A pochi km da Bangalore, capitale del Karnataka, si trova uno spettacolare giardino, Lalbagh (un nome spiegato in vari modi, forse "giardino rosso"). Nato come giardino reale nel 1760, passò attraverso varie vicissitudini, finché nella seconda metà dell'Ottocento divenne orto botanico governativo. All'inizio del secolo, subito dopo la conquista inglese, era stato diretto per qualche anno dal medico e botanico tedesco Benjamin Heyne; vissuto per quasi trent'anni in India, fece importanti raccolte e fu il primo a notare un fenomeno connesso con il metabolismo acido delle Crassulaceae. A ricordarlo il piccolo genere Heynea. Piccola storia del "giardino rosso" Come abbiamo già visto parlando di Johann Gerhard König, l'avamposto danese di Tranquebar funzionò in un certo senso da fucina di naturalisti che poi passarono al servizio della Compagnia delle Indie. E' il caso anche del medico tedesco Benjamin Heyne (1770-1819) che però, al contrario di König, era venuto in India non per lavorare alla missione luterana di Halle, ma alla "rivale" missione morava. Heyne arrivò in India nel gennaio del 1792, ventiduenne. Nato a Döbra in Sassonia, probabilmente non molto prima di partire si era laureato in medicina a Dresda. Forse viaggiò da Copenhagen a Tranquebar in compagnia di un altro giovane collega, Johann Gottfried Klein, figlio di uno dei pastori della missione luterana, Jakob Klein. Nato in India, il giovane Klein era stato mandato in Germania a studiare medicina e ora tornava a casa per diventare medico della missione. Anche se uno dipendeva dai moravi, l'altro dai luterani, due medici missionari erano troppi per quel piccolo avamposto. Heyne trovò difficile sbarcare il lunario, tanto che pensò di tornare in Germania. Sarebbe stato un peccato, pensò Christoph Samuel John (1746-1813), il pastore-capo della missione luterana; buon amico di König e Roxburgh, era anch'egli un notevole naturalista e aveva potuto apprezzare le vaste competenze di Heyne soprattutto nel campo della botanica e della mineralogia. Nell'agosto 1783 scrisse a Roxburgh per chiedergli di raccomandarlo alla Compagnia delle Indie. Roxburgh lo prese con sé nel giardino della Compagnia a Samalkot, a circa 200 km a nord di Madras, dove egli sperimentava la coltivazione di piante industriali e alimentari. Un mese dopo Heyne vi si traferì e a ottobre la sua assunzione fu approvata dalla Compagnia. Pochi mesi dopo, nel marzo 1794, quando il botanico scozzese fu nominato sovrintendente dell'orto botanico di Calcutta, lo sostituì "come Botanico della Compagnia durante l'assenza del Dr. Roxburgh". Nel 1796, l'incarico gli fu confermato ufficialmente, insieme alla nomina ad assistente chirurgo. In questi anni, Heyne fece cospicue raccolte e fece eseguire numerosi acquerelli botanici da artisti locali (Plants of the Coromandel coast: a collection of 394 botanical watercolour drawings of plants and flora), che tuttavia non vennero mai pubblicati. Nel 1799, dopo la presa di Mysore, gli fu ordinato di unirsi alla ricognizione del territorio appena conquistato. Se all'inizio l'obiettivo fondamentale di quello che è passato alla storia come Mysore Survey (1799-1810) era procedere al rilievo trigonometrico della regione al fine di disegnarne una carta aggiornata, presto divenne un'indagine a tutto campo, che prevedeva di raccogliere ogni sorta di informazione (e di materiale) sulla storia, l'archeologia, la religione, i costumi, le arti, le risorse naturali, l'industria, i commerci. I ricognitori, che comprendevano interpreti, disegnatori, cartografi, vennero divisi in tre squadre, capeggiate rispettivamente dall'ingegnere militare Colin Mackenzie, dal geografo Francis Buchanan Hamilton e appunto da Benjamin Heyne. Come botanico e naturalista, doveva studiare la flora, la fauna, le produzioni agricole; come geologo, le risorse minerarie e le tecniche industriali (tra l'altro, si occupò della produzione della soda e delle manifatture di rame e ferro); come medico, che aveva studiato i testi medici tamil, doveva verificare la disponibilità nei mercati di medicinali per l'esercito della Compagnia, specialmente per combattere la malaria, il principale ostacolo all'espansione britannica in India. Quanto alla botanica, le istruzioni del governatore generale Wellesley puntualizzavano: "Bisogna assolutamente privilegiare le piante utili rispetto a quelle che si raccomandano solo per la loro rarità o la loro bellezza [...]