Nel Cinquecento la creazione dei primi orti botanici imprime una svolta allo studio delle piante. Accanto a quelli pubblici, nati in ambito universitario, come quelli di Pisa e Padova, anche giardini privati ebbero talvolta un ruolo nella (ri)nascita dell'interesse per la botanica. Ne è un esempio il giardino della Montagnola, creato a Napoli da Gian Vincenzo Pinelli intorno alla metà del XVI secolo, grazie al quale si formò un vivace circolo di studiosi e appassionati. ![]() Un giardino e una corrispondenza internazionale Il nome di Gian Vincenzo Pinelli è noto agli studiosi di Galileo e ai bibliofili. Trasferitosi a Padova dal 1558, attratto da quella celebre università, vi creò una immensa biblioteca che, almeno in parte, venne acquistata dal cardinal Borromeo andando a costituire uno dei fondi più importanti della Biblioteca ambrosiana; raccolse attorno a sé un importante circolo di intellettuali, fu il primo ospite di Galileo che poté avvalersi della sua notevole collezione di volumi di ottica; fu in corrispondenza con il fior fiore degli intellettuali europei. Ma prima di tutto questo, nella sua giovinezza napoletana, Pinelli fu veramente un "giovane meraviglioso". Di salute cagionevole, aggravata da un grave incidente a un occhio, fin da bambino si dedicò attivamente allo studio, acquisendo una cultura vastissima e poliedrica. Le cospicue risorse economiche della famiglia (il padre era un mercante genovese trasferitosi a Napoli per meglio curare i propri interessi commerciali) gli permisero di avere i migliori maestri: il filosofo e letterato napoletano Gian Paolo Vernaglione per la cultura classica e le lingue latina e greca; il celebre compositore fiammingo Filippo de Monte per la musica. I suoi interessi includevano anche le scienze: i problemi di vista lo spinsero a studiare ottica; le piante medicinali esotiche che affluivano al porto di Napoli, uno dei principali del Mediterraneo, lo avvicinarono alla medicina e botanica. Fu così che intorno alla metà del secolo il giovanissimo Pinelli fece impiantare in una proprietà della famiglia fuori delle mura della città, sulla collina dei Miracoli in località Montagnola, un giardino botanico privato, sul modello di quello che pochi anni prima Ghini aveva creato a Pisa. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva specie sia medicinali sia ornamentali, ed era ricco di essenze rare ed esotiche. Forse grazie a Ghini, Gian Vincenzo entrò in contatto con il suo allievo prediletto, Bartolomeo Maranta, che rientrato a Napoli da Pisa intorno al 1555, divenne il suo maestro di medicina e botanica, nonché il curatore del giardino. In realtà, fu un arricchimento reciproco: se Pinelli si giovò della grande competenza di Maranta, quest'ultimo fu stimolato dalle intelligenti conversazioni con il dotatissimo allievo. La frequentazione quotidiana del giardino della Montagnola permise al botanico di mettere alla prova le conoscenze apprese alla scuola di Ghini e di creare un vero e proprio metodo per il riconoscimento dei semplici, esposto in Methodi cognoscendorum simplicum libri tres (1559), che volle dedicare a Pinelli (al tempo ventitreenne). Maranta non era il solo frequentatore di quel favoloso giardino; un altro habitué fu il farmacista Ferrante Imperato che ne ottenne esemplari per la sua collezione e rese omaggio a Pinelli nella prefazione della sua Historia naturale, dove lo celebra come fondatore della scuola naturalistica napoletana. Tuttavia nel 1558 Gian Vincenzo riuscì finalmente a convincere il padre a lasciarlo partire per Padova. Non sappiamo quale sorte avesse il giardino dopo la sua partenza; pare che per qualche tempo fosse affidato alla cura di Maranta che tuttavia a sua volta lasciò Napoli a più riprese (e per un certo periodo, nel 1562, subì anche il carcere dell'Inquisizione). Probabilmente, lontani il proprietario e il curatore, il giardino languì e fu abbandonato. Non di meno, anche a Padova Pinelli continuò a interessarsi di scienze naturali; oltre alla ricchissima biblioteca, considerata la maggiore del tempo, creò anche una collezione di antichità e di storia naturale; anche la casa padovana aveva un giardino ricco di piante rare. Soprattutto, fu l'animatore di una rete di studiosi europei, che consentì di collegare gli esponenti dell'umanesimo e della ricerca scientifica italiana con gli studiosi d'oltralpe. La sua stessa casa - meta irrinunciabile degli intellettuali stranieri in visita in Italia - divenne in un vero centro di smistamento da cui transitavano lettere, libri, pacchi di reperti. Ad esempio, Imperato si rivolse a lui per far pervenire un pacco (che conteneva tra altri esemplari una collezione di semplici essiccati) al botanico tedesco Camerarius; e a Pinelli fece spesso ricorso per procurarsi reperti rari per il suo museo. Fu sempre Pinelli a mettere in contatto Clusius con Imperato e Aldrovandi. Anche Gessner e i fratelli Bahuin furono tra i suoi contatti. Dopo aver fondato in giovinezza un giardino, nella maturità Pinelli fu dunque uno dei principali tramiti tra la botanica italiana e quella europea. Questi i suoi meriti botanici; qualche informazione in più sulla vita del poliedrico erudito, che fu cultore di molte materie ma non scrisse neppure un libro, nella sezione biografie. ![]() Pinellia, un drago verde dalla Cina Al fervore di studi della Napoli rinascimentale, seguì una lunga pausa. Bisognò attendere il Settecento perché rifiorissero gli studi di botanica e addirittura il 1807 perché Napoli avesse il suo orto botanico. Per una singolare coincidenza, sorse proprio in località Montagnola, dove 250 anni prima Pinelli faceva coltivare il suo orto dei semplici. Se ne ricordò Michele Tenore, primo prefetto dell'orto napoletano, nell'agosto del 1839, quando creò un nuovo genere, staccandolo da Arum. Nella comunicazione all'Accademia reale delle scienze si dichiara deciso a imitare l'esempio dei botanici di tutte le nazioni che quasi ogni giorno creano nomi in onore dei "più distinti cultori della scienza delle piante". Quindi aggiunge: "Di simili omaggi noi scrittori della Penisola mostrar ci dobbiamo più teneri, come quelli che meno frequenti occasioni avendo di tributarli, una schiera non meno numerosa d'illustri nomi negli annali della scienza registrati troviamo, che ne attendono tuttora il meritato favore". La sua scelta cadde dunque su Pinelli, di cui Tenore ricorda i meriti come fondatore del giardino della Montagnola, prima istituzione di questo tipo in Napoli. Nacque così il genere Pinellia della famiglia Araceae. Pinellia è un piccolo genere endemico dell'Asia orientale (Cina, Corea, Giappone) che comprende nove specie, con centro di biodiversità in Cina. Alcune di esse sono relativamente conosciute anche da noi come piante ornamentali, prima fra tutte la famigerata P. ternata. Famigerata perché questa erbacea, per quanto bella e gradevole, si dimostra fin troppo espansiva e volonterosa, tanto da essere ormai considerata una pericolosa infestante. Così, l'anno scorso l'orto botanico di Torino ha chiamato a raccolta amici, studenti, volontari per eradicarla dalle sue aiuole. Eppure in Cina è una specie di notevole importanza etnobotanica, utilizzata nella medicina tradizionale nel trattamento di svariate malattie. Più controllabili e (a mio parere) più attraenti altre specie: in particolare la giapponese P. tripartita, con foglie trifogliate con venature molto evidenti e uno spadice lunghissimo, verde acido, che le ha guadagnato il nome di Green Dragon. Notevole anche il fogliame di P. pedatisecta, che forma una grande ventaglio di lunghe foglioline lanceolate, di aspetto molto esotico. Un po' meno diffusa è la piccola P. cordata, che in alcune varietà ha foglie a freccia o cuoriformi piacevolmente marmorizzate. Qualche approfondimento nella scheda.
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La prima immagine a stampa (1599) di una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, immortala il Museo di Ferrante Imperato, farmacista napoletano, collezionista, studioso di scienze naturali con particolari interessi per la geologia, creatore di un immenso, misterioso e sfortunato erbario. A fine Settecento, l'ancor più sventurato botanico napoletano Domenico Cirillo gli dedicherà il genere Imperata. ![]() Un grande museo napoletano Nel Cinquecento, con la rinascita degli studi naturalistici, inizia anche il collezionismo dei naturalia, oggetti più o meno rari e curiosi tratti dai tre mondi della natura (minerali, animali, piante). Le prime collezioni private, note come "Teatri della natura", furono create da scienziati, medici e farmacisti. Nate a scopo di studio, furono comunque segnate dal gusto del meraviglioso, dell'esotico e dello stravagante. Quale aspetto potessero avere lo vediamo dall'illustrazione che apre l'Historia naturale di Ferrante Imperato, creatore di un celebrato museo presso la sua abitazione napoletana (che si trovava in piazza santa Chiara, nei pressi di palazzo Gravina, e non nello stesso palazzo, come si dice in molti siti). L'immagine ci mostra tre pareti della sua "camera delle meraviglie"; su quella di sinistra, e in parte su quella di fondo, illuminata da una grande finestra, una elegante scaffalatura in legno custodisce scatole, sacchetti e boccette; sulla parete di fronte, una libreria con imponenti volumi in folio; nella parte alta delle scaffalature, uccelli impagliati; la parete di fondo e il soffitto sono letteralmente tappezzati di animali, soprattutto marini, tra tutti spicca un coccodrillo. In primo piano, sulla destra un giovane (probabilmente Francesco, figlio di Ferrante Imperato) mostra la collezione a due visitatori, elegantemente vestiti alla spagnola. Sul fondo, un po' in disparte, un quarto personaggio, che potrebbe essere un terzo visitatore o lo stesso Ferrante Imperato (è vestito con la stessa pomposa eleganza dei "turisti", ma non porta la spada, privilegio dei nobili). Insieme a quelli allestiti da Ulisse Aldrovandi a Bologna e da Francesco Calzolari a Verona, il museo napoletano di Imperato era noto in tutta Europa ed era meta di numerosi visitatori. Secondo le testimonianze dell'epoca, comprendeva dodicimila reperti tratti dai tre regni della natura (minerali, fossili, pietre preziose e gemme, terre, coloranti, conchiglie, animali imbalsamati, pesci e animali marini essiccati, oli, inchiostri, profumi, balsami e resine, erbe secche e semi) e alcuni artificialia, oggetti curiosi creati dall'uomo, che Imperato parte aveva raccolto personalmente nei suoi viaggi nel sud d'Italia, parte aveva acquistato alla fiera di Francoforte - che a quanto pare frequentò assiduamente -, parte aveva ottenuto come dono o in scambio da altri membri della grande rete che raccoglieva i naturalisti europei. Fondato probabilmente intorno al 1566 - come si deduce dal contratto con gli stipettai che realizzarono i mobili - nacque dapprima dalla stessa professione di farmacista. Lo speziale-farmacista, un professionista che non aveva formazione universitaria ma un vasto sapere pratico, acquisito dopo un lungo apprendistato regolato dagli statuti della propria corporazione, preparava le medicine prescritte dai medici, partendo dai semplici: non solo erbe, spezie e altri prodotti di origine vegetale come resine e balsami, ma anche minerali e persino alcuni animali (la carne di serpente era un ingrediente indispensabile della celebre teriaca). La sua bottega includeva perciò un vero e proprio laboratorio, con mortai, alambicchi e altre attrezzature per pestare, impastare, distillare i preparati "galenici". Non si vendevano solo droghe medicamentose, erbe medicinali e preparati farmaceutici, ma anche quei prodotti che in futuro spetteranno al droghiere: spezie alimentari; candele, cera, miele, zuccheri e conserve; carta, inchiostro e colori per la pittura; insetticidi e veleni