo stile di Hortus Eystattensis. I disegni, allo stesso tempo accurati e di grande qualità estetica, non sono firmati; è stato fatto il nome di Joachim Jungermann, il nipote di Camerarius, che aveva eseguito alcuni dei disegni di Hortus medicus et philosphicus. L'esotica (e poco nota) Cameraria Riprendendo un suggerimento di Plumier, in Species Plantarum Linneo ha voluto ricordare Camerarius con il genere Cameraria. Appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, è un piccolo genere di appena sette specie, quattro delle quali endemiche di Cuba, due di Haiti e una sola presente anche nell'America continentale, in una stretta fascia tra Messico meridionale e Guatemala. Come molte rappresentanti di questa famiglia, sono piante attraenti, ma tossiche. Sono piccoli alberi o arbusti con foglie intere, lucide, e fiori di piccole dimensioni, bianchi, con tubo corollino a imbuto e cinque lobi a stella. La specie più nota e diffusa è C. latifolia, un elegante alberello con fiori bianchi, che secerne un lattice bianco tossico utilizzato dagli indigeni per avvelenare le frecce. Tuttavia la radice e la corteccia hanno diversi usi officinali. Un elenco delle specie con la distribuzione nella scheda. Sette anni di lavoro, una spesa di 17,920 fiorini, una squadra di una dozzina di artisti, un farmacista e un botanico, 367 tavole calcografiche, 1084 piante divise nelle quattro stagioni, 3 volumi per il peso complessivo di 14 kg, 300 copie vendute a un prezzo esorbitante, un esemplare aggiudicato in un'asta di Christie per 1.930.500 sterline: sono questi i numeri di Hortus Eystettensis, il meraviglioso florilegio barocco voluto dal vescovo di Eichstätt Johann Konrad von Gemmingen e realizzato dal farmacista Basil Besler. Il ricchissimo vescovo desiderava immortalare le piante dei suoi favolosi giardini disposti su otto terrazze, dove, a quanto si racconta, fiorivano 500 varietà diverse di tulipani. Morì prima che la mastodontica opera fosse finita; a trarne profitto fu il curatore Basil Besler, che guadagnò abbastanza da acquistare una casa (il cui prezzo era giusto 5 volte quello di una copia di lusso del librone). E oltre a una serena vecchiaia, conquistò anche un posto nella tassonomia botanica, come patrono del genere Besleria. Da un giardino barocco a un'opera senza pari Il vescovo Johann Konrad von Gemmingen (1561-1612), presule della diocesi di Eichstätt in Baviera, oltre a non disdegnare la caccia alle streghe (durante il suo mandato, furono almeno 20 le donne finite sul patibolo), amava il lusso e l'ostentazione. In occasione del Capodanno del 1603 arrivò a Ingolstadt a bordo di un cocchio trainato da sei cavalli, seguito da un corteggio di 91 persone e 83 cavalli. Poco prima di morire, commissionò un pomposo ostensorio con grappoli d'uva di pietre preziose e una stella di diamanti, per il quale erano stati necessari 1400 perle, 350 diamanti, 250 rubini e altre pietre, dal valore stimato di 150.000 fiorini. Non era tipo da accontentarsi della vecchia residenza vescovile; si fece costruire un nuovo palazzo di rappresentanza in stile tardo rinascimentale, ispirato a modelli italiani, che oggi è considerato uno dei capolavori del Rinascimento tedesco. Gli interni erano sontuosi e ricchi di curiosità e oggetti d'arte, A fare da scrigno a tanta preziosità e bellezza, anche i giardini non potevano essere da meno. Per il progetto, Gemmingen intorno al 1596 si rivolse a Joachim Camerarius il giovane, che, oltre ad essere uno dei più eminenti botanici tedeschi, possedeva egli stesso un giardino botanico dove coltivava molte piante esotiche. Tuttavia Camerarius morì prima dell'inizio dei lavori, nel 1598. Il vescovo allora ingaggiò Basilius Besler, un farmacista di Norimberga che possedeva un noto gabinetto di curiosità e un giardino botanico e corrispondeva con diversi naturalisti, tra cui Clusius. Il ruolo di Besler era organizzativo: gestiva la cassa e pagava dipendenti e fornitori; coordinava e sorvegliava l'attività dei giardinieri; soprattutto, teneva i contatti con i fornitori di piante, in particolare i mercanti dei Paesi Bassi che operavano a Anversa, Bruxelles e Amsterdam. I lavori d'impianto del nuovo giardino, ben presto noto come il più bello al di là delle Alpi, durarono circa sei o sette anni, fino al 1606. Si trattava in realtà di un sistema di otto giardini indipendenti, curati ciascuno da un proprio giardiniere, disposti su altrettante terrazze lungo il pendio della collina su cui sorge il Willibaldsburg, il castello-fortezza dei vescovi di Eichstätt; il vescovo poteva ammirarli dall'alto da un'altana collegata con i suoi appartamenti, e scendere in giardino attraverso una serie di scale a chiocciola. Ispirato al gusto barocco per la meraviglia, il giardino del vescovo era concepito come una Wunderkammer all'aperto, con chioschi, fontane, statue e collezioni di piante rare, molte di origine mediterranea, anche se non mancava qualche novità appena arrivata dall'America. La moda del momento prediligeva le bulbose, soprattutto i tulipani di cui il vescovo Gemmingen si vantava di possedere 500 diverse varietà. Non sappiamo se l'idea di immortalare quelle fragili bellezze in un catalogo illustrato sia stata del vescovo o se a suggerirgliela sia stato Besler. Ma probabilmente entrambi guardavano a un precedente immediato: il florilegio fatto allestire intorno al 1589 da Camerarius per il proprio giardino, un magnifico manoscritto in folio di 194 carte, con 473 dipinti di piante ornamentali a tempera e acquarello, raggruppate in base al periodo di fioritura. Camerarius non poté farlo stampare, e dopo la sua morte molte delle sue piante andarono ad arricchire le collezioni del giardino del vescovo di Eichstätt. A parte quest'esempio, quando Besler avviò la realizzazione di Hortus Eystettensis non esistevano precedenti né di cataloghi illustrati di un singolo giardino né di florilegia, ovvero di libri dedicati alle piante fiorite; fino ad allora, l'editoria botanica si era occupata essenzialmente di piante officinali. Tuttavia, dato che, come vedremo, il lavoro preparatorio si protrasse per molti anni, quando fu dato alle stampe ormai un precedente c'era: il catalogo dei giardini del Louvre Le Jardin du tres Chrestien Henry IV, con testi di Jean Robin e disegni di Pierre Vallet, pubblicato nel 1608. Insomma, l'idea era nell'aria, ma Hortus Eystettensis, per dimensioni, magnificenza, qualità e quantità delle immagini, potrei dire "peso" (anche in senso letterale), rimane senza uguali. Besler viene generalmente indicato come l'autore e come tale risulta nel frontespizio; per accreditare l'opera come sua, si fece orgogliosamente ritrarre all'inizio dell'opera, con in mano una pianticella forse di basilico, che potrebbe alludere al suo nome. In realtà ne fu piuttosto il responsabile editoriale. Procurò la carta, selezionò le piante da ritrarre e organizzò il progetto, ingaggiò gli artisti e forse l'autore dei testi, seguì tutte le fasi della produzione, dal disegno alla stampa. L'impresa richiese molti anni (di solito si parla di sedici, ma questo lasso di tempo include anche la realizzazione del giardino; possiamo più realisticamente parlare di sette anni, fissando l'inizio al 1606 o al 1607) e ironicamente si concluse nel 1613, un anno dopo la morte del committente. Dato che Besler viveva a Norimberga, dove continuava a gestire la sua ben avviata farmacia "All'immagine di Maria", tutto il lavoro si spostò in città (cosa che causò poi molte critiche a Besler da parte della corte diocesana). Seguendo l'arco delle stagioni, quindi dall'inverno all'autunno, ogni settimana scatole di fiori freschi percorrevano le cinquanta miglia che separano le due località, per arrivare nelle botteghe dei pittori incaricati di ritrarre a colori le piante dal vivo; conosciamo solo il nome di uno di loro, Sebastian Schedel. Probabilmente in questa fase vennero scritte anche le descrizioni e le succinte note botaniche, che la tradizione attribuisce almeno in parte a Ludwig Jungermann, uno dei nipoti di Camerarius. A questo punto gli schizzi partivano per Augusta, dove operava l'abilissimo copiatore Wolfgang Kilian, che ne traeva disegni in bianco e nero adatti ad essere trasformati in incisioni; era una fase che richiedeva grandissima competenza nell'uso del tratteggio e del chiaroscuro. Alcune parti erano colorate o accompagnate da una legenda sui colori. Sempre nella bottega di Kilian, i disegni erano poi incisi su lastre di rame. Tuttavia, dopo la morte di Gemmingen, con la corte diocesana che premeva per tagliare le spese, l'incisione venne affidata a diversi artigiani di Norimberga (ci sono giunti i nomi di almeno sette incisori). Ecco giunto il momento della stampa, che si concluse nel luglio 1613. Ma, almeno per le copie di lusso, non era finita: vennero infatti previste due versioni, una per così dire "economica" (vedremo