. Occorre raccogliere con cura tutto ciò che è connesso alle arti e alle produzioni di questo paese, o che promette di essere utile al nostro; prestare la dovuta attenzione al legname impiegato nelle varie province che toccherà nel suo percorso [...] e raccogliere con particolare diligenza le preziose piante legate alla sua professione immediata, cioè alla medicina". Il governatore aggiunse un compito specifico: trovare una sede più adatta di Samalkot per il giardino botanico della Compagnia nella presidenza di Madras. La scelta di Heyne cadde su un giardino già esistente: quello di Lalbagh nei pressi di Bangalore. A farlo costruire, intorno al 1760, fu il sultano di Mysore Hyder Alì che si inspirò al modello dei giardini Moghul, in particolare quello di Sira. Esteso su 40 acri, comprendeva una serie di ambienti squadrati, separati da viali, sentieri e canali alimentati da una cisterna. Era sia un giardino di piacere, sia un orto-frutteto. Nelle aiuole fiorivano una profusione di rose e altri fiori rossi, che potrebbero aver dato il nome al giardino (Lalbagh potrebbe significare "giardino rosso", ma anche "giardino prediletto"). Lungo i viali erano piantati cipressi. C'erano specchi d'acqua con loti e diversi frutteti, ciascuno dedicato a diversa varietà di alberi: tra gli altri, banani, melograni, papaye, jackfruit, fichi. Il giardino fu ulteriormente arricchito dal figlio e successore Tipu Sultan, che vi fece piantare alberi di mango (si dice che qualcuno ancora sopravviva) e ogni sorta di alberi e fiori rari, fatti venire dall'Afghanistan, dalla Persia, dalla Turchia e dall'isola di Mauritius. Dato che l'acqua della cisterna era insufficiente per irrigare il giardino, fece anche costruire un pozzo. Tipu morì nel maggio del 1799 mentre tentava di difendere la sua capitale dall'assalto dell'esercito della Compagnia delle Indie. Il regno di Mysore divenne uno stato satellite dell'impero anglo-indiano e vari distretti passarono direttamente alla Compagnia, che già nel corso della guerra aveva fissato il quartier generale del proprio esercito a Bangalore. La bellezza del giardino non lasciò insensibili i britannici, che inizialmente però lo utilizzarono soprattutto per coltivare patate, cavoli, rape ed altri ortaggi per il rancio delle truppe. Nel 1802 Heyne venne ufficialmente promosso "Botanico della Compagnia" e da quell'anno al 1808 diresse Lalbagh, lavorando duramente per riportarlo alla sua bellezza e trasformarlo in un vero orto botanico; vi trapiantò le piante del giardino di Samalcot, dismesso dalla Compagnia. Molte piante le raccolse egli stesso, soprattutto nei distretti di Bangalore e Combatore; gli è accreditata la scoperta di circa 350 specie. Spedì molti esemplari al botanico tedesco Albrecht Wilhelm Roth, che se ne servì per Novae plantarum species praesertim Indiae orientali, che dipende in gran parte dalle raccolte di Heyne. Nel maggio del 1808 l'incarico di "Botanico della Compagnia" fu soppresso. Siamo poco informati sui movimenti di Heyne in questo periodo; secondo alcuni rimase a dirigere Lalbagh fino al 1812, secondo altri la lasciò appunto nel 1808. Sappiamo invece con certezza perché lo riferisce egli stesso che nel 1811, essendo la sua salute compromessa dopo vent'anni in India, ottenne dalla Compagnia un congedo di tre anni. Si recò quindi a Calcutta per salutare Roxburgh, ma anche nella speranza