per i topi; profumi, acque distillate e belletti... Non stupisce dunque che due farmacisti di successo come Imperato e Calzolari abbiano trasformato le loro botteghe in veri e propri musei. Le due istituzioni erano piuttosto simili: entrambe si trovavano al primo piano, sopra il negozio, comprendevano una galleria di ritratti di scienziati illustri e la vera e propria camera delle meraviglie; quello di Imperato comprendeva anche un terrazzo con un piccolo giardino botanico pensile. Sia Calzolari sia Imperato erano inseriti nel circuito dei naturalisti europei e italiani, da cui ricevettero molti materiali per le loro collezioni, e godevano di un notevole prestigio personale. Ma mentre il veronese si accontentò di essere un farmacista, Imperato nutriva maggiori ambizioni; la sua bottega era un vero e proprio laboratorio, in cui lui stesso e altri studiosi potevano condurre ricerche e esperimenti. Celebre la sua collaborazione con Bartolomeo Maranta, il cui frutto fu Della theriaca et del mithridato libri due, firmato dal solo Maranta ma nato dal sodalizio scientifico tra i due. Come naturalista, l'interesse principale di Imperato andava ai minerali e alla geologia: osservatore attento del territorio campano, studiò gli affioramenti geologici, descrisse con esattezza le serie stratigrafiche osservate nelle cave di pozzolana, comprese e spiegò correttamente la natura dei fossili, il ruolo delle acque nel modellamento nel terreno, l'origine della salinità marina. Espose le sue ricerche in un vasto trattato, Dell'Historia naturale, pubblicato nel 1599 a cura del figlio Francesco, in cui studiò terre, acque, aria, minerali, metalli, erbe e animali soprattutto dal punto di vista della loro utilità per l'uomo. Alle citazioni degli autori del passato vi affianca i risultati delle sue osservazioni, spesso in dissenso con le idee ricevute e ricche di intuizioni corrette. ![]() Un erbario leggendario e sfortunato A fare la parte del leone nel trattato sono le terre, i minerali, i metalli. A animali e piante, forse per non entrare in competizione con ammirati studiosi come Mattioli, Imperato dedicò solo gli ultimi due libri; vi compiono una manciata di piante per lo più officinali, nuove, di identificazione discussa o poco note. Ad esempio, vi troviamo una delle prime segnalazioni della melanzana rossa (Solanum aethiopicum). Eppure la botanica rientrava tra gli interessi principali del poliedrico studioso e il suo erbario costituiva uno dei punti di forza del Museo. Ci sono giunte informazioni contrastanti sulla sua consistenza: le piante, sistemate su fogli di carta di formato in folio con un particolare trattamento che conservava i colori naturali, erano raccolti in grandi volumi, dieci secondo alcune testimonianze, 80 secondo altre. Dopo la morte di Imperato (avvenuta dopo il 1615), il figlio Francesco ne custodì l'eredità, incrementando addirittura le raccolte. Le generazioni successive tralasciarono invece il museo: le collezioni furono abbandonate e disperse, probabilmente anche in seguito all'epidemia di peste che devastò Napoli nel 1656. Nel Settecento i 9 volumi superstiti del grande erbario pervennero a Sante Cirillo, medico, botanico, membro della Royal Society, che li trasmise al nipote, il grande botanico Domenico Cirillo. Costui partecipò attivamente alle vicende della Repubblica partenopea; dopo il crollo della repubblica e il rientro dei Borbone, fu arrestato, processato e condannato a morte. Il giorno stesso della sua esecuzione, il governo borbonico permise a una folla di fanatici sanfedisti di saccheggiarne la casa, distruggendo molti scritti e materiali scientifici di inestimabile valore, incluso l'erbario di Imperato. Fortunosamente, si salvò un solo volume, che pervenne a uno storico locale, Camillo Minieri Riccio, e nella prima metà dell'Ottocento fu venduto alla Biblioteca nazionale di Napoli, dove è oggi custodito. Il volume superstite, di 536 pagine, comprende 442 esemplari. Supponendo vera l'informazione secondo la quale l'erbario originariamente fosse composto da 80 volumi, e ipotizzando che ciascun volume fosse di dimensioni analoghe, si arriverebbe alla favolosa cifra di 35.000 esemplari secchi. Per capirne l'enormità basti pensare che il coevo erbario di Cesalpino (del 1563) contiene 768 esemplari e quello di Caspar Bauhin (il più grande dell'epoca) ne raccoglieva circa 4000. Anche se la cifra fosse fantasiosa, e fosse da accettare l'ipotesi più prudente di 10 volumi, l'erbario rimarrebbe comunque il più imponente del suo tempo. Testimonianze dell'epoca ci dicono che era ricco di piante esotiche, ottenute da altri studiosi o acquistate a grande prezzo; Imperato avrebbe addirittura finanziato un viaggio in India per procurarsene alcune. Per maggiori informazioni sulla vita di Imperato, si rimanda alla biografia. ![]() Imperata, una bella invasiva Parti dell'erbario di Cirillo sfuggirono alla devastazione sanfedista e passarono al botanico Vincenzo Petagna (1730–1810). Mescolati ad essi, si trovano circa 170 esemplari di provenienza sconosciuta, che in base a recenti analisi potrebbero aver fatto parte dell'erbario di Imperato. Alcuni di essi sono storicamente importanti, perché costituiscono i tipi su cui si basò Cirillo per stabilire denominazioni binomiali, alcune delle quali ancora accettate. Fu proprio su uno di questi esemplari (da lui denominato Imperata arundinacea, oggi I. cylindrica) che Cirillo stabilì il genere Imperata, dedicato all'illustre predecessore, pubblicato nel secondo volume di Plantarum rariorum regni neapolitani (1788-1792). Imperata è un piccolo, ma diffuso genere di erbe tropicali e subtropicali (famiglia Poaceae). Sono erbe perenni rizomatose, con steli solidi, eretti e infiorescenze setose, cui si deve il nome comune inglese satintail "coda di raso". Oggi le si attribuiscono undici specie, diffuse nelle Americhe, in Asia,in Africa, in Micronesia e in Papuasia, dopo il distacco di altre specie, assegnate a generi affini (Miscanthus, Saccharum, Lagurus, Cinna). La specie più nota, I. cylindrica, è ubiquitaria: originaria dell'Asia, del Sud Africa e delle isole del Pacifico, è stato introdotta nell'Europa meridionale e in America, dove spesso si è naturalizzata, diventando a volte invasiva. Nei paesi originari è invece una specie di estrema utilità: è estesamente utilizzata per consolidare aree litoranee sabbiose e altri terreni franosi; gli steli secchi sono utilizzati per ricoprire i tetti, intrecciare tappeti e borse, fare la carta. Alcune cultivar sono coltivate per il valore ornamentale; la più diffusa nei giardini è la giapponese I. cylindrica 'Red Baron', con foglie rosse. Qualche informazione in più nella scheda. Imperato è anche ricordato da una specie di zafferano, Crocus imperati, endemismo presente esclusivamente nell'Italia centrale e meridionale. Se pensate che le calceolarie si chiamino così perché i loro singolari fiori assomigliano a una pantofola, in latino calceolus, non sbagliate. Ma molto probabilmente, il vecchio Linneo (e prima di lui il padre Feuillée) volle fare un gioco di parole e prendere due picconi con una fava: chiamò quel genere di piante sudamericane Calceolaria non solo per la forma dei loro fiori, ma per rendere omaggio a un altro protagonista della botanica rinascimentale, il farmacista veronese Francesco Calzolari. ![]() Esplorando il Giardino d'Italia Parlare di Francesco Calzolari vuol dire parlare del Monte Baldo. Il Baldo è un massiccio montuoso che separa il lago di Garda e la provincia di Verona dal Trentino, il bacino del Mincio da quello dell'Adige, celebre per la grande varietà floristica, che gli ha guadagnato il soprannome di Hortus Italiae, il giardino d'Italia. E' una sorta di orto botanico naturale in cui si susseguono almeno quattro fasce floristiche e climatiche: la fascia mediterranea, estesa lungo le rive del Garda, con la coltivazione dell'olivo e degli agrumi e essenze tipicamente mediterranee, come il leccio, l'alloro, il rosmarino, lo scotano; la fascia montana caratterizzate da boschi di faggio, tiglio, carpino nero, abete bianco, larice e peccio, e più in alto, oltre i 1000 metri, praterie ricche di erbe; la fascia boreale, dominata dal pino mugo e caratterizzata da fioriture vistose e dalla presenza di molti endemismi, come l'anemone del Baldo, Anemone baldensis; la fascia alpina, la più elevata, con la vegetazione rupestre delle cime più alte, tra i 2000 e 2200. La varietà di altitudine, esposizione e suolo crea un'infinità di microclimi e nicchie ecologiche più o meno vaste, ciascuna con una flora caratteristica; ma facciamolo raccontare da Francesco Calzolari stesso: "Cotanta è poi nello stesso monte la varietà dei luoghi e delle cose, che troppo lungo sarebbe tutte con ordine ricordarle. Imperciocchè vi sono valli non picciole in esso di vivo masso, erte, e inchinate, e scheggiose, e forte sparute; così viceversa praterie di pascoli assai pingui ed ampie, smaltate di varia spezie d'erbe e di fiori, e alcune di loro piane ed ombrose, ed altre inchinate ed apriche. [...] E per non dilungarmi lascio da parte le frondose e folte selve di faggi, di querce e d'elci, e alcune di soli castagni, et altre in cui vengono i silvestri pini, i larici e gli altissimi abeti. Del resto che dirò del variare dell'aria e del cielo! Cose mirabili certamente! conciossiachè quelli che tutta cotesta montagna van discorrendo, provan dell'aere, anche a brevi intervalli, grande variazione; per modo che sembra a parecchi di aver cambiato clima, non che paese, e ciò perché questa parte è volta al levar del sole, quella al cadere; alcuna dal sole è abbruciata, ed altra a perpetua ombra soggiace. Qua il sito è freddo in tutta la state per neve e per gielo; là poi per calore divampa. A certe altre parti quasi per tutto l'anno v'ha una temperatura da primavera; per la quale la diversità di luoghi e di siti la cotanto diversa copia di piante in questo terreno germoglia, che non più in nessun altro d'Italia." Di questo orto botanico naturale, Francesco Calzolari si autonominò esploratore e prefetto. Erede di una ben avviata farmacia che sorgeva proprio sulla piazza delle Erbe di Verona, allievo e amico di Luca Ghini, sulle pendici del Baldo andò a cercare le erbe medicinali che altri coltivavano negli orti botanici, con le quali mise a punto una teriaca, elogiata da Mattioli. In contatto con molti dei bei nomi della botanica rinascimentale italiana, organizzò molte spedizioni di esplorazione scientifica della montagna, la più celebre delle quali avvenne nel 1554 e vide la partecipazione, insieme a Calzolari, di Ulisse Aldrovandi, Luigi Anguillara e Andrea Alpago. Una dozzina di anni dopo (1566) l'esperienza si tradurrà nel più noto scritto di Calzolari, Il viaggio di Monte Baldo, una specie di guida floristica del massiccio montuoso, con un puntiglioso elenco delle sue specie e della loro localizzazione. E' un'operina di appena 16 pagine, famosa per essere la prima flora locale in cui si indica l'habitat di ogni specie; qui e nelle sue lettere, il farmacista veronese nomina ben 450 specie diverse che crescevano tra Verona e la cima del Baldo. Una ricchezza che permane: nel bel sito del Parco naturale del Monte Baldo ne sono fotografate e descritte 104. All'esplorazione del monte Baldo (un'area ricca anche di fossili e particolari formazioni geologiche) risale anche la passione di Calzolari per la raccolta di oggetti naturalistici. Nel corso degli anni egli mise insieme un'imponente collezione che sistemò al primo piano della sua abitazione, sopra il negozio di speziale, un vero e proprio museo suddiviso in tre locali: il primo conteneva i ritratti dei più importanti scienziati e medici del suo tempo; il secondo vasi e alambicchi per la distillazione; il terzo, il museo vero e proprio, con spezie, piante, minerali, fossili e curiosità naturali