A volte, per entrare nella storia - se non altro in quella della botanica - è sufficiente raccogliere un fiore in un giardino. Almeno fu quello che capitò a Clas Alströmer, rampollo di uno dei più ricchi affaristi svedesi, allievo di Linneo, alla prima tappa del suo grand tour nell'Europa mediterranea, quando la magnifica Alstroemeria, stanca di essere scambiata per un'Hemerocallis o un giglio, si fece notare proprio nel giardino del console di Svezia a Cadice. A stretto giro di posta, l'annunciò arrivò a Uppsala, seguito dai semi, guadagnando al fortunato viaggiatore una delle dediche celebrative più veloci della storia. Mentre i suoi compagni di studio affrontavano le onde e le malattie tropicali, fu semplicemente facendo un viaggio di studio in Europa che Alströmer conquistò il fiore più bello tra quelli dedicati da Linneo ai suoi apostoli. D'altra parte, i suoi meriti scientifici non sono irrilevanti: fu un importante collezionista, e soprattutto un mecenate che finanziò i viaggi di molti condiscepoli, non ultimo Carl von Linné il giovane. Grazie a lui, almeno una parte dell'erbario linneano rimase in Svezia, invece di prendere la strada per Londra. Non ultimo merito, fu il protettore di Anders Dahl, il dedicatario del genere Dahlia. ![]() Un grand tour scientifico ricco di incontri A Uppsala, tra gli studenti che, tra il 1757 e il 1760, seguono i corsi di Linneo ce n'è uno con origini familiari molto diverse dai suoi compagni, in buona parte figli di poveri pastori di provincia, che nello studio cercano un'occasione di affermazione sociale. E' Cles Alströmer, uno dei figli minori di Jonas, pioniere della rivoluzione agraria e industriale in Svezia, promotore della diffusione della coltivazione della patata, proprietario di terreni, allevamenti e miniere, ma anche uno dei fondatori dell'Accademia delle scienze svedese. A Uppsala Cles studia agronomia, chimica e mineralogia con Wallerius, botanica con Linneo. E' compagno di studi di Solander, di cui è amico e al tempo stesso rivale. Nel 1760 parte per un grand tour che, per mete e interessi, si differenzia da quello d'obbligo per i rampolli dell'aristocrazia e della ricca borghesia europee; a richiamarlo più che l'arte sono il commercio e i progressi tecnici e scientifici. Nel corso di un triennio, nei vari paesi che visiterà, soprattutto grazie alla sua aura di allievo di Linneo, avrà libero accesso alle maggiori istituzioni scientifiche e conoscerà di persona i maggiori botanici del tempo, di cui ci ha lasciato brevi ritratti penetranti e privi di peli sulla lingua. Benché molte delle sue carte siano andate perdute in un incendio, a informarci su molti particolari del viaggio è il corposo carteggio con il maestro, cui spedì anche una cospicua collezione di piante e animali (oltre 2000 esemplari). La prima tappa fu la Spagna, dove per incarico del padre avrebbe dovuto carpire i segreti dell'allevamento delle pecore merinos, la cui lana era di gran lunga superiore a quella dei capi svedesi; Linneo a sua volta gli affidò la delicata missione di recuperare le collezioni e gli effetti personali di Löfling, morto tragicamente l'anno prima durante la spedizione nell'Orinoco. Partito in nave da Göteborg alla fine di febbraio 1760, Alströmer giunse a Cadice alla fine di aprile; qui fu ospite di Jacob Martin Bellman, il console svedese (nel porto iberico facevano tappa le navi della Compagnia svedese delle Indie orientali); nel giardino del consolato lo colpì una bellissima pianta con due fiori mai visti, nata da semi giunti dal Perù; di questa peregrina de Lima o azucena (ovvero "giglio") de Lima riuscì presto a procurarsi moltissimi semi, che inviò prontamente a Linneo. In Spagna sarebbe rimasto circa quindici mesi, alternando i soggiorni a Madrid e Cadice con puntate a Gibilterra, Siviglia, Granada e in Andalusia. Sorpreso dal maltempo mentre visitava i monti della Castiglia (forse la Sierra morena) si ammalò gravemente; più tardi egli avrebbe fatto risalire a questo incidente l'origine della grave malattia che lo colpì nella maturità. A Madrid frequentò i botanici del Real Jardin Botanico, esprimendo un giudizio molto positivo sull'ormai anziano Minuart e parecchie riserve sulla Flora española o historia de las plantas que se crían en España dell'antilinneano Quer y Martinez, uscita proprio quell'anno. A causa della malattia e poi della morte di José Ortega, fallì l'intento di recuperare gli effetti di Löfling (con una punta di malignità, Alströmer ricorda che i botanici spagnoli consideravano provvidenziale la morte precoce di quel giovane eretico, di cui si diceva si fosse convertito al cattolicesimo in articulo mortis). Ottimo fu invece il rapporto con due vecchi compagni di Löfling: l'astronomo francese Louis Godin, che aveva viaggiato con lui in Portogallo, e il medico Miguel Barnades, che lo aveva guidato alla scoperta della flora madrilena; importante fu poi l'incontro a Cadice con un giovane José Celestino Mutis, sul punto di partire per l'America. Grazie alla mediazione di Alströmer, Mutis entrò così in contatto con Linneo, di cui sarebbe divenuto uno dei principali informatori sulla flora sudamericana. Mentre si trovava in Spagna, Alstroemer ricevette la notizia della morte del padre; dopo aver pensato per un attimo di rientrare in patria, decise invece di continuare il viaggio. Alla fine del 1761 si spostò a Montepellier dove, grazie alle lettere di raccomandazione fornite dal maestro, fu ricevuto da François Boissier de La Croix de Sauvages e Antoine Gouan (che non lo impressionarono né poco né punto). Passò quasi subito in Italia (purtroppo molti dettagli ci sfuggono, a causa della perdita di molte lettere), dove sicuramente fu a Firenze, Pisa, Roma, Napoli, Bologna, Ferrara, Venezia, Padova, Verona, Mantova, Milano e Torino. Ovunque visitò orti botanici, gabinetti scientifici, collezioni e ambienti naturali - dalle pendici del Vesuvio dove raccolse pietre vulcaniche al monte Baldo dove sotto la guida del farmacista Giulio Cesare Moreni fece incetta di semi. Ovunque incontrò botanici a collezionisti, agli occhi dei quali divenne un vero e proprio ambasciatore di Linneo: a Firenze, dove fu ammesso alla Società botanica, Giovanni Targioni Tozzetti e Antonio Durazzini; a Pisa Giovanni Lorenzo Tilli; a Napoli Domenico Cirillo, che gli chiese l'indirizzo di Linneo; a Roma Giovanni Francesco Maratti con il quale discusse a proposito del genere Romulea; a Venezia collezionisti come il vescovo Marco Giuseppe Corner e Filippo Farsetti; a Padova Giovanni Marsili ("un botanico mediocre") e Antonio Vallisneri II ("non è come il padre"); a Milano Vandelli; a Torino Allioni. Gli toccò anche di resistere a seccatori come Saverio Manetti che ad ogni costo avrebbe voluto la dedica di un genere da parte di Linneo. All'inizio del 1763, via Ginevra, giunse a Parigi dove Bernard de Jussieu gli fece grande impressione; guardò invece con una certa perplessità al titanico tentativo di Michel Adanson di creare un sistema naturale e alle ricerche di Buffon sui mammiferi. Fu poi la volta di Londra, dove si fermò circa due mesi, divenendo un'habitué della casa di lady Monson, di cui caldeggiò, questa volta senza alcuna remora, la dedica di un genere botanico da parte del maestro, come ho raccontato in questo post. Dopo un breve passaggio ad Amsterdam, dove visitò i Burman, rientrò infine in Svezia nell'estate del 1764. ![]() Collezionista e mecenate Da quel momento la sua vita fu quella di un importante mercante e imprenditore, in società con il fratello Patrick e poi con il suocero, Niclas Sahlgren, direttore della Compagnia delle Indie Orientali. Quest'ultimo lo coinvolse anche nelle sue attività benefiche, come la fondazione di un orfanotrofio e dell'ospedale di Göteborg (Sahlgrenska Hospital); per valorizzare le sue proprietà agricole e minerarie, fece costruire una strada che collegava la sua proprietà di Alingsås e Göteborg (ancora oggi detta strada degli Alströmer). Nel 1768 fu nobilitato, con il titolo di barone. Nel 1770 divenne presidente dell'Accademia delle scienze. Creò una biblioteca, un gabinetto scientifico e un'importante collezione naturalistica (in gran parte andata perduta, insieme ai suoi manoscritti, in un incendio che devastò la sua proprietà nel 1779). Prima a Kristinedal, la tenuta ereditata dal suocero, poi a Gåsevadholm, dove si era trasferito dopo il fallimento, creò anche un orto botanico; a curare le sue collezioni chiamò Jonas Theodor Fagraeus e, a partire dal 1776, Anders Dahl. Su suo incarico, per arricchire le collezioni quest'ultimo viaggiò sia in Svezia sia all'estero e più tardi divenne il curatore dell'erbario che Alströmer ricevette dal figlio di Linneo. Ma andiamo con ordine: insieme ai suoi fratelli, Alströmer fu un importante mecenate che finanziò i viaggi di naturalisti come Afzelius, Thunberg e Retzius. Nel 1781, tre anni dopo la morte del padre, il figlio, Carl Linnaeus il giovane, desiderava andare all'estero, in particolare a Londra, per raccogliere il materiale necessario al completamento dell'opera paterna; a finanziare il viaggio fu ancora una volta Alströmer, al quale, in cambio il giovane Carl - che era stato suo condiscepolo e amico - cedette il proprio erbario, che includeva anche i doppioni della collezione paterna. Dopo la morte precoce di Carl, la madre (come ho raccontato qui) si affrettò a vendere a James Edward Smith i materiali linneani che presero la strada di Londra; a rimanere in Svezia fu solo l'erbario acquisito da Alströmer, che ne affidò la catalogazione a Dahl. Oggi il "piccolo erbario" (herbarium parvum) è custodito presso il Museo di scienze naturali di Stoccolma. Fin dal suo rientro in Svezia, Alströmer fu afflitto da una misteriosa malattia che consisteva in una graduale paralisi dei muscoli, presumibilmente una forma di distrofia muscolare, del tutto ignota ai medici del tempo. Perse progressivamente ogni mobilità, fino ad essere costretto su una sedia a rotelle. Gli ultimi anni furono anche afflitti da problemi finanziari, in seguito alla bancarotta della società creata con il fratello. Morì nel 1794, a 58 anni. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Alstroemeria: fiori di seta alla conquista delle aiuole Quando prima le descrizioni entusiatiche di Alströmer e poi i semi del "giglio di Lima" raggiunsero Uppsala, Linneo ne fu estasiato: era sicuramente una pianta magnifica, e apparteneva a una specie ignota alla scienza, sebbene strettamente affine a due altre già descritte da padre Feuillée come Hemerocallis. Egli poté così stabilire un nuovo genere che si affrettò a battezzare Alstroemeria in onore dell'affezionato allievo che, intanto, continuava a percorrere l'Europa diffondendo il verbo linneano e rifornendo l'orto botanico di Uppsala con continui invii di semi. La pubblicazione avvenne già nel 1762 nell'opuscolo Planta Alstroemeria, che assegnato come tesi di laurea a Peter Falk, fu poi incluso in Amoenitates academicae. Linneo vi descrisse tre specie: A. peregrina, A. ligtu e A. salsilla, oggi Bomarea salsilla. E' curioso notare che A. peregrina, la pianta "scoperta" da Alströmer e subito nota come giglio del Perù, giglio degli Inca, in realtà è un endemismo cileno; tuttavia fu passando attraverso i giardini di Lima che i suoi semi pervennero in Spagna, per rallegrare il giardino del consolato svedese a Cadice. Lo spettacolare genere, un tempo assegnato alla famiglia Liliaceae, fa oggi parte di una famiglia propria, Alstroemeriaceae, insieme ai generi Bomarea, Drymophila e Luzuriaga. Comprende da cinquanta a ottanta specie distribuite in due aree discontinue dell'America meridionale: da una parte il Brasile (con zone adiacenti in Paraguay e Argentina) e dall'altra il Cile (con zone adiacenti in Perù, Bolivia, e Argentina). Sono erbacee perenni rizomatose (ad eccezione della cilena A. graminea, un'annuale del deserto di Atacama) con grandi fiori isolati o a mazzi con sei tepali che possono superare i 5 centimetri, in una vasta gamma di colori che include il rosso, il rosa, il lilla, l'arancio, il giallo, il salmone, l'albicocca, il verdastro, il bianco, con screziature e striature più scure o in colore contrastante. Le specie brasiliane hanno vegetazione estiva, quelle cilene invernale; incrociando i due gruppi gli ibridatori hanno creato ibridi praticamente sempreverdi, capaci di fiorire tutto l'anno. Se un tempo il loro uso principale erano i fuiori recisi, oggi le Alstroemeriae sono uscite dalle serre per diventare anche apprezzatissime piante da aiuola meno difficili da coltivare di quanto farebbe pensare la delicatezza dei loro fiori, simili a grandi farfalle di seta. La scelta è davvero enorme, con almeno 190 cultivar registrate. Qualche approfondimento nella scheda.