di trovare un ingaggio come medico di bordo di una nave in partenza per l'Inghilterra. Non lo trovò, ma in compenso poté imbarcarsi su un mercantile diretto a Sumatra, dove fece qualche raccolta. Solo nel 1813 poté raggiungere Londra, dove fu ammesso alla Linnean Society alla quale presentò le sue osservazioni su Cotyledon calycina (oggi Kalanchoe pinnata): assaggiandone le foglie, egli aveva notato che di primo mattino erano fortemente acide; con il passare delle ore, perdevano la loro acidità, finché verso mezzogiorno erano totalmente prive di sapore. Si tratta della prima descrizione dei fenomeni connessi alla fotosintesi CAM (Metabolismo acido delle Crassulaceae): oggi sappiamo che molte piante succulente dei climi caldi e aridi di notte aprono gli stomi - chiusi di giorno per limitare la traspirazione - consentendo l'ingresso dell'anidride carbonica che va a formare acidi carbossilici, i responsabili di quel gusto "aspro come l'acetosella, se non di più" osservato da Heyne. Approfittò del soggiorno londinese anche per pubblicare la sua opera principale, Tracts, historical and statistical, on India: with journals of several tours through various parts of the peninsula: also, an account of Sumatra, in a series of letters, che contiene il resoconto delle sue esplorazioni dell'India e di Sumatra; a fare la parte del leone, però, più che la botanica sono la geologia, la mineralogia e le tecniche industriali tradizionali. L'opera anche una delle prime mappe geologiche dell'India meridionale. Terminato il suo congedo, già nella primavera del 1815 Heyne rientrò a Madras, dove riassunse l'incarico di naturalista e botanico della Compagnia delle Indie. Il breve soggiorno in Europa non era stato sufficiente a restituirgli la salute, visto che morì nel 1819, ad appena 49 anni. Come si capisce tra le righe anche da Tracts, historical and statistical on India, almeno negli ultimi anni le sue relazioni con la Compagnia non dovette essere idilliache. Nel 1807 quest'ultima aveva nominato custode di Lalbagh il proprio ufficiale pagatore, il capitano - e più tardi maggiore - Gilbert Waugh, e, come abbiamo già visto, nel 1808 soppresse l'incarico di botanico di Heyne. E' dunque probabile che egli non sia rimasto a Bangalore. Del resto, sappiamo che la gestione di Waugh non lasciava spazio a coabitazioni; egli prese il controllo assoluto del giardino che ben presto fu noto come "giardino di Waugh"; interessato agli aspetti pratici della botanica, introdusse coltivazioni sperimentali di canna da zucchero e caffè. Nel 1814, il giardino passò sotto il controllo del governo di Mysore, che prese a eliminare gli alberi per lasciare spazio a un grande orto. Preoccupato, Waugh scrisse a lord Hastings, il governatore generale dell'India, proponendo che il giardino fosse posto sotto la giurisdizione dell'orto botanico di Calcutta. Consigliato in tal senso da Nathaniel Wallich che riteneva che Lalbagh potesse diventare "un vivaio di passaggio o un deposito per l'introduzione e l'acclimatazione di piante da frutto in Inghilterra", Hastings accettò. Troppo impegnato a Calcutta, Wallich dovette limitarsi a qualche visita e la soluzione giovò poco al giardino di Bangalore (le due città per altro sono lontanissime). La situazione si protrasse fin al 1831 quando, con la fine dello stato fantoccio di Mysore, anche il giardino passò sotto il controllo governativo. Affidato per qualche anno all'effimera Società agricola dell'India, fu rilanciato solo a partire del 1856, quando divenne ufficialmente Government Botanical Garden e fu affidato alla direzione di un botanico di Kew, William New. Nel 1899, in occasione della visita del nipote della regina Vittoria Albert Victor (che pose la prima pietra), venne costruita una grande serra ispirata al Crystal Palace di Londra, che è ancora la maggiore attrazione del giardino. Oggi, con un'estensione di 240 acri, continua ad essere uno