di vario tipo sistemati in teche bene ordinate o appesi scenograficamente al soffitto. Visitato e ammirato dagli scienziati in visita a Verona, il Museum Calceolarium fu uno dei più importanti gabinetti di curiosità del Rinascimento italiano, accanto al Teatro della Natura di Aldrovandi, al Museo allestito a Napoli da Ferrante Imperato, alle collezioni naturalistiche del Granduca di Toscana. Al Baldo è legata anche la pagina più tragica della vita del farmacista veronese: mentre su "alte et asprissime pendici" del monte era alla ricerca di erbe rare per la farmacia paterna, il figlio maggiore, Angelo, a soli 28 anni morì in seguito a uno dei primi incidenti alpinistici ricordati dalla letteratura, dopo venti giorni di penosa agonia. Altre informazioni sulla vita di Calzolari nella sezione biografie. ![]() Calceolariae, scarpette dai colori del sole Il genere Calceolaria fu creato da un sacerdote francese, Louis Feuillée, che tra il 1708 e il 1711 esplorò l'America meridionale. Nell'Histoire des plantes medicinales qui sont les plus en usages de l'Amérique meridionale, descrisse due specie cilene: Calceolaria salviae (probabilmente da identificare con C. integrifolia) e C. foliis scabiosae (presumibilmente C. tomentosa). Feullée aveva in mente la forma del fiore, simile a una babbuccia, ma intendeva anche rendere omaggio a Calzolari (la forma latina del cui cognome è Calceolarius). Nel 1770, in Sistema naturae, Linneo riprese e ufficializzò il nome, e il gioco di parole: a forma di pantofola / dedicata a Calzolari. Il genere Calceolaria, un tempo assegnato alla famiglia Scrophulariaceae, oggi appartiene a una famiglia propria (Calceolariaceae); molto vasto, comprende circa 250 specie americane, distribuite tra il Messico meridionale e la Terra del fuoco, e nettamente distinte in due gruppi: il primo, distribuito dal Messico al Perù, comprende specie tropicali, per lo più andine; il secondo, presente in Cile e Argentina, comprende specie rustiche delle regioni temperate e fredde; alcune specie di particolare fascino vivono nella fredda Patagonia e si spingono addirittura nelle isole Falkland; quelle più note sono erbacee, annuali e perenni, ma alcune sono arbusti alti anche 4 metri. Nei nostri giardini sono presenti soprattutto due gruppi di ibridi: le bizzarre e coloratissime Calceolariae erbacee, note come C. x herbeobryda, con vistosi fiori a palloncino nei colori più caldi e solari (giallo, arancio, rosso, mattone, talvolta bicolori, picchettati e screziati) coltivate soprattutto in vaso o in appartamento; i più alti e robusti ibridi arbustivi C. x fruticohybrida con fiori più piccoli, gialli, utilizzati per lo più come piante da aiuola. Purtroppo sono meno diffuse le perenni rustiche di origine cilena e argentina, alcune delle quali sono esigenti piante da collezionisti da riservare alle serre alpine, ma altre, almeno nel nord Italia, si adatterebbero molto bene alla coltivazione in giardino roccioso, purché protette dalle piogge invernali. Curiose e inconfondibili per la singolare forma dei fiori, le Calceolariae sono anche interessanti per alcune particolarità biologiche; il labbro inferiore della corolla di molte specie (circa l'80 % del genere) è dotato di tricomi ghiandolosi, detti eleofori, che secernono oli non volatili, ricercati come ricompensa dagli impollinatori, gli imenotteri del genere Chalepogenus. Le Calceolariae sono tra le poche angiosperme a utilizzare questa strategia di impollinazione e a produrre questo tipo di oli. Altre informazioni nella scheda. Il nome di Aldrovandi è di quelli che tutti hanno sentito nominare, ma pochi conoscono in modo diretto. L'immensa opera di colui che per quarant'anni a Bologna tenne la prima cattedra di storia naturale, più che nelle pochissime opere a stampa, in cui l'erudizione e le notizie più diverse soffocano i pochi risultati scientifici originali, trovò espressione essenzialmente nel "Teatro della natura", il più antico museo di storia naturale. Ma se la sua Syntaxis plantarum fosse stata pubblicata, forse la storia della botanica sarebbe in parte diversa. A ricordarlo una carnivora acquatica, diffusa in tutto il mondo, ma a rischio di estinzione. ![]() Il grande "Teatro" di un naturalista enciclopedico Bologna, 1549. Un gruppo di cittadini bolognesi incappa in un'accusa di eresia; tra di loro il nobile e colto Ulisse Aldrovandi, che si affretta ad abiurare. Ciò nonostante, è inviato a Roma dove è costretto a trattenersi in attesa del processo. Per passare il tempo, incomincia a interessarsi di archeologia ma soprattutto fa amicizia con un medico francese, Guillaume Rondelet, che si trova a Roma al seguito del cardinale di Tournon. Rondolet, padre fondatore dell'ittiologia, trascina il nuovo amico nelle sue scorribande nel mercato ittico; travolto dal suo entusiasmo, Aldrovandi (che fino ad allora aveva studiato diritto, matematica, logica, filosofia, ma anche medicina) incomincia ad appassionarsi di scienze naturali. Liberato da ogni sospetto d'eresia, quando finalmente rientra a Bologna, decide di completare gli studi medici e di approfondire la zoologia, la mineralogia, la botanica. Una decisione che sarà rafforzata l'anno successivo da un secondo incontro: quello con il grande Luca Ghini che nell'estate del 1551 trascorreva le vacanze a Bologna. Nasce così la vocazione di scienziato universale di Ulisse Aldrovandi, uno dei più illustri studiosi della natura del Cinquecento italiano. Presso l'ateneo bolognese fu lettore di logica dal 1554, insegnante di botanica medica dal 1556, e dal 1561, per quasi quarant'anni (fino al 1600) titolare della prima cattedra di scienze naturali (lectura philosophiae naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalibus). Si noti che, diversamente da quanto avveniva in quegli anni negli altri atenei, non era una cattedra di "materia medica", cioè di botanica applicata alla medicina, ma proprio l'insegnamento a tutto tondo delle scienze naturali. Un'altra novità si aggiunse almeno dal 1567, quando Aldrovandi prese a far seguire le lezioni accademiche da esercitazioni pratiche, basate sull'osservazione diretta di esemplari naturalistici ("mostrando realmente le cose, doppo il legger che haveva trattato nella lettione"). Nacque così il più antico museo di storia naturale: nel corso di un cinquantennio, Aldrovandi raccolse nella sua stessa casa un'imponente collezione di naturalia; proprio per il focus sul mondo naturale e gli intenti didattici, era ben diversa dai gabinetti principeschi e delle Wunderkammer che nascevano proprio in quegli anni. Con orgoglio, Aldrovandi ci informa che nel 1595 la sua collezione comprendeva 18.000 esemplari, tra cui 7000 piante essiccate "agglutinate" (cioè incollate) in quindici volumi, animali, minerali, pietre, 66 cassettiere con 4500 cassetti contenenti semi, frutti, gomme, fossili, oggetti esotici. Nella coscienza dell'importanza didattica dell'immagine, ma anche per colmare i "buchi" della collezione (un microcosmo che mirava a riprodurre, nel modo più completo possibile, il macrocosmo), Aldrovandi volle aggiungere 3000 splendidi acquarelli, raccolti in 17 volumi, e 5000 matrici xilografiche conservate in 14 armadi. Le matrici, realizzate con estrema accuratezza da artisti dotati, avrebbero dovuto andare a illustrare un'immensa Historia naturalis, che lo studioso bolognese continuò a scrivere per tutta la vita ma che, come vedremo meglio, pubblicò in ben piccola parte. Tutto questo, insieme ai volumi della ricca biblioteca e i suoi stessi manoscritti, andava a formare un mirabile "Teatro della natura" che divenne ben presto, oltre che uno strumento didattico, un'attrazione che richiamavano visitatori da tutta Europa: nel corso della vita dello scienziato, come risulta dal registro dei visitatori, furono più di 1500, sempre accolti con disponibilità e calore, secondo la testimonianza dell'olandese Hugo Blotius, bibliotecario imperiale, che la visitò ammirato nel 1572. Frutto di cinquant'anni di fatiche e di grandi spese (in una lettera al fratello, il naturalista dichiara di avervi investito tutto il proprio patrimonio), il "Teatro della natura" venne realizzato in primo luogo con una mirata attività di raccolta diretta. Fin dagli anni degli studi, Aldrovandi organizzò numerose spedizioni naturalistiche; le più celebri sono l'escursione dell'estate 1554, che, insieme a Calzolari e Anguillara, lo portò sulle pendici del monte Baldo, ancora oggi noto come "giardino d'Europa" per la grande varietà di vegetazione; e la grande spedizione del 1557, quando insieme ai suoi allievi percorse un ampio giro che, a partire dalle valli ravennati, lo portò fino ai monti Sibillini, quindi sulla via del ritorno lungo l'appennino marchigiano e romagnolo. Secondo Anna Pavord, questo viaggio segnò una tappa nella storia della botanica, perché fu la prima escursione naturalistica appositamente organizzata allo scopo di esplorare sistematicamente la flora di un'area specifica. Altri esemplari furono donati da sponsor e corrispondenti, in particolare i membri di quella stupefacente rete di studiosi che nel Rinascimento collegava tra loro i naturalisti europei e, nonostante le guerre e le infinite difficoltà di viaggi che avvenivano ancora a cavallo, in carrozza, ma spessissimo a piedi, produceva un incessante scambio di libri, semi, piante essiccate, minerali e... idee. Diverse piante esotiche erano coltivate nell'Orto botanico della stessa università di Bologna, che venne creato dal senato bolognese nel 1568 (quarto dopo Pisa, Padova e Firenze) su istanza di Aldrovandi che ne fu il curatore fino alla morte. Altre notizie sulla vita del grande studioso nella sezione biografie. ![]() L'eredità botanica di Aldrovandi In questo blog abbiamo incontrato già molti esempi di opere importanti e innovative che, mai pubblicate, rimasero manoscritte a coprirsi di polvere negli scaffali di una biblioteca. La sorte delle opere di Aldrovandi fu, forse, ancora peggiore. Nella sua vita scrisse moltissimo; le sue opere manoscritte ammontano a più di 300, per un totale di oltre 160 volumi. Solo 14 furono pubblicate. Genio universale e enciclopedico, Aldrovandi scrisse di molti argomenti, anche non attinenti alle scienze naturali (la sua prima opera a stampa, dedicata alla statuaria romana, è uno dei primi esempi della rinascita dell'interesse per l'archeologia); molte opere sono compilazioni antiquarie, che lasciano largo spazio alle favole e al gusto del meraviglioso; moltissimi sono cataloghi di vario tipo. Si tratta per lo più di lavori preparatori alla progettata Storia naturale, che avrebbe dovuto toccare tutti gli aspetti della natura. Come possiamo evincere dalle tre parti direttamente pubblicate dall'autore o dalla sua vedova (i volumi sugli uccelli, gli insetti e gli altri animali "senza sangue"), similmente alla quasi contemporanea Historia animalium di Gessner (che fu tra i corrispondenti del bolognese), essa si collocava a cavallo tra passato e futuro; da una parte c'è l'enciclopedismo, il tributo alla cultura antica, il gusto antiquario, che li infarciscono di citazioni e informazioni tratte in modo apparentemente acritico dagli autori del passato; dall'altra la ricerca diretta sulla natura che si traduce in preziose osservazioni sull'anatomia e la fisiologia di ciascun animale. Fu questa commistione di naturalismo e gusto antiquario che fece giudicare severamente Aldrovandi da Buffon, secondo il quale, sfrondandola di tutte le informazioni inutili e estranee, la sua opera si sarebbe potuta utilmente ridurre a un decimo. In effetti vi si riconosce una concezione della conoscenza diversa da quella del Settecento illuminista o dei nostri giorni: l'opera di un Aldrovandi o di un Gessner è espressione dell'ideale rinascimentale della copia, parola latina che indica l'abbondanza, la ricchezza, espressa