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Tra l'esimio anatomista Johann Goffried Zinn e il genere Zinnia, che Linneo gli dedicò nel 1759 come omaggio postumo, il legame è semplice e trasparente: nel catalogo dell'orto botanico di Gottinga, curato da Zinn, compare - anche se con altro nome - la prima immagine a stampa di quella che noi chiamiamo Zinnia peruviana. Ma forse tra Zinn e le zinnie c'è anche un secondo filo rosso, più sottile e misterioso, che ha che fare con gli occhi, lo sguardo e, forse, persino il malocchio. ![]() Una Zinnia sotto mentite spoglie Formatosi a Gottinga alla scuola di Albrecht von Haller, Johann Gottfried Zinn era un giovane e brillante anatomista; tuttavia, dopo essersi perfezionato a Berlino, dove divenne uno specialista della struttura anatomica dell'occhio, quando ritornò a Gottinga non gli fu possibile ottenere la cattedra di anatomia; grazie all'interessamento del suo influente maestro, nel 1753 gli fu tuttavia assegnata quella di professore straordinario di medicina, che includeva la direzione dell'orto botanico dell'università. Zinn prese molto sul serio l'incarico, cercando di stringere rapporti personali con i maggiori botanici europei, tra cui lo stesso Linneo, allo scopo di arricchire le collezioni del giardino. Del suo carteggio con Linneo ci rimangono sette lettere (non ci sono pervenute le risposte dello svedese), che testimoniano un attivo scambio di semi, piante essiccate, pubblicazioni, nell'arco di circa due anni e mezzo (febbraio 1756-settembre 1758). Zinn è particolarmente interessato al genere Salvia, a cui pensa di dedicare una pubblicazione (progetto mai realizzato probabilmente per la sua morte precoce); segnala a Linneo piante coltivate a Gottinga di cui non trova menzione in Speces plantarum; discute su alcune piante, tra cui - nella lettera del 1 ottobre 1757 - Chrysogonum peruvianum. Racconta del suo impegno per la stesura del catalogo dell'orto botanico di Gottinga, Catalogus plantarum Horti academici et agri gottingenis (1757), che sta assorbendo tutto il suo tempo. E' questa in effetti l'opera botanica più importante di Zinn (i restanti contributi sono brevi articoli, pubblicati sotto forma di memorie delle varie accademie di cui faceva parte). Si tratta della continuazione e dell'aggiornamento dell'analoga opera di Haller, Enumeratio plantarum hortii regii et agri gottingensis; entrambi non sono solo un catalogo delle piante coltivate nell'orto botanico universitario, ma anche una flora della regione. Lo scrupolosissimo lavoro di Zinn offre una bella testimonianza dello stato dell'arte, almeno in area tedesca, alla vigilia dell'affermazione del sistema linneano: è evidente che il giovane botanico tedesco ha letto con attenzione Systema naturae (moltissimi generi sono presi da Linneo), ma allo stesso tempo è rimasto fedele all'insegnamento del maestro von Haller, di cui adotta il metodo di classificazione (essenzialmente basato sul numero dei petali e sulle caratteristiche dei frutti) e mantiene i nomi-descrizione. La descrizione di ciascuna specie è in genere brevissima, essendo per lo più limitata al nome-descrizione (intorno a una riga di testo), seguito dai sinonimi usati da altri autori. A fare eccezione, quasi sul finire del libro, è una specie della classe delle Radiatae (uno dei diversi gruppi in cui nel sistema di Haller sono divise le nostre Asteraceae). Dopo il nome-descrizione Rudbeckia foliis oppositis hirsutis, calyce imbricato cilindrico, radii petalis pistillatis "R. con foglie opposte pelose, calice cilindrico imbricato, petali del raggio pistillati", Zinn aggiunge "così possiamo provvisoriamente definire una pianta che presumibilmente merita il nome di nuovo genere". Nel dubbio che si tratti non solo di una specie, ma di un genere nuovo (egli stesso afferma che è ben diverso dalle altre Rudbeckiae), aggiunge una descrizione dettagliata, l'unica del libro, come unica è l'immagine che l'accompagna (che a noi, con il senno di poi, toglie ogni dubbio; quella che vediamo è indubbiamente una Zinnia). Due anni dopo aver licenziato questo lavoro, Zinn morì appena trentaduenne presumibilmente di tubercolosi. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Linneo volle ricordarlo nella decima edizione di Systema naturae (1759) battezzando Zinnia peruviana la pseudo-Rudbeckia di Zinn, che presumibilmente coincide con la pianta che in Species Plantarum (1753) egli aveva chiamato Chrysogonum peruvianum. Zinn non fu dunque, come alcuni sostengono, il primo botanico ad aver descritto una Zinnia (che è lo stesso Linneo), ma il primo ad averne pubblicato un'immagine. ![]() L'anatomia dell'occhio e la pianta del malocchio Qualcuno però, forse poco soddisfatto di un legame in fondo così poco romanzesco, ha voluto trovare tra il medico-botanico tedesco e il genere che gli è stato dedicato una connessione più sfuggente, ma anche più affascinante. Ho già anticipato che Zinn, anche se dal momento in cui divenne direttore dell'orto di Gottinga si convertì in un botanico appassionato, era in primo luogo un grande anatomista. Prima a Berlino, poi a Gottinga continuò i suoi studi sulla struttura dell'occhio, pubblicando nel 1755 Descriptio oculi humani iconibus illustrata, un'opera capitale nella storia della medicina, in cui presentò la prima descrizione completa dell'occhio umano, tanto che rimangono legate al suo nome alcune delle sue strutture: la zonula di Zinn, ovvero l'apparato di legamenti sospensori del cristallino, e i legamenti stessi, noti come legamenti di Zinn. Importantissimo è anche l'apparato iconografico, di una bellezza e di una precisione a lungo insuperata. Ora, a quanto pare, anche la Zinnia avrebbe qualcosa a che fare con l'occhio, o lo sguardo. Zinnia peruviana, la specie di cui Zinn pubblicò per primo un'immagine, in Messico è nota con molti nomi, tra cui mal de ojo. Moltissimi testi - tutti anglosassoni - riportano questa storia: quando i conquistadores arrivarono in Messico, trovarono che questa pianta fosse molto brutta, quindi la chiamarono mal de ojo, ovvero "che fa male agli occhi"; altri aggiungono che sarebbe stato il calco del nome indigeno, in inglese eyesore, ovvero "obbrobrio". Non so a voi, ma a me questa storia sembra molto strana, per non dire sospetta. Tra le decine di testi che la ripetono (che includono siti on-line, libri a stampa, ma anche articoli scientifici) non uno cita la fonte originale; chi sarebbero questi "spagnoli" o "conquistadores" che trovarono tanto brutta questa pianta? quale era il nome azteco (nahuatl?) che corrisponderebbe a eyesore? D'altra parte mal ojo, mal de ojo non significa né obbrobrio, né male agli occhi, ma, come a noi italiani è chiarissimo, "malocchio", ovvero quel nefasto potere dello sguardo che, secondo una diffusa superstizione, sarebbe in grado di seminare disgrazie e malasorte. E' infatti in questa credenza popolare, e non nella pretesa bruttezza della calunniata zinniuccia (mi permetto di chiamarla così, come fanno in Perù dove la chinita - diminutivo di china, zinnia - è stata dichiarata patrimonio naturale della nazione) che va cercata l'etimologia del nome popolare messicano. Z. peruviana è un'annuale i cui piccoli capolini, con fiori ligulati rossi vivo che circondano un disco scuro, possono ricordare un occhio circondato dalle ciglia. E proprio come gli antichi greci - e i marinai di oggi - dipingevano un occhio sulla prua delle navi per difenderle dal malocchio, gli aztechi coltivavano questi fiori nei loro giardini come difesa dal malocchio, che temevano soprattutto nei confronti dei neonati e dei bambini piccoli. La credenza nel malocchio era ben nota anche agli spagnoli, che adottarono il nome e l'usanza. Dunque, non pianta orribile, la cui bruttezza fa male agli occhi, ma pianta protettrice, apotropaica, che combatte il malvagio potere dello sguardo nemico. D'altra parte, è assai improbabile che Linneo abbia scelto questa pianta per onorare Zinn come specialista dell'occhio, come qualcuno ha sostenuto. Come abbiamo già visto, il motivo è molto più semplice e prosaico. ![]() Zinnia, un'affermazione difficile Il genere Zinnia, della famiglia Asteraceae, comprende 22 specie di erbacee annuali, perenni e suffruttici originari delle radure e delle praterie aride di un'area che va dagli Stati Uniti Sudoccidentali all'Argentina, con maggiore centro di diversità in Messico. Oggi è tra le più note annuali da giardino, ma la strada per tanta gloria fu lunga e tortuosa. Z. peruviana, la prima specie descritta da Linneo, è anche quella con l'aerale maggiore, spaziando dallo stato di Chihuahua in Messico al Paraguay, passando dalle Antille e dalle Galapagos; fu inoltre la prima ad arrivare in Europa; sappiamo con certezza che 1753 il Jardin des Plantes ne distribuì i semi a molti botanici, tra cui presumibilmente Haller a Gottinga, Philipp Miller a Londra e Linneo a Uppsala (come e da dove fossero giunti a Parigi non sappiamo, forse dal Messico, forse dal Sud America, visto che Linneo la chiama "calendula del Brasile"). A fine secolo, la specie è coltivata sotto vari nomi anche a Kew e dai vivai Lee & Kennedy. Ma con i suoi piccoli fiori e il portamento da erbaccia non è certo popolare e passa piuttosto inosservata in mezzo a tante novità giunte da oltre oceano. A fine secolo entra in scena la messicana Z. elegans; descritta per la prima volta con questo nome da Sessé e Mociño nel 1789, e formalmente da Cavanilles come Z. violacea nel 1791, quindi di nuovo come Z. elegans l'anno successivo da Jacquin. In ogni caso, i semi arrivano a Madrid e Gomez Ortega ne dona alcuni alla marchesa di Bute, la moglie dell'ambasciatore britannico in Spagna (John Stuart, primo marchese di Bute, figlio di lord Bute, il primo creatore di Kew). Ed è proprio la marchesa a introdurne la coltivazione in Inghilterra intorno al 1796. Il successo non è immediato; in natura, anche questa specie non è molto appariscente, con un singolo giro di fiori del raggio di colore violaceo. Tuttavia nel 1829 un certo J.S. Mill presenta alla Horticultural Society una varietà a fiori rossi da lui ottenuta da semi che gli sono giunti direttamente dal Messico, nota come Z. violacea var. coccinea. In Inghilterra come in Francia e in Belgio incominciano ad interessarsene i vivaisti, per soddisfare la crescente domanda di semi a buon prezzo di piante di facile coltivazione. Nel 1858, grazie a semi attenuti dalle Antille, Grazau di Bagneres ottiene la prima varietà doppia fertile, che due anni dopo è commercializzata dal celebre vivaio Vilmorin. Il successo è notevole, ma di breve durata, tanto che già a fine secolo le zinnie sono considerate demodé. Negli ultimi decenni del secolo vengono selezionate molte nuove varietà, destinate però ad essere soppiantate dalle ricerche dell'ibridatore californiano John Bodger che a partire dagli anni '20 del Novecento crea varietà a grandi fiori come 'Giant Dahlia' e 'Mammoth', che domineranno la scena per qualche decennio, grazie a una scelta sempre più ampia di forme e colori. In anni più vicino a noi, a rinnovare le vecchie varietà sarà invece l'irruzione di altre specie dal portamento meno rigido e monumentale, in particolare Z. angustifolia e Z. haageana. Qualche approfondimento, come sempre, nella scheda. La Paulownia non è solo un albero di straordinaria bellezza, ma è carico di simboli. In Cina, la sua patria, propizia lunga vita e felicità, associato com'è alla fenice - che solo sui suoi rami potrà posarsi, e solo quando sarà al potere un governante giusto. Ancora più ricchi i valori culturali in Giappone dove non solo è l'albero della vita, piantato tradizionalmente alla nascita di ogni bambina, ma è anche stato scelto come distintivo dell'ufficio del Primo ministro, in ricordo di un antico eroe nipponico. Così Philipp van Siebold, che aveva conosciuto la spendida pianta in Giappone, l'aveva coltivata nel suo giardino a Deshima e aveva osservato stupefatto la sua rapida crescita, pensò che, per sdebitarsi con la principessa reale dei Paesi Bassi, non c'era omaggio migliore che dedicarle questa pianta tanto bella e tanto densa di simboli. ![]() Un botanico a caccia di finanziamenti Il grande botanico Philipp von Siebold ritornò dal suo primo soggiorno in Giappone nel momento peggiore possibile. D'altra parte, non aveva avuto scelta: quando i giapponesi avevano scoperto che si era procurato alcune carte del paese - cosa proibitissima agli stranieri - prima lo avevano posto agli arresti domiciliari, poi lo avevano espulso. Inoltre, quando nel luglio del 1830 arrivò nei Paesi Bassi non poteva sapere che nell'arco di poco più di un mese avrebbe corso il rischio di perdere le sue collezioni o di non potervi accedere per anni. Le aveva infatti portate a Bruxelles, che all'epoca era la capitale del regno nonché la residenza dell'erede al trono. Le piante vive le aveva invece affidate all'orto botanico di Gand. Il 25 agosto scoppiò la rivoluzione che avrebbe portato all'indipendenza del Belgio. Nei giorni successivi, Siebold riuscì fortunosamente a portare in salvo a Leida sia le proprie collezioni, sia quelle raccolte da Blume a Giava. Rimasero invece in Belgio le piante vive. Si poneva a questo punto il problema di studiare e pubblicare l'immenso materiale raccolto in Giappone (i soli esemplari botanici erano più di 12.000). Siebold progettò tre opere di grande impegno: Nippon, un colossale studio geografico e etnografico sul paese del Sol levante; Flora japonica (con la collaborazione di un altro botanico tedesco, J.G. Zuccarini); Fauna japonica (per quest'ultima, egli si sarebbe avvalso della collaborazione degli zoologi del Museo di storia naturale da Leida, coordinati dal prof. Temminck). Tutte magnificamente illustrate, richiedevano grandi capitali, che nei Paesi Bassi, impegnati in Europa contro la rivolta belga e in Indonesia nelle guerre coloniali, non c'erano. Siebold ottenne dal re soltanto una pensione annua, e la promessa dell'acquisto delle sue collezioni etnografiche, che tuttavia venne procrastinato proprio per il prosciugamento dei fondi statali. A chi battere cassa? Siebold decise di rivolgersi alla sposa dell'erede al trono, la granduchessa russa Anna Pavlovna. Era arrivata in Olanda con una dote favolosa (un milione di fiorini) e si diceva che i suoi gioielli, per valore, fossero secondi solo a quelli della cognata, l'imperatrice di Russia. Non potendo soccorrerlo personalmente (suo marito, il futuro Guglielmo II, aveva notoriamente le mani bucate) gli consigliò di rivolgersi a suo fratello, lo zar Nicola I, che in quel momento era sicuramente il monarca più ricco d'Europa. Fu così che nel 1834 Siebold partì per la Russia e, grazie all'intercessione di Anna, fu ricevuto dallo zar, che aprì i cordoni della borsa in cambio di un invio di dieci copie annue dei fascicoli successivi delle tre pubblicazioni (sarebbero state inviate in Russia per più di un ventennio). ![]() Più granduchessa russa che regina olandese L'anno successivo, quando uscì il primo volume di Flora japonica, Siebold poté sdebitarsi con la principessa sia dedicandole l'intera opera (nel frontespizio leggiamo: Omaggio a sua altezza imperiale e reale la signora principessa di Orange Anne Paulowna, granduchessa di Russia) sia battezzando con il suo nome una delle più belle piante descritte nell'opera, Paulownia imperialis. Dato che questa specie era gia stata descritta da Thunberg come Bignonia tomentosa, oggi il suo nome è P. tomentosa Steud. Tuttavia il nome specifico coniato da Siebold - sicuramente carissimo a Anna, tanto orgogliosa delle sue origini imperiali - ha fatto in tempo a incollarsi al bellissimo albero, che nei paesi anglofoni è noto come Royal Empress Tree ("albero della principessa imperiale"). Al di là del suo ruolo di mediazione in questa delicata occasione, non sembra che la nobildonna abbia altri meriti botanici. Divenuta regina d'Olanda nel 1840 quando Guglielmo II succedette al padre, è una figura verso la quale gli olandesi hanno un atteggiamento ambivalente. L'ha dimostrato, fin dal titolo, la grande mostra organizzata nel palazzo di Het Loo nel 2016, in occasione del duecentesimo anniversario del suo matrimonio con il principe Guglielmo, intitolata "Anna Pavlovna, la regina pittoresca". Dai ritratti, dai vestiti elegantissimi e raffinati (che si faceva confezionare esclusivamente a Pietroburgo), dagli oggetti di cui amava circondarsi emerge una figura piena di maestà e dignità, indubbiamente affascinante, ma anche aliena, esagerata, appunto pittoresca. Allevata nel palazzo imperiale di Carskoe Selo con una profonda coscienza della sua appartenenza a una stirpe imperiale, per tutta la vita fu più una granduchessa russa che una regina olandese. Pur avendo accettato di sposarlo, provava una certa condiscendenza verso il marito, che riteneva di rango molto inferiore al suo. Quando arrivò in Olanda, poi, provò un vero shock culturale: rispetto alla corte russa, basata su una rigida etichetta e su una distanza siderale tra famiglia imperiale e sudditi, la borghese corte olandese, con la sua mescolanza di classi sociali e lo scarso peso dell'etichetta, era agli antipodi. Gli olandesi le riconoscono, equanimi, molte virtù: era una donna colta e intelligente (imparò benissimo l'olandese, cosa che il marito, allevato all'esterno e di lingua madre francese, non fece mai); era la discrezione in persona e non cercò mai di influenzare le scelte politiche del marito, anzi seppe mediare tra lui e il suocero, quando sorsero profonde divergenze proprio sulla linea da tenere nei confronti dei Belgi; fu sempre leale allo sposo, nonostante i molteplici tradimenti di lui e le sue spese dissennate; fu una filantropa che fondò decine di scuole, ospedali, orfanatrofi. Tuttavia i suoi sudditi non la amarono mai: era troppo altera, troppo compresa della sua importanza, troppo attaccata all'etichetta, troppo fredda (ma anche troppo impulsiva: quando prendeva la calma, si abbandonava a scenate fin troppo russe), insomma troppo granduchessa russa e troppo poco regina olandese. Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. Tra Anna Pavlovna e i fiori c'è però un secondo legame, diciamo così, postumo. Nel 1846 fu completata la realizzazione di un polder nel nord del paese, battezzato Anna Paulownapolder in onore della regina. Inizialmente sotto la municipalità di Zijpe, nel 1870 divenne comune autonomo con il nome di Anna Paulowna. Il caso ha voluto che questa località si trovi in una delle zone dove si concentra la produzione di tulipani; proprio qui, ogni anno, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio (qui i bulbi fioriscono circa due settimane dopo rispetto alle aree floricole dei dintorni di Lisse) vengono organizzati i "giorni dei fiori", con mosaici fioriti, opere d'arte, strade e ponti addobbati. C'è anche un giardino di bulbi che pretende di rivaleggiare (molto più in piccolo) con Keukenhof. ![]() Paulownia, albero della vita Il genere Paulownia, un tempo assegnato alla famiglia Scrofulariaceae ma oggi riclassificato in una famiglia propria, le Paulowniaceae, di cui è l'unico rappresentate, comprende sette specie di alberi dai magnifici fiori orginari per lo più della Cina, anche se alcune specie sono state introdotte da secoli in altri paesi dell'Asia orientale, in particolare in Corea e in Giappone, dove P. tomentosa arrivò a quanto pare intorno al 200 d.C. Fu proprio in Giappone che gli studiosi occidentali la incontrarono, a partire da Engelbert Kaempfer che nei suoi Amoenitatum Exoticarum fasciculi (1712) ne diede la prima descrizione, paragonandone i fiori a quelli della digitale e le foglie a quelle della bardana. A sua volta Thunberg la descrisse e la pubblicò in Flora japonica (1784) come Bignonia tomentosa. Philipp von Siebold la vide durante il suo primo soggiorno giapponese e la coltivò nel suo giardino di Deshima, rimanendo stupefatto dalla sua bellezza, del suo vigore e della rapidissima crescita. Al suo ritorno in Europa, portò con sé molti semi, di cui fece generosamente dono a molti amici; possiamo quindi considerarlo l'introduttore della specie in Europa, anche se la prima a fiorire, nel Jardin des Plantes di Parigi, dove era stata seminata nel 1834, sembra sia nata da semi donati a un certo visconte di Cussy, che li avrebbe avuti da un ignoto capitano inglese. Come ho già accennato, fu Siebold nel 1835 a comprendere che non si trattava di una Bignonia ma di un genere nuovo, battezzato Paulownia in onore di Anna Pavlovna Romanova. E' interessante leggere la motivazione della dedica: "Abbiamo preso la libertà di battezzare Paulownia il nuovo genere, che accoglie il Kiri, precedentemente ritenuto erroneamente una bignonia, per rendere omaggio al nome di sua Altezza Imperiale e Reale, la principessa ereditaria dei Paesi Bassi. A spingerci a questo non è stata solo la bellezza della pianta, ma ancora di più il fatto che la foglia del Kiri ornata di tre boccioli di fiori è stata utilizzata come insegna dal celebre eroe Taikosama e per questa ragione è ancora molto onorata in Giappone". La scelta di una pianta così significativa dal punto di vista culturale si inquadra nell'innovativo approccio di Siebold ai rapporti tra Occidente e Giappone, che egli auspicava si basassero non più sui meri interessi commerciali ma sulla comprensione e l'apprezzamento delle reciproche culture, come dimostrano anche le illustrazioni di Flora japonica, da lui fatte eseguire a artisti giapponesi e poi ridisegnate e adattate per la stampa da artisti occidentali. In Oriente, in effetti, P. tomentosa è molto di più di un albero apprezzato per la sua bellezza o per l'eccezionale valore economico dovuto alla rapida crescita e all'ottima qualità del suo legname, leggero, facile, da lavorare, ma allo stesso tempo durevole. E' l'albero della vita, legato al ciclo della vita e della morte. In Cina è coltivata da tempi immemorabile; si dice che il sarcofago di un re vissuto 2600 anni fa sia stato ricavato dal suo legname e le cronache del regno Qin (II sec. a.C.) documentano sue estese coltivazioni attorno alla città di Afang. Simbolo di longevità, nella tradizione cinese è ritenuto l'unico albero su cui si posa la fenice, per cui veniva piantata nei pressi delle case per attirarla, assicurandosi prosperità. In Giappone tradizionalmente veniva piantata alla nascita di una bambina e tagliata al momento del suo matrimonio, per ricavarne il cassone nuziale; era usata anche per amuleti destinati ai bambini e per le bare. Il suo legno, dotato di grandi capacità di risonanza, sia in Cina sia in Giappone è usato per costruire strumenti musicali tradizionali. Inoltre, come ricorda Siebold, è legato a un personaggio molto onorato della storia giapponese, Toyotomi Hideyoshi (Taiko Sama "l'onorevole ritirato" è il titolo onorifico con il quale è per lo più conosciuto nelle fonti cristiane). Egli fu il secondo dei tre unificatori del Giappone e alla fine del Cinquecento gettò le basi del sistema dello shogunato; la sua insegna formata da una foglia di kiri (questo il nome giapponese dell'albero) sormontato da tre boccioli è tuttora utilizzato come emblema dell'ufficio del Primo ministro. Giunta in Europa all'inizio degli anni '30 dell'Ottocento, P. tomentosa si diffuse rapidamente nei giardini del vecchio continente; dopo un decennio arrivò anche negli Stati Uniti (dove, per ragioni che vedremo meglio nella scheda, è anche diventata una temuta infestante). Solo alla fine del secolo, quando la Cina si aprì agli esploratori occidentali, incominciarono a essere note anche le altre specie, che tuttavia non sono mai diventate altrettanto popolari, anche perché meno rustiche e più esigenti; tuttavia da qualche decennio si assiste, soprattutto in Europa a un vero e proprio boom delle coltivazioni di Paulownia, per ricavarne legname e biomassa; e, più che P. tomentosa, a essere privilegiate sono altre specie e alcuni ibridi, di crescita più veloce e maggiore produttività. Qualche informazione su di esse nella scheda. Fioriscono insieme nei nostri giardini, a maggio, e insieme sono arrivati dall'Oriente nei bagagli di un ambasciatore: sono il lillà e il filadelfo, o fior d'angelo, che a lungo hanno persino condiviso il nome latino syringa. Ne è nato un equivoco che perdura nelle denominazioni del filadelfo in alcune lingue europee (ad esempio il francese seringa, seringat) o regionali (siringa, serenga, serena, in Piemonte, Toscana, Emilia Romagna). Ma gli equivoci devono essere iscritti nel destino del profumatissimo arbusto: altrove è assimilato al gelsomino (il toscano gelsomino della Madonna, il siciliano gesminu di Portugallu, i tedeschi falsche Jasmin o Sommerjasmin, nonché il bavarese Scheissamin, sorvoliamo su che tipo di gelsomino sia...) oppure ai fiori d'arancio (l'inglese mock orange, l'italiano fiore d'arancio e il siciliano zagara americana). Anche i botanici hanno contributo: prima Caspar Bauhin, che cercando di dissipare la confusione, l'ha ribattezzato con un nome che probabilmente designava tutt'altra pianta; poi Linneo, che ritenendolo un nome celebrativo, l'ha arbitrariamente dedicato al sovrano ellenistico Tolomeo II Filadelfo. Bene per me, che grazie alla distrazione del principe dei botanici posso parlare di questo splendido arbusto, forse oggi un po' meno di moda, ma pur sempre ammirato per la magnifica fioritura bianca e il delicato profumo. Del resto, i meriti scientifici di Tolomeo II sono tutt'altro che equivoci, e una piccola dedica la merita davvero. ![]() I doni dell'ambasciatore Dopo otto anni trascorsi alla corte di Solimano il Magnifico come ambasciatore imperiale, nel 1562 Ogier Ghislain de Busbecq, bibliofilo e appassionato collezionista di animali e piante esotiche, rientrò a Vienna, lasciandosi alle spalle lo zoo e i magnifici giardini che aveva creato nella sua residenza di Costantinopoli. Nei suoi bagagli, alcuni inestimabili tesori: in primo luogo, il magnifico codice miniato oggi noto come "Dioscoride di Vienna"; in secondo luogo, una collezione di bulbi e altre piante, tra cui due arbusti dai fiori profumati, novità assolute per i giardini europei. A Vienna li condivise con il curatore dei giardini imperiali, Carolus Clusius (che avrebbe poi portato con sé i bulbi di tulipano in Olanda, gettando le basi della tulipocoltura in quel paese). Avendo sentito dire che in Oriente i fusti cavi di entrambi gli arbusti venivano usati come cannelli delle pipe, il colto ambasciatore e l'amico Clusius li battezzarono entrambi syringa (espressione greco-latina che significa "tubo, cannuccia"): Syringa flore coeruleo quella a fiori violetti, Syringa flore albo quella a fiori bianchi. Queste denominazioni durarono a lungo, finché a correre ai ripari intervenne Caspar Bauhin che in Pinax theatri botanici (1623) conservò al primo Syringa caerulea e ribattezzò il secondo Philadelphus Athenaei, "filadelfo di Ateneo". Aveva pescato il nome in uno scrittore in lingua greca del II secolo d.C, Ateneo di Naucrati che, nel XV libro del suo Deipnosofisti, discute delle piante utilizzate per preparare le corone indossate durante i banchetti. A sua volta, Ateneo si rifaceva a uno scrittore precedente, Apollodoro di Artemita (I sec. a.C.). Il passo in questione è il seguente: "Apollodoro, nel quarto libro della storia del regno dei Parti, parla di un fiore chiamato philadelphum, che cresce nella terra dei persiani, e lo descrive così: «Ci sono molti tipi di mirto, il milax e quello che viene chiamato filadelfo, che ha ricevuto un nome che corrisponde alle sue caratteristiche naturali; perché quando i suoi rami, che si trovano distanti l'uno dall'altro, si mescolano insieme, si fondono in un abbraccio vigoroso e diventano uniti come se fossero sorti dalla stessa radice, e crescendo producono nuovi germogli; perciò, quando hanno rami ancora sottili, vengono piantati tutto attorni ai giardini intrecciandoli come una rete, e in tal modo queste piante creano una siepe impenetrabile»". In greco, infatti, philadelphos significa "amico fraterno" oppure "amico del fratello". Il filadelfo di Ateneo è davvero la pianta portata dall'Oriente dall'ambasciatore imperiale? Evidentemente no: non è un specie di mirto e non ha le caratteristiche descritte; probabilmente Bauhin si è lasciato suggestionare dalla citazione dotta e soprattutto dalla supposta origine persiana (anche se probabilmente, proprio come il lillà, nei giardini ottomani il filadelfo arrivò piuttosto dalla penisola balcanica). In ogni caso, la denominazione da lui proposta inizialmente venne ignorata: sia Gerard in Inghilterra sia Tournefort in Francia sia Vallisneri in Italia continuano a chiamare entrambe le piante Syringa. Finché arriviamo a Linneo, che in Hortus cliffortianus (confermerà poi questi nomi in Species plantarum), riprende la proposta di Bauhin denominando Syringa vulgaris il lillà e Philadelphus coronarius (filadelfo usato per fare corone, evidente allusione al passo di Ateneo) il nostro filadelfo. Sgombrato il terreno da un equivoco, ne crea subito un altro: sia che non abbia letto il testo di Ateneo (citandolo di seconda mano attraverso Bauhin) sia che sia stato suggestionato da altri passi dell'opera, in cui lo scrittore greco parla in termini elogiativi di questo sovrano, Linneo è convinto che il nome sia un omaggio a Tolomeo II Filadelfo, secondo re della dinastia Lagide. ![]() Un grande protettore delle arti e delle scienze Grazie alla svista di Linneo, per vie traverse anche questo illustre personaggio si aggiunge alla nostra lista dei dedicatari dei generi botanici, e, tutto sommato, in modo non del tutto immeritato. Tolomeo II (il soprannome Filadelfo si deve al matrimonio con la sorella Arsinoe II, secondo il costume degli antichi faraoni, ma soprattutto come operazione politico-propagandistica che assimilava la coppia regale ai fratelli-sposi divini Zeus e Era oppure Osiride e Iside) è ricordato non tanto per le innumerevoli guerre in cui fu impegnato ma come fondatore delle due più importanti istituzioni culturali dell'antichità, la Biblioteca e il Museo di Alessandria d'Egitto. Da tutto il mondo greco, per sua volontà vi affluirono poeti e studiosi, che formarono il cosiddetto "sinodo", un gruppo di 30-50 intellettuali da lui stipendiati perché portassero avanti i loro studi in campo letterario e scientifico. Oltre a letterati celebri come Callimaco, Teocrito o Apollonio Rodio o opere di grande importanza culturale, come l'edizione critica delle opere di Omero, la traduzione in greco della Bibbia (la cosiddetta Bibbia dei Settanta) o la storia dell'Egitto commissionata a Manetone, nei laboratori annessi al museo fervevano le ricerche matematiche, astronomiche, mediche, con importanti scoperte nei campi dell'anatomia, della fisiologia e della medicina. Tra gli scienziati che lavorarono al Museo durante il suo regno, ricordiamo in particolare il medico Erofilo, considerato il fondatore della medicina sperimentale. Presso il Museo c'era anche un serraglio dove il re collezionava animali esotici (proprio Ateneo descrive una processione in onore di Dioniso voluta da Tolomeo II nel 270 a.C., in cui sfilarono 24 carri trainati da elefanti e coppie di leoni, leopardi, pantere, cammelli, antilopi, onagri, struzzi, un orso, una giraffa e un rinoceronte). Sempre secondo la testimonianza di Ateneo, i cortili e i portici del Museo erano inoltre abbelliti da piante rare giunte da tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche dalla lontana India, che prosperavano grazie al mite clima egizio. Altri scrittori antichi ricordano che il sovrano cercò di migliorare le rese agricole introducendo nuove varietà di sementi (tra cui una varietà siriana di grano, che fu però rifiutata dai contadini egizi). Una sintesi