tra poco quanto) con le tavole in bianco e nero stampate sul recto e le descrizioni corrispondenti sul verso; una di lusso con le tavole colorate a mano nella bottega della famiglia Mack che era specializzata in questa operazione. Era un lavoro lunghissimo: la copia attualmente in possesso della British Library fu colorata da Georg Mack, che iniziò il 2 marzo 1614 e concluse il 16 aprile 1615. Il risultato fu l'opera più mastodontica del secolo; stampata su fogli dal formato monstre 57 x 46 centimetri per un peso complessivo di 14 chili, fu anche una delle più costose di tutti i tempi. Alle casse vescovili costò 17,920 fiorini; le copie in bianco e nero erano vendute a 35 fiorini (per fare un paragone, il capo giardiniere del vescovo riceveva un salario annuale di 60 fiorini); quelle colorate costavano l'astronomica cifra di 500 fiorini. Quando il duca Augusto di Brunswick-Lüneburg, un bibliofilo che possedeva una notevole biblioteca, sentì il prezzo, pensò di aver capito male, e che ne costasse cinquanta; se il prezzo era quello, l'avrebbe comprata volentieri, altrimenti si sarebbe accontentato di una copia in bianco e nero. Sappiamo però che cambiò idea e, non solo sborsò i 500 fiorini, ma acquistò più copie da usare come dono principesco. La prima tiratura fu di 300 esemplari; poiché vennero colorate solo poche copie e molte furono successivamente smembrate per vendere le singole stampe, ne sopravvivono pochissime. Qualche anno fa una è stata venduta all'asta da Christie per 1.930.500 sterline. Sempre nel 1613, Besler fece stampare una seconda tiratura in bianco e nero di duecento copie priva dei testi, identica a quella precedente tranne che per la dedica al successore di Gemmingen; nel 1627 suo fratello Hieronymus mandò in stampa una terza edizione senza testo e con sole 97 tavole in bianco e nero. In un caso come nell'altro, erano state stampate senza l'autorizzazione della diocesi di Eichstätt, che pure aveva sostenuto le spese. L'unico a guadagnarci fu proprio Besler che riuscì anche ad acquistare una casa signorile, costata 2500 fiorini (l'equivalente di 5 copie colorate). Dopo la morte di Besler nel 1629 (una sintesi della sua vita nelle biografie) le matrici furono consegnate al vescovado, insieme a poche copie invendute; il vescovo provvide a una nuova edizione, uscita nel 1640, con un nuovo frontespizio senza il nome di Besler. Ma ormai la situazione tedesca era drammatica, La guerra dei Trent'anni, iniziata nel 1618, aveva investito pesantemente anche la Baviera: nel 1634 gli svedesi di Gustavo Adolfo assalirono Eichstätt quale "fortezza del cattolicesimo", incendiarono la città, saccheggiarono il palazzo e distrussero i giardini. Il loro ricordo dunque rimase affidato solo al libro che ne porta il nome,Hortus Eystettensis: sono state le sue tavole a guidare alla fine del secolo scorso il ripristino dei giardini storici sugli spalti del Willibaldsburg, dove oggi fioriscono di nuovo le piante coltivate all'epoca del vescovo Gemmingen, L'importanza di Hortus Eystettensis non è solo storica. Si trattò senza dubbio di una pietra miliare della storia dell'illustrazione botanica (i testi, lo si è capito, sono del tutto secondari), che sancisce il passaggio definitivo dalla xilografia alla calcografia. Il libro di 850 pagine (rilegato in due o tre volumi) comprende 367 tavole calcografiche, con la raffigurazione di 1084 piante ritratte a dimensione naturale o quasi. Su ogni pagina sono disposte in bella mostra, come in un'aiuola, da due a cinque piante, con uno o due soggetti principali di grande impatto estetico, contornati da piante più piccole, come se fossero grandi dame con i loro paggi. La disposizione segue le fioriture stagionali; l'inverno con sole 7 tavole, la primavera con 454 piante e 134 tavole, l'estate con 505 piante e 184 tavole, l'autunno con 98 piante e 42 tavole. Si tratta essenzialmente di specie ornamentali, 349 specie tedesche o naturalizzate da tempo, 209 mediterranee, 63 asiatiche, 23 americane e 9 africane. Le piante medicinali, che in precedenza erano le uniche ad essere rappresentate, sono una piccola minoranza. Le specie che ornavano il giardino del vescovo, e ora rivivono nelle tavole del magnifico libro, sono state scelte con altri criteri: il piacere estetico della loro bellezza e il prestigio della loro rarità. L'opera è oggi disponibile in varie edizioni, incluso una in facsimile. Nella gallery propongo alcuni esempi di immagini, che pur nelle loro dimensioni "a francobollo" permettono di osservare come sono state disposte le piante e di apprezzare la qualità del disegno. Besleria, dalle foreste dei tropici Nonostante la scarsa importanza dei testi, per la precisione del disegno e la ricchezza di dettagli, Hortus Eystettensis fu assai apprezzato dai botanici delle generazioni successive, incluso Linneo che lo definì una "meraviglia senza pari". E fu proprio lui, accogliendo un suggerimento di Plumier, a rendere omaggio al curatore Basilius Besler dedicandogli il genere Besleria. Besleria L. è un vasto genere della famiglia Gesneriaceae che comprende circa 170 specie di grandi piante erbacee, arbusti o piccoli alberi diffusi dal Messico al Sud America tropicale, dove vivono nel sottobosco della foresta pluviale. L'area di massima diversità sono le Ande tropicali, con circa 100 specie, seguite dal Centro America con 20 specie. Sono raramente coltivate, se non negli orti botanici, per una serie di ragioni: sono di dimensioni abbastanza grandi, hanno fiori pittosto piccoli e poco vistosi, richiedono umidità costante. Le specie di questo genere solitamente sono piante erette e poco ramificate, con diverse coppie di grandi foglie opposte, con nervature evidenti, talvolta coriacee, e piccoli fiori tubolari raccolti in infiorescenze ascellari talvolta in verticilli sovrapposti; i colori più frequenti della corolla sono il bianco, il giallo, il rosso e l'aranciato. La forma tubolare e i colori squillanti ci fanno capire che gli impollinatori di diverse specie sono i colibrì. Moltesono endemismi di diffusione locale, ma alcune hanno ampia distribuzione; tra queste ultime B. laxiflora, diffusa dal Centro America alla mata atlantica brasiliana. E' un suffrutice o piccolo albero, con lucide foglie ellittiche o ovate, con nervature evidenti e piccoli fiori, non più lunghi di 2 cm, raccolti in cime o umbelle, con calice tubolare-campanulato, da verde a giallo o arancio, e corolla tubolare gialla, arancio salmone, rosa o rosso dorato, con lobi lievemente diseguali, seguiti da bacche rosse. Non è infrequente che porti fiori e frutti contemporaneamente. Qualche approfondimento nella scheda. Sarà perché iniziano a fiorire già in inverno, sarà perché crescono in fretta e si arrampicano dappertutto, sarà per l'allegria dei loro grappoli viola: fatto sta che nel mondo anglosassone i rampicanti del genere Hardenbergia sono noti con il nome comune happy wanderer, "vagabondo felice". Anche l'uomo che suggerì il nome botanico, il barone Hügel, era un vagabondo, o almeno un viaggiatore, ma tutt'altro che felice; si era messo in viaggio per guarire dal mal d'amore. Per sua volontà, l'allegra vagabonda è stata dedicata a sua sorella, la contessa von Hardenberg, sulla quale - come capita troppo spesso alle donne - sappiamo davvero troppo poco. Un cuore infranto e un viaggio intorno al mondo Nel bel mondo della Vienna effervescente degli anni venti dell'Ottocento, che il congresso omonimo aveva trasformato nella capitale europea della diplomazia e del walzer, il barone Carl von Hügel era una figura molto nota. Come il fratello maggiore, direttore dell'Archivio di Stato, apparteneva al circolo del cancelliere Metternich. In gioventù, oltre a combattere con onore nelle campagne contro Napoleone, aveva molto viaggiato in Europa, sviluppando un raffinato gusto di collezionista e una grande passione per le piante. Dopo la morte del padre, nel 1826, venuto in possesso di un cospicuo patrimonio, acquistò una vasta proprietà nel sobborgo viennese di Hietzing; vi fece costruire una splendida villa e creò un giardino botanico privato, dove sperimentava la coltivazione di piante esotiche. Intorno al 1830, si fidanzò con una bella e volitiva contessa ungherese, Melanie Zichy-Ferraris. Ma la madre di lei mise gli occhi su un partito molto più promettente: niente meno che il principe Metternich, da poco rimasto vedovo per la seconda volta. Melanie riuscì a fare breccia nel suo cuore e ruppe il fidanzamento con Hügel per sposarsi con il cancelliere (che aveva trentadue anni più di lei). Tradito dalla donna amata e da un uomo che ammirava e considerava un amico, a Hügel non restava che partire. Non per l'Europa, che del resto conosceva già bene, ma per il Levante e oltre. Per prepararsi al viaggio, visitò brevemente l'Inghilterra e la Francia, e nel maggio 1831 si imbarcò a Tolone alla volta delle