dei più vasti e importanti giardini dell'India; anche se non ha più la funzione di orto botanico, ma piuttosto di parco, è famoso sia per la rarità delle collezioni sia per il pregio estetico, che con le sue fontane e i suoi specchi d'acqua richiama le origini, il "giardino rosso" di Hyder Alì. Una dedica amichevole Benjamin Heyne entra a fare parte della nostra galleria di dedicatari di generi botanici grazie all'amico William Roxburgh che nel 1815 denominò in suo onore Heynea trijuga un albero nativo del Nepal i cui semi erano stati spediti all'orto botanico di Calcutta da un altro comune conoscente, Francis Buchanan. La dedica ricorda che "il Dr. Heyne per molti anni ha prestato grande attenzione alla storia naturale dell'India; recentemente è tornato al servizio della Compagnia. Per il suo talento e la sua industriosità possiamo attenderci molte altre utili informazioni". Come sappiamo, la morte gli impedì di soddisfare queste lusinghiere aspettative. Heynea, della famiglia Meliaceae, comprende solo due specie, appunto H. trijuga e H. velutina; la prima è un piccolo albero, diffuso dal subcontinente indiano alla Malesia, il secondo un arbusto diffuso dalla Cina meridionale all'Indocina. Hanno foglie disposte a spirale e minuti fiori bisessuali con quattro-cinque petali imbricati disposti in tirsi, seguiti da frutti a capsula, che contengono uno-due semi avvolti in un arillo. Quelli di H. trijuga vengono raccolti per ricavarne olio illuminante. Questa specie, la nota delle due, di crescita veloce e con una chioma espansa e densa, nella Thailandia settentrionale trova impiego nella riforestazione di aree disturbate, anche perché i frutti sono molto apprezzati da uccelli e pipistrelli, favorendo la dispersione dei semi. Di notevole bellezza, è anche coltivato nei giardini. Le foglie e la corteccia, di gusto amaro, sono utilizzate nella medicina tradizionale. Altre informazioni nella scheda.
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Nel 1768, come medico della missione luterana e direttore dell'ospedale, arriva a Tranquebar, minuscola colonia danese sulla costa del Coromandel, l'allievo di Linneo Johann Gerhard König. Non lascerà l'India fino alla morte. Il suo arrivo agisce come un lievito che segna l'inizio dello studio scientifico della flora indiana; è un grande raccoglitore, ma soprattutto trasmette il suo entusiasmo ad amici e colleghi, creando forse la prima società scientifica del paese e incoraggiando le ricerche di altri naturalisti, tra cui il "padre della botanica indiana" William Roxburgh. Prima di tutto questo, il maestro Linneo lo aveva già premiato con il genere Koenigia, creato sulla base di una pianta che il suo pupillo aveva raccolto in Islanda. Un forte danese in India, là dove cantano le onde Meno noti di quelli di potenze maggiori come il Portogallo, la Francia o la Gran Bretagna, per circa duecento anni (1620-1848) in India ci furono anche alcuni insediamenti o empori danesi. Erano territori minuscoli, e dal punto di vista economico, con l'eccezione di qualche momento felice, non furono un successo. Ma sul piano culturale ebbero un ruolo sorprendente: in una di queste colonie operò la prima missione protestante della storia, nacque la prima tipografia e vennero stampati i primi libri stampati in una lingua indiana, furono create la prima scuola aperta anche alle bambine, e (forse) la prima società scientifica dell'Asia. Il luogo dove fiorirono quelle primizie è Tranquebar (oggi Tharangambadi, un nome poetico che significa "il luogo delle onde che cantano") a circa 300 km a sud di Madras sulla costa del Coromandel, nell'attuale stato indiano di Tamil Nadu, il primo e più importante avamposto danese in India. Nel 1616, l'ambizioso re di Danimarca Cristiano IV, sull'esempio della Compagnia olandese delle Indie orientali, sponsorizzò la nascita della Ostindisk Kompagni (Compagnia danese delle Indie orientali). Nella