iconograficamente dall'immagine della cornucopia. L'obiettivo dello studioso rinascimentale è quello di presentare, nel modo più esaustivo possibile, ogni possibile informazione sul proprio soggetto, quindi tutto ciò che è stato scritto, tutto ciò che si crede comunemente, oltre a tutto ciò che si è osservato con i propri occhi. Ecco perché ai dati naturalistici direttamente osservati e osservabili si affiancano in modo così massiccio informazioni culturali di ogni genere, comprese le favole e il meraviglioso. Già segnata da questa concezione, che sarebbe stata ben presto superata da Galileo e dalla sua scuola, la fama futura di Aldrovandi fu ancor più danneggiata dalla pubblicazione postuma di alcune opere in forma largamente alterata. E' il caso dell'unico lavoro edito dedicato al mondo vegetale, Dendrologia, pubblicato nel 1667 da Ovidio Montalbani, uno scrittore particolarmente incline al fantastico. E' a un'opera come questa (e alla celebre Monstruorum historia, pubblicata nel 1642) se allo scienziato bolognese è toccato di passare alla storia, oltre che come un pedante collezionista di citazioni antiquarie, come un credulone acriticamente convinto della reale esistenza di draghi, basilischi, sciapodi, cinocefali e sirene. Inedita rimase invece la maggiore opera botanica di Aldrovandi (che, consapevole del suo valore, ne raccomandò inutilmente la pubblicazione nel testamento), la Syntaxis plantarum. E' un manoscritto in due volumi, per un totale di più di 1000 carte, collocabile tra il 1561 e il 1600, che consiste in una raccolta di 1700 tavole sinottiche, in cui le piante vengono descritte, catalogate e confrontate tra loro in tabelle collegate a disegni. Ciascuna tavola è strutturata in base a un criterio di classificazione o "chiave" in ordine gerarchico, stabilendo classi, generi e specie, allo scopo di individuare categorie comuni alle "diciotto mila specie diverse" osservate da Aldrovandi. Molte tavole sono dedicate agli organi principali delle piante, per esempio i frutti, i semi, le radici, il fusto; quelle più complesse riguardano i fiori, con chiavi come il numero, il colore, le differenze esterne degli stami e delle antere. Altre si basano su caratteristiche fisiologiche, come il tempo della fioritura, sulla base del quale viene anche compilato un calendario mensile; le tavole in cui le piante vengono divise in base alla stazione in cui vivono e alla distribuzione geografica fanno di Aldrovandi un antesignano della fitogeografia. Come Cesalpino, un altro discepolo di Ghini, Aldrovandi giunge così a proporre un proprio sistema di classificazione. Egli divide le piante in "perfette" e "imperfette" e individua 17 gruppi, a partire dagli alberi per giungere agli "imperfecti" (piante senza semi, cioè in gran parte funghi), usando sei chiavi principali: natali loco, vivendo conditione, partium habitu, quantitate, discriminibus, naturae dotis, ovvero l'habitat, la forma biologica, l'aspetto delle parti, la quantità delle parti stesse, i caratteri distintivi, le doti di natura. Per singole categorie, egli porta esempi concrete di species. Alcuni studiosi lo ritengono l'antesignano anche del sistema binomiale: in effetti, nel suo erbario e nelle tavole acquarellate molte piante sono contrassegnate da un nome basato su genere e specie; del resto, Gaspard Bauhin, che per primo doveva divulgare questa innovazione, era stato uno dei suoi allievi. Infatti, anche se non furono mai pubblicate, le tavole sinottiche di Aldrovandi nacquero come strumento didattico utilizzato nelle sue seguitissime lezioni; per questa via hanno influenzato il successivo progresso della botanica grazie ai numerosi allievi che furono educati a quel metodo. Accanto a questo lascito immateriale, alla sua morte Aldrovadi lasciò quello concretissimo del suo Teatro; legò infatti per testamento il suo intero patrimonio scientifico, ovvero i manoscritti, la biblioteca e il museo, al Senato bolognese, a condizione che fosse conservato integro; che gli inediti fossero pubblicati; che l'accesso fosse libero a tutti. Il grande museo divenne così di proprietà della città e dell'Università e per tutto il Settecento continuò ad esserne una delle principali attrazioni. Nell'Ottocento varie collezioni furono smembrate tra diversi istituti universitari, finché nel 1907 l'insieme fu almeno in parte ricostruito in una sala di Palazzo Poggi. Perduti molti reperti più deperibili, rimangono scheletri, animali impagliati, fossili, minerali. Il preziosissimo erbario (ne sono rimasti quasi 5000 fogli), uno dei più antichi che ci sia pervenuto, è invece costodito presso l'Orto botanico: benché le piante non siano disposte secondo un criterio riconoscibile e le note si limitino al solo nome, senza indicazione del raccoglitore e del luogo di raccolta, è ragguardevole per l'antichità (fu iniziato probabilmente nel 1551), la vastità, la cura del montaggio. Sono invece custodite presso la Biblioteca Universitaria le tavole acquarellate; quanto alle matrici xilografiche, poche ci sono giunte: molte di esse andarono a alimentare le stufe durante la Seconda guerra mondiale. Grazie a un grande progetto dell'Università di Bologna, l'intero erbario (consultabile qui), tutte le opere a stampa e gli acquarelli sono stati digitalizzati. ![]() Androvanda, una pianta in pericolo Nel 1734, Gaetano Lorenzo Monti, botanico bolognese, presentò una memoria in cui, richiamandosi all'abitudine introdotta da Linneo di onorare gli studiosi più illustri con il nome di una pianta, deplorava che egli avesse dimenticato il grande Aldrovandi. Propose così di nominare Aldrovandia una pianta palustre (la pubblicazione avverrà solo qualche anno dopo in De Aldrovandia novo herbae palustris genere, 1747). Questa specie era già nota ed era stata descritta nel 1696 dal botanico inglese Plukenet, con il nome di Lenticula palustris. Linneo tenne conto dell'appunto di Monti e nel 1753 ne ufficializzò la denominazione, ribattezzando la pianta Aldrovanda vesiculosa (commise forse un piccolo errore ortografico). A. vesiculosa è l'unico rappresentante del suo genere (anche se altre specie forse sono esistite in passato); è un membro della famiglia Droseraceae, da cui differisce in quanto acquatica, ma come le cugine è carnivora; per diversi aspetti ricorda la più nota Dionaea, tanto che Darwin la definì "una Dionaea d'acqua in miniatura". E' un'erbacea priva di radici, che fluttua sulla superficie dell'acqua; le foglie, distribuite regolarmente lungo il fusto in piccoli verticilli a forma di ruota idraulica (da cui il nome inglese water wheel) e sorrette da piccioli con sacche d'aria che aiutano il galleggiamento, hanno lamina reniforme, che si chiude in due valve, dentellate sui bordi. Quando una preda si avvicina, si chiudono rapidamente, intrappolandola. La loro velocità di reazione (10-20 millisecondi) è considerata la maggiore del regno vegetale. La pianta vive in tutti i continenti, escluse le Americhe, ma è diventata sempre più rara a causa della restrizione dell'ambiente naturale e dell'inquinamento delle acque stagnanti ma pulite che predilige, ricche di anidride carbonica e povere di fosforo e di azoto. Se all'inizio del '900 era presente in 379 stazioni naturali note, nel corso del secolo queste si sono drammaticamente ridotte a sole 50, due terzi delle quali concentrate in un'area tra Polonia e Ucraina. In Italia un tempo doveva essere diffusa in un vasto areale; ne sono state recensite 17 stazioni, ma tutte si sono estinte nel corso dell'ultimo secolo: l'ultimo avvistamento, relativo al lago di Sibolla presso Lucca, risale al 1985. In vari paesi, sono in atto azioni per la tutela e la reintroduzione di questa rara specie; in Italia un progetto pilota ha preso avvio nelle regioni Piemonte e Lombardia; esemplari, provenienti dalla Svizzera, sono attualmente coltivati in due orti botanici: il Giardino botanico Rea di Trana, in provincia di Torino, e l'Orto botanico dell'Università di Pavia. Qualche approfondimento nella scheda. Il medico, filosofo e botanico rinascimentale Andrea Cesalpino è il primo a tentare una classificazione delle piante. Anche se a noi può sembrare bizzarra, è perfettamente coerente con la logica aristotelica e con le conoscenze del tempo, tanto che il suo De plantis è considerato il libro più importante della botanica prima di Linneo. A ricordarlo Caesalpina, un genere che per ironia è un vero rebus tassonomico. ![]() Strumenti per organizzare il caos Nel Cinquecento, l'afflusso sempre crescente di piante dall'Oriente e soprattutto delle Americhe aveva scompigliato le file della botanica: ormai essa assomigliava a un campo di battaglia in cui i soldati non sapevano più in quale ruolo dovevano combattere, tanto che qualcuno finiva nel posto sbagliato. L'immagine non è mia: si deve a Andrea Cesalpino, colui che per primo cercò di portare ordine in questo caos. Fin dal vecchio Dioscoride, due erano stati criteri seguiti per organizzare le piante negli Herbaria, i libri di botanica: il più comune era l'ordine alfabetico (in genere sulla base dei nomi greci, come in Mattioli e Fuchs); più raramente, le piante potevano essere raggruppate sulla base di criteri empirici privi di ogni rigore, per lo più connessi alle proprietà terapeutiche vere o presunte. Analogamente i vegetali erano disposti nelle aiuole dei nascenti orti botanici: ancora nel Seicento, in quello di Montpellier le troveremo schierate in ordine alfabetico, con tanto di etichetta con il nome greco. Cesalpino decise di seguire una strada del tutto innovativa: classificare le piante sulla base delle loro caratteristiche intrinseche. Lo fece armato di due strumenti interpretativi non sempre in accordo tra loro: la logica aristotelica e l'osservazione diretta del mondo vegetale, che aveva appreso dal maestro, il grande Luca Ghini. Da Aristotele - e dal suo allievo Teofrasto, l'unico che nell'antichità avesse già tentato questa strada - trasse il metodo, i procedimenti logici e molti concetti fondamentali: per classificare i componenti di un insieme, bisogna procedere per somiglianze e differenze, e per farlo in modo corretto occorre distinguere tra somiglianze sostanziali e accidentali (sono i concetti aristotelici di "sostanza" e "accidente"). Quali sono le proprietà sostanziali di una pianta? Quelle che permettono alla pianta di essere pianta, ovvero di esplicare le proprie funzioni vitali. Poiché le piante sono vive, esse sono dotate di ciò che Aristotele chiamava "anima vegetativa": il principio che governa ogni essere vivente e fa sì che si nutra, cresca, si riproduca. Per Cesalpino, due sono le funzioni essenziali delle piante: il nutrimento e la riproduzione; dunque, saranno gli organi che presiedono a queste funzioni a fornire i criteri di classificazione. La pianta attraverso le radici assorbe il nutrimento, che attraverso il fusto (in base a qualcosa di analogo alla circolazione del sangue, di cui come medico Cesalpino fu uno dei primi brillanti studiosi) giunge agli organi riproduttivi che grazie ad esso potranno esplicare la funzione più importante di ogni essere vivente: riprodursi. Poiché, come tutti i suoi contemporanei, Cesalpino ignorava del tutto la riproduzione sessuale delle piante, ne consegue che gli organi da osservare saranno non tanto i fiori, quanto i frutti e i semi. Degli altri organi della pianta (come le radici e le foglie) si terrà sì conto, ma solo per le classificazioni più minute, in particolare per distinguere specie affini. Saranno invece meri accidenti, da scartare come criteri di classificazione, non solo il gusto, l'odore, il colore (che variano in base al luogo in cui cresce la pianta, o addirittura tra piante selvatiche e coltivate), ma anche gli usi che ne fa l'uomo, comprese le proprietà farmaceutiche, che per secoli erano state il criterio di classificazione fondamentale. Ma