Grecia. Visitò poi Creta, Cipro, la valle del Nilo, la Palestina e la Siria. Nella primavera del 1832 era in India. Visitò Decca, Goa, Mysore, scalò le Blue Mountains, e percorse la costa del Malabar da Travancore a Capo Camorin. Passò poi a Ceylon, dove si trattenne quattro mesi. Seguendo la costa del Coromandel raggiunse Pondicherry e Madras, da dove si imbarcò per l'Indonesia e l'Australia. Nell'Australia occidentale Hügel intendeva raccogliere semi e piante per il suo giardino. Il primo impatto con il paesaggio australiano, allo sbarco nel porto di Fremantle nel novembre 1833, fu una cocente delusione: "Mi aspettavo fiduciosamente praterie verdi immacolate, alberi e arbusti coperti di fiori e frutti all'inizio dell'estate australe, tutto il paese un quadro della Natura non toccato dall'uomo". Invece ciò che vide era una terra "totalmente priva di vita", grigia, dove "tutto era immobile escluso il mare ribollente e minaccioso". Ma tutto cambiò quando si inoltrò nel bush: "A poche centinaia di passi dalla città inizia la vegetazione. La particolarità delle piante della Nuova Olanda è che la bellezza delle forme e i colori dei fiori si rivelano solo quando li si osserva attentamente a breve distanza. Dunque, la ricchezza e la varietà della flora in tutto il suo splendore colpisce l'occhio solo a uno sguardo ravvicinato. Il triste grigio-verde si trasforma nelle più varie sfumature di verde, dal più chiaro e luminoso al più scuro e lussureggiante, mescolati a fiori brillanti di ogni tipo, in numero indicibile. Mi aggiravo in quel mondo di colori come intossicato". Stranamente, è un mondo allo stesso tempo estraneo e familiare: estraneo per la sua inattesa varietà e bellezza, familiare perché il barone incontra ad ogni passo piante che già conosce, per averle coltivate nel suo giardino. Infatti, la bellezza delle flora dell'Australia occidentale non era sfuggita ai primi coloni, e diverse specie avevano incominciato a fare la loro comparsa nelle serre europee fin dalla fine del Settecento. Immerso in quella flora di sogno, il nostro viaggiatore infelice ritrova la felicità: "Per la prima volta dopo anni - lunghi anni penosi - vissi per un'ora nella piena delizia del momento. La mano sinistra stringeva un enorme mazzo di splendidi fiori, mentre la destra ancora si protendeva a raccogliere varietà sempre nuove". Il barone si trattenne circa un mese nell'area dello Swan River, esplorandone la foce, le isole all'imboccatura, i dintorni di Perth e spingendosi all'interno fino a Darlington e alle colline della Darling Scarp. Continuò poi per mare lungo il King George Sound, visitando l'area di Albany, incluse le valli inferiori del King River e del Kalgan River. Raccolse centinaia di specie, ma a colpire il suo cuore più di ogni cosa furono i grappoli rossi e viola di alcune leguminose rampicanti, su cui torneremo. Il suo viaggio australiano proseguì fino all'ottobre 1834, toccando la Terra di Van Demen (ovvero la Tasmania), l'Isola Norfolk e il Nuovo Galles del Sud. Seguirono la Nuova Zelanda, Manila e nuovamente l'India. Lo attendeva la parte più importante della spedizione: il lungo viaggio che da Calcutta lo portò ad attraversare l'India settentrionale, fino al Punjab, con un'ampia deviazione fino alle alte terre himalayane al confine tra Tibet e Kashmir. Sempre accumulando ricche collezioni di materiali di ogni genere, osservando usi e costumi, visitando personalità incluso il Maharaja Ranjit Singh, acquisì una profonda conoscenza, per molti aspetti inedita, della storia, della geografia fisica e umana, della natura, delle risorse economiche del Kasmir. Dalla terra dei Sikh, scese a Delhi, quindi a Bombay, dove nel 1836 iniziò il viaggio di ritorno. Attraverso il Capo di Buona Speranza e l'isola di Sant'Elena, nel 1837, dopo sei anni di assenza, era di nuovo a casa, dove poté riabbracciare la madre. Piante australiane ed altre avventure Ora giungeva il tempo dello studio e del riordino della collezioni. Insieme a lui, a Vienna erano arrivate centinaia e centinaia di casse di opere d'arte, oggetti etnologici, animali impagliati, esemplari d'erbario. E finalmente entra in scena la dedicataria della nostra pianta. Per riordinare le collezioni botaniche, il barone si affidò alla sorella minore, Franziska detta Fanny, che durante la sua assenza si era sposata con il conte Anton August von Hardenberg, ed era ora la contessa von Hardenberg. Poco sappiamo di lei, tranne che assolse il compito con zelo e che dovette avere qualche conoscenza di botanica se Bentham (cui, come vedremo, si deve la dedica) dice di lei "con il suo ingegno orna la nostra scienza". Il barone divideva il suo tempo tra la stesura del suo capolavoro, Kaschmir und das Reich der Siek ("Il Kasmir e il regno dei Sikh"), in quattro volumi (1840-48), grazie al quale nel 1849 fu premiato dalla Royal Geographical Society come "intraprendente esploratore del Kashmir", gli impegni mondani, la cura del giardino e la promozione dell'orticultura austriaca. Ad occuparsi di pubblicare la sua collezione di piante australiane, riordinata con tanta cura da Fanny, fu un gruppo di botanici capeggiato da Stephan Endlicher: oltre allo stesso Enclicher, ne facevano parte l'inglese George Bentham e gli austriaci Eduard Fenzl e Heinrich Schott. Il risultato fu Enumeratio plantarum quas in Novae Hollandiæ ora austro-occidentali ad fluvium Cygnorum et in sinu Regis Georgii collegit Carolus Liber Baro de Hügel (1837), in cui vennero pubblicate quasi trecento specie raccolte dal Barone tra lo Swan River e il King George Sound. Tra di esse, le amate leguminose del Fiume dei Cigni. In realtà, non erano una novità assoluta in Europa, perché già da qualche anno alcune specie erano arrivate nelle serre europee, classificate come Glycine poi come Kennedia. Sulla base delle sue raccolte in Australia, Hügel suggerì a Bentham (che si occupò della pubblicazione delle Leguminose) di dividerle in quattro generi: oltre a Kennedia, Physolobium, Zichya e Hardenbergia. Due di questi nuovi generi dovevano ricordare le due donne più importanti della sua vita: la mai dimenticata ex fidanzata Melanie Zichy-Ferraris e la sorella Fanny, ora contessa Hardenberg. Provvide egli stesso a creare il genere Zichya sulla rivista della società botanica austriaca, mentre Hardenbergia venne pubblicata da Bentham appunto in Enumeratio plantarum. Per inciso, oggi sia Physolobium sia Zichya sono stati riassorbiti da Kennedia, mentre Hardenbergia continua da essere riconosciuto come un genere indipendente, come vedremo meglio tra poco. Ma prima di concludere, ancora due parole sul barone e sua sorella Fanny. Le cronache del tempo descrivono il giardino di Hietzing come uno dei più belli d'Europa, ricco di piante esotiche riportate dal viaggio intorno al mondo. All'ingresso, di fronte al soggiorno, circondata da pilastri con piante rampicanti, c'era una terrazza pavimentata, con una grande varietà di piante coltivate tra le lastre, e aiuole con bulbi, erbacee ed arbusti scelti con grande cura perché fiorissero quasi tutto l'anno, tra cui una notevole collezione di camelie; un prato con molti alberi e arbusti esotici; serre fredde e riscaldate con la collezione di piante australiane. Non mancava un orchidarium, che nel 1842 contava 83 generi e quasi 200 specie. Molto ammirato era il cosiddetto Giardino rococò, con aiuole formali bordate di tufo, parterre, fontane e statue. Il barone si dava da fare per diffondere il gusto per il giardinaggio e le piante esotiche non solo con l'esempio; riprendendo un progetto che già accarezzava prima di partire, nel 1837 fondò la Österreichische Gartenbau-Gesellschaft, la società di giardinaggio austriaca, di cui dettò lo statuto e fu il primo presidente. Le prime mostre organizzate dalla società si tennero proprio nel parco di Hietzing. Gli eventi del 1848 misero fine a un tranquillo decennio di studio e giardinaggio; Hügel riprese servizio nell'esercito e partecipò alla guerra in Italia (dal nostro punto di vista, la prima guerra d'Indipendenza); era però a Vienna nei giorni tumultuosi in cui Metternich rischiò di essere linciato dalla folla e, insieme all'amata Melanie, lo portò in salvo nascondendolo nella sua carrozza. Forse disgustato da questi eventi, abbracciò la carriera diplomatica, servendo per molti anni prima a Firenze, poi a Bruxelles. Quando si ritirò, preferì trasferirsi in Inghilterra insieme alla moglie, un'irlandese molto più giovane di lui che aveva conosciuto in India e sposato a Firenze, e ai figli. Il giardino e la villa, passati di mano in mano, fatalmente andarono in rovina e vennero dispersi dalla lottizzazione. Quanto a Fanny, la sua vita ha lasciato ben poche tracce nelle cronache del tempo. Sappiamo che, dopo il matrimonio con il conte von Hardenberg, un gentiluomo della corte di Hannover, lo accompagnò nelle varie sedi cui fu assegnato (le