speranza di allearsi con il sovrano singalese contro i portoghesi, ottenendo in cambio una base a Ceylon, nel 1618 inviò in India una piccola flotta; tuttavia la trattativa diplomatica fallì e i danesi ripiegarono su Tranquebar, dove una delle loro navi aveva casualmente fatto naufragio. In cambio di un tributo annuo, il re di Thanjavur Raghunatha Nayak concesse loro una fascia costiera lunga otto km e profonda quattro; a partire dal 1620, i danesi vi crearono piantagioni e un emporio, protetti da un forte, Fort Daneborg, che divenne anche la sede ufficiale del governatore dell'India danese. Intanto in Europa era scoppiata la guerra dei Trent'anni, il cui esito disastroso cancellò i sogni di gloria di Cristiano IV e travolse anche la Ostindisk Kompagni. I viaggi tra India e Danimarca si interruppero, la compagnia fu sciolta e la piccola colonia rimase abbandonata a se stessa per circa trent'anni. Solo nel 1669 una fregata danese gettò di nuovo l'ancora a Tranquebar. Tornò in patria con un carico di pepe e altre spezie così promettente che venne deciso di rifondare la Compagnia, risorta dalle proprie ceneri nel 1670. Nonostante la concorrenza olandese che le impedì di allargare i suoi traffici più a est, la rinata compagnia riuscì a ritagliarsi uno spazio nel commercio dei tessuti e delle spezie indiane; la neutralità della Danimarca le permise di approfittare delle rivalità tra le potenze maggiori, traendo forti guadagni soprattutto dal nolo delle proprie navi "neutrali" ai mercanti delle potenze belligeranti. A questo effimero momento di prosperità mise fine la Grande guerra del Nord (1700-1721) che portò al fallimento anche la seconda Ostindisk Kompagni, sciolta nel 1729. Dal punto di vista religioso ed etnico, la colonia danese era un mosaico di fedi ed etnie. A inizio Settecento, quando il territorio danese si era allargato ad altri villaggi, vi vivevano circa 15.000 mila persone, musulmani, indù e cattolici indiani, convertiti dalla vigorosa attività missionaria dei gesuiti. Gli europei (soldati, funzionari, mercanti) erano una minoranza, e i danesi, circa 200 persone, una minoranza nella minoranza. La situazione preoccupava il re di Danimarca Federico IV, che decise di inviarvi missionari evangelici; non trovando nessuno disponibile in Danimarca, si rivolse all'università di Halle, uno dei centri propulsori del pietismo. Il pietismo di Halle era caratterizzato da un accentuato riformismo, che per certi aspetti lo avvicinava all'illuminismo e si traduceva in un forte impegno in campo pedagogico, sociale e culturale; l'energico caposcuola August Hermann Francke vi aveva fondato diverse scuole, un orfanatrofio, il più antico istituto biblico, una tipografia, una legatoria, una biblioteca, una farmacia e un piccolo museo di scienze naturali. La missione indiana, la prima in assoluto di una chiesa protestante, offriva ai pietisti di Halle un nuovo, inedito campo d'azione. Francke la affidò a due dei suoi migliori allievi, Bartholomäus Ziegenbalg e Heinrich Plütschau, che portarono in India la fede fervente, l'attivismo sociale, l'impegno pedagogico della scuola di Halle, destando l'ostilità non solo dei gesuiti, ma anche delle autorità locali e della Compagnia inglese delle Indie, che fece addirittura arrestare Ziegenbalg con l'accusa di tubare l'ordine pubblico. Egli approfittò della detenzione per studiare il tamil e incominciare a tradurre la Bibbia. Dopo la liberazione, oltre a due chiese e altre strutture funzionali alla missione, creò una cartiera, una tipografia (la prima dell'intero subcontinente a stampare testi in una lingua locale), una scuola aperta anche alle ragazze (anche questa una assoluta novità), un seminario per il futuro clero indiano. I missionari di Halle erano in costante contatto con la madrepatria, cui inviavano lettere, diari, contributi scientifici su vari aspetti della cultura indiana. A partire dal 