prima di procedere alla classificazione, bisogna definire gli enti da classificare. Ancora una volta Cesalpino ricorre ad Aristotele, da cui riprende i concetti di specie (il singolo oggetto) e genere (il raggruppamento di oggetti che condividono caratteristiche simili). Mentre non usa ancora la parola genere nel significato attuale (i suoi generi sono gruppi molto più vaghi, che piuttosto corrispondono a famiglie o gruppi anche più ampi), egli fu il primo a definire la specie nel significato moderno, fornendo anche un criterio di verifica sperimentale: appartengono alla stessa specie piante che si assomigliano nella totalità delle loro parti (al di là delle piccole differenze accidentali) e queste caratteristiche rimangono invariate nelle piante nate dai semi. ![]() Il sistema di Cesalpino Come si sarà notato, il ragionamento di Cesalpino è totalmente deduttivo; procede cioè dall'alto verso il basso, dal generale al particolare (all'opposto del metodo induttivo, che procede dall'osservazione di casi particolari per giungere a conclusioni generali). Ciò significa anche che la sua classificazione ingabbia il mutevole mondo vegetale in una serie di categorie del tutto artificiali, che raramente corrispondono alla realtà (è stato notato che, tra i suoi gruppi, l'unico ad avere una corrispondenza con la realtà, confermato dalle ricerche successive, è quello delle Ombrellifere). Ma questo non annulla il valore pionieristico della sua opera: anche la classificazione di Linneo è del tutto artificiale; bisognerà attendere l'Ottocento perché le conoscenze dei botanici siano sufficienti per procedere a una credibile classificazione naturale. D'altra parte, misuriamo la strada intercorsa tra i due nel fatto che Cesalpino credeva che la sua classificazione fosse naturale e corrispondesse all'ordine dato da Dio all'Universo, mentre Linneo era ben consapevole dell'artificiosità della propria. Torniamo a Cesalpino, che espose i propri criteri di classificazione nei primi due libri del suo capolavoro botanico, De plantis, in sedici volumi (1583), cui segue la trattazione di 1500 specie, organizzate per gruppi sistematici. Il procedimento di Cesalpino segue la logica binaria (fu anche il primo a fornire delle chiavi di classificazione basate sull'opposizione dicotomica). In primo luogo i vegetali sono divisi in due grandi categorie, basate sull'organo che trasporta il nutrimento dalle radici ai frutti: piante legnose (questa categoria raggruppa gli alberi e gli arbusti); piante non legnose (questa categoria raggruppa i suffrutici e le erbacee). All'interno di ciascuno dei raggruppamenti principali, Cesalpino distingue poi cinque sottocategorie, in base al rapporto tra frutto e seme: frutto con un solo seme; semi ripartiti in due loculi; semi ripartiti in tre loculi; semi ripartiti in quatto loculi; semi ripartiti in più di quattro loculi. Ciascuna sottocategoria può a sua volta suddividersi in raggruppamenti minori, in base all'osservazione di caratteristiche particolari dei frutti e talvolta anche dei fiori (Cesalpino fu tra i primi a osservare la posizione dell'ovario, al di sopra o al di sotto degli altri organi fiorali); in totale, i gruppi sono 32, comprendendone anche uno riservato alle piante senza semi, in cui Cesalpino inserisce funghi, muschi e alghe. Ancora una volta mescolando intuizioni moderne e i limiti della scienza del suo tempo, egli era convinto che gli appartenenti a questo gruppo si riproducessero per generazione spontanea. Non diede invece alcuna importanza alle foglie (per la scoperta della fotosintesi bisogna attendere la fine del Settecento), cui attribuiva una semplice funzione di protezione dei frutti e dei semi. Il capolavoro di Cesalpino non ottenne il successo che meritava. Anche se un certo interesse per una classificazione sistematica delle piante si ritrova in alcuni sui contemporanei, la strada maestra percorsa dalla botanica del Rinascimento fu quella dei commenti a Dioscoride e degli erbari, destinati a medici e farmacisti, visto che la botanica continuava ad essere ancella della medicina. Oltre a questa situazione oggettiva, contribuì il fatto che il libro era stato stampato senza illustrazioni (erano state preparate le xilografie, ma, lo sponsor, il granduca di Toscana Cosimo era morto prima della pubblicazione e il figlio Francesco era meno disponibile a sostenere l'impresa); inoltre il linguaggio filosofico di Cesalpino risulta spesso oscuro e ostico. Esercitò tuttavia un notevole influsso su coloro che dopo di lui ne ripresero la strada (Caspar Bauhin, Ray, Pitton de Tournefort e lo stesso Linneo, che considerava Cesalpino il primo di tutti i botanici e annotò fittamente la sua copia di De Plantis). A Cesalpino (che nonostante la profonda cultura filosofica non era uno studioso libresco e aveva una notevole famigliarità con le piante) si deve anche uno dei primi e più importanti erbari, quello che approntò tra il 1555 e il 1563 per il cardinale Tornabuoni, il primo in cui le piante sono organizzate secondo criteri sistematici. Nella biografia altre notizie su questo importantissimo studioso. ![]() Il rebus di Caesalpinia E' davvero ironico che al pioniere della classificazione delle piante sia stato dedicato uno dei generi dalla storia tassonomica più travagliata. La creazione del genere Caesalpinia (che riprende la grafia latina del cognome Caesalpinus) si deve a Plumier e fu ufficializzata da Linneo nel 1753. Da allora si sono sussesseguite le dispute sui confini e la consistenza di questo genere, che nel corso di 250 anni si allargato e ristretto come una fisarmonica, tanto che alcune specie nel frattempo hanno cambiato nome più di trenta volte. Il gruppo Caesalpinia (una designazione informale proposta nel 1981 da Polhill e Vidal, per comprendere tutte le varie specie affini ora incluse, ora escluse dal genere) comprende alberi, arbusti, rampicanti e qualche erbacea della famiglia Fabaceae (ma si è anche proposto di inserirlo in una famiglia a sé, Caesalpinaceae) presenti nella zona tropicale di tutti i continenti. E' anzi proprio questa estensione, insieme alla difficoltà di individuare caratteristiche morfologiche distintive, ad aver determinato questo rebus. Nel senso più ampio, il genere è arrivato a comprendere fino 250 specie. Nell'ultimo trentennio, gli studi basati sempre di più sulla ricostruzione della storia evolutiva (filogenesi) attraverso le analisi del DNA, hanno ristretto sempre di più queste cifre. Il primo studio che va in questa direzione è proprio quello di Polhill e Vidal, i quali, nell'ambito di una revisione della tribù Caesalpineae, assegnarono al gruppo informale Caesalpinia 140 specie, distribuite in 16 generi. Vari studi che si sono susseguiti tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, hanno via via ristretto i confini del genere, fino a giungere alla drastica riduzione dello studio più recente (Gagnon et alii), che, partendo dall'esame dell'84% delle specie, giunge a conclusioni ben supportate e estremamente convincenti: il gruppo viene spezzettato in 26 generi certi e un ventisettesimo probabile; a Cesalpinia in senso stretto rimangono solo nove specie, tutte americane. E c'è anche una piccola rivincita di Cesalpino, che volle classificare le piante sulla base dei frutti: Gagnon e soci affermano infatti: "A livello di genere, i frutti sono altamente variabili e molto più utili dei fiori a fini tassonomici. Molti dei generi che abbiamo determinato qui possono essere differenziati basandosi sulle caratteristiche dei frutti". Tra le specie più note del vecchio genere Caesalpinia, probabilmente l'unica a conservare il suo nome è Caesalpinia pulcherrima, un arbusto originario delle Antille con spettacolari fioriture dal caldo colore aranciato. Diventa invece Erythrostemon gilliesii (= C. gilliesii), uno splendido arbusto coltivato anche da noi che molti si ostinano a chiamara Poinciana (un genere obsoleto che, diversamente da altri, non è stato resuscitato dall'équipe di Gagnon). Il pernambuco o pau brasil, l'albero che ha dato il proprio nome al Brasile, viene assegnato a un proprio genere monospecifico con il nome Paubrasilia echinata. Un'altra pianta tintoria abbastanza nota, C. spinosa, diventa Tara spinosa. Qualche notizia in più su Caesalpinia (o su quanto ne rimane) nella scheda. Fonte: E, Gagnon, A. Bruneau, C. E. Hughes, L. Paganucci de Queiroz, G. P. Lewis, A new generic system for the pantropical Caesalpinia group (Leguminosae), PhytoKeys 71: 1-160 (12 Oct 2016), http://phytokeys.pensoft.net/articles.php?id=9203 Nella Ferrara del Cinquecento, grazie al favore del suo duca, Antonio Brasavola impianta un orto botanico e mette alla prova le conoscenze farmaceutiche di antichi e moderni usando il metodo sperimentale. Diventa un medico così dotto da guadagnarsi un soprannome onorifico dal re di Francia e la fiducia delle maggiori teste coronate del tempo. A onorare i suoi meriti botanici, la splendida e fragrante Brassavola. ![]() Brasavola, il nuovo Antonio Musa Sebbene più recente e meno famoso degli atenei di Padova o della vicina Bologna, nel Rinascimento anche lo Studio ferrarese, ovvero l'Università di Ferrara, fu un centro di prim'ordine, caratterizzato da grande libertà e apertura culturale, capace di attirare molti studenti stranieri (basti ricordare Niccolò Copernico, che qui si laureò nel 1503). A conferirgli risonanza europea nel campo della medicina e della botanica, fu un personaggio poliedrico che a Ferrara nacque, si formò e insegnò per molti anni: Antonio Brasavola (o Brassavola). Filosofo, precoce commentatore dell'Isagoge di Porfirio (un importante testo del III secolo a.C., su cui si basava l'insegnamento della logica medievale), a soli 19 anni si laureò in filosofia e medicina. Entrato al servizio del duca Ercole II, lo accompagnò in Francia dove il giovane medico ferrarese (al momento aveva 28 anni) ebbe modo di dimostrare le sue conoscenze enciclopediche e la sua abilità dialettica in tre giorni di discussione de quodlibet scibile (ovvero su qualsiasi argomento, a scelta del pubblico) di fronte ai dottori della Sorbona; ammirato, il re Francesco I gli conferì la croce di San Michele e lo ribattezzò Antonio Musa, vedendo in lui la reincarnazione del celebre medico dell'imperatore Augusto (se ne parla in questo post). Il soprannome rimase e dal quel momento il nostro fu per sempre Antonio Musa Brasavola. Contro una scienza medica e botanica tutta libresca (come ancora troviamo anche nella grande opera di Mattioli) egli sente l'esigenza di sottoporre a verifica le reali proprietà dei semplici citati nelle opere degli antichi. Nel 1536 crea l'Orto botanico ("ingens viridarium") del Belvedere, su un isolotto messogli a disposizione dal duca, che viene sistematicamente arricchito con piante esotiche provenienti dalla Grecia e dall'Asia minore - l'area nativa dei semplici descritti da Dioscoride. Fu una delle prime istituzioni del genere, che precede di nove anni Padova: ma mentre l'orto padovano può vantarsi di essere l'orto botanico universitario più antico del mondo, essendo sopravvissuto nei secoli, quello ferrarese andò perduto con le vicissitudini del ducato estense del secondo Cinquecento; l'attuale orto botanico di Ferrara sorge in tutt'altro luogo e risale al XVIII secolo. Grazie ai numerosi viaggi che compie con il duca, Brasavola mette anche insieme uno dei più notevoli erbari del tempo; anche la pratica dell'ortus siccus, ovvero l'idea di sostituire gli erbari figurati con raccolte di piante essiccate, era ai suoi esordi, grazie a Luca Ghini e ai suoi allievi. Il medico farrese sperimenta sistematicamente l'efficacia dei semplici sia sui cani sia su detenuti messi a sua disposizione del duca; i risultati del suo lavoro pionieristico sono esposti nella sua opera maggiore, Examen omnium simplicium medicamentorum, "Esame