della sua vita nella sezione biografie. ![]() Una cascata di fiori bianchi a profusione Il genere Philadelphus, della famiglia Hydrangeaceae, comprende una sessantina di specie di arbusti, nativi dell'Europa sudorientale, dell'Asia e dell'America settentrionale e centrale. Dopo il suo arrivo grazie a Ghislain de Busbecq, per circa 200 anni P. coronarius fu l'unica specie conosciuta e coltivata in Europa. Quando Linneo la descrisse in Species Plantarum (1753), dall'America era da poco giunta una seconda specie non profumata che il botanico svedese battezzò per l'appunto P. inodorus. A scoprirlo (e a disegnarlo) lungo le rive del fiume Savannah intorno al 1720 era stato Mark Catesby. Si diffuse soprattutto nei giardini statunitensi (in Europa si continuava a preferire il fratello profumato); ad esempio, nel 1792 George Washington ne ordinò parecchi esemplari a Bartram. Un'altra splendida specie nordamericana, P. lewisii, fu invece raccolta per la prima volta da M. Lewis nel 1806, nel corso della sua famosa spedizione con Clark. L'esplorazione della flora cinese permise di arricchire la scelta con altre specie, come P. delavayi, scoperta nel 1887 nella Cina meridionale dal missionario e botanico padre Pierre Delavay. Ma soprattutto, a rivoluzionare la presenza del bell'arbusto nei nostri giardini, furono i vivaisti. A farne una specialità, inizialmente esclusiva, fu il francese Victor Lemoine, che nel 1884 creò P. x lemoinei, incrociando P. microphyllus (una specie messicana, particolarmente resistente alla siccità) con P. coronarius. Fu l'inizio di un prolifico e fortunato lavoro di ibridazioni, che nell'arco di quarant'anni portò i vivai Lemoine a creare non meno di 30 ibridi, incrociando P. x lemoinei con altre specie ancora, soprattutto americane. Molto di moda ai tempi delle nostre nonne, quando era immancabile in ogni giardino, il filadelfo oggi è forse considerato un po' troppo visto, un po' troppo banale. Eppure la bellezza e la generosità delle fioriture rimangono intatte; per variare e introdurre un po' di novità, basterebbe affiancare al solito P. coronarius qualcuna delle altre specie, oppure scegliere tra le innumerevoli varietà orticole che rivaleggiano per profusione di fioriture, candore, profumo e sfoggiano nomi evocativi come "Mont Blanc", "Boule de Neige", "Innocence", "Virginal"... Per chi vuole qualcosa di speciale, ci sono persino varietà a foglie variegate oppure con fiori toccati di porpora (un po' meno angelici, ma davvero affascinanti). Qualche informazione in più su alcune specie selezionate e sulla storia degli ibridi nella scheda. Il giurista amburghese Johann Heinrich von Speckelsen, proprietario di un giardino molto ammirato, in questa storia deve condividere la scena non solo con Linneo, ma con un'idra a sette teste. E il modo con cui è riuscito a dare il suo nome alla sfolgorante Sprekelia è quanto meno tortuoso. ![]() Le vacanze intelligenti del giovane Linneo Nella primavera del 1735, il ventottenne Linneo parte per l'Olanda (dove, condizione imposta dal futuro suocero per concedergli la mano della figlia, dovrà conseguire un dottorato in medicina). Nei bagagli, una collezione di quasi mille insetti raccolti in Lapponia e Dalecarlia, e il famoso costume lappone con tanto di tamburo, con i quali conta di far colpo su eventuali protettori. Lungo la strada, si ferma due settimane ad Amburgo, dove viene accolto a braccia aperte da molti esponenti del vivace ambiente intellettuale della grande città anseatica. Il suo punto di riferimento è Johann Peter Kohl, slavista e redattore di un noto periodico di divulgazione scientifica, Hamburgischen Berichte von neuen Gelehrten Sachen, in cui aveva dato conto del viaggio di Linneo in Lapponia. Grazie alla raccomandazione di Kohl, al giovane svedese si aprono tutte le porte: si esibisce persino in un'imitazione di cerimonia sciamanica lappone, suscita interesse e ammirazione per il suo acume, la sua profonda cultura scientifica, l'atteggiamento modesto. Il celebre bibliografo J. A. Fabricius lo accoglie nelle sue stanze tappezzate di libri; il mercante di spezie Natorp gli mostra la sua collezione di lucertole, serpenti e altre rarità; il medico G. J. Jaenisch diventa un amico e un futuro corrispondente. Ma sicuramente l'incontro più fruttuoso per Linneo è quello con il collezionista e botanico dilettante Johann Heinrich von Spreckelsen; laureato in diritto, avvocato, membro di una famiglia di ricchi mercanti ben inserita nell'establishment amburghese, di lì a qualche anno diverrà segretario del Consiglio della città. Ma soprattutto è il proprietario di una fornitissima biblioteca ricca di testi di botanica (che presta liberalmente al nuovo amico) e di un ammirevole orto botanico privato, dove coltiva aranci e molte piante esotiche (a sentire Linneo, ci sono almeno 45 tipi di Aloe e 56 di Mesembryanthemum), soprattutto americane (grazie ai legami commerciali dei mercanti di Amburgo con le Americhe); possiede anche una collezione di cose naturali, tra cui una raccolta di fossili che lo svedese giudica la più grande che abbia mai visto. Oggi è difficile trovare informazioni su di lui, ma al tempo dovette essere ben inserito negli ambienti botanici europei: nel 1729 pubblicò un foglio con la figura della Yucca draconis (oggi Yucca aloifolia var. draconis), che nel 1732 fu ripreso da Dillenius in Hortus Elthamensis; più tardi sarà tra i corrispondenti di Collinson. Linneo stesso lo definirà botanicus doctissimus. ![]() L'idra smascherata Sicuramente lo svedese avrebbe prolungato il piacevole soggiorno, se non fosse stato per uno sgradevole incidente. Tra le curiosità della città, c'era anche una celebre idra a sette teste, che proprio l'anno prima l'olandese Albertus Seba, collezionista e cultore di cose naturali, aveva descritto e fatto ritrarre nella sua Locupletissimi rerum naturalium thesauri accurata descriptio, assicurandone l'autenticità. Linneo non poteva farsi scappare l'occasione di darle un'occhiata; vi riuscì grazie ai buoni uffici di Kohl. Ma gli bastò ben poco per capire che quella vantata meraviglia era una frode: si trattava di un grossolano artefatto, creato rivestendo ossa di donnola con pelli di serpente. Piuttosto sicuro del fatto suo, non tenne per sé la scoperta, anzi la annunciò sulle Hamburgischen Berichte. Gli sarebbe piaciuto anzi smascherare quel falso in un pubblico dibattito, ma un amico gli fece capire che era meglio tagliasse la corda: rischiava addirittura di essere messo ai ferri. E Linneo lasciò la città in fretta e furia. Ma da dove arrivava l'idra, e soprattutto di chi era? L'orgoglio della città d'Amburgo aveva già tutta una storia alle sue spalle: nel 1648, in seguito alla battaglia di Praga, l'ultima della guerra dei Trent'anni, sottratta a quanto si dice da una chiesa della città, era finita come bottino di guerra nella mani del comandante svedese, il conte di Königsmarck; poi, attraverso eredità e vendite, era passata di mano in mano fino ad approdare ad Amburgo. E qui le nostre fonti si dividono: secondo Seba, apparteneva ai mercanti Dreyern e Handel; secondo la maggior parte degli autori, faceva parte della collezione di curiosità del borgomastro Johann Anderson; secondo il biografo di Linneo D. C. Carr, che scriveva nella prima metà dell'Ottocento, apparteneva invece proprio al nostro von Spreckelsen. L'oggetto in ogni caso era considerato di grande valore: un tempo il re di Danimarca aveva cercato di aggiudicarselo per 30.000 ducati; ora il suo valore di mercato era molto inferiore, ma certamente l'incursione di Linneo si risolse in un danno non solo d'immagine per il proprietario. D'un tratto quel mirabile oggetto senza uguali non valeva più nulla; e capiamo perché secondo le fonti che identificano in Anderson il proprietario, questi fosse furioso e volesse far arrestare Linneo. Secondo Carr, invece, von Spreckelsen aveva contratto un prestito di 10.000 talleri dando come garanzia l'idra, e si trovò del tutto rovinato. Sono convinta che questa versione sia infondata: a smentirla sono gli ottimi rapporti che rimasero tra Linneo e von Spreckelsen dopo la partenza precipitosa dello svedese da Amburgo. Non solo egli elogia più volte il collezionista amburghese in diverse opere e non manca di ringraziarlo per avergli messo a disposizione i suoi libri, ma soprattutto ci sono rimaste due lettere di von Spreckelsen a Linneo (una del 1737, l'altra del 1755), in cui egli si esprime in termini di amicizia e di ammirazione nei suoi confronti. Un breve sunto della sua vita nella sezione biografie. ![]() E finalmente... chiamiamola Sprekelia! Ma è ora che faccia il suo ingresso la protagonista verde di questa storia. Tra le rarità che von Spreckelsen coltivava nel suo giardino di Amburgo c'era anche quello che al tempo era noto come Lilio-narcissus o Narcissus jacobeus. Egli ne cedette qualche esemplare al medico e botanico Lorenz Heister, che a Helmstedt dirigeva uno degli orti botanici più celebrati della Germania. Come ringraziamento, questi ribattezzò la pianta Sprekelia (1753). Una denominazione che, come vedremo, dovette aspettare quasi settant'anni per entrare nell'uso. Se era una pianta rara, non era certo una novità nei giardini europei. Coltivata già dagli aztechi con il nome di atzcalxóchitl o “fiore di splendore rosso”, è citata da Hernández in Historia natural de Nueva España, scritta durante il suo viaggio in Messico tra il 1571 e il 1576. Secondo Linneo, arrivò in Europa nel 1593. Non sappiamo da dove egli derivasse questa notizia; sappiamo invece dalla corrispondenza del medico Simon de Tovar che quest'ultimo la coltivava nel suo giardino di Siviglia; nel 1595 ne inviò tre bulbi nelle Fiandre al conte di Arenberg; l'anno dopo ne inviò una dettagliata descrizione a Clusius, in cui per la prima volta ne associò il fiore alla spada dei cavalieri di San Giacomo, in base alla forma (ancora oggi, in inglese è detto Jacobean lily e in spagnolo è flor de Santiago). Si devono proprio a Clusius (in Rariorum plantarum Historia, 1601) la prima descrizione scientifica e la prima immagine. Nel corso del Seicento, viene riprodotta molte volte, ad esempio nelle opere di Vallet, Parkinson, Ferrari, de Bry, Morison, e così nel Settecento, per lo più come Narcissus indicus, Narcissus jacobaeus o Lilio-narcissus. Qualcuna di queste immagini in questa pagina. Linneo lo descrisse in Species plantarum, assegnandolo al genere Amaryllis come A. formosissima. Il nome Sprekelia rimase dunque inutilizzato, finché nel 1821 William Herbert in An Appendix. Preliminary Treatise, un lavoro propedeutico alla sua fondamentale opere sulle Amaryllidaceae, separò A. formosissima da Amaryllis e lo assegnò a un genere proprio; inizialmente aveva pensato di battezzarlo Jacobaea, rifacendosi al nome volgare, ma poi ragionò così: "Era stato chiamato Sprekelia da Heister, sebbene io creda che il nome non sia mai stato adottato, e io ho sempre pensato che è giusto aderire a un nome che è già stato dato". Noto anche con il nome di giglio azteco, Sprekelia è considerato uno dei fiori più belli; come si è anticipato, appartiene alla famiglia Amaryllidaceae, è originario del Messico e del Guatemala. Fino a pochi anni fa, era considerato un genere monotipico, con l'unica specie S. formosissima, caratterizzata da singolari fiori rosso brillante con tepali posti a croce a simmetria assiale. Oggi si riconosce una seconda specie, S. howardii, scoperta nel Messico meridionale e descritta nel 2000 da D. Lehmiller, più piccola della precedente e con tepali strettissimi. Qualche informazione in più nella scheda. Si devono alla penna di Giovanni Battista Ferrari, gesuita poligrafo e poliglotta, due delle più raffinate opere editoriali del Seicento, cui contribuirono, tra gli altri, artisti del calibro di Piero da Cortona e Guido Reni: Flora seu de florum cultura, uno dei primi trattati di giardinaggio, del 1633, seguito nel 1646 da Hesperides sive de Malorum aureorum cultura et usu, una monografia altrettanto pionieristica sugli agrumi, probabilmente la prima dedicata a un genere. Sfogliarle è una festa per gli occhi, leggerle uno squisito divertimento barocco. Con tante sorprese, come quel "fiore indiano violato scuro" che molti anni dopo verrà ribattezzato Ferraria crispa. ![]() Uno sponsor d'eccezione per un'opera straordinaria Nello stagnante panorama dell'Italia secentesca, la Roma dei papi faceva eccezione; non per particolare acume politico o politiche illuminate, ma per la febbre edificatoria che, alimentata da papi e cardinali, trasformò la Città eterna del XVII secolo in un immenso cantiere. E tra chiese e palazzi, si costruivano anche giardini. Anzi una villa fuori porta con giardini scenografici e un angolo segreto riservato alle piante "peregrine", le specie esotiche che arrivavano dalle "Indie", era uno status symbol, la misura del potere e del prestigio. Tra i più preziosi gli Horti Barberini, voluti dal Cardinale Francesco, nipote del papa Urbano VIII. Durante il pontificato dello zio egli fu senza dubbio il personaggio più influente della corte pontificia: come "cardinal nepote" era il segretario di Stato, e accumulò una incredibile quantità di titoli e cariche. Uomo colto, collezionista, cultore della letteratura, della musica e delle arti (tra i suoi protetti anche Bernini), fece del suo palazzo alle Quattro Fontane - allora un'area suburbana - un punto nevralgico della cultura romana. Tra i suoi interessi non mancavano le scienze: creò un museo di scienze naturali e soprattutto trasformò i giardini del suo palazzo in una specie di orto botanico, ricchissimo di piante rare, che gli giungevano soprattutto grazie ai contatti allacciati in Francia durante varie missioni diplomatiche. Quali piante fiorissero in quel giardino ce lo racconta Giovanni Battista Ferrari, un gesuita di origini senesi che fece parte dell'entourage di Francesco Barberini. Orientalista di una certa fama, grazie alla protezione dei Barberini (Francesco, ma anche suo fratello Antonio), Ferrari ebbe libero accesso ai giardini della nobiltà romana e incominciò ad appassionarsi di floricoltura. Si costruì così una cultura enciclopedica sull'argomento, che trasfuse in una vasta opera, Flora seu de florum cultura, pubblicata in latino nel 1633, poi, visto il successo anche europeo, tradotta in italiano e ripubblicata nel 1646 con il titolo Flora overo cultura dei fiori. Alla sua progettazione, contribuì senza dubbio Cassiano dal Pozzo, che, al servizio del cardinal Barberini, lo accompagnò in molte missioni all'estero e esercitò una specie di ruolo informale di Ministro della Cultura di Urbano VIII. Cassiano era a sua volta un grande collezionista d'arte, incluse le tavole botaniche; fu lui, probabilmente, a concepire la parte iconografica di Flora e a mettere in contatto Ferrari (di cui divenne intimo amico) con i più importanti artisti del tempo. Fece anche da tramite con l'ambiente dei Lincei, di cui era membro. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una delle opere editoriali più prestigiose del tempo, un sontuoso in quarto in quattro volumi, con 101 calcografie, che ritraggono piante di giardini, attrezzi, grandi vasi con composizioni floreali e soprattutto molte specie di piante. E' allo stesso tempo un manuale che fornisce informazioni pratiche sull'allestimento di un giardino e sulla coltivazione delle piante, un catalogo delle specie più apprezzate, un ricettario con curiose indicazioni, una guida sui più bei giardini romani, un'opera letteraria. Volendo unire l'utile al dilettevole, Ferrari ha infatti arricchito il suo testo con sette favole allegoriche che mettono in scena gli dei dell'Olimpio e raccontano metamorfosi alla maniera di Ovidio. Ciascuna favola è illustrata da una tavola disegnata da tre tra i maggiori artisti attivi a Roma in quel momento: Guido Reni, Piero da Cortona e Andrea Sacchi (nell'edizione italiana, si aggiungerà Giovanni Lanfranco). La maggior parte delle incisioni si deve a J.F. Greuter. A finanziare la prestigiosa e costosissima opera furono ovviamente i Barberini (cui Ferrari rende ripetutamente omaggio). ![]() Le meraviglie barocche di Flora Sfogliamo dunque Flora. Ad aprire il volume è una spettacolare tavola di Piero da Cortona che fa da frontespizio e celebra la gloria della dea Flora. Dopo un'erudita introduzione, seguono indicazioni sull'ubicazione ideale del giardino, sulle siepi che dovranno difenderlo, sulla disposizione delle aiuole e dei sentieri. A illustrare questo capitolo, 7 piante di giardini, incluso un labirinto. Scopriamo come dobbiamo scegliere il cane da guardia (meglio nero: di notte fa più paura ai ladri, e più facilmente li coglierà alla sprovvista), come innaffiare, come disporre i fiori e quando raccoglierli, e così via. Se vi siete mai chiesti perché nei giardini abbondano limacce e bruchi, Ferrari ce lo spiega attraverso la prima e più divertente delle sue favole, dedicata all'improbabile coppia formata dal pigro giardiniere Limace e da suo fratello Bruco, impenitente scalatore di muri e ladro di piante, che un'irata Flora trasforma in Lumaca e Ruca. A completare il primo libro, una rassegna degli arnesi da giardino, indicazioni sui concimi e le terre - qui Ferrari include un excursus sui principali giardini privati romani - e la seconda favola, in cui Flora imbandisce un banchetto floreale agli dei. Per chi, come me, è affascinato dalla storia delle piante, le maggiori sorprese giungono però dal secondo libro. Ferrari vi passa in rassegna i fiori ornamentali indigeni e esotici più ricercati nei giardini del tempo. Scopriamo che i più alla moda erano le bulbose, in una stupefacente quantità di specie e varietà: narcisi (non meno di 36 tipi), crochi, colchici, corone imperiali, tulipani (solo due: a Roma, evidentemente non si erano ambientati), fritillarie, iris, gigli, Orchis, ornitogali, giacinti (altra super star, non meno di 25), ciclamini, anemoni (anch'essi in numerose varietà), ranuncoli, asfodeli, mughetti. A confronto, poche le erbacee perenni (peonie, Lychnis chalcedonica, l'esotica Lobelia cardinalis, sotto il nome di Trachelio americano, numerosi garofani). Piacevano invece le rampicanti: la curiosa Passiflora (Granadiglia), in cui si riconoscevano gli strumenti della passione di Cristo e soprattutto i gelsomini. Gli arbusti si riducono praticamente alle rose. Pochi gli alberi da fiore, soprattutto esotici: peschi e ciliegi doppi, la mimosa, il sommacco, Schinus molle. Se in questi casi le esotiche sono riconoscibili con i loro nomi, più spesso sono celate sotto l'etichetta ingannevole di generi già noti. Sotto il nome di Narciussus indicus riconosciamo così, anche grazie alle dettagliate illustrazioni, Sprekelia, Amaryllis belladonna, Crinum, Haemanthus; e capiamo che, in fondo, indicus vuole dire esotico: se Sprekelia arriva davvero dalle Indie - ovvero dal Centro America - le altre sono sudafricane, giunte a Roma con un tortuoso viaggio attraverso l'Olanda e la Francia. Ugualmente, sotto l'etichetta Hyacinthus si celano non solo Hyacinthoides non-scripta, ma anche Scilla peruviana e varie specie di Muscari. Gelseminum indicum flore Phoeniceo è chiaramente Campsis radicans. Non si sbilanciò invece Ferrari nel nominare il fiore destinato a immortalarlo nella denominazione botanica: è semplicemente Flos indicus e violaceo fuscus, "Fiore indiano violato iscuro". Ne giunse a Roma da Parigi un bulbo mezzo rinsecchito; l'abilissimo appassionato Tranquillo Romauli riusci, in due anni, a portarlo a fioritura. E, come scopriremo tra poco, anche questo fiore indiano non è indiano per niente. Il terzo libro è dedicato alla coltivazione delle piante da fiore: prima una parte generale (molto dettagliato il capitolo sulla lotta agli animali "maggiori" e "minori" che infestano i giardini, soprattutto i topi, da combattere in ogni modo, incluso cacciandoli con una speciale balestra; utile anche un gatto, ma sarà bene sceglierlo tigrato); poi indicazioni specifiche sulla coltivazione delle specie elencate nel libro precedente. A conclusione, un catalogo delle piante esotiche coltivate negli Horti Barberini: molte le abbiamo già incontrate, si aggiungono alcune piante officinali, come la Moringa o il tamarindo, un "fagiolo del Brasile", l'albero del corallo americano (Erythrina corallodendron). Completano il libro una pianta del giardino di Palazzo Caetani di Cisterna e due favole, una dedicata a Flora e alla Luna, l'altra che scomodo addirittura Nettuno per ornare gli Horti Barberini. Il quarto libro è una miscellanea di meraviglie di gusto barocco: le meraviglie dell'arte (che insegna a disporre i fiori, a conservarli, a imitarli, a forzarne la fioritura, a alterarne la forma, il colore, il profumo), ma ancora più le meraviglie della natura stessa, che a sua volta supera l'arte che si è illusa di superarla. Espressione di questa meraviglia è la Rosa della China, che (oh stupore!) nell'arco di una giornata muta il colore dei propri fiori dal bianco al carnicino al rosso. Avrete già capito che si tratta di Hibiscus mutabilis; Ferrari ci informa che i semi erano arrivati a Roma dall'India circa dieci anni prima, avevano prosperato e se ne coltivavano tre tipi: una forma semplice, una doppia e una stradoppia. E tra le tante tavole dedicata alla "Regina delle rose", ce n'è anche una che ne rappresenta i semi visti al microscopio (probabilmente la prima nella storia dell'illustrazione botanica). ![]() Nel giardino delle Esperidi Visto il notevole successo dell'opera, probabilmente ancora su suggerimento di dal Pozzo, Ferrari decise di scriverne un'altra, dedicata questo volta agli agrumi, immancabili inquilini dei giardini barocchi e delle loro arancere. Fu un'altra opera enciclopedica, con la stessa formula della precedente: un testo che unisse notizie erudite, favole mitologiche, puntigliose descrizioni delle piante e indicazioni per distinguerne i tipi, dettagliate istruzioni di coltivazione, informazioni di ogni genere sugli usi e gustose curiosità; un apparato iconografico affidato agli artisti più in voga. Il gesuita si mise alacremente al lavoro, ma a venirgli meno fu proprio il finanziatore. Nel 1644 Urbano VIII morì. Seguì la disgrazia di Francesco Barberini, che, messo sotto inchiesta per i modi in cui aveva ingrandito il patrimonio familiare, dovette andarsene in esilio in Francia. Non fu facile per Ferrari trovare un altro finanziatore. Attraverso il pittore Poussin, cercò anche inutilmente di ottenere il sostegno del re di Francia. Alla fine, riuscì a pubblicare Hesperides, sive De malorum aureorum cultura et usu libri IV nel 1646, a spese dell'editore Hermann Scheus. Frutto di un lavoro durato almeno dieci anni, l'opera è forse il primo trattato dedicato a un singolo genere (ovvero a Citrus, cui appartengono gli agrumi). L'apparato iconografico è ancora più sontuoso di quello di Flora: i disegni dai cui furono tratte le incisioni che illustrano le favole mitologiche o raffigurano sculture, bassorilievi, arancere si devono a François Perrier, Nicolas Poussin, Pietro Paolo Ubaldini, Francesco Albani, Andrea Sacchi, Francesco Romanelli, Filippo Gagliardi, Guido Reni, Domenico Zampieri (Domenichino), Giovanni Lanfranco, Girolamo Rainaldi; il frontespizio è di Pietro da Cortona. Non sono firmate le incisioni che raffigurano i fiori e i frutti dei numerosissimi agrumi e arnesi da innesto. Il primo libro, De aditu ad Hesperides ("Ingresso alle Esperidi"), di grande erudizione, è dedicato al mito di Ercole nel giardino delle Esperidi, di cui si ricostruisce la presenza nella letteratura e nell'arte; a conclusione una favola allegorica sul trasferimento delle ninfe Esperidi in Italia. Nei tre libri seguenti gli agrumi vengono classificati in tre grandi gruppi, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sotto la protezione di una delle ninfe Esperidi: i cedri nel secondo libro, Aegle sive malum citreum; i limoni nel terzo, Artehusa sive malum limonium; le arance nell'ultimo, Hesperthusa sive malum aurantium. La medesima struttura ricorre in ciascun libro: prima una discussione sui vari tipi, e gli svariati nomi, dell'agrume trattato, cui segue un minuzioso catalogo delle specie e varietà, illustrate da tavole di eccezionale fattura artistica e grande valore scientifico. Solitamente in alto è riprodotto un ramo con foglie, talvolta fiori, e un frutto maturo, in basso il frutto in sezione; a legare il tutto, un cartiglio in forma di nastro con il nome latino. Talvolta possono esserci anche frutti immaturi, il frutto visto dal basso, o dall'alto, per mostrarne alcune particolarità. Per gli appassionati di agrumi, è un documento eccezionale delle numerosissime varietà che si coltivavano nel Seicento. Seguono poi indicazioni sulla coltivazione, il trapianto, gli innesti, la lotta alle malattie, gli usi (con tanto di ricette) anche presso altri popoli (con una messe di curiose notizie etnografiche). Secondo il gusto barocco per il bizzarro, larghissimo spazio è dedicato alle forme mostruose, che erano particolarmente ricercate dai collezionisti e venivano anche volutamente create attraversi esperimenti di incroci. Al solito, la loro origine è attribuita a mitologiche metamorfosi. Ritiratosi Ferrrari nella natia Siena, dal Pozzo cercò di coinvolgerlo in un terzo lavoro sui pomi, ma il gesuita, ormai stanco e anziano si sottrasse. Morì nel 1655. Quale notizia sulla sua vita nella sezione biografie. ![]() Quel fiore indico che non viene dall'India L'illustrazione del flos indicus e violaceo fuscus (con la descrizione che ne dà Ferrari) è la prima attestazione nella letteratura scientifica europea di questa pianta che, come si è detto, era arrivata a Roma dalla Francia. Si rifanno a Ferrari (e non a una conoscenza diretta) il Gladiolus indicus e violaceo fuscus di Robert Morison (Plantarum historiae universalis, 1680) e il Narcissus indicus flore saturate purpureo di Olof Rudbeck (Reliquiae rudbeckianae, 1701). Il primo botanico a studiare dal vivo la curiosa bulbosa, e riconoscerne l'appartenenza a un nuovo genere fu l'olandese Johannes Burman, grande studioso della flora sudafricana, che nel 1761 le dedicò un articolo, comparso negli Atti dell'Accademia Leopoldino-Carolina, dandole il nome di Ferraria. Ma qualche tempo prima aveva comunicato la sua intenzione di creare la nuova denominazione a Philip Miller, che nel 1759 (sia in Figures of Plants sia nella settima edizione di The Gardeners Dictionary) descrisse la pianta, riconoscendo la paternità del nome a Burman. Ecco perché la denominazione completa del genere è Ferraria Burm. ex Mill. Il genere Ferraria, della famiglia Iridaceae, comprende 10-18 specie di cormofite diffuse in aree aride dell'Africa centrale e meridionale. Il maggior numero di specie si concentra lungo la costa occidentale del Sud Africa, preferibilmente in suolo sabbioso. Con l'eccezione di F. glutinosa, che vive nell'Africa tropicale meridionale con estati calde e umide e inverni freddi e aridi, vivono nella zona con piogge invernali e estate arida: in queste condizioni, fioriscono alla fine dell'inverno, poi perdono le foglie e vanno in riposo. I fiori della Ferraria sono davvero particolari: a forma di stella a sei punte, a volte con petali arricciati, hanno colori insoliti (crema, marrone chiaro, bruno, bruno-porpora) e sono spesso macchiettati. Inoltre molte specie emanano un odore sgradevole, che è stato descritto come simile a quello della melassa o dello zucchero caramellato con sentori di decomposizione. Non vi stupirà scoprire che (come le conterranee Stapeliae) queste specie sono impollinate da insetti sarcofaghi. Va detto, però, che per essere un genere così piccolo, Ferraria ha sviluppato strategie di impollinazione differenziate. F. ferrariola ha tepali dai colori delicati, giallo pallido o verde azzurro, quelli esterni con marcature più scure, vere e proprie "guide del nettare" che insieme al profumo dolce con sentori di violetta e di vaniglia attirano irresistibilmente le api. F. divaricata e F. variabilis, pur avendo colori smorti, dal bruno pallido al bruno scuro, uniforme o maculato, non hanno odore; i loro impollinatori sono varie specie di vespe. F. uncinata sembrerebbe invece essere impollinata da due specie di coleotteri. Qualche informazione in più su questo genere indubbiamente affascinante nella scheda. Il 19 ottobre 1593 giunge a Leida un viaggiatore partito da Francoforte. E' lì per creare l'orto botanico di quella recentissima Università (fondata appena 18 anni prima). Con lui viaggiano molte piante rare, tra cui una collezione di preziosi bulbi. Quel viaggiatore è Carolus Clusius, uno dei botanici più importanti del Rinascimento. E da quei bulbi nascerà, letteralmente, l'industria olandese dei tulipani. ![]() Clusius chierico vagante della botanica Già anziano, almeno secondo gli standard dell'epoca, quando si trasferì in Olanda Clusius aveva alle spalle una vita alquanto movimentata. Fiammingo francofono, in gioventù aveva abbracciato il protestantesimo e, dopo aver abbandonato gli studi giuridici su consiglio di Melantone, era andato a studiare medicina prima a Montpellier, poi a Parigi. A segnarlo furono soprattutto i tre anni (1551-1554) trascorsi a Montpellier, dove divenne segretario di Rondelet, che aiutò nella redazione dell'Histoire naturelle des poissons. Clusius partecipò a entusiasmanti esplorazioni botaniche in Linguadoca e in Provenza, apprese le tecniche per tenere un erbario, affinò le sue capacità di osservare, distinguere e descrivere le particolarità di ciascuna specie. Non conseguì la laurea e non divenne medico: fu un naturalista, che studiava piante (e animali) non per le loro