1720, la tipografia della Fondazione Francke incominciò a pubblicarli in una rivista nota come Hallesche Berichte, che presto ebbe diffusione europea, influenzando a lungo l'immagine dell'India in Europa. Tra gli argomenti che più interessavano il pubblico colto c'era anche la medicina tradizionale indiana, il cui valore era stato riconosciuto dagli europei fin dai tempi di Garcia de Orta; d'altra parte, si riteneva che quell'antico patrimonio dei conoscenze fosse ormai degenerato e ridotto a un insieme di pratiche superstiziose. Urgeva inviare in India un medico con una buona preparazione in chimica e in botanica farmaceutica per studiare dal vivo le piante medicinali, tanto più che l'assistenza sanitaria a Tranquebar era inadeguata e non riusciva a far fronte alle epidemie che decimavano gli europei. Mentre gli indigeni disponevano di un certo numero di medici ayurvedici, a occuparsi della loro salute c'erano solo il chirurgo e l'aiuto chirurgo della guarnigione militare, che gestivano anche l'ospedale con l'aiuto di assistenti indiani. Nel 1732 la Fondazione Francke inviò dunque a Tranquebar Samuel Benjamin Cnoll (1705–67), un medico laureato ad Halle, che dagli anni '40 diresse anche l'ospedale; sappiamo che creò un piccolo orto botanico e scrisse un articolo sulla preparazione indiana della borace pubblicato sulla rivista danese Acta Medica Hafniensis. Alla sua morte, ne prese il posto il protagonista di questa storia, Johann Gerhard König (1728–85). Ma prima di concentrarci su di lui, due parole sulle ulteriori vicende dell'India danese. Dopo le pesanti perdite subite nella Grande guerra del Nord, la Danimarca tornò alla politica di neutralità che non avrebbe più abbandonato fino alle guerre napoleoniche. Nel 1730 venne fondata una terza compagnia, la Compagnia asiatica (Asiatisk Kompagni) che, ottenuto dal re il monopolio dei traffici asiatici per quarant'anni, aprì una nuova via commerciale con la Cina e rilanciò il commercio indiano. Anche se i maggiori profitti vennero dalla rotta cinese, ci fu una certa espansione anche nell'area indiana, con la fondazione di altri empori, il più importante dei quali fu Serampore in Bengala, fondato nel 1755. Tra il 1754 e il 1756, la compagnia cercò anche di creare un avamposto nelle isole Nicobare, che presto dovette essere abbandonato a causa della malaria e di altre malattie che decimarono i coloni. Per evangelizzare le Nicobare, la corona danese decise l'invio di una seconda missione evangelica, affidata all'Unione dei fratelli boemi, anche noti come Fratelli moravi. Il re di Danimarca assicurò la più ampia libertà religiosa e l'agguerrita congregazione lanciò immediatamente una sottoscrizione tra i propri membri per autofinanziarsi. Un primo gruppo di quattordici missionari, tutti giovani e scapoli, fu inviato Tranquebar nel 1760; ne facevano parte un pastore, due studenti di teologia e undici tra artigiani e mercanti. L'anno successivo furono raggiunti da alcune famiglie, con donne e bambini. Anche se l'evangelizzazione delle Nicobare fallì prima di cominciare, a Tranquebar i Fratelli moravi riuscirono ad affermarsi rapidamente, suscitando non poche gelosie tra i confratelli luterani. In missione per conto di Linneo A gettare un ponte tra i due gruppi missionari rivali fu proprio il nostro Johann Gerhard König. E' ora che si prenda la scena. König era un tedesco del Baltico, nato a Kreutzburg nella Livonia polacca. Incominciò la sua formazione come apprendista farmacista a Riga. Dopo aver lavorato come farmacista in diverse località danesi e svedesi, nel 1757 andò a Uppsala a studiare scienze naturali con Linneo, con il quale poi rimase in contatto. Nel 1759 si trasferì in Danimarca, dove lavorò al Frederikshospital e studiò medicina all'Università di Copenhagen con un altro discepolo di Linneo, Christen Friis Rottbøll. Come abile raccoglitore, fu ingaggiato da Oeder per Flora Danica; nel 