di tutti i semplici d'uso medico"; si tratta sia di un catalogo di tutte le piante, i semi, i frutti (nonché, secondo il dettato di Dioscoride, delle pietre, terre e metalli con proprietà medicamentose) in uso nelle farmacie di Ferrara, sia una discussione delle loro reali proprietà medicinali, basate sull'osservazione diretta. Come molti suoi contemporanei, Brasavola si preoccupa della corretta identificazione delle piante citate dagli antichi; ad esempio osserva che il cedro descritto da Teofrasto e Plinio è tutt'altra cosa di quello che cresce in Liguria e in Campania, quindi non ha senso attribuire al secondo le proprietà del primo. Ma va molto più in là: è perfettamente consapevole dell'inadeguatezza delle conoscenza degli antichi: “E’ certo che neppure la centesima parte delle erbe è stata descritta dagli antichi ma ogni giorno impariamo a conoscerne di nuove”. Le conoscenze mediche dei classici, oltre ad essere spesso inficiate da fraintendimenti e cattive traduzioni, erano limitate e infarcite di errori; né si può respingere ciò che gli antichi non conoscevano e l'esperienza dimostra efficace: "Noi non vogliamo imitare coloro che rifiutano l'uso del decotto di guaiaco perché gli antichi non ne hanno parlato". Con parole quasi identiche a quelle celebri di Leonardo ("l'esperienza è madre di ogni certezza") Brasavola sottolinea la funzione insostituibile dell'esperienza, "signora di tutte le cose", sia nella ricerca di nuove specie vegetali sia nella verifica delle loro proprietà medicinali. Dottissimo in molti campi, medico appassionato e celeberrimo, conteso da sovrani e pontefici (fra i suoi pazienti illustri si annoverano, oltre ai duchi d'Este Alfonso I e Ercole II, Francesco I di Francia, l'imperatore Carlo V, Enrico VIII d'Inghilterra, il papa Paolo III), era così dedito anche al più umile dei malati da fare sempre tenere pronta la mula - quasi uno status symbol del medico del tempo - per accorrere in caso di necessità a loro capezzale anche più volte al giorno. Dimostrò la sua indipendenza di pensiero confutando le teorie che vedevano nella sifilide (il terribile "mal francese" che aveva cominciato a imperversare in Italia dopo la calata di Carlo VIII del 1495) una punizione divina, identificandone correttamente l'origine e introducendo cure innovative, tra cui, appunto, l'uso del legno di guaiaco. Qualche approfondimento nella sezione biografie. ![]() Brassavola, signora della notte Questo nobile ferrarese, di casa alla corte di principi e pontefici, non avrebbe disdegnato la pianta che ne ha eternato il nome: nobile e sontuosa è infatti la Brassavola (con due esse, mentre nella grafia del cognome del celebre medico si alternano le due forme Brasavola / Brassavola), un'orchidea che Robert Brown ribattezzò in suo onore nel 1813, quando stabilì il genere staccandolo da Epidendrum. Proprio come il suo dedicatario, pioniere della ricerca sperimentale, degli orti botanici e degli erbari, nonché di audaci operazioni chirurgiche (si dice che sia stato il primo a praticare una tracheotomia), anche la Brassavola ha giocato un ruolo pionieristico nella storia della coltivazione delle orchidee. Nel 1698 B. nodosa fu la prima orchidea tropicale ad essere importata e coltivata in Europa: dalla nativa Curaçao, grazie alle navi della Compagnia delle Indie occidentali, approdò a De Hortus, l'appena inaugurato orto botanico di Amsterdam, come attesta il catalogo redatto da Caspar Commelin, e vi fiorì la prima volta nel 1715. Con i suoi delicati fiori bianchi e il soave profumo citrato che inizia a diffondersi verso sera, si guadagnò il soprannome di "Signora della notte" e inaugurò l'inarrestabile passione per le orchidee. Linneo la descrisse in Systema naturae, assegnandola al genere Epidendrum, da cui sarà separata, appunto, per opera di Brown. Il genere Brassavola comprende una ventina di specie, tutte americane (dal Messico fino al Brasile, passando per le Antille), epifite o litofite, con uno pseudobulbo allungato da cui nasce un'unica foglia carnosa. I fiori, solitari o raccolti in racemi, bianchi o bianco-verdastri, colpiscono per le forme singolari: il labello cuoriforme di B. nodosa oppure i lunghissimi sepali e petali di B. cucullata che la fanno assomigliare a un insetto stravagante. Sono proprio queste forme estrose ad aver suscitato l'interesse degli ibridatori. Com'è noto, nella famiglia delle Orchidaceae è possibile ottenere ibridi fertili anche incrociando generi diversi, purché non troppo lontani geneticamente; è quello che, avviene per esempio, incrociando Brassavola con Laelia e Cattleya (i tre generi appartengono alla medesima sottotribù); ecco allora x Brassocattleya, i meravigliosi ibridi tra Brassavola e Cattleya; x Brassolaelia, ibridi tra Brassavola e Laelia; x Brassolaeliocattleya, che discendono da tutti e tre i generi. x Ryncovola è invece un ibrido tra Brassavola e Ryncholelya. Altre notizie nella scheda. Riscoprire l'antichità e viaggiare per studiare la natura dal vivo: sono le due vie maestre percorse dai medici-botanici del Rinascimento; compreso Prospero Alpini che in Egitto vede all'opera l'antica tecnica di impollinazione delle palme e ne deduce la differenziazione sessuale delle piante dioiche. Grande esperto di piante medicinali esotiche e quarto ostensore dei semplici dell'Orto padovano, dona al suo nome all'esotico (e speziato) genere Alpinia. ![]() Dalle palme d'Egitto all'orto di Padova La palma da dattero (Phoenix dactilifera) è un noto esempio di specie dioica, con piante maschili (che producono il polline) e femminili (che danno i frutti). L'impollinazione naturale è effettuata dal vento, ma già in Mesopotamia, almeno 4000 anni fa, si scoprì che la produttività e la qualità dei frutti viene accresciuta con l'impollinazione artificiale. Presso i Babilonesi e gli Egizi, i rami fioriti degli esemplari maschili venivano tagliati e legati sugli esemplari femminili; quello di impollinatore di palme doveva essere un mestiere alquanto pericoloso, visto che occorre arrampicarsi su piante mediamente alte tra i 15 e i 20 metri. L'antichissima pratica era ben nota agli scrittori antichi di cose naturali, come Teofrasto e Plinio, anche se la loro comprensione del fenomeno era parziale. In ogni caso, benché la tecnica fosse rimasta ininterrottamente in uso, in Europa anche quelle limitate conoscenze vennero dimenticate almeno fino al Rinascimento. Tra il 1580 e il 1584, Prospero Alpini, un altro botanico legato al fecondo ambiente padovano, soggiornò in Egitto come medico di Giorgio Emo, console veneziano al Cairo. Ebbe così modo di osservare gli impollinatori delle palme al lavoro e dedusse correttamente che le piante da dattero femminili davano frutto solo se avveniva un mescolamento tra rami maschili e femminili, in modo che la polverina prodotta dai fiori maschili (noi oggi diremmo il polline) cospargesse i fiori femminili. Queste osservazioni gli permisero di essere tra i primi botanici a riconoscere la differenziazione sessuale delle piante. Il libro che Alpini ricavò dal soggiorno in Egitto, De plantis Aegypti liber (1592), contiene la descrizione - accompagnata da illustrazioni di buona qualità - di una cinquantina di specie medicinali, coltivate e spontanee, usate nella farmacopea egiziana del tempo. E' celebre soprattutto per contenere la prima illustrazione europea della pianta del caffè; del caffè e del suo consumo Alpino parla anche in un altro testo dedicato all'Egitto, Aegyptiorum libri quatuor (1591), che contiene informazioni etnologiche, storiche e archeologiche. Alpini era nato a Marostica nel 1553 e si era formato all'Università di Padova, sotto la guida di Guilandino; anzi fu proprio l'esempio del maestro a spingerlo ad accompagnare Emo al Cairo. Rientrato in patria nel 1584, le sue opere sull'Egitto attirarono l'attenzione dei Riformatori dell'ateneo padovano, che nel 1594 lo nominarono lettore dei semplici, la cattedra che era stata di Guilandino ed era vacante dal 1568. Alla morte di Giacomo Cortuso, nel 1603, gli succedette nell'incarico di prefetto dell'Orto botanico di Padova e ostensore dei semplici, riunendo nuovamente le due cattedre (come il suo maestro prima di lui). Il prestigioso incarico, che mantenne fino alla morte nel 1616, fece di Alpini una figura riconosciuta nella medicina e nella botanica europea del primo Seicento; come i suoi predecessori, intrattenne rapporti e scambi di piante con importanti botanici, come Gaspard Bauhin e Camerarius il giovane; incrementò l'importanza dell'orto di Padova come centro di studio e diffusione di piante esotiche, alle quali nel 1614 dedicò De plantis exoticis. Ebbe fama europea anche come medico. La sua attenzione di medico-botanico si rivolse in particolare alle specie medicinali, soprattutto esotiche (egizie, ma anche cretesi); si interessò tuttavia anche alla flora locale: sul monte Grappa raccolse una nuova Campanula, che chiamò C. pyramidalis minor; Linneo la ribattezzò in suo onore C. alpini (assegnata a un altro genere e riunita a un'altra specie, il suo nome attuale è Adenophora liliifolia). Come sempre, qualche notizia in più nella biografia. ![]() Dal Medioevo, una spezia magica Fu decisamente poco fortunato con le dediche linneane, il nostro buon medico di Marostica. Infatti nel 1753 Linneo gli dedicò anche un genere Alpinia, che tuttavia qualche anno dopo confluì nell'affine Renealmia, per opera di suo figlio Carlo il giovane. Ma qualche anno più tardi, a rendere omaggio a Alpini pensò, questa volta in via definitiva, un altro medico-botanico, lo scozzese William Roxburgh, grande esperto di flora indiana. La sua scelta fu quanto mai felice, perché cadde su un genere esotico - come quelli che amava Alpini - che comprende molte piante medicinali. Alpinia Roxb. è il genere più vasto della famiglia dello zenzero, le Zingiberaceae (cui appartiene anche Renealmia, un genere dell'America tropicale), con circa 250 specie; fino a qualche anno fa ne comprendeva circa 400, ma in seguito a una recente revisione tassonomica ne sono stati separati diversi nuovi generi. Native delle aree tropicali e subtropicali dell'Asia, dell'Australia e delle isole del Pacifico, le Alpiniae sono grandi erbacee rizomatose, prive di vero fusto, ma con pseudofusti formati dalle guaine fogliari sovrapposte, che arrivano ai 3 metri (sono noti esemplari giganti di alcune specie, alti fino a 8 metri). I rizomi di alcune specie, estremamente aromatici, trovano impiego in erboristeria e in cucina, come spezie. Dal mio punto di vista, la più affascinante di tutte è A. galanga, ovvero la galanga, una spezia quasi mitica che compare in tutti i ricettari medievali come ingrediente del forte vino speziato dalle proprietà medicamentose, l'ippocrasso. Sebbene sia nota anche come zenzero tailandese - la radice fresca è un ingrediente della cucina thai - il suo aroma solo superficialmente può essere accostato a quello dello zenzero: è molto più rotondo, muschiato, meno aggressivo. Nel Medioevo gli si attribuiva la virtù magica di tenere lontani gli spiriti maligni. Caduta in disuso, fino a epoca recente è stata introvabile da noi; oggi è possibile trovare la radice fresca in rete o in negozi specializzati in prodotti alimentari esotici; come del resto già in epoca medievale, è molto costosa. Anni fa, immaginate con quanta eccitazione, mi capitò di acquistarne radici essiccate (cioè esattamente la spezia usata nel Medioevo) nel bazar di Aleppo. E vi posso assicurare che è vero, l'ippocrasso preparato con la galanga è un'altra cosa. Altre specie di Alpinia, tuttavia, sono interessanti, anche come piante ornamentali, tanto che alcune sono state introdotte nei giardini tropicali di tutto il mondo. Di alcune di loro si parla nella scheda. Medico papale, ma anche poeta, Castore Durante inventa una formula vincente per il suo Herbario, che