proprietà medicinali, ma di per se stesse. Nel decennio successivo visse prevalentemente nelle Fiandre; grazie all'esperienza editoriale acquisita come collaboratore di Rondelet e alla grande predisposizione per le lingue - giunse a padroneggiarne otto o nove - incominciò a collaborare con lo stampatore Christophe Plantin; il suo primo lavoro fu una traduzione dell'erbario (Cruydeboeck) di Rembert Dodoens dal fiammingo in francese (Histoire des plantes, 1557). Nel 1564-1565, come precettore di Jacobus Fugger, figlio del celebre finanziere Anton, visitò la Spagna e il Portogallo, ne esplorò la flora e strinse duraturi contatti con eminenti studiosi iberici. Visitando Lisbona e Siviglia, le porte d'ingresso delle piante provenienti dalle colonie, Clusius incontrò l'oggetto privilegiato dei suoi studi: la flora esotica. Frutto di quel viaggio furono tre traduzioni dei lavori di Garcia de Orta, Nicolas Monardes e Cristobal de Acosta sulle piante medicinali e aromatiche americane e asiatiche; e la sua prima opera originale, Rariorum aliquot stirpium per Hispanias observatarum ("Su alcune piante rare osservate in Spagna", 1476), in cui descrisse circa 200 nuove specie, sia iberiche sia esotiche. L'opera, oltre che per essere la prima dedicata alla flora spagnola, si segnala per la precisione e la completezza delle descrizioni (che guadagnarono all'autore l'appellativo di "principe dei descrittori") e l'accuratezza delle illustrazioni xilografiche. ![]() Tulipani, amore a prima vista In appendice a quell'opera compare anche la descrizione di una pianta che non ha nulla a che fare con la flora iberica: un tulipano. L'incontro fatale avvenne a Malines (o Mechelen), la città fiamminga dove Clusius visse più o meno stabilmente tra il 1567 e il 1573. Nel 1562 un mercante di Anversa, di cui non ci è stato tramandato il nome, insieme a un carico di tessuti ricevette da un fornitore turco un dono inatteso; un pacco di bulbi. Pensando fossero un tipo di cipolle, ne mangiò una parte, e piantò il resto nell'orto (o, secondo una versione più romantica, li buttò nella compostiera). La primavera successiva produssero insoliti fiori gialli e rossi; il mercante li mostrò a Joris Rye, un mercante di Malines, che possedeva un giardino pieno di piante rare e corrispondeva con molti botanici. Neppure Rye li conosceva, ma, con il permesso dell'amico, trapiantò i bulbi nel suo giardino e ne scrisse ai suoi corrispondenti, tra cui anche il nostro Clusius. Il quale, a meno che ne avesse già visti in Spagna - cosa non documentata, ma non impossibile - deve aver visto in fioritura quella che sarebbe diventata la "sua" pianta nella primavera del 1567, nel giardino di Rye a Malines. Fu amore a prima vista: incominciò a ricercarne i bulbi e i semi, a coltivarli, a moltiplicarli, a studiarli. Nel maggio 1573, una nuova svolta: la fama che Clusius si era acquistato con le sue pubblicazioni e con la torrenziale corrispondenza con i botanici e i botanofili di mezza Europa (nel corso della sua vita, creò un'immensa rete di corrispondenti, circa 300 persone, cui si calcola abbia scritto non meno di 4000 lettere; ce ne sono rimaste circa 1300) convinse l'imperatore Massimiliano II a chiamarlo a Vienna per creare un orto botanico sul modello di quelli italiani. Dopo una vita di gavetta, in cui a malincuore aveva dovuto barcamenarsi tra lavori editoriali, impieghi occasionali e il soccorso degli amici, era anche una promozione sociale, con una posizione a corte e un generoso compenso di 500 fiorini all'anno. All'epoca Vienna era il crocevia tra l'Europa e l'Impero ottomano, un nemico minaccioso ma anche un partner commerciale con il quale la corte imperiale intratteneva costanti rapporti diplomatici; i turchi erano celebri per i loro giardini (e i tulipani erano i fiori che apprezzavano più di ogni altro). Uno dei principali fornitori di Clusius divenne l'ambasciatore imperiale a Istanbul, da cui ricevette regolari invii di piante e di bulbi. Inoltre il botanico si legò di amicizia con Ogier Ghislain de Busbecq, il quale, prima di lasciare Vienna, gli donò la sua collezione di piante rare, tra cui una grande quantità di semi e bulbi di tulipano. ![]() Da Vienna a Leida Ma le vicissitudini del nostro botanico viaggiatore non erano finite. Nel 1576 l'imperatore Massimiliano II morì all'improvviso; il suo successore, il fervente cattolico Rodolfo II, fece trasformare il giardino di Clusius in un maneggio, trasferì la corte a Praga e incominciò ad allontanare i protestanti da ogni incarico. Nonostante ciò, Clusius si trattenne a Vienna per un decennio, realizzando molte spedizioni botaniche nella Bassa Austria, nelle Alpi austriache, nel Burgerland e in Pannonia, grazie al sostegno del principe ungherese Boldizsàr Batthyàni. Il frutto di queste spedizioni furono due libri: Rariorum aliquot stirpium per Pannoniam, Austriam, & vicinas quasdam provincias observatarum historia (1583) e Stirpium Nomenclator Pannonicum (1584), di nuovo opere pionieristiche che descrivevano per la prima volta la flora austriaca e ungherese. Nel 1588, preoccupato per il clima di ostilità contro i protestanti e amareggiato dai ripetuti furti di piante rare dal suo giardino privato (commissionati da nobili personaggi, contro i quali Clusius era del tutto impotente), si trasferì a Francoforte, dove poteva godere della protezione di un nuovo mecenate, Guglielmo IV di Assia. Naturalmente, portò con sé le amate piante, e gli amatissimi bulbi. I quali, ovviamente, viaggiarono con lui fino a Leida, quando nel 1593, a sessantasei anni, Clusius si trasferì ancora una volta, pronto a iniziare una nuova vita. Nel giro di pochi anni, anche grazie alla collaborazione di Dirk Cluyt, giardiniere e farmacista, la competenza di Clusius e la sua estesa rete di corrispondenti permisero di creare un giardino piccolo (un rettangolo di 35 per 40 metri), ma ricco di più di 1000 specie; non era solo un orto dei semplici, ma anche un giardino di acclimatazione delle piante esotiche. Dopo la penisola iberica, le Fiandre e la corte viennese, ancora una volta Clusius si trovava nel posto giusto per alimentare la sua passione di studioso, collezionista e coltivatore di queste piante: oltre alle centinaia di corrispondenti sparsi per l'Europa, a fornire nuovi esemplari per le aiuole dell'Hortus erano ora anche i capitani delle navi della VOC (la Compagnia Olandese delle Indie Orientali). E ogni primavera, le magnifiche fioriture di tulipani (Clusius giunse a coltivarne, descriverne e catalogarne 34 varietà) attiravano folle di visitatori; molti gli chiedevano bulbi dei più belli, dei più strani (quelli con screziature o fiamme). Ma per il vecchio botanico erano oggetti di studio e, per cavarsi d'impiccio, chiedeva in cambio somme astronomiche; non si trattava di avarizia: si era sempre dimostrato generoso delle sue piante con corrispondenti e amici (secondo alcuni calcoli, avrebbe inviato loro non meno di un migliaio di bulbi di tulipani, contribuendo più di ogni altro a diffonderli in Europa). Con le sue ricerche, cercava tra l'altro la soluzione a un mistero: perché un bulbo che un anno aveva petali monocromi, l'anno successivo presentava fiamme o rotture in un altro colore? Egli fu il primo a capire che dietro a quelle "rotture" che tanto appassionavano i collezionisti c'era qualcosa che non andava; notò che i bulbi delle piante affette dal "mal della striscia" erano più piccoli e decisamente più deboli di quelli sani. Solo intorno al 1930 si sarebbe dimostrato che si tratta effettivamente di una malattia, provocata dal cosiddetto virus del mosaico del tulipano. Esattamente come era successo a Vienna, per aggirare la riluttanza di Clusius a separarsi dai suoi bulbi, gli appassionati si rivolsero ai ladri. Due volte nell'estate del 1596 e di nuovo nella primavera del 1598, essi penetrarono nel suo giardino privato e portarono via ingenti quantità di bulbi (almeno cento nel corso di una sola incursione). Amareggiato, Clusius decise di rinunciare a coltivarli e di distribuire quanto rimaneva tra i suoi amici. Inoltre si facevano sentire l'età e le numerose infermità, che negli ultimi anni della sua vita lo costrinsero a una quasi totale immobilità. Rimaneva vivace e attiva la sua mente, che gli permise di aggiungere due capolavori alla sua opera: Rariorum plantarum historia (1601) e Exoticorum libri decem (1605), ancora una volta dedicate alle piante esotiche e rare che aveva ricercato, coltivato e studiato per tutta la vita, di cui si troverà una sintesi nella sezione biografie. Intanto, per serendipity, i furti ebbero un risultato positivo: i preziosi bulbi sottratti a Clusius si diffusero in tutto il paese e, incrociandosi con varietà meno pregiate, divennero i progenitori delle varietà e degli ibridi che hanno fatto dell'Olanda il paese dei tulipani. ![]() Clusia, un abbraccio soffocante Diverse piante rendono omaggio a questo grandissimo botanico. In primo luogo, com'è giusto, Tulipa clusiana, una bella specie di tulipano che egli per primo descrisse e contribuì a diffondere. Ma anche Primula clusiana e Gentiana clusii che ci ricordano che Clusius fu un pioniere dell'esplorazione botanica delle Alpi e fu tra i primi a coltivare piante alpine nel giardino di Vienna. E naturalmente, il genere Clusia, che gli fu inizialmente dedicato da Charles Plumier, per essere poi confermato da Linneo. Questo genere, che dà il nome alla famiglia Clusiaceae (nota anche come Guttifereae) sarebbe sicuramente piaciuto al destinatario per la sua singolarità. In primo luogo è caratterizzato da una grande varietà di forme e di habitat: neotropicale, ovvero presente solamente nella fascia calda dell'America centrale e meridionale, comprende alberi, arbusti e liane, che possono vivere in pianura come in montagna, nelle aree costiere sabbiose o rocciose, nelle savane, nelle foreste a galleria. Alcune sono semiepifite: iniziano la loro vita come epifite, germogliando su alberi o su altre epifite a molti metri dal suolo, quindi sviluppano lunghe radici che giungono fino a terra; a questo punto si trasformano in grandi arbusti che possono anche strangolare e uccidere l'albero ospite. Alcune Clusiae sono tra i pochi alberi ad aver sviluppato una fotosintesi CAM (metabolismo acido delle crassulacee), di solito presente in specie succulente erbacee: tipiche di zone molto aride, di giorno chiudono gli stomi delle foglie per evitare un'eccessiva traspirazione; di notte, li aprono per permettere la fissazione del carbonio. Sebbene si tratti in genere di specie di grandi dimensioni, alcune Clusiae sono coltivate anche nelle nostre case come piante d'appartamento. La più comune è C. major (più nota come C. rosea), che in vaso si presenta come un attraente alberello con foglie ovoidali lucide e coriacee e i vistosi fiori semidoppi che possono ricordare quelli delle camelie. Altre informazioni sulle straordinarie caratteristiche ecologiche di questo genere nella scheda. ![]() C'e anche Clusiella Nel 1860 Planchon e Triana pubblicano un'epifita da poco scoperta nelle foreste d'altura di Grenada; le foglie e l'aspetto generale assomigliano al mirto o a certe Apocynaceae, ma diverse caratteristiche dei fiori femminili (né i fiori maschili né i frutti erano noti) spingono i due botanici a collocarla tra le Clusiaceae, e a denominarla Clusiella elegans: assomiglia infatti a una Clusia in miniatura. Nacque così un secondo genere dedicato a Clusio. Per circa un secolo C. elegans rimase l'unica specie del genere, finché intorno al 1950 vi furono incluse una specie prima assegnata a Astrotheca, quindi a Clusia, e cinque nuove specie. Al momento Clusiella è un genere di 8 specie, e non appartiene più alle Clusiaceae, ma alle Calophyllaceae (precedentemente tribù Calophylleae delle Clusiaceae). Sono perenni semi epifite che vivono nelle foreste tropicali di montagna dell'America centrale e del Sud America settentrionale, dal Costa Rica al Brasile settentrionale. Poiché vivono sulla sommità degli alberi, sono difficili da raccogliere e da studiare. Sono arbusti rampicanti o ricadenti, dioci, che secernono un lattice di colore chiaro. Specie nella pagina inferiore, le foglie presentano pori resiniferi e anche i fiori, con cinque piccoli sepali imbricati e cinque petali convessi di dimensioni maggiori, producono resine. C. elegans è abbastanza diffusa nella Cordigliera occidentale della Columbia; con tralci lunghi fino a due metri, si arrampica sulle chiome di alberi o si mescola ad altri arbusti, talvolta con portamento ricadente. Ha delicati fiori bianchi, talvolta delicatamente soffusi di rosa. Qualche approfondimento nella scheda. L'intrigante genere Genlisea ci fa scoprire un personaggio celeberrimo al suo tempo, Mme de Genlis, prolificissima autrice di più di cento volumi. Accusata a sua volta di essere un'intrigante, ma in un altro senso, capace di introdursi nel cuore e nella casa di un principe del sangue, cui avrebbe suggerito più o meno disastrose scelte politiche. Lasciati da parte i pettegolezzi, scopriamo una vocazione pedagogica, una "gradevole produzione" e altri "servizi" alla botanica, senza dimenticare le trappole della bella e insidiosa Genlisea. ![]() Una poligrafa pedagogica appassionata di botanica Amante di un principe reale, governante (anzi "governatore") del futuro re dei Francesi, "Rousseu in gonnella" creatrice di un nuovo metodo pedagogico, autrice di più di cento opere che ne fecero una delle prime scrittrici professioniste, Mme de Genlis non è certo un personaggio convenzionale. La sua lunga vita (nata nel 1746, morì nel 1830) le fece attraversare undici regimi politici, da Luigi XV a Luigi Filippo, passando per la Rivoluzione, il regime napoleonico, la restaurazione, e non certo da spettatrice passiva. Ai suoi tempi fu molto famosa; alcune sue opere furono immediatamente tradotte in varie lingue europee; fu considerata alla pari con la oggi ben più nota Mme de Stael. Mme de Genlis (il suo nome completo è chilometrico: Stéphanie-Félicité du Crest de Saint-Aubin contessa di Genlis) educò i suoi numerosi allievi (i figli di Filippo d'Orlèans, tra cui il futuro Luigi Filippo, le sue stesse figlie, alcuni nipoti e diversi figli adottivi) secondo un nuovo modello, in parte ispirato a Rousseau, che voleva coltivare insieme la mente, il cuore e le mani, senza fare distinzioni tra maschi e femmine. La sua "pedogagia dell'oggetto" utilizzava disegni, modellini, osservazione diretta, lavoro manuale, ma non mancavano letture e storie. Fu così che creò un teatro didattico e una nuova formula di narrativa pedagogica in cui un'esile trama narrativa fa da cornice alla trasmissione di valori morali e dei più diversi contenuti educativi. Soprattutto quando fu costretta all'emigrazione e quando, dopo il rientro in Francia sotto Napoleone, si trovò priva di mezzi, diventò una