1764 fece raccolte nell'isola di Bornholm e tra il 1766 e il 1767 in Islanda. Fu proprio la sua fedeltà a Linneo, al quale aveva inviato un certo numero di esemplari, a metterlo in urto con Oeder. Su consiglio di Rottbøll, accettò il posto di medico della missione luterana di Tranquebar, vacante per la morte di Cnoll. Non era ancora laureato, ma avrebbe potuto continuare gli studi e scrivere la sua tesi anche in India. Fu così che nel 1768 egli arrivò a Tranquebar; anche lui si sentiva un missionario, ma del verbo linneano, che fu il primo a far conoscere in India. Era un avido raccoglitore, un ottimo sistematico, e soprattutto una personalità carismatica che seppe contagiare con il suo entusiasmo amici e colleghi. Insieme ad alcuni pastori della missione luterana e qualche membro della comunità morava creò un gruppo informale il cui scopo principale era promuovere lo studio scientifico della botanica. Alcuni studiosi lo considerano la prima società scientifica indiana e gli attribuiscono anche un nome, United Brethren, "Fratelli uniti" o "Unione dei fratelli"; altri fanno notare che era la denominazione usuale della chiesa morava ed è dubbio che i "fratelli botanici" l'abbiamo mai applicata a se stessi. Ma certo il gruppo esisteva; dapprima limitato a Tranquebar, via via ne superò i confini e si allargò a medici, funzionari, naturalisti che operavano nell'India meridionale, per lo più al servizio della Compagnia inglese delle Indie. I membri del gruppo raccoglievano e scambiavano piante, le identificavano, ne discutevano "fraternamente" la classificazione; quindi cominciarono a inviare gli esemplari, identificati o meno, a botanici europei. Come allievo di Linneo che aveva studiato e lavorato in Danimarca, König era in contatto in Svezia con Retzius e in Danimarca con il maestro Rottbøll, Fabricius e Martin Vahl. Attraverso il condiscepolo Solander, incominciò a corrispondere con Banks, che a sua volta lo mise in contatto con i naturalisti al servizio della Compagnia delle Indie, il più noto dei quali, William Roxburgh, divenne un membro attivo del gruppo e suo amico personale. A loro volta, i missionari luterani coinvolti da König fecero conoscere le loro ricerche a Halle; attraverso Johann Reinhold Forster, che insegnava storia naturale in quella università, le relazioni si allargarono ad altri atenei tedeschi, con il risultato che il lavoro dei "botanici di Tranquebar" divenne ben noto in Europa e numerose piante indiane da loro segnalate per la prima volta furono pubblicate da personaggi come Retzius, Vahl, Willdenow o James Edward Smith. König lavorò a Tranquebar fino al 1773, quando ottenne la laurea in medicina in absentia all'Università di Copenhagen, sottoponendo una tesi in cui discuteva l'efficacia dei rimedi indigeni per curare le malattie endemiche della regione (De remediorum indigenorum ad morbes cuius regioni endemicos expugnandos efficacia). Insoddisfatto del magro salario che limitava di molto le sue possibilità di viaggiare, "più desideroso di fama che di fortuna", come confidò all'amico Patrick Russell, passò al servizio del nababbo di Arcot come medico personale. Poté così esplorare le colline a nord di Madras e anche visitare l'isola di Ceylon. Frequenti divennero anche i soggiorni a Madras, dove condivise le sue conoscenze con i medici inglesi, primo fra tutti William Roxburgh che all'epoca lavorava come assistente chirurgo al Madras Medical Service. Grazie agli amici inglesi nel 1778 fu assunto dalla Compagnia inglese delle Indie, di cui fu il primo naturalista ufficiale. Nel 1779 la compagnia lo inviò in Siam e negli stretti di Malacca alla ricerca di piante di interesse economico da introdurre nell'India meridionale. L'anno successivo rientrò a Madras; erborizzava spesso con Roxburgh, che all'epoca era più noto come disegnatore che come botanico, trasmettendogli i suoi metodi e rafforzando la sua vocazione botanica. Nel 