per circa duecento anni sarà un'opera di riferimento per medici e farmacisti. Guadagnandosi anche la dedica del genere Duranta da parte di Linneo, con la mediazione del solito Plumier. ![]() Versi mnemonici e xilografie pirata Tra gli amici e corrispondenti di Cortuso, con il quale scambiava poesie piene di elogi reciproci, troviamo anche la poliedrica figura di Castore Durante, archiatra papale e poeta bilingue. Autore di traduzioni in ottave dell'Eneide e di poemi sacri in italiano e latino, si fece una fama di medico e erborista, ovvero semplicista nel linguaggio del tempo, che lo portò a Roma come archiatra e titolare di una cattedra di "semplici" all'Archiginnasio. Frutto di vent'anni di pratica medica e di ricerche (più libresche che sul campo) è il suo Herbario nuovo (1585) che nel panorama dell'editoria botanica del tardi Rinascimento si distingue non per la dottrina o le novità scientifiche - si tratta essenzialmente di un'opera compilativa - ma per la singolare veste editoriale che gli assicurò un successo duraturo. In primo luogo è un'opera agile, volutamente divulgativa che per lo più condensa in una singola colonna la trattazione di ciascuna delle quasi novecento sostanze presentate, in uno stile chiaro e gradevole. Ma soprattutto ad attirare i curiosi, oggi come allora, sono i versi latini che aprono ciascuna voce, sintetizzando in poche righe, pensate per essere apprese a memoria, le virtù di ciascun semplice. Seguono, poi in lingua italiana - altra singolarità del libro è dunque di essere bilingue - i nomi (in greco, latino, italiano e talvolta altre lingue, compreso l'arabo), una succinta descrizione ("forma"), indicazioni sull'habitat ("loco"), le virtù, distinte in "di dentro" e "di fuori" (noi oggi diremmo per uso interno e esterno). Durante fu attento alle novità che arrivavano dal Mediterraneo orientale e dalle Indie; ad esempio, fu tra i primi a dedicare una voce al tabacco, da lui chiamato erba di Santa Croce, dal nome del cardinale Prospero di Santa Croce, nunzio apostolico in Portogallo, che nel 1561 ne riportò a Roma alcuni semi, probabilmente di Nicotiana rustica. Come i suoi contemporanei, anche Durante non manca di elogiare la pianta come panacea di tutti i mali e la celebra in versi latini, che vennero poi anche ripresi e ripubblicati in una miscellanea edita ad Amsterdam. Un elemento di successo del libro furono sicuramente le xilografie che accompagnano ciascuna voce, stilizzate e essenziali - spesso si tratta di plagi semplificati di tavole del Kreüterbuch di Fuchs e dei Ragionamenti di Mattioli - ma proprio per questo di sicuro effetto decorativo. Furono realizzate dall'incisore Leonardo Parasole, originario di Norcia, ma attivo a Roma, dove dirigeva una bottega di incisori-tipografi nella quale lavoravano i suoi fratelli, ma anche due notevoli artiste, sua moglie Girolama e sua cognata Isabella (o Elisabetta). E' purtroppo infondata la notizia, ampiamente ripresa dalla rete, che Leonardo Parasole abbia realizzato le xilografie su disegni della moglie Isabella (che, come si è visto, in realtà era sua cognata) o che quest'ultima abbia realizzato le xilografie della terza edizione. Dico purtroppo, perché se l'informazione fosse stata vera si sarebbe trattato di una delle prime illustratrici botaniche. Ma torniamo all'Herbario nuovo; dopo la prima edizione, uscita a Roma nel 1585, fu più volte ristampato da editori veneziani; dopo oltre ottant'anni dal sua uscita, ne venne approntata una seconda edizione - sempre a Venezia - curata da uno speziale veneziano, che integrava molte piante esotiche giunte in Europa nel frattempo (come ribes, tè, cacao); una terza edizione ci porta addirittura al 1718, segno del duraturo successo dell'opera, che nel Cinquecento era stata tradotta anche in tedesco e in spagnolo. Quanto a Durante, il medico-poeta nel 1586 bissò il successo con il Tesoro della sanità, un manuale di consigli igienici e ricette di medicina popolare che in parte tocca anche la botanica, dato che la seconda parte è dedicata agli alimenti giovevoli o nocivi. E' un altro testo divulgativo semplice e chiaro, che ebbe undici edizioni nel Cinquecento e ventiquattro nel Seicento, affermandosi come prontuario di facile lettura. Durante, nato nel 1529, era già in età avanzata al momento di questi successi editoriali, immediatamente dopo i quali si ritirò a Viterbo, dove morì nel 1590. Altre notizie nella biografia. ![]() Duranta, grappoli azzurri per i climi miti La grande diffusione dell'Herbario di Durante giustifica l'omaggio che volle tributargli Plumier nel suo Nova plantarum americanarum genera, dedicandogli la Castorea (nome quindi ricavato non dal cognome, ma dal nome di battesimo del medico umbro). A sua volta Linneo, nel 1754, riprese la dedica, ma fissò il nome del genere in Duranta, sulla base del cognome, secondo la regola da lui stesso stabilita. Duranta è un genere di circa 20 specie di arbusti e piccoli alberi della famiglia Verbenaceae, originari dell'America subtropicale e tropicale, dalla Florida all'Argentina. Alcune specie sono state introdotte nei giardini come piante ornamentali, per le fioriture, bianche o viola, e le bacche, arancio brillante o giallo dorato. Per questa via, soprattutto D. erecta, la specie più nota e coltivata, si è naturalizzata nella fascia tropicale, tanto da essere considerata invasiva in Australia, Cina, Sud Africa e in alcune isole del Pacifico. Questa specie (nota anche con il sinonimo D. repens) è un piccolo arbusto dal portamento variabile - talvolta eretto, talvolta strisciante, talvolta arboreo - originario del Centro America, con piccole foglie ovali persistenti; dall'inizio dell'estate all'autunno, all'apice dei fusti porta lunghe pannocchie di fiori viola chiaro o blu con margine bianco; molto decorative anche le bacche dorate, che persistono per settimane (sono però tossiche, come anche le foglie). Qualche notizia in più, soprattutto sulle cultivar selezionate negli Stati Uniti e in Australia, nella scheda. Almeno nei confronti di un collega il supponente e iracondo Mattioli si espresse solo con elogi, tanto da dare il suo nome a una pianta che proprio questi aveva scoperta. Inaugurò così un costume destinato a grande fortuna. Quel botanico è Cortuso, medico e erborista così abile da aver trovare una cura a base d'erbe capace di sconfiggere la peste. E la pianta è la bellissima e rarissima Cortusa. ![]() Un grande "semplicista" alla testa dell'Orto padovano Il primo botanico ad essere celebrato in età moderna con il nome a una pianta ci riporta all'Orto botanico di Padova e al bilioso Mattioli. Si tratta di Giacomo Antonio Cortuso, terzo curatore di quella istituzione. Rampollo di una nobile famiglia cittadina, si dedicò alla professione medica; i racconti del tempo ce lo descrivono come uomo energico, grande conoscitore delle piante medicinali e medico eccellente. Quando nel 1575 scoppiò una delle ricorrenti epidemie di peste (in due anni causò 50.000 morti a Venezia e 12.000 a Padova), mentre i suoi colleghi pensavano solo alla propria pelle, riuscì a salvare il bestiame del Vicentino e del Padovano facendolo trasportare lontano dai luoghi infetti; contrasse la malattia e non solo riuscì a guarire se stesso, ma anche una figlia e una nipote, spostandole in campagna e curandole con infusi di varie erbe. Le sue preziose conoscenze botaniche e farmaceutiche le aveva acquisite sul campo, probabilmente come autodidatta, sperimentando diversi semplici e perlustrando il territorio della Repubblica veneta alla ricerca di vecchie e nuove piante. In una di queste spedizioni, in Valstagna, scoprì appunto la pianta destinata a rimanere per sempre legata al suo nome; ne sperimentò le virtù medicinali e la diffuse tra i botanici con cui era in corrispondenza, tra cui Mattioli, che volle onorarlo dando il nome di cortusa alla nuova specie. Botanico appassionato ("semplicista famoso dei tempi nostri", lo definisce Mattioli) non era un teorico - scrisse in effetti pochissimo - ma un ricercatore che coltivava personalmente le piante officinali nel suo orto privato e ne sperimentava le proprietà medicinali su stesso e suoi propri pazienti. Le numerose botteghe di speziali di Venezia, ancora il maggior crocevia delle rotte verso il Mediterraneo orientale, garantivano inoltre l'accesso a numerose semplici esotici, di cui proprio l'orto padovano fu spesso il centro di diffusione in Europa. Per molti anni Cortuso fu in corrispondenza con i più bei nomi della botanica europea, ai quali comunicava le proprie scoperte e con i quali scambiava semi e esemplari; tra gli altri, oltre ovviamente a Mattioli, Aldrovandi, Clusius, Pena, Gessner, i fratelli Bauhin, Lobelius, Dodoens. I carteggi tra questi scienziati forniscono molte informazioni preziose sulla botanica del tardo Rinascimento e sull'introduzione di nuove specie; ad esempio, grazie a una lettera di Cortuso a Clusius scopriamo che egli fu il primo a piantare un cedro del Libano in Europa, oppure, grazie a una citazione di Mattioli, a cui ne donò un ramo fiorito, sappiamo che i primi lillà europei, provenienti dall'Impero ottomano, fiorirono a Padova nel 1565. Già anziano, nel 1590, alla morte di Guilandino, Cortuso fu nominato curatore dell'Orto botanico di Padova. Nonostante l'età avanzata, resse l'incarico con competenza e energia: fece circondare il giardino con un muro circolare per proteggerlo dalle alluvioni; migliorò il sistema di irrigazione introdotto dal suo predecessore; soprattutto arricchì le collezioni, avvalendosi della sua estesa rete di corrispondenti. Secondo il Dizionario biografico degli italiani avrebbe anche compiuto numerosi viaggi in Italia, Slovenia, nelle isole dell'Egeo per cercare nuove piante, notizia che non mi sembra molto credibile, considerando che resse l'incarico tra i settantasette e i novant'anni. Fu onoratissimo dai botanici del suo tempo, che ne stimavano l'eccezionale competenza nel campo delle erbe medicinali. Qualche approfondimento nella biografia. ![]() Cortusa o Primula? Mattioli, tanto pronto alla polemica, si dimostrò invece sempre amichevole e rispettoso nei confronti di Cortuso, uomo molto generoso che non lesinava a colleghi e amici piante e i lumi tratti dalle sue esperienze. Nell'edizione dei Discorsi che ho consultato, Mattioli lo cita, sempre in termini elogiativi, quasi trenta volte. A partire dall'edizione del 1568, inoltre, volle includere la descrizione della pianta scoperta dal padovano, battezzandola in suo onore "cortusa", nome con il quale da allora la pianta fu conosciuta e descritta in molti testi botanici del tempo. A sua volta, a fine Seicento Plumier dedicò a Cortuso uno dei suoi nuovi generi americani; ma giustamente Linneo (Species plantarum, 1753) riprese la denominazione di Mattioli, anzi unì i due botanici italiani nel nuovo nome binomiale: Cortusa matthioli, la cortusa di Mattioli. Bramato graal degli escursionisti botanici delle nostre Alpi, la cortusa è una graziosa primulacea delle aree fresche e ombrose, dai 700 ai 2000 metri, con grandi foglie basali lobate e uno scapo fiorale eretto che porta un'ombrella di graziose campanelline rosa carico. Benché diffusa in un'ampia area (dalle Alpi ai Carpazi, alla Russia, alla catena dell'Himalaya alla Cina e al Giappone), da noi è piuttosto rara. Infatti le Alpi sono l'estremo lembo del suo areale; la si trova in poche stazioni in Trentino, Veneto e Piemonte. Del resto, già rara era al tempo del suo scopritore che, come riporta Mattioli, l'aveva vista unicamente in Valstagna. La sua presenza in poche aree non contigue fa pensare che sia un relitto della flora preglaciale, che si sarebbe conservata in piccole enclaves protette non soggette a glaciazione. A questa pianta dalla bellezza semplice corrisponde uno status tassonomico complicato. Primo problema: Cortusa è un genere a sé? Il