fonti dell'epoca citano Berlino e Dresda) e soggiornò spesso nella tenuta di campagna di Rettkau, in Slesia. Proprio qui si rifugiò e morì il fratello maggiore, Clemens Wenzel, collaboratore di Metternich, travolto dalla disgrazia del cancelliere. Nel 1849 Franziska rimase vedova e, presumibilmente senza figli, decise di raggiungere Carl, vivendo per qualche tempo nella sua casa di Vienna, per poi trasferirsi insieme a lui a Firenze. Qui morì nel 1852. Una sintesi di queste poche notizie nella sezione biografie. Finalmente, Hardenbergia Ovviamente, anche il barone Hügel, come raccoglitore e collezionista, nonché promotore dell'orticoltura, ha avuto la sua parte nella nomenclatura botanica. Un genere Huegelia gli fu dedicato sia da Robert Brown, sia da Reichenbach, sia da Bentham; nessuno dei tre è oggi accettato. A resistere più a lungo è stato forse Huegelia Rchb., oggi confluito in Trachymene Rudge. La specie più nota è probabilmente Trachymene coerulea, spesso ancora indicata con il sinonimo Huegelia coerulea. Un manipoli di piante neppure troppo esiguo ricorda invece il barone nel nome specifico: sono per lo più australiane, come Alyogyne huegelii, il cosiddetto ibisco blu, oppure Melaleuca huegelii. Ed eccoci infine arrivati alla nostra protagonista verde, la felice vagabonda Hardenbergia. Appartenente alla sottotribù Kennediinae della famiglia Fabaceae, è in effetti molto affine a Kennedia; le piante di entrambi i generi sono liane originarie dell'Australia. Ad Hardenbergia sono assegnate tre specie: H. comptoniana, nativa dell'Australia sudoccidentale (che è la specie raccolta da Hügel lungo lo Swan River); H. perbrevidens, endemica del Queensland; H. violacea, nativa dell'Australia meridionale e orientale. Rampicanti, volubili o ricadenti, sono sempreverdi con foglie alterne, ovate ma anche palmate, piuttosto coriacee; a fine inverno e all'inizio della primavera producono copiose pannocchie di fiori papilionacei dai colori sgargianti: da malva a porpora con marcature bianche H. comptoniana; da malva a viola scuro con marcature gialle al centro la rara H. perbrevidens; da viola a porpora, ma anche rosa e bianchi H. violacea. Questa è la specie più coltivata e ne sono state selezionate molte cultivar, compresa una bicolore. Viene coltivata all'aperto dove non gela, come nella nostra riviera, altrove in serra temperata o in posizione protetta contro un muro. Qualche informazione in più nella scheda. Subito dopo l'indipendenza, il più bel giardino d'America era Woodlands, alla periferia di Filadelfia, creato dal ricco proprietario terriero e collezionista d'arte William Hamilton che, a quanto pare, vi faceva coltivare circa 10.000 specie tra native ed esotiche. Jefferson, che ammirava Woodlands e lo considerava il solo giardino al di qua dell'Oceano a poter competere con quelli britannici, volle che nelle sue aiuole e nelle sue serre venisse coltivata e moltiplicata una parte delle piante raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark. Il nostro protagonista, tuttavia, non è Hamilton (gli furono dedicati ben tre generi, ma nessuno oggi valido), bensì il sovrintendente di Woodlands, il giardiniere scozzese John Lyon, che, dopo qualche anno trascorso a lavorare qui, si trasformò in un infaticabile cacciatore di piante indipendente, al quale Aiton in Hortus Kewensis attribuisce l'introduzione in Europa di oltre trenta specie. Tra le più note oggi, Phlox paniculata e Pieris floribunda. Assai affine a Pieris è Lyonia (Ericaceae), il genere che ne preserva il ricordo. Dalle aiuole alle montagne del Nord America Al ritorno da un viaggio in Europa, in gran parte dedicato a visitare parchi e giardini britannici, il facoltoso proprietario terriero e collezionista William Hamilton (1749-1813) decise di far ricostruire la casa padronale della tenuta di Woodlands, nei pressi di Filadelfia, secondo lo stile di Adam; anche il parco venne ridisegnato secondo i canoni del giardino paesaggistico d'oltre Oceano. In pochi anni, le collezioni di piante, native o fatte venire dall'Europa, dall'Asia e dal Sud Africa, giunsero a comprendere diecimila specie. Nel 1807 Jefferson, grande ammiratore di Hamilton (Woodlands sarà uno dei modelli di Monticello), chiese a McMahon, cui aveva affidato i semi raccolti durante la spedizione di Lewis e Clark, di dividerli equamente con lui, per aumentare le possibilità di riuscita, vista l'esperienza e i mezzi di Hamilton. Quest'ultimo, del resto, era già in relazione con i due esploratori, che nel 1804 gli avevano inviato da Fort Mandan alcune talee di Maclura pomifera (arancio degli Osagi). Sappiamo che Hamilton ricevette i semi di almeno 19 specie, che includevano diverse varietà di Ribes e il tabacco selvatico Nicotiana quadrivalvis. Un anno dopo, egli informava il presidente che non tutti i semi erano germogliati, mentre le piante di Maclura prosperavano. Dopo la morte di Hamilton, quella magnifica collezione andò rapidamente in rovina; una parte del parco fu venduta dagli eredi e intorno al 1840 molto di ciò che rimaneva venne trasformato in un cimitero rurale; è un luogo affascinante e caro ai cittadini di Filadelfia, ma certo molto diverso rispetto ai suoi anni d'oro. Molte informazioni sulla sua storia in questo sito. Ma il nostro protagonista non è Hamilton; certamente questo patrono dei giardini attirò l'attenzione dei botanici che gli dedicarono ben tre generi Hamiltonia: nel 1806 il conterraneo Muhlenberg, nel 1824 Roxburgh, nel 1838 Harvey; nessuno dei tre oggi è però valido. Dunque la nostra attenzione si sposta su una figura forse più interessante, e sicuramente più simpatica: il sovrintendente, o capo giardiniere, di Woodlands, lo scozzese John Lyon. Nulla sappiamo della sua vita prima che fosse assunto da Hamilton nel 1785; ignoriamo persino se si trovasse già in America, o se abbia incontrato il futuro datore di lavoro in patria. Ci mancano notizie anche sul primo decennio trascorso a lavorare a Woodlands; la nostra principale fonte informativa è infatti il suo diario di campo, che inizia nel 1799. E' probabile che in quei sedici anni egli già affiancasse alla cura del giardino - di cui fu evidentemente il principale realizzatore - escursioni nei dintorni, per incrementare le collezioni di piante native. Il primo viaggio documentato è proprio di quell'anno, quando Hamilton lo inviò sugli Allegheny della Pennsylvania alla ricerca di Pyrularia pubera, una pianta emiparassita con semi oleosi e tossici di potenziale interesse farmacologico, che il collezionista non era riuscito fino ad allora a far germinare. La spedizione si concluse con un nulla di fatto. E' possibile che già allora Lyon mordesse il freno; preparato, intelligente, industrioso e di spirito indipendente, incominciava a sentirsi soffocare al servizio di un uomo arrogante, esigente e imperioso, tanto più che la figura sociale del capo giardiniere in America non godeva della stessa considerazione sociale che forse aveva potuto sperimentare in patria. A partire dal 1802, e per i successivi dodici anni, non avrebbe mai cessato di viaggiare, dapprima per conto di Hamilton, poi in proprio. Erano viaggi faticosi e pieni di insidie, in zone spesso poco conosciute e non segnate sulle carte. Lyon si muoveva a cavallo, alloggiava talvolta all'aperto, ma più spesso in locande o presso case ospitali; portava con sé provviste minime, carta per gli esemplari pressati, mentre le collezioni di radici e semi andavano crescendo. Gli incidenti non mancarono: fu morso da un cane rabbioso e dovette curare da sé la ferita infetta cauterizzandola con un ferro rovente; si intossicò gravemente raccogliendo semi del velenoso Rhus michauxii; affrontò una bufera così forte da abbattere gli alberi; perse più volte il cavallo. Viaggiava per lo più da solo, ma spesso faceva tappa presso altri botanici o appassionati, che talvolta gli facevano da guida o lo accompagnavano per qualche tratto. I suoi viaggi, in tutto dieci, lo portarono ad esplorare buona parte degli Stati centrali e meridionali dell'America atlantica, in particolare, oltre alla Pennsylvania e alla Virginia, le due Caroline, la Georgia e la Florida settentrionale, con una predilezione per le montagne che fanno da confine tra North Carolina e Tennessee; solo un viaggio lo portò a Nord, verso i grandi laghi. Tra i luoghi ricorrenti, dove si fermava presso amici, cui spesso affidava le sue raccolte o preparava i materiali per le spedizioni, Silk Hope, in North Carolina, dove abitava l'amico Stephen Elliott, che fu anche suo compagno di viaggio in diverse occasioni; le città portuali di Savannah in Georgia e Charleston nella Carolina del Sud, da dove spediva per nave a Filadelfia le sue raccolte; Nashville e Asheville, rispettivamente in Tennessee e North Carolina, punto di partenza per l'esplorazione delle amate montagne; Lancaster, tappa obbligata sulla via del ritorno per visitare l'amico Henry Muhlenberg. Le spedizioni più ampie e importanti sono probabilmente quelle del 1803-1804 e del 1807. Durante la prima Lyon percorse 2250 miglia, giungendo fino in Florida e esplorando anche, oltre a diverse aree montane, buona parte della costa e delle isole della Georgia. Proprio durante questo viaggio, nel 1803, fu l'ultima persona a vedere in natura alcuni esemplari di Franklinia alatamaha (e potrebbe avere qualche responsabilità nella sua estinzione). Durante la seconda, percorse 2500 miglia, muovendosi lungo le montagne sui confini tra North Carolina e Tennessee (dove sarebbe tornato altre volte e sarebbe morto); tra i suoi ospiti, la colonia morava della Cherokee Country, e tra gli incontri notevoli, quelli con Moses Fisk, pioniere degli insediamenti nel Tennessee, e con il pastore e botanico Samuel Gottlieb Kramsch. Una narrazione più dettagliata dei suoi viaggi nella vita. Collezioni di piante e spirito imprenditoriale Lyon è una figura interessante anche perché si distacca dagli altri cacciatori di piante per la sua indipendenza e intraprendenza. Mentre i suoi colleghi erano finanziati da sovrani, istituzioni pubbliche, mecenati oppure, sempre più spesso, lavoravano per qualche ditta commerciale, Lyon era un libero professionista che si assumeva le spese e i rischi e provvedeva da sé alla vendita delle sue raccolte. Probabilmente lasciò Hamilton (per il quale tornò a lavorare occasionalmente anche in seguito, ma solo come giardiniere) nella seconda metà del 1803; nel frattempo era stato sostituito con Frederick Pursh. Da quel momento, Lyon prese a creare una propria collezione, con l'obiettivo di commercializzarla in Inghilterra. In natura raccoglieva piante vive (in quantità che a noi fanno accapponare la pelle, come le 200 radici di Podophyllum di cui fece incetta nel 1804 in Georgia), ma ancora più semi; questi ultimi erano destinati alla vendita, ma anche alla riproduzione. In effetti, alla fine del 1804 il giardiniere avrebbe voluto imbarcarsi per l'Inghilterra, ma non trovando un imbarco si fermò a Filadelfia per quasi un anno, dedicato a seminare e curare le plantule da portare con sé in patria. A tal fine, si appoggiò al vivaista David Landreth (fondatore nel 1784 della più antica ditta sementiera statunitense), da cui affittò una parte del vivaio. Alla fine del 1805 Lyon poté finalmente imbarcarsi per Londra, via Dublino. Nella capitale inglese dimostrò ottime capacità imprenditoriali; per vendere le sue piante, si affidò non solo a una clientela privata, ma a un'asta pubblica, pubblicizzata con annunci su sette giornali e con la stampa di un catalogo, in cui le piante nuove (sp. nova!) sono ben evidenziate. Forte di questo successo, ritornò subito in America, dove investì i guadagni in nuovi viaggi, che si mossero principalmente lungo le predilette montagne tra North Carolina e Tennessee. Dopo cinque anni di fatiche aveva creato una seconda, ancora più ricca, collezione, che portò con sé in Inghilterra nell'inverno 1811-12. La clientela inglese fu impressionata dalla qualità e dalla quantità dell'offerta, anche questa volta venduta con un'asta pubblica (ce n'è rimasto il catalogo). L'infaticabile Lyon tornò quasi immediatamente in America, dove fece ancora due viaggi nei luoghi prediletti; ammalatosi probabilmente di febbre gialla, si spense a Asheville (North Carolina) nel 1814. Non conosciamo il luogo della sua sepoltura, ma i parenti gli eressero una lapide nel cimitero di Dundee, dove è ancora conservata. Nelle testimonianze dei contemporanei, l'importanza del suo contributo all'introduzione delle specie americane in Europa appare imponente. Secondo la seconda edizione di Hortus Kewensis, redatto da William T. Aiton, le specie nuove messe in vendita nel 1806 e nel 1812 sono 31; spesso non si tratta davvero di novità (molte erano già arrivate in Europa, in particolare grazie ai Michaux che avevano raccolto nelle stesse aree), ma piuttosto di reintroduzioni, rese però disponibili da Lyon in modo ben più massiccio. Nell'elenco figurano tra l'altro (uso le denominazioni attuali) Desmanthus illinoensis, Amsonia tabernemontana var. salicifolia, Asclepias pedicellata, Calycanthus floridus var. glaucus, Dicentra eximia, Hamamelis virginiana, Iris fulva, Cliftonia monophylla, Calycocarpum lyonii, Tradescantia subaspera. Ho lasciato volutamente per ultime le introduzioni più importanti e durature: Phlox paniculata, Pieris floribunda e Magnolia macrophylla (ma potrebbe trattarsi di una specie affine che vive nelle stesse aree, Magnolia fraseri var. pyramidata). Entrambe sono oggi considerate relativamente rare in natura, forse anche a causa del contributo di Lyon, che nel suo viaggio del 1809 in North Carolina ne raccolse ben 3600 esemplari. Amabile Lyonia
In questo atteggiamento predatorio verso la natura, Lyon era un figlio del suo tempo, e lo perdoneremo, tanto più che, come abbiamo visto, pagò di persona il suo accanimento di cacciatore di piante indipendente con la fatica, le malattie, la solitudine e infine con la morte precoce. La puntigliosa registrazione delle entrate e delle uscite annotata nel diario ci dice anche che, se la sua impresa non fu in perdita, neppure gli assicurò un largo guadagno. Come al suo datore di lavoro, anche a lui furono dedicati tre omonimi generi Lyonia; nel 1808 da Rafinesque; nel 1817 dall'amico Elliott; nel 1818 da Nuttall. Per una volta ad essere accettato da botanici è il più recente. Questa la dedica: "Per commemorare il nome del fu Mr. John Lyon, un raccoglitore infaticabile del Nord America, che cadde vittima di un'epidemia perniciosa in mezzo a quelle montagne selvagge e romantiche che erano state tanto spesso teatro delle sue fatiche". Numerose sono poi le specie che lo ricordano nel nome specifico, come Chelone lyonii o Rosa carolina var. lyonii. Lyonia Nutt. (famiglia Ericaceae) comprende circa 35 specie di piccoli alberi o arbusti diffusi nelle boscaglie dell'area himalayana, in Asia orientale, nel Nord America e nelle Antille. E' molto affine a Pieris, in cui in passato è anche confluito (oggi studi molecolari ne confermano l'indipendenza). Decidue o sempreverdi, le piante di questo genere hanno foglie alternate, intere, coriacee e lucide e graziosi fiori penduli tubolari o a forma di urna raccolti in racemi terminali, solitamente bianchi. Tra le specie americane vale la pena di ricordare L. ligustrina, nativa degli Stati Uniti orientali dal Maine alla Florida, notevolmente adattabile ad ambienti diversi e capace, grazie ai rizomi, di resistere agli incendi (molto frequenti nelle pinete in cui vive abitualmente); L. mariana, sempre degli Stati Uniti orientali, usata dai Cherokee come pianta medicinale, e oggi minacciata in Pennsylvania e Connecticut; L. lucida, la specie più nota e diffusa, raccolta anche da Lyon, presente nelle pianure costiere degli Stati Uniti orientali dalla Virginia alla Florida e alla Louisiana e nell'isola di Cuba, con graziosi fiori penduli cilindrici portati su rami arcuati, bianchi, ma anche rosa o rossi. Sono tutti arbusti, mentre può diventare un vero albero l'asiatica L. ovalifolia, diffusa nell'India himalayana, in Cina e in Giappone. Una curiosità: un tempo Lyonia viveva anche in Europa. Alcuni frutti fossili di †Lyonia danica, attribuiti al Miocene medio, sono stati infatti trovati nello Jutland centrale (Danimarca). Qualche approfondimento nella scheda. Di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, è stato detto che potrebbe essere nominato patrono laico dei giardini e dei giardinieri statunitensi. Quella per la natura, le piante e i giardini fu infatti per lui una passione costante in tutte le fasi della vita, fino alla creazione dello splendido giardino di Monticello. Protagonista di una rete di "scambisti" di piante tra le due sponde dell'oceano, botanico dilettante, presidente della American Philosophical Society, ebbe anche il merito di sponsorizzare la grande spedizione di Lewis e Clark. Lo ricorda una pianta del sottobosco delle foreste americane, Jeffersonia diphylla, che coltivava in una delle aiuole del suo giardino, dove spesso gli faceva omaggio della sua candida fioritura come dono di compleanno. Una dedica all'uomo di scienza, non al politico La sera del 18 maggio 1792 sei uomini si incontrarono presso la Philosophical Hall di Filadelfia, la sede della American Philosophical Society, per la consueta riunione del venerdì; dopo il momento conviviale del pranzo, Benjamin Smith Barton, professore di botanica e storia naturale presso l'Università della Pennsylvania, lesse una lettera che aveva scritto ai colleghi europei circa una pianta nativa della Virginia. Linneo, basandosi solo su esemplari essiccati, l'aveva assegnata al genere Podophyllum, con il nome P. diphyllum. Barton, studiandola dal vivo, era giunto alla conclusione che andasse invece