1785, mentre stava recandosi a Vizagaptam per incontrare il fratello di Patrick Russell Claud, si ammalò di gastroenterite e, nonostante le cure dell'amico Roxburgh, ne morì, lasciando i suoi erbari e le sue carte in eredità a Joseph Banks. König pubblicò poco: il primo articolo scientifico sulle termiti, uscito nel 1779 su una rivista tedesca, quindi due contributi sulle piante dell'India sudorientale pubblicati da Retzius in Observationes botanicae rispettivamente nel 1783 e nel 1791. Fu invece un grande raccoglitore; suoi esemplari furono pubblicati da Linneo in Mantissa plantarum altera (1771) e dal figlio di Linneo in Supplementum plantarum (1781), fornirono le basi per la descrizione delle Cyperaceae pubblicate da Rottbøll in Descriptiones plantarum rariorum e Descriptiones et iconum rariores (1772-73) e in parte per Plants of the Coast of Coromandel di Roxburgh. Un genere artico e montano Quando König arrivò in India, aveva già ottenuto da Linneo il "massimo riconoscimento per un botanico", ovvero la dedica di un genere. In Mantissa Plantarum Prima (1767) il suo maestro aveva creato in suo onore Koenigia (famiglia Polygonaceae), sulla base di una delle piante da lui raccolte in Islanda, K. islandica; è una minuscola erbacea, tipica delle tundre artiche e delle praterie alpine. Non solo è una delle piante da fiore più piccole del mondo (non supera i 4 cm d'altezza), ma anche una delle pochissime annuali di quelle flore in cui la bella stagione è troppo breve per garantire la maturazione dei semi. A lungo rimase l'unica specie riconosciuta, finché, rispettivamente nel 1825 e nel 1881 si aggiunsero due specie himalayane, K. nepalensis e K. pilosa. Emendato da Hedberg sulla base delle caratteristiche del polline, verso la fine del '900 il genere giunse a comprendere cinque o sei specie, tutte alpine o artiche. Finché, nel 2015, è arrivata una rivoluzione tassonomica. Sulla base dei dati molecolari, il genere è stato ridefinito, includendovi Aconogonon. Oggi dunque comprende una trentina di specie dell'emisfero boreale, con centro di diversità nell'Himalaya. Sono erbacee perenni o annuali, molto varie per dimensioni ed aspetto, con radici a fittone e piccoli fiori dai colori chiari (bianchi, crema, rosa) raccolti in cime ascellari o terminali che in alcune specie formano vistose pannocchie piramidali. Tra di esse c'è anche una bella specie abbastanza comune nei pascoli montani delle Alpi occidentali e centrali e degli Appennini settentrionali. La conosco da sempre, ma con il nome che le aveva dato Allioni, Polygonum alpinum, cui corrisponde anche il nome comune poligono alpino. Come molte piante di questa famiglia dalle vicende tassonomiche travagliate, ha cambiato nome molte volte, e adesso si chiama ufficialmente Koenigia alpina (All.) T.M.Schust. & Reveal. Anche se varie specie sono aggressive infestanti, alcune sono apprezzate per il loro valore ornamentale. La più coltivata è forse K. x fennica, un ibrido naturale tra K. alpina e K. weyrichii, un'imponente perenne con fioriture spettacolare. Qualche informazione in più su questa e altre specie nella scheda. Nella seconda metà del Cinquecento, nonostante i legami diplomatici e commerciali tutt'altro che sporadici con l'impero ottomano, che lo rendevano facilmente raggiungibile, il Levante continuava ad essere ben poco noto. Pochi viaggiatori occidentali ne avevano percorso le strade, e quasi nessun naturalista. Uno dei primi fu il medico tedesco Leonhard Rauwolf, raccoglitore appassionato di piante, che aveva studiato a Montpellier alla scuola di Rondelet imparando alla perfezione come allestire un erbario. Molte avventure gli toccarono nella sua vita, e non meno capitarono al suo erbario che passò di mano in mano prima di approdare a Leida, dove ancora si trova. Terzo protagonista, il genere Rauvolfia che, come tutte le Apocynaceae, va preso con cautela. Un "lupo irsuto" dalla