poligrafa capace di scrivere di qualsiasi argomento. Tra i tanti, compare sotto diverse vesti la botanica, che doveva essere una passione antica. Nel Settecento, in effetti, anche grazie a Rousseau, era di moda tra le dame tenere un erbario, avere un'infarinatura di botanica e magari coltivare con le proprie mani un giardino. Nel programma di studi dei figli del duca d'Orlèans non mancavano dunque nozioni di base di scienze naturali, la coltivazione di un piccolo giardino e, come "ricreazione", passeggiate dedicate allo studio dal vivo della piante. Questa esperienza pedagogica ritorna in Les jeux champêtres des Enfants (1821, "I giochi campestri dei bambini") la cui protagonista è una sorella maggiore che per tenere a bada una sorellina ingenua e un fratellino pestifero insegna, sotto forma di gioco, come creare un erbario e trasmette una manciata di nozioni su alcune comuni piante dei campi. L'amore per le piante e la vocazione pedagogica si uniscono nel curioso Herbier moral, ou Recueil de fables nouvelles (1801, "Erbario morale o Raccolta di nuove favole") in cui sulla falsariga di La Fontaine Genlis raccoglie alcune favole in versi, brevi apologhi morali i cui protagonisti non sono animali ma piante . I versi sono un po' pedestri e le storie poco originali, ma qualcuna è animata da un guizzo d'umorismo, come "I due tassi", in cui il tasso di un parco, colmo di disprezzo per il suo vicino, cresciuto sul bordo della strada, alla mercé della polvere e delle intemperie, viene inopinatamente trasformato in una grottesca figura d'orso da un giardiniere maniaco dell'arte topiaria: una scena che riflette tutto l'orrore, in un momento in cui ormai dominava la moda del giardino naturale all'inglese, per il vecchio giardino alla francese, creato a colpi di forbici da un orribile "giardiniere dalla faccia atrabiliare". E' invece un vero e proprio manuale di economia domestica e di agricoltura La Maison rustique pour servir à l'éducation de la jeunesse: ou, Retour en France d'une famille émigrée (1810, "La casa rustica destinata all'educazione dei giovani: o, Ritorno in Francia di una famiglia emigrata") in cui il pretesto narrativo è il rientro in Francia di una famiglia di nobili immigrati che trovano le loro terre abbandonate e devastate; pagina dopo pagina, in tre pedanti volumi, si spiega come ricostruire la casa, come arredarla, come dotarla di una cappella, una biblioteca, un gabinetto di curiosità naturali, come allestire un giardino e un orto, come impiantare e far prosperare ogni genere di coltivazione, dai cereali alla vigna. ![]() Una "gradevole produzione" e una rosa Il maggior contributo di Mme de Genlis alla divulgazione in questo campo è tuttavia La Botanique historique et litteraire (1810, "La botanica storica e letteraria"). Al di là del titolo, non si tratta veramente di "botanica", ma piuttosto di una raccolta di aneddoti, curiosità, informazioni antiquarie sulle piante citate nella Bibbia, negli autori classici e più raramente moderni, divise in alberi, arbusti, piante da fiore; non mancano capitoli sulle piante favolose e sugli alberi d'oro citati nella storia e nella letteratura. Di tutto, di più (in 400 pagine in dodicesimo, un quarto delle quali occupate da una novella o romanzo breve, "Les fleurs, ou les artistes"). Sfogliando quest'opera, che secondo l'autrice le sarebbe costata trent'anni di ricerche - l'ho sfogliata, non letta seriamente, subito annoiata dalla stile piatto, dall'accumulo caotico di informazioni senza gerarchia o criteri evidenti, dalla suprema superficialità del tutto - Mme de Genlis mi è sembrata una specie di Plinio di inizio Ottocento, un'accumulatrice acritica di curiosités, più che una studiosa con un progetto e una qualche capacità di interpretazione del reale. Da una parte sarà stata sicuramente un'opera "alimentare", una delle tante che la scrittrice cominciò a immettere nel mercato editoriale quando si trovò priva di altri mezzi finanziari; dall'altra parte, riflette la sua formazione eclettica e da autodidatta, guidata più dalla curiosità estemporanea che da un serio metodo scientifico. Mi sono ovviamente soffermata su un capitolo che sembra l'antenato di questo blog: Fleurs qui portent le nom de personnages qui ont existé, "Fiori che portano il nome di persone reali"; quattro pagine in tutto, per un totale di 11 piante (due sono nomi popolari che ricordano un personaggio biblico e, forse, un personaggio storico, tre arrivano dall'antichità classica, tre da Linneo e tre da Commerson). Nella loro sbrigativa superficialità, sono una perfetta epitome dell'intera opera. Eccoli qui "i services que Mme de Genlis a rendus à la botanique [...] avec cette agreable production" che secondo una pubblicazione del tempo avrebbero indotto M. de Saint Hilaire a dedicarle un genere di piante brasiliane. A dire la verità, la stessa fonte aggiunge un altro "servizio", più materiale. Prima della rivoluzione francese - non sono riuscita a ricostruire la data esatta, ma sicuramente tra il 1784, data della pace di Parigi, e il 1789 - Mme de Genlis visitò l'Inghilterra, ammirò debitamente i Kews Garden, fu ricevuta dalla regina e, grazie a lord Mansfield, conobbe la rosa muscosa. Il celebre e autorevole giudice, benché ottuagenario, ammaliato come tutti gli uomini dalla affascinante contessa, in occasione del suo compleanno gliene inviò un cesto intero; e alla sua partenza per la Francia gli fece dono di un piede, il primo ad essere coltivato nel paese. Non abbiamo ragioni di dubitare questa storia (anche se le memorie di Mme de Genlis abbondano di inesattezze, dimenticanze e episodi "aggiustati", quando non inventati di sana pianta), ma anche questo "servizio" è messo in dubbio dagli storici delle rose. La rosa muscosa è presumibilmente uno sport, ovvero una variazione spontanea, di Rosa centifolia, una rosa coltivata da secoli in Provenza (e infatti conosciuta come rose de Provence). Secondo la vivaista e esperta di rose antiche Anna Peyron la più antica muscosa (nota solitamente come 'Old Pink Moss' o 'Common Moss') sarebbe stata rinvenuta a Carcassonne nel 1696. Rose muscose furono poi coltivate in Olanda e negli anni '20 del Settecento arrivarono in Inghliterra, dove il primo a coltivarle sarebbe stato Philip Miller al Chelsea Physic Garden. Dunque è credibile che Mme de Genlis abbia portato un piede di rosa muscosa dall'Inghilterra, e forse avrà contribuito a diffonderla in coltivazione, ma non si trattava della prima mai vista in Francia. Ovviamente, c'è un capitolo sulle rose nella Botanique historique e litteraire, e la scrittrice non manca di inserire rose muscose in vari romanzi, considerandole una specie di marchio di fabbrica. In ogni caso, il celebre Vibert nel 1817 non mancò di dedicarle la "Comtesse de Genlis", una gallica presumibilmente perduta, descritta nei cataloghi del tempo "con bei fiori molto doppi, carnicino o grigio lino, ma variabili e prolifiche". Qualche notizia in più sulla lunga e romanzesca vita di mme de Genlis nella sezione biografie. ![]() Genlisea, le vittime non sono mai troppo piccole Nel 1833 il botanico Auguse de Saint-Hilaire, al ritorno dal suo lungo viaggio in Brasile, dedicò uno dei nuovi generi lì scoperti a Mme de Genlis, stabilendo il genere Genlisea, sulla base di quattro specie brasiliane. Al di là dei "servizi" di cui abbiamo parlato, a spingerlo in tal senso possono essere state altre circostanze. Intanto anche Saint Hilaire era un nobile (il suo nome completo, Augustin-François-César Prouvençal de Saint Hilaire, ha poco da invidiare a quello della dedicataria); entrambi vissero fuori dei confini francesi nei tempi difficili del Terrore e del Termidoro; il giovane Saint Hilaire conosceva e ammirava le opere della scrittrice e iniziò una corrispondenza con lei, ricevendone consigli che lo incoraggiarono ad abbandonare l'attività commerciale scelta per lui dalla famiglia per intraprendere studi scientifici. Può aver influito anche il recente rivolgimento storico: nel luglio del 1830, come è noto, la monarchia borbonica venne rovesciata e Luigi Filippo venne scelto come "re dei Francesi"; egli era rimasto legato da affetto e riconoscenza alla sua antica governante e quando questa morì, nel dicembre dello stesso anno, le tributò solenni funerali di stato. Dunque una dedica all'illustre scomparsa cadeva anche perfettamente opportuna dal punto di vista politico. Genlisea è un piccolo genere di singolari piante della famiglia Lentibulariaceae, che comprende 20-30 specie distribuite tra l'Africa tropicale e il Centro e Sud America. Si tratta di piante acquatiche, semi acquatiche o terrestri che vivono in una varietà di habitat accomunati dalla povertà di nutrienti. Per procurarsi questi ultimi si sono evolute come piante carnivore specializzate nella cattura di animali microscopici e protozoi; la cattura avviene per mezzo di trappole sotterranee che funzionano in modo simile a una nassa. Dal ciuffo di foglie a rosetta si dipartono lunghi organi biancastri che non sono radici (la piante ne è priva) ma foglie modificate dotate di strutture cave a Y, formate dall'unione di due sottili tubi; per tutta la lunghezza presentano strutture a spirale che consentono l'ingresso di microrganismi ospitati nel suolo o nell'acqua. Una volta entrati, essi non possono più uscire, perché le scanalature sono dotate di peli che obbligano a procedere verso l'apice della Y, dove le vittime vengono assimilate e digerite. Oltre ai protozoi, che sono le prede più comuni, le Genliseae si nutrono di una varietà di forme di vita microscopiche. E' stato dimostrato che almeno alcune specie producono particolari secrezioni di sostanze chimiche capaci di attrarre le vittime, inducendole a entrare nelle trappole. All'epoca di Saint Hilaire, questo meccanismo era ignoto. Già Darwin sospettò che si trattasse di piante carnivore, tuttavia non aveva idea di quali organismi si nutrissero e in quale modo. Solo nel 1975 la botanica inglese Yolande Heslop-Harrison individuò l'attività di enzimi digestivi in G. africana; in epoca ancora più recente, nel 1998, un gruppo coordinato da Wilhelm Barthlott dimostrò che G. margaretae attrae le sue prede per chemiotassi, li intrappola in trappole a forma di nassa (descritte anche come "trappole a cavatappi"), li digerisce grazie a enzimi e quindi ne assorbe i nutrienti. Per quanto tentata di trovare un parallelo con Mme de Genlis (abilissima manipolatrice e seduttrice, capace di attirare nelle sue trappole creature di dimensioni ben maggiori dei protozoi), devo ammettere che Saint Hilaire non è mai stato sfiorato da un pensiero così malizioso. Qualche approfondimento su questo curioso genere, che è pure dotato di graziose fioriture, nella scheda. E' noto il ruolo del "commercio triangolare", ovvero del traffico di schiavi, nel lancio economico della Gran Bretagna. Con la storia di William Houstoun, medico di bordo su una nave negriera e all'occasione contrabbandiere, scopriamo qualche macchia anche tra i cacciatori di piante che all'inizio del Settecento tanto contribuirono alla conoscenza e all'introduzione di nuove piante. Per una volta, la gentile bellezza in miniatura dell'Houstonia non è proprio in linea con il suo avventuroso (e poco scrupoloso) dedicatario. ![]() Tratta degli schiavi e contrabbando Nel 1713, con la pace di Utrecht, la Gran Bretagna strappò alla corona spagnola l'asiento de negros, ovvero il monopolio dell'importazione degli schiavi neri nelle colonie spagnole delle Americhe. Per la durata di trent'anni (1713-1743) solo le navi inglesi sarebbero state autorizzate ad attraccare in sette porti del centro e sud America per vendere fino a 4800 "pezzi" l'anno; in uno di questi porti, ciascun anno, a una singola nave (detta navìo de permìso) con un tonnellaggio massimo di 500 tonnellate sarebbe stato inoltre concesso di vendere le sue merci senza pagare le imposte che gravavano sui prodotti spagnoli. La corona inglese, a sua volta, cedette il monopolio del traffico con le Americhe spagnole a una società per azioni, la South Sea Company (protagonista nel 1720 di un celebre scandalo finanziario: la South Sea Bubble) che, nel corso di 25 anni, realizzò 96 viaggi che coinvolsero 34.000 schiavi. Caricati nei depositi della Giamaica e delle Barbados, essi venivano trasportati nei porti autorizzati (Cartagena, Veracruz, Panama, Porto Belo, Buenos Aires, L'Avana e Santiago de Cuba), dove venivano smerciati da mediatori spagnoli; gli inglesi non erano autorizzati a scendere a terra né a commerciare, ma potevano acquistare vettovaglie e beni di prima necessità. Di fatto, per questa via si aprì un enorme contrabbando (tanto che a partire dal 1734 le navi annuali non furono più autorizzate). Vendere e acquistare merci di contrabbando divenne una prarica usale, in primo luogo da parte degli ufficiali di bordo che potevano così arrotondare le tutt'altro che laute paghe. Fu sicuramente grazie ad esso - e in parte approfittando delle erbe, dei frutti e delle piante curative che venivano imbarcate come vettovaglie e medicinali per la ciurma e gli schiavi - che il medico scozzese William Houstoun poté mettere insieme una ragguardevole collezione di piante essiccate e di semi. Tra il 1729 e il 1733 egli lavorò come medico di bordo di una delle navi negriere della Sout Sea Society, la Don Carlos; facendo base in Giamaica, nel corso di vari viaggi toccò Cuba, Cartagena, l'area del Campeche in Messico e soprattutto Veracruz, da dove provengono la maggior parte dei suoi esemplari. Amico di Philip Miller, capo giardiniere del Chelsea Physic Garden, gli inviò ripetutamente piante nuove per l'Europa, che Miller introdusse in coltivazione (Houstoun è spesso citato nel celebre The Gardeners Dictionary come il principale fornitore di specie dai Caraibi e dall'America centro-meridionale); una di quelle piante dovrebbe essere la prima Fuchsia giunta un'Europa (presumibilmente F. triphylla); anche la prima introduzione della Buddleja si deve a lui. Destinatario degli invii di piante essiccate fu anche Gronovius (Houstoun si era laureato all'Università di Leida dove si era anche formato come botanico). ![]() Nuovi generi dall'America latina All'inizio del 1731, Hans Sloane, presidente della Royal Society, lesse una lettera che nel dicembre dell'anno precedente Houstoun gli aveva inviato da Kingston, in Giamaica. Il medico scozzese informava i soci di aver individuato molte piante che, a quanto gli risultava, erano sconosciute alla scienza europea. Seguendo "una pratica oggi autorizzata dal costume" si era permesso di battezzare, oltre a diverse nuove specie di generi già noti, una quindicina di nuovi generi con il nome di illustri botanici. Univa un pacco di semi e alcune comunicazioni: sulla preparazione del colorante ricavato dalla cocciniglia, sulla gialappa (Ipomoea purga) e