assegnata a un genere nuovo e, aggiunse, "Mi sono preso la libertà di renderlo noto ai botanici sotto il nome di Jeffersonia, in onore di Thomas Jefferson, segretario di Stato degli Stati Uniti". E ciò, aggiunse, non in considerazione dei suoi meriti politici, ma delle sue conoscenze di storia naturale che, soprattutto nei campi della zoologia e della botanica "sono eguagliate da poche persone negli Stati Uniti". In effetti, il multiforme Thomas Jefferson, estensore della Dichiarazione d'Indipendenza, quindi ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, segretario di Stato, presidente per due mandati, oltre che uno dei padri fondatori degli Stati Uniti fu un intellettuale di notevole spessore, con forti interessi scientifici che spaziavano dalla matematica all'archeologia, dalla geografia alla paleontologia: le scienze naturali e la botanica furono una passione che coltivò per tutta la vita. Si racconta che quando era presidente conoscesse tutte le piante dei dintorni della Casa Bianca, e non si facesse sfuggire una specie nuova per il suo erbario. Per quanto riguarda la botanica, notevole fu il suo lascito in tre settori: la promozione dell'agricoltura del suo paese, con migliorie tecniche e l'introduzione di nuove specie; la creazione dello splendido giardino di Monticello; la promozione dell'esplorazione delle risorse naturali del territorio statunitense. Convinto che l'agricoltura fosse la base della prosperità, dell'indipendenza, ma anche della moralità di una nazione, sognava un paese di piccoli agricoltori liberi, anche se lui, da parte sua, era il proprietario schiavista di vaste piantagioni. Il suo contributo in questo campo fu soprattutto nella sperimentazione e nell'introduzione di nuove varietà: ad esempio, portò con sé dall'Europa una pianta di fico acquistata a Marsiglia, che a suo dire produceva i frutti migliori che mai avesse mangiato, e ne distribuì talee a vicini e amici; creò un vigneto sperimentale; incoraggiò la coltivazione del sesamo per la produzione familiare di olio. Ma il suo capolavoro fu Monticello, la sua residenza nei pressi di Charlottesville, Virginia, il cui nome italiano fa riferimento alla posizione della proprietà, sulla cima di un colle delle Southwest Mountains. Nel 1768 iniziò l'edificazione di una casa in stile palladiano, progettata dallo stesso Jefferson, che era quasi completa nel 1784 quando egli dovette lasciare gli Stati Uniti per la Francia, con l'incarico di ambasciatore presso la corte di Parigi. Contemporaneamente, cominciò a realizzare il giardino, sulle cui vicende siamo ben informati grazie al suo Garden Book, ovvero il quaderno dove annotava piantagioni, semine, esperimenti. La prima annotazione risale al 1769, quando Jefferson fece piantare alberi da frutto sul versante sud della collina. Nel 1774, in collaborazione con l'italiano Filippo Mazzei, che procurò vignaioli e vitigni, impiantò la prima vigna della Virginia. Tra il 1778 e il 1782 fu la volta di un vasto frutteto di meli e peschi e del primo orto, lungo la strada principale della piantagione, dove vennero seminari asparagi, piselli e carciofi. Il soggiorno in Europa, che si protrasse dal 1784 al 1789, permise a Jefferson di allargare i suoi orizzonti culturali e di allacciare proficue relazioni. Oltre alla Francia, visitò la Gran Bretagna, l'Italia, il Belgio e i paesi Bassi, dove visitò case e giardini, rimanendo profondamente impressionato dallo stile libero dei nuovi parchi all'inglese. A Parigi incominciò a frequentare il salotto di Madame de Tessé, zia di Lafayette e grande appassionata di giardini, che gli chiese di procurargli piante americane; e così, tra Parigi e Monticello, iniziò un attivo scambio transoceanico di piante: mentre esemplari di Callicarpa americana, Diospyros virginiana, Calycanthus floridus procurati da amici e corrispondenti di Jefferson raggiungevano il parco di Chaville, a Monticello arrivavano semi di elitropio bianco (Helitropium arborescens), ranuncoli, cavolfiori, broccoli e bulbi di tulipani. Un altro contatto importante fu André Thouin, capo giardiniere del Jardin du Roi. Un giardino per frutti, verdure, fiori Tornato in patria, Jefferson cercò di conciliare l'attività politica (che egli definiva il suo dovere) con gli interessi scientifici (che egli definiva la sua passione). Così, nel 1791 lo troviamo ad erborizzare nel New England con l'amico James Madison. Nel 1797 fu nominato presidente della American Philosophical Society (incarico che mantenne per un ventennio, anche durante i due mandati presidenziali). Nel 1812, quando durante la guerra anglo-americana un incendio distrusse la biblioteca del Congresso, Jefferson offrì di reintegrarla con la sua collezione (che vantava il doppio dei volumi di quella perduta), dietro un compenso che doveva aiutarlo a ripianare i grandi debiti contratti per la ristrutturazione di Monticello; il congresso accettò, creando così il primo nucleo dell'attuale Library of Congress. Egli inoltre si impegnò attivamente nella creazione dell'Università della Virginia a Charlottesville, che fu infine inaugurata nel 1819. A partire dal 1794, lo stesso anno in cui divenne segretario di Stato, Jefferson intraprese la totale ristrutturazione della casa e del parco di Monticello, ispirandosi a quanto aveva visto in Europa. Come Mount Vernon di Washington, anche il giardino concepito da Jefferson unisce le funzioni di parco paesaggistico, frutteto, orto e giardino di piacere. I frutteti e gli orti si trovavano fuori del parco vero e proprio, lungo il viale principale della piantagione. I frutteti, con pianta formale a grata, erano due, uno posto a nord, l'altro a sud. Includevano anche meli per la produzione di sidro; a più riprese, venne impianta una vigna, ma con poco successo. L'orto venne collocato su una lunga terrazza ricavata dal lavoro degli schiavi sul fianco della collina; comprendeva 24 parcelle quadrate destinate alla produzione di "radici" (come rape e carote), "frutti" (pomodori, fagioli), "foglie" (insalate, cavoli). Al centro un piccolo padiglione da cui si poteva godere il panorama. Alla base del muro di sostegno venivano coltivate le primizie e le piante più delicate, come i piselli, una delle grandi passioni di Jefferson. Anche i fichi portati dalla Francia crescevano qui. L'orto era anche uno spazio sperimentale dove provare novità, come i broccoli e i cavolfiori importati dall'Europa o gli stessi pomodori. Si calcola che nel corso degli anni Jefferson vi abbia fatto coltivare 330 varietà di 70 specie. La sommità della collina era occupata da una spianata con un vasto prato dai contorni irregolari, il West Lawn, a nord ovest del quale si trova il Grove, il boschetto, un'area di 18 acri concepita come una foresta ornamentale in cui agli alberi nativi più alti (potati in modo da lasciare luce e spazio agli alberi minori) si affiancavano piante scelte per il contrasto di colori, forme, tessiture. Il sottobosco naturale doveva essere eliminato per lasciare posto a radure a prato, con erbacee perenni e gruppi di arbusti disposti secondo un disegno labirintico a spirale. Il collegamento tra le varie parti del giardino era garantito da quattro viali circolari concentrici, posti a livelli differenti, bordati di gelsi e Gleditsia triacanthos e collegati tra loro da sentieri diagonali. Se, proprio come Mount Vernon, all'inizio anche Monticello era stato concepito soprattutto con funzioni utilitarie, dopo l'esperienza europea l'interesse di Jefferson per i fiori e le piante ornamentali aumentò. Nel 1807, in previsione del suo ritiro dalla vita politica, egli disegnò venti aiuole ovali, poste ai quattro angoli della casa, ciascuna delle quali destinata a una specie diversa, con bulbose, erbacee perenni e piccoli alberi da fiore. Probabilmente nel 1808 fu creata la grande bordura serpeggiante che contorna il prato centrale. In entrambe le aree la figlia e le nipoti di Jefferson coltivavano una grande varietà di piante e bulbi, forniti soprattutto dal vivaista di Filadelfia Bernard McMahon, in modo da assicurare fioriture dalla primavera all'autunno. C'erano i fiori coltivati tradizionalmente che i coloni avevano portato con sé dall'Europa; piante più inusuali o novità fornite dai contatti europei (ogni anno, una cassa giungeva dal Jardin des Plantes di Parigi). Almeno un quarto delle piante da fiore coltivate a Monticello erano tuttavia native; oltre a Jeffersonia diphylla, particolarmente gradita perché oltre a portare il suo nome fioriva proprio intorno al suo compleanno (il 2 aprile), c'erano diverse specie raccolte durante la spedizione di Lewis e Clark, come Fritillaria pudica e Lobelia cardinalis. Siamo così giunti all'ultimo titolo di merito di Jefferson: quella spedizione era stata voluta e sponsorizzata proprio da lui, durante il suo primo mandato presidenziale. Negli anni successivi all'indipendenza, il