mondo scientifico è diviso: recenti studi basati sul DNA dimostrerebbero che va incluso nel genere Primula (Plant list e Plants of the world si allineano; la nostra è Primula matthioli), ma in molti testi è ancora Cortusa matthioli e non si è giunti a una conclusione unanime. Secondo problema: se è un genere, quante specie ne fanno parte? le risposte al quesito sono ancora più incerte: si va da un'unica specie (C. matthioli appunto, con numerose varietà e/o sottospecie) a una quindicina di specie (molte delle quali asiatiche). E' dall'analisi dei taxa russi e cinesi che si attendono le risposte alle due domande. Vista l'importanza storica della denominazione tradizionale, sarebbe un peccato che colui che fu il primo moderno a dare il nome a una pianta perdesse il suo genere (anche se il suo nome rimarrebbe almeno nei nomi comuni italiano, cortusa, e francese, cortuse). Come sempre, qualche notizia in più nella scheda. Con un'operazione editoriale da manuale, il medico e umanista Mattioli e il suo editore fanno dei Commentarii a Dioscoride il libro scientifico più venduto del Rinascimento, oltre che uno dei più belli. Un'opera di successo che attira anche le polemiche, a cui il pugnace Mattioli risponde colpo su colpo. E dopo qualche vicissitudine, dà il suo nome a una pianta che non manca in nessun giardino. ![]() Un bestseller dal successo trionfale Non c'è dubbio che i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli (ovvero il suo commento a Dioscoride) siano stati il più grande bestseller della scienza rinascimentale. In epoca in cui un libro che vendesse 500 copie era già un successo, l'opera del medico senese, nel trentennio tra la prima edizione e la morte dell'autore (1544-1578) nelle sue varie versioni ne vendette 32.000. Fu un successo senza precedenti, ricercato con tenacia, grazie all'autore, che ne fece un vero e proprio work in progress che ad ogni nuova versione si arricchiva di nuove piante e di note sempre più dettagliate; all'abile editore veneziano Valgrisi, che si giovava di una distribuzione in grado di raggiungere molti paesi europei; a potenti protettori, tra cui lo stesso imperatore. Nel Medioevo il De materia medica di Dioscoride non era stato dimenticato, ma circolava in versioni più o meno spurie. Con il Rinascimento e la nascita della scienza filologica, gli studiosi fecero a gara nel recuperare il testo originale, tradurlo, commentarlo: un enorme filone di studi che culmina proprio con l'opera di Mattioli. Egli iniziò a tradurre l'opera di Dioscoride intorno al 1541, aggiungendo al testo originale i suoi "discorsi" o commenti. La prima edizione (Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della historia, & materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi, et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete) esce a Brescia nel 1544 ed è già molto di più di una semplice traduzione, perché ogni voce è accompagnata da un ricco commento sull'identificazione del semplice (con "censure", ovvero critiche ai botanici che lo avevano preceduto), la descrizione, gli usi medici. Nel 1548, con la seconda edizione, inizia la collaborazione con Valgrisi e il libro, già molto accresciuto, si avvia a diventare quel monstre in cui le paginette di Dioscoride sono sopraffatte dal dottissimo e puntiglioso commento. Il successo è tale che lo stesso anno, a Mantova, esce un'edizione pirata arricchita da illustrazioni (rubate a loro volta a un erbario tedesco). Così Mattioli e Valgrisi capiscono che, se vogliono sfondare sul mercato europeo, l'opera deve essere illustrata, e, ovviamente, tradotta in lingua latina. Se poi si vuole battere la concorrenza tedesca - il magnifico De historia stirpium di Fuchs è del 1542 - le illustrazioni devono essere di ottima qualità. Il compito è affidato a un eccellente pittore udinese, Giorgio Liberale, che aveva qualche esperienza di illustrazione naturalistica avendo eseguito una serie di disegni di animali per l'imperatore Ferdinando I. Pur senza l'assoluta precisione delle tavole del libro di Fuchs, le 562 illustrazioni realizzate da Liberale sono di grande qualità estetica ed eleganza. L'edizione latina illustrata, ulteriormente accresciuta rispetto alla seconda italiana, esce nel 1554 (Petri Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quàm plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore), ottenendo grandissimo successo e procurando ingenti guadagni allo stampatore. Quella fonte d'oro viene abilmente sfruttata nel decennio successivo con tre nuove edizioni tanto per la versione italiana (Discorsi) quanto per quella latina (Commentarii) e numerose ristampe, ciascuna con una tiratura media di tremila di copie (cifra eccezionale per l'epoca, quando una tiratura di 1000 copie era già rara e riservata a titoli "sicuri"). Ma intanto Mattioli è stato chiamato alla corte imperiale nelle vesti di medico cesareo; a Praga (in quel momento sede della corte) nel 1562 esce un'edizione ceca accompagnata da 810 xilografie molto più grandi ed eleganti di quelle delle edizioni Valgrisi, realizzate sotto la personale guida di Mattioli da Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da alcuni pittori della corte imperiale; di grande bellezza e virtuosismo tecnico, le xilografie di Liberale e Meyerpeck non mirano tanto all'accuratezza dell'illustrazione botanica, quanto alla trasformazione della natura in opera d'arte. Così, i Commentarii di Mattioli, oltre a imporsi come il libro di testo obbligatorio nelle facoltà di medicina di tutta Europa, diventano anche un ricercato oggetto di collezione. Le xilografie dell'edizione praghese vengono riutilizzate per l'edizione tedesca dell'anno successivo e nel 1565 Valgrisi le inserisce in una splendida edizione dei Commentarii, stampata su carta verde; un preziosissimo esemplare, colorato a mano e ornato d'oro e d'argento viene donato all'illustre protettore di Mattioli, l'imperatore Ferdinando I. Altre edizioni ancora seguiranno, a volte con le più maneggevoli illustrazioni della prima edizione latina, a volte con quelle più spettacolari dell'edizione praghese, con un successo destinato a durare ben oltre la morte dell'autore (1578). ![]() Le ragioni del successo Quali le ragioni di una riuscita tanto trionfale? La bellezza delle illustrazioni e l'accuratezza della veste grafica certo pesarono non poco; contò soprattutto l'enciclopedismo dell'opera, che ai contemporanei sembrava unire le conoscenze dell'antichità (da Dioscoride a Plinio a Galeno) con gli apporti della tradizione erboristica popolare e le acquisizioni della medicina rinascimentale. In effetti, nei Discorsi e nei Commentarii il testo di Dioscoride è solo un punto di partenza, un pretesto, sul quale Mattioli riversa tutte le sue conoscenze di filologo e studioso dell'antichità, di medico e di conoscitore delle piante. Alle scarne notizie del testo greco, Mattioli aggiunge puntigliose descrizioni di ciascuna pianta (a volte riconoscendo e discutendo diverse specie), l'indicazione dell'habitat, le virtù medicinali; non mancano le indicazioni pratiche e gustosi aneddoti. Inoltre. Mattioli non si accontentò di presentare le piante (e gli altri "semplici", animali e sostanze minerali) trattate da Dioscoride, ma aggiunse via via le nuove "stirpi" che arrivavano in Europa dalle Americhe e dal Vicino Oriente o che venivano scoprendo nella stessa Europa dai tanti botanici con i quali fu in corrispondenza. Egli stesso da giovane aveva erborizzato in Val di Non e sul monte Baldo. Il numero di piante trattate raddoppia dalle 600 descritte da Dioscoride alle 1200 delle ultime edizioni del Mattioli; centinaia di nuove piante vengono descritte per la prima volta (potremmo citare il pomodoro, il girasole, il lillà), facendo dell'opera un testo di consultazione irrinunciabile per ogni medico e botanico fino a Linneo e oltre. Non mancò anche una certa dose di "succès de scandale". Mattioli era un terribile polemista, sempre pronto alle "censure" - che occupano una parte non piccola dei Discorsi - ma poco disposto ad accettare qualsiasi rilievo. Ad Amato Lusitano che lo accusava di errori e plagi e al Guilandino (Melchior Wieland) che gli contestava errori di identificazione, rispose con veemenza, arrivando anche agli insulti. La polemica, soprattutto con Guilandino, si trascinò per anni. Vittima dei suoi strali fu anche il medico e botanico italiano Luigi Anguillara, che, forte dei suoi lunghi viaggi di esplorazione in molti paesi del Mediterraneo, aveva contestato - con molto garbo - alcune identificazioni; Mattioli lo attaccò con tale violenza che Anguillara, al tempo custode del Giardino dei semplici di Padova, fu costretto a dare le dimissioni. Altre notizie sulla lunga e complessa vita di Mattioli nella biografia. ![]() Da Matthiola, Rubiaceae, a Matthiola, Brassicaceae A quello che venne considerato - a torto o a ragione - il più grande autore di botanica del Rinascimento non poteva mancare la dedica di un genere. Ci pensò, al solito, Plumier che gli dedicò uno dei suoi nuovi generi americani, ricordando nella dedica sia la grande fama di Mattioli, sia le aspre polemiche in cui fu coinvolto (secondo Plumier, mordeva i suoi avversari "con il dente avvelenato", ma quelli gli rispondevano "con le corna pronte"). Il genere Matthiola (famiglia Rubiaceae) fu accolto e ufficializzato nel 1753 da Linneo, Mi sembra di sentire i miei amici botanici fremere: Matthiola un genere americano? Matthiola una Rubiacea? Calma, ragazzi, la storia non è finita. Quella Matthiola di Plumier e Linneo, risultò, non doveva essere considerata un genere a sé, ma rientrava nel genere Guettarda. E così il mordace Mattioli venne privato del suo genere eponimo. Ma nel paradiso dei botanici l'ottimo Anguillara non si rallegrò a lungo; nel 1812 Robert Brown (che con moto browniano ritorna puntualmente nelle nostre storie) sottopose a revisione il genere Cheiranthus e ne separò Matthiola (Brassicacae). Finalmente una pianta europea, nota a tutti, l'amata e diffusissima violacciocca. E Mattioli non aveva mancato di parlarne nei Discorsi: "Son fiori in Italia volgari agli horti, alle logge e alle finestre, alle mura e ai tetti; imperocché in tutti questo luoghi, or in testi ("vasi"), or in cassette le molto curiose donne per la bontà del loro odore, e per la vaghezza ("bellezza") del colore diverso loro, le coltivano per le ghirlande". Identificò la violacciocca con il Leucojum ("viola bianca") di Dioscoride, senza insospettirsi del fatto che secondo il testo greco ne esistono varietà bianche, rosa, gialle e azzurre, pur aggiungendo che la varietà azzurra in Italia non si trova. Non sappiamo a quale pianta corrispondesse il Leucojum di Dioscoride (anche perché il testo greco non la descrive in quanto "nota a tutti"), ma l'identificazione di Mattioli è certamente errata (Anguillara dal cielo applaude); tuttavia ha lasciato traccia nella lingua ceca (ricordate l'edizione di Praga?), dove anche oggi la violacciocca si chiama levkoje. Il nome violacciocca designa due piante diverse per colore ma altrettanto frequenti nei giardini: la violacciocca rossa, cioè Matthiola incana (ma ce ne sono anche varietà bianche, rosa, violette), annuale o biennale, e la violacciocca gialla Erysimum (= Cheiranthus) cheiri, perenne; Mattioli infatti non manca di notare che i medici e farmacisti arabi la chiamano cheiri. Il genere Matthiola comprende una cinquantina di specie del Vecchio mondo, dall'Europa mediterranea alla Turchia e all'Afghanistan. Endemica dell'isola di Madera è Matthiola maderensis, che ho avuto la fortuna di trovare in fioritura e fotografare qualche anno fa, proprio il giorno di Natale, sulle rocce della Ponta de São Lourenço. Altre notizie sul genere Matthiola nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2025
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