sulla "contrayerba" (Dorsteina brasilensis), un'erba considerata efficacissima contro i morsi dei serpenti. Tuttavia, dato che in colonia aveva a disposizione ben pochi libri di botanica, sottoponeva le sue assegnazioni al giudizio degli illustri soci. L'anno dopo Houstoun rientrò in Inghilterra; fu presentato da Miller a Sloane e assistette ad alcune riunioni della Royal Society. Le sue conoscenze botaniche e la lunga esperienza tra mar dei Caraibi e porti del centro America lo fecero scegliere per un nuovo incarico: avrebbe dovuto visitare diversi porti dell'America spagnola per cercare piante tropicali e subtropicali da introdurre in Georgia (la colonia era stata fondata proprio quell'anno), in particolare piante medicinali e tintorie; durante il viaggio, avrebbe dovuto fare tappa a Madeira, per studiare la produzione vinicola locale; quindi, avrebbe dovuto impiantare e curare un giardino di acclimatazione a Savannah, in Georgia. Con un contratto di tre anni e uno stipendio di 200 sterline all'anno (in gran parte messe insieme da ricchi sponsor, come lord Petre o da scienziati come Sloane, che contavano sui suoi invii per incrementare i loro erbari e i loro giardini), Houston ripartì alla volta della Giamaica, fermandosi, come da contratto a Madeira, dove si procurò anche barbatelle da importare in Georgia; ma poco dopo il suo arrivo in Giamaica morì, lasciando in eredità all'amico Miller l'erbario, disegni e manoscritti. Qualche anno più tardi, entrarono in possesso di Joseph Banks, che li pubblicò nel 1794 con il titolo Reliquiae houstonianae. Ma il manoscritto era già conosciuto, tanto che Linneo se ne servì come fonte per Species Plantarum e validò nove dei quattordici nuovi generi creati da Houstoun: Ammannia, Buddleja, Gronovia, Justicia, Lippia, Martynia, Petrea, Randia, Richardia. Tutti sono tuttora validi, e qualcuno merita senz'altro un post. Una sintesi della vita di Houstoun nella sezione biografie. ![]() I fiori azzurri di Houstoun C'è uno strano legame tra il dr. Houstoun, che trascorse buona parte della sua vita adulta solcando i mari, e il colore azzurro. Azzurrissimi sono i petali dell'Houstonia coerulea, la specie tipo del genere Houstonia che Gronovius volle dedicare al medico scozzese, per ricambiare la dedica di Gronovia (si tratta di una delle piante ricevute dalla Virginia da Clayton). Anche questi genere fu validato da Linneo in Species plantarum (1753). Non meno azzurri quelli di Ageratum houstonianum, una delle più note annuali a fioritura estiva; il nome specifico è un omaggio di Miller, che ne ricevette i semi dall'amico e la introdusse nei giardini britannici. Houstonia è un genere di piccole erbacee perenni originarie dell'America settentrionale della famiglia Rubiaceae; le sue venticinque specie si distribuiscono dal Canada al Messico (qualcuna vive anche nell'area di Veracruz, da dove proviene buona parte delle piante osservate da Houstoun). Talvolta alte pochi centimetri, tanto da poter essere coltivate nelle fessure tra le pietre dei selciati, d'aspetto delicato, hanno graziosissime corolle tubolari con quattro lobi a stella in colori pastello: azzurro, violetto, lavanda, bianco o rosa. La specie più nota, talvolta reperibile anche nei nostri vivai, è H. caerulea, originaria dei terreni boschivi del Canada e degli Stati Uniti orientali, con fiori azzurri (ma anche bianchi o rosa) e centro giallo, di prolungata fioritura. Qualche approfondimento nella scheda. Al medico scozzese che, come abbiamo visto, aveva visitato Madeira nell'intento di creare l'industria vitivinicola in Georgia, è stato tributato anche un altro insolito omaggio: nel 1952 un barman statunitense ha battezzato in suo onore "William Houston" un cocktail che ha tra i suoi ingredienti whisky (non so se scozzese) e vino madera. Tipografo, giornalista e poligrafo, scienziato e inventore, uomo politico e padre della patria: Benjamin Franklin non ha certo bisogno di presentazioni. Meno note sono le sue relazioni con la botanica. La storia della pianta che lo celebra è un apologo sul male (molto) e sul bene (poco) che gli uomini possono arrecare alla natura. ![]() Ben Franklin padre della patra... e dell'orticoltura Un tratto comune di molti dei padri fondatori degli Stati Uniti fu la passione per piante e giardini; quanto a Benjamin Franklin, vero uomo di città, sul piano personale non si poteva dire un vero appassionato, ma fu profondamente consapevole dell'importanza economica dell'agricoltura per lo sviluppo delle colonie americane e la sua vita si intrecciò in molti modi con la botanica, l'orticultura e il giardinaggio. Oltre a pubblicare, come editore, molti libri di agricoltura e botanica, occupò un ruolo non secondario nella rete di naturalisti, mercanti, botanici e appassionati che nella seconda metà del Settecento mutò il volto dei giardini e dei parchi inglesi con l'introduzione di centinaia di nuove specie nordamericane. Fu proprio lui a metterne in contatto i principali attori, Collinson e Bartram. Tutto iniziò nel 1731, quando Franklin, di fronte alla difficoltà di procurarsi libri europei a costi accessibili, ebbe l'idea di creare a Filadelfia un club di lettura, la Library Company, primo nucleo delle future biblioteche circolanti. In tal modo conobbe il mercante-naturalista inglese Peter Collinson; entusiasta di ogni iniziativa che aiutasse a diffondere il sapere, infatti, quest'ultimo si offrì di assumere l'incarico di agente della Library a Londra, con la quale collaborò (scegliendo, acquistando e inviando libri) per oltre un trentennio. In questo modo, l'inglese divenne il patrono della nascente comunità scientifica di Filadelfia, introdusse Franklin negli ambienti scientifici europei, ne fece conoscere le ricerche sull'elettricità e ne proposte la candidatura alla Royal Society. Mentre Collinson a Londra assicurava contatti e libri, in America John Bartram, uno dei più stretti amici di Franklin, raccoglieva per lui semi, radici e piante che poi Collinson distribuiva ai suoi clienti (ma questa storia sarà raccontata in un altro post). Attento soprattutto ai risvolti economici della conoscenza della flora spontanea, Franklin incoraggiò Bartram a scrivere un libro sulla flora americana, con particolare riguardo alle piante medicinali e utilitarie. Per finanziarne le spedizioni botaniche, lanciò una pubblica sottoscrizione sul suo giornale (la Pennsylvania Gazette). Nel 1743, nel promuovere la creazione di una società scientifica ispirata alla Royal Society britannica, in Proposal for promotion useful knowledge among the British plantations in America sostenne l'importanza della diffusione delle nuove conoscenze per lo sviluppo agricolo delle tredici colonie. L'anno successivo lui e Bartram furono tra i soci fondatori della Philosophical Society, la prima e più importante società scientifica americana, e in tale veste nel 1748, quando Kalm giunse a Filadelfia, lo accolsero con entusiasmo, facendo anche da tramite con Linneo (attraverso il solito Collinson). Franklin di Kalm divenne amico e ne pubblicò il resoconto del viaggio alle cascate del Niagara. A partire dalla seconda metà degli anni '50, il crescente impegno politico portò ripetutamente Franklin in Europa; tra il 1757 e 1775 egli visse per lo più in Inghilterra, dove rivestiva il ruolo di ambasciatore ufficioso delle tredici colonie, specialmente della Pennsylvania. A Londra, oltre ad essere l'animatore del gruppo che si incontrava dapprima nella St. Paul Coffehouse, quindi nella London Coffehouse (il cosidetto Club of Honest Whigs), divenne membro corrispondente di numerose società scientifiche, diverse tra le quali si occupavano specificamente di agricoltura. Si interessò in particolare della diffusione nelle colone di nuove tecniche agrarie (ad esempio, l'uso del gesso come ammendante) e di colture da reddito e industriali. Convinto sostenitore delle potenzialità di un'industria della seta americana, studiò le caratteristiche del baco da seta e del gelso, che si ritiene sia stato introdotto negli Stati Uniti per sua iniziativa. Infatti, mentre le piante americane inviate da Bartram attraversavano l'oceano e andavano ad abbellire i giardini britannici, grazie a Franklin altre piante facevano il cammino inverso e contribuivano allo sviluppo economico delle colonie. Oltre al gelso, gli si attribuisce l'introduzione in America di cavolo scozzese, orzo svizzero, rabarbaro cinese, cavolo rapa. Ma contribuì anche all'agricoltura inglese, facendo giungere sul suolo britannico le mele americane Newtown pippin o la foraggera Phleum pratense (una poacea europea che intorno al 1720 era giunta in America grazie al coltivatore Timothy Hanson, e verso il 1760, con il nome di Timothy grass, incominciò ad essere coltivata anche in Inghilterra proprio grazie a Franklin). Inoltre, da Londra e più tardi da Parigi, spediva regolarmente semi di piante orticole e ornamentali alla moglie Debora a Filadelfia. Tra il 1775 e il 1781 egli fu ambasciatore del Congresso in Francia; al di là del suo importantissimo ruolo politico, divenne un personaggio universalmente noto e ammirato e poté frequentare da pari a pari gli ambienti scientifici parigini; grazie ai suoi contatti con gli animatori del Jardin des Plantes, poté così inviare semi, arbusti e alberi esotici sia in Inghilterra sia in patria. L'invio di semi, in particolare di varietà nuove, resistenti e potenzialmente produttive, divenne anche più importate con il boicottaggio dei prodotti inglesi: la battaglia per la libertà e l'indipendenza passava anche attraverso l'autonomia economica. Una sintesi della sua intensa e poliedrica vita nella sezione biografie. Nel 1785, al suo ritorno definitivo da Parigi, Franklin fece trasformare l'orto della sua casa di Filadelfia in un giardino: non c'erano aiuole di fiori (secondo lui, come ornamento erano già sufficienti e imbattibili quelli del vicino mercato) ma un prato circondato da alberi e da arbusti fioriferi, con sentieri in brecciolino. Il punto focale era un gelso, all'ombra del quale Franklin, durante i lavori della Convenzione costituzionale, amava sedere e discutere con i delegati. La casa e il giardino di Franklin non ci sono stati conservati, ma nel 1976, in occasione del bicentenario dell'indipendenza nel luogo in cui sorgevano sono state create due "strutture fantasma" in acciaio tubolare che suggeriscono le linee degli edifici scomparsi, al centro di un giardino che richiama gli elementi essenziali di quello originale: un gelso, il prato, aiuole rialzate con alberelli di sofora (Styphlobium japonicum) e fioriture stagionali. ![]() Breve vita felice di Franklinia alamataha Nell'ottobre 1765, mentre esplorava la valle del fiume Alatamaha nei pressi di Fort Barrington insieme al figlio William, John Bartram notò alcuni curiosi arbusti (data la stagione, senza fiori). Solo nel 1773, William, nel corso dell'ampia spedizione botanica nel sud del paese, finanziata dal dottor Fothergill, di ritorno nella valle dell'Alamataha, poté ammirarne la fioritura; così racconta l'incontro nei suoi Travels: "Mentre stavo disegnando vicino al forte fu assai deliziato dalla scoperta di due magnifici arbusti in piena fioritura. Uno di loro sembrava essere una specie di Gordonia, ma i fiori sono più grandi e meno profumati di quello di G. lasianthus." William raccolse alcuni semi e, al suo ritorno a Filadelfia nel 1777, li seminò con successo nel suo vivaio: gli alberi crebbero e arrivarono a fiorire nel giro di pochi anni. Egli battezzò la nuova pianta Gordonia pubescens; ma Solander, sulla base di un esemplare inviato a Fothergill, fece notare che si trattava di un genere sconosciuto. I Bartram chiamarono dunque la pianta Franklinia alatamaha in onore del grande Benjamin Franklin, carissimo amico di famiglia, e del maestoso fiume sulle cui rive viveva. Nel 1785 il nome fu ufficializzato da Humphrey Marshall, cugino di William, nel suo Arbustum Americanum: The American Grove. Franklinia è un genere monotipico della famiglia Theaceae. La sua unica specie, appunto F. alatamaha, un grande arbusto o alberello caducifolio con spettacolari fiori bianchi, è estinta allo stato naturale. Quando William la individuò, notò che cresceva esclusivamente in un'area pianeggiante di due o tre acri lungo il fiume Alatamaha; non c'erano notizie che crescesse altrove. Nel 1790 Moses Marshall, figlio di Humphrey, nel corso di una spedizione di raccolta, localizzò di nuovo la stazione dove viveva la Franklinia. Nel 1803, John Lyon, giardiniere e cacciatore di piante scozzese, ne trovò da sei a otto esemplari; è l'ultima segnalazione della presenza della pianta in natura; essa può essere considerata estinta allo stato selvatico non molto dopo quella data. Perché la Franklinia si è estinta? Alcuni non esitano ad additare un colpevole a due zampe: sarebbe stata proprio la raccolta dei semi e dei pochi esemplari da parte dei cacciatori di piante a decretarne la fine. Ma forse la situazione è più complessa: il fatto che in coltivazione abbia mostrato una buona rusticità, crescendo rigogliosa in climi più freschi e suoli più ricchi di humus, ha fatto pensare che la specie sia di origine più settentrionale e si sia spostata a sud durante le glaciazioni; ma mano a mano che il clima si faceva più caldo, essa si trovò a vivere in suoli poveri, argillosi, poco drenati (proprio l'opposto delle condizioni preferiti dalle Theaceae). La popolazione, un tempo ben più diffusa, così incominciò a declinare e quelli trovati dai Bertram erano i suoi ultimi rappresentanti. Un'altra ipotesi è che al suo declino abbia contribuito la coltivazione estensiva del cotone nell'area, con la conseguente diffusione di organismi patogeni radicali, ancora oggi un grave problema per gli esemplari coltivati. Se l'uomo ha forse dato l'ultima spinta alla sorte vacillante della Franklinia, ne ha se non altro garantito la sopravvivenza in coltivazione: tutti gli esemplari oggi esistenti al mondo (si calcola che sia coltivata in un migliaio di luoghi: parchi, giardini, arboreti, orti botanici) discendono dai semi piantati da William Bartram nel 1777. Non è neppure ipotizzabile una sua reintroduzione in natura; proprio perché tutte le piante esistenti sono strettamente imparentate, non assicurano la diversità genetica sufficiente per resistere a nuove malattie o per adattarsi ai cambiamenti climatici. Nella scheda qualche informazione in più sulla bellissima e fragile Franklinia alatamaha e suoi notevoli ibridi nati dall'incrocio con altre Theaceae. |
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Da gennaio è in libreria La ragione delle piante, che costituisce l'ideale continuazione di Orti della meraviglie. L'avventura delle piante continua! CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
May 2023
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