territorio del nuovo stato era confinato nella stretta striscia tra gli Appalachi e l'Oceano, mentre si avevano scarse conoscenze delle terre poste al di là delle montagne. Jefferson era conscio delle enormi potenzialità di quel territorio inesplorato e sognava di trovare una via di comunicazione con l'Oceano Pacifico. Già quando si trovava a Parigi come ambasciatore sostenne il progetto dell'esploratore anglo-americano John Ledyard che si proponeva di raggiungere lo stretto di Bering attraversando la Russia via terra; da qui pensava di trovare un passaggio per l'Alaska, da dove sarebbe sceso verso sud per poi percorrere il continente americano fino alla Virginia. Ma, dopo essere arrivato in Siberia, nel febbraio del 1788 Ledyard fu arrestato per ordine dell'imperatrice Caterina e deportato in Polonia. Una seconda possibilità si presentò nel 1793, quando l'American Philosophical Society pensò di affidare la missione di "esplorare il paese lungo il Missouri e di lì proseguire verso ovest fino all'Oceano Pacifico" al botanico francese André Michaux, che da qualche anno viveva in Carolina del Sud e aveva una larga esperienza di viaggi di esplorazione e raccolta. Jefferson stesso organizzò la sottoscrizione che doveva finanziare la spedizione e ottenne l'assenso di Washington; tuttavia, quando fu chiaro che Michaux era coinvolto in un piano antispagnolo organizzato dall'ambasciatore francese, per evitare di peggiorare le relazioni diplomatiche con la Spagna il progetto fu annullato. Il sogno di Jefferson poté infine realizzarsi nel 1804 grazie alla spedizione capeggiata da Lewis e Clark, argomento su cui però tornerò in un altro post. Jefferson morì nel 1826, a ottantaquattro anni, ormai sprofondato nei debiti contratti per la sua vita troppo dispendiosa e soprattutto per la creazione di Monticello. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. La figlia fu costretta a vendere la tenuta che, dopo essere passata attraverso vari proprietari, nel 1836 fu acquistata da Uriah Levy, grande ammiratore di Jefferson, il quale nel 1862 la lasciò in eredità al popolo americano perché fosse usata come scuola agraria. Ma si era in piena guerra civile e il congresso rifiutò il lascito. Dopo complesse vicende, a cercare di salvare Monticello, che era ormai in uno stato deprecabile di abbandono, fu il nipote Jefferson Monroe Levy, che ne iniziò il restauro, poi proseguito a cura della Thomas Jefferson Foundation, nata nel 1923. Monticello come lo vediamo oggi è il frutto dei restauri da essa promossi: sono stati ricreati il prato e la sua bordura, le aiuole ovali, il viale circolare inferiore, la terrazza con l'orto, mentre i frutteti non esistono più e il Grove è ben diverso da come doveva presentarsi all'epoca del suo creatore. Dal 1987 la tenuta è inclusa nella lista del patrimonio dell'umanità UNESCO. Moltissime notizie sul giardino e sullo stesso Jefferson nel sito di Monticello. Una pianta americana Abbiamo già visto che Jeffersonia fu dedicata a Jefferson nel 1792 da Benjamin Smith Barton. Appartenente alla famiglia Berberidaceae, comprende una sola specie, appunto J. diphylla, una rara erbacea perenne a fioritura primaverile del sottobosco delle foreste decidue con suolo calcareo degli Stati Uniti orientali. Alta fino a 25 cm, ha grandi foglie bilobate con lobi da arrotondati ad acuti posti quasi ad ala di farfalla; all'inizio della primavera produce fiori a coppa con otto petali bianchi e stami gialli. Gli si attribuiscono proprietà antireumatiche. Qualche informazione in più nella scheda. Ha anche una bellissima cugina asiatica che oggi, dopo molte incertezze, è stata restituita al genere Plagiorhegma. Dunque dobbiamo rassegnarci a chiamare questa perla dei giardini boschivi con foglie lobate e fiori lilla con l'orrendo nome Plagiorhegma dubium anziché Jeffersonia dubia. Nel 1800 Brickell dedicò a Jefferson un secondo genere Jeffersonia; illegittimo per la regola della priorità, è oggi sinonimo di Gelsemium. Comandante dell'Esercito continentale, primo presidente degli Stati Uniti, padre fondatore della nazione. Ma oltre a tutto questo, George Washington fu anche un imprenditore agricolo di successo e il creatore di uno splendido giardino in cui si armonizzano utilità e piacere, rigore e libertà, giardino formale e parco paesaggistico. Mount Vernon, con i suoi sentieri sinuosi fiancheggiati da centinaia di alberi nativi fu anche un giardino programmaticamente "americano" che influenzò il gusto delle generazioni successive. A tanto personaggio, non potevano che essere dedicate piante speciali: le altissime palme americane del genere Washingtonia. Un imprenditore di successo Tra il 1758, quando lasciò l'esercito dopo aver combattuto nella guerra franco-indiana, e il 1775, quando fu nominato comandante in capo dell'Esercito Continentale, George Washington fu un piantatore di successo, impegnato a estendere le sue proprietà e a renderle sempre più produttive. Mentre la maggior parte dei suoi vicini coltivava soprattutto tabacco, egli capì che, da una parte, questo impoveriva il suolo; dall'altra, come prodotto destinato essenzialmente all'esportazione in Europa, lo rendeva economicamente dipendente dal mercato inglese. Decise così di differenziare le colture, puntando su prodotti destinati al mercato interno: grano, mais, altri cereali, fibre tessili come canapa, lino, cotone. Oltre ad almeno una sessantina di colture, sperimentò fertilizzanti, sementi, tecniche di rotazione, attrezzature innovative, affiancando alla produzione agricola altre attività come l'allevamento di pecore, una piccola flotta di pescherecci, un mulino e una distilleria di whisky. Da cadetto di una famiglia di piantatori di modeste fortune, si trasformò così in un facoltoso proprietario terriero. Per un uomo della sua classe sociale, una bella casa, dove ricevere signorilmente, circondata da un parco ameno era anche uno status symbol, e Washington adeguò alla sua nuova posizione sociale la tenuta di Mount Vernon, ereditata dal fratello maggiore. La casa, posta in un punto panoramico con un'eccezionale vista sul fiume Potomac, fu totalmente ricostruita in stile palladiano. Quanto al giardino, probabilmente all'inizio l'interesse del proprietario andava soprattutto alla sua dimensione utilitaria. Fin dagli anni '60 venne creato un vasto orto, circondato da un muro per proteggerlo dai cervi e da altri animali selvatici; Washington fece anche piantare centinaia di alberi da frutto, in particolare peri, meli, ciliegi e peschi. La frutta era molto richiesta, oltre che per il consumo immediato, per la preparazione di conserve e la fabbricazione del sidro. L'idea di ridisegnare il parco secondo i canoni del giardino paesaggistico nacque probabilmente più tardi, a ridosso degli eventi della Guerra d'indipendenza che avrebbero tenuto Washington lontano dalla sua casa per otto anni, dal 1775 al 1783. Tuttavia l'amato Mount Vernon continuava ad essere al centro dei suoi pensieri, tanto che in una lettera del 1776 istruisce il cugino Lund Washington sulle specie da piantare nelle bordure di arbusti lungo i sentieri che portano alla casa: rododendri, meli selvatici, Kalmia latifolia. Secondo Andrea Wulf, che ha dedicato a Washington e ai giardini di Mount Vernon uno dei capitoli del suo Founding Gardeners, questa lettera - sorprendente per il momento in cui fu scritta, la vigilia della battaglia di Long Island, in cui i britannici sconfissero le truppe indipendentiste, prendendo il controllo di New York - va intesa come un manifesto della volontà del generale di fare del suo giardino un manifesto patriottico, dove crescessero solo piante native, mettendo al bando le specie europee, ancora tanto ricercate dai ricchi proprietari di giardini. Ritornato a Mount Vernon alla fine del 1783, al termine della guerra, nei sei anni che intercorsero fino alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti, Washington si dedicò a realizzare questo programma e ridisegnò completamente il parco, dove volle che fossero in certo senso rappresentati gli interi Stati Uniti, affiancando alle specie locali, tra gli altri, alberi e arbusti da fiore portati dalla Carolina o conifere giunte dagli Stati del Nord. Il progetto, completato poi durante i due mandati presidenziali (1789-1797) e negli ultimi anni, quando Washington tornò a vivere stabilmente a Mont Vernon (proprio qui morì nel 1799), diede al parco la fisionomia che ancora oggi possiamo apprezzare, grazie alla paziente opera di ricerca, conservazione e restauro promossa dalla benemerita Mount Vernon Ladies' Association, anche se quanto vediamo è solo il nucleo centrale (circa 500 acri degli 8000 su cui si estendeva la tenuta alla morte di Washington). Un sintetico profilo della sua vita nella sezione biografie. Mount Vernon: un parco paesaggistico e quattro ordinati giardini L'originalità del progetto di Mount Vernon, che non fu creato da un architetto alla moda ma dallo stesso Washington, nasce dalla capacità di integrare in un disegno unitario elementi a prima vista eterogenei: il piacere e la bellezza con l'utile, il rigore con la libertà, il giardino formale con il parco paesaggistico, caratterizzato da vasti prati dalle linee ondulate, viali e quinte di alberi, boschetti di alberi e arbusti , sentieri a serpentina. Il generale seppe inoltre sfruttare al meglio la posizione eccezionale della casa, posta sulla sommità di un dolce pendio che domina il fiume Potomac. La casa stessa, con le sue ali a mezza luna che abbracciano il cortile d'onore, il Mansion Circle, a forma di ellisse, costituisce il punto focale e unificante del disegno. Ma non vi si giunge attraverso il classico viale rettilineo; per raggiungerlo il visitatore deve percorrere uno dei due viali a serpentina immersi tra gli alberi. Washington fece infatti livellare l'area a ovest, di fronte alla casa, creando un vasto prato (detto Bowling green) dalle forme ondulate che ricordano la cassa armonica di una chitarra. Sui bordi fece disegnare due viali che ne seguono tutte le sinuosità, fiancheggiati a loro volta da centinaia di alberi, trapiantati dalle foreste circostanti. Molti di essi, oltre ad essere squisitamente "americani", uniscono alle belle fioriture primaverili spettacolari colori autunnali: meli selvatici, sassofrassi (Sassafras albidum), aceri, tupelo (Nyssa sylvatica). Gli alberi, fin dagli anni giovanili in cui aveva fatto l'agrimensore, erano la vera passione di Washington che ne piantò a profusione anche in altri spazi. A nord della casa venne creato un bosco di Robinia pseudoacacia; la radura verso sud venne riempita con sempreverdi, Cornus florida e alberi di Giuda (Cercis canadensis). A est, a creare una cornice alla veduta sul Potomac, la collina venne piantumata con una grande varietà di piante locali. Ma veniamo ai quattro giardini, partendo dal basso. Sul fianco destro del pendio che culmina con il Bowling Green, troviamo un vasto frutteto (Fruit Garden, lettera d nella mappa); questo terreno originariamente era una vigna sperimentale, piantata con ceppi di origine europea, che vennero distrutti dalla filossera. Nel 1785 Washington vi fece trapiantare gli alberi da frutto rimossi dall'Upper Garden e circa 200 meli ricevuti da un certo Major Jennifer. Protetta da un'alberata (soprattutto robinie), l'area è costituita da sei grandi rettangoli regolari, quattro coltivati a frutteto e due a orto, con verdure, piccoli frutti, erbe aromatiche, e include anche un vivaio. Immediatamente sopra il frutteto, da cui è separato da un viale e da un prato, si trova il giardino inferiore (Lower garden, lettera b), racchiuso da un muro di mattoni; è un vasto orto formale suddiviso in ordinatissime parcelle dove veniva coltivata una grande varietà di verdure e erbe aromatiche. Lungo i muri ci sono peri e meli coltivati a spalliera. Al livello più alto, al di là del prato, troviamo il giardino superiore (Upper Garden, lettera a). Simmetrico al Lower Garden, di cui riprende la forma e le dimensioni, inizialmente era un frutteto; nel 1785 Washington lo fece liberare dagli alberi per trasformarlo in un giardino di piacere. Anch'esso circondato da un muro su cui si appoggiano alberi da frutto a spalliera sui lati al sole e alberi ornamentali sui lati in ombra, ha un disegno formale che ricorda quello della finestra di una cattedrale, con sei aiuole, quattro rettangolari e due curvilinee, circondate da bordure di bosso nano. Le tre aiuole sulla sinistra (due rettangolari e una curvilinea) sono di dimensioni maggiori e combinano la funzione utilitaria dell'orto con quella estetica del giardino; il centro è occupato da file ordinate di verdure e erbe, lungo i bordi fiori e arbusti ornamentali formano una colorata cornice; anche in questo caso si tratta per lo più di specie native. Le due aiuole rettangolari sulla destra, più piccole, e separate tra loro dal piccolo cortile antistante la serra, ospitano un parterre di bosso che riproduce il "fleur de lys", ovvero il simbolo della Francia, preziosa alleata durante la guerra d'Indipendenza. L'ultima aiuola curvilinea sulla destra ospita invece piante da frutto. Bordure fiorite si trovano anche lungo i muri esposti al sole, ai piedi degli alberi a spalliera. Il punto focale di questo giardino è una serra molto innovativa per l'epoca dove venivano riparati aranci, limoni, limette e piante tropicali. Tra di esse una Cycas revoluta giunta in dono dalle Antille, ancora oggi viva e in ottima forma. Infine, l'orto botanico (Botanical garden, lettera c), una piccola area rettangolare incuneata tra il viale superiore e l'Upper garden, seminascosta da diversi edifici utilitari. Washington, che lo amava molto, lo chiamava "my Little garden" o "my Botanick garden". Era lo spazio destinato alla sperimentazione di nuovi semi, bulbi e talee che giungevano sempre più numerosi da amici, ammiratori, ma anche governi stranieri. Tra di essi quello francese, che, tramite André Michaux, fornì un cipresso a piramide e altri sempreverdi. Qui Washington "giardinava" di persona annotando scrupolosamente nei suoi diari successi e fallimenti. Liberalmente aperto ai visitatori già quando il presidente vi viveva (nel 1794 scrisse: "Non obbietto al fatto che ogni persona sobria o in ordine gratifichi la sua curiosità vedendo le strutture, i giardini, ecc. di Mount Vernon.") il giardino "americano" di Washington divenne anche un prestigioso modello che non mancò di influenzare la progettazione dei giardini della nuova nazione. A chi desidera saperne di più, consiglio vivamente una visita all'ottimo sito George Washington's Mount Vernon, una vera miniera di informazioni e curiosità. Una palma americana per il generale Washington Ovviamente, non fu per i suoi meriti di appassionato e di creatore di giardini che Washington fu onorato con un nome botanico, ma in quanto padre della patria. Anche se la prima denominazione che lo celebra non è valida, ha una storia così curiosa che vale la pena raccontarla. Nel 1853 il botanico inglese John Lindley dedicò uno studio alla sequoia gigante (Sequoiadendron giganteum) che proprio in quegli anni incominciava ad essere conosciuta in Europa; colpito dalla maestosità di questi alberi, i più alti del pianeta, nell'attribuirli a un nuovo genere li battezzò Wellingtonia gigantea, perché secondo lui il generale Wellington (il vincitore di Waterloo) superava ogni uomo proprio come la sequoia supera tutti gli altri alberi. Questa denominazione (illegittima secondo le leggi della botanica, perché il nome Wellingtonia era già stato usato per un'altra pianta) non mancò di suscitare indignazione dall'altra parte dell'oceano: come poteva un generale britannico dare il suo nome alla più maestosa pianta d'America? Infatti, l'anno dopo un certo Andreas Peter Winslow in articolo pubblicato su un settimanale locale, California Farmer, in cui raccontava il suo viaggio a Calaveras Grove, protestò contro questa denominazione poco patriottica, sostenendo che l'unico degno di dare il suo nome al gigante tra le piante americane fosse Washington. Aggiunse che, se la pianta fosse risultata appartenente al genere Taxodium doveva chiamarsi Taxodium washingtonium, se appartenente a un genere nuovoWashingtonia californica. Winslow non era un botanico e la sua denominazione, irregolare per diversi motivi, non è valida, ma rimane comunque molto interessante sul piano storico. La denominazione valida giunse nel 1873 da parte non di un patriota statunitense ma di un botanico tedesco, H. Wendland, che separò dal genere Pritchardia P. filifera, rinominandola Washingtonia filifera "in onore di un grande americano". Una terza Washingtonia era stata creata da Rafinesque, ma, pubblicata da Coulter e Rose solo nel 1900, non può essere presa in considerazione per la regola della priorità. La dedica di Wendland è invece un omaggio indubbiamente adeguato; il genere Washingtonia, della famiglia Arecaceae, comprende due specie di palme native degli Stati Uniti sud-occidentali e del Messico settentrionale, note per la loro altezza, maestosità e bellezza: W. filifera, nota anche come palma della California, e W. robusta, nota come palma del Messico. Sono molto simili tra loro, ma W. robusta ha tronco più sottile, cresce più alta e più rapidamente; a distinguerle poi è il colore della base del picciolo, rosso-porpora in W. robusta e verde in W. filifera. Alte fino a 30 metri, con grandi foglie a ventaglio che formano una densa chioma tondeggiante, sono tra le palme più note e apprezzate, molto coltivate anche da noi in parchi e alberate; la specie californiana è anche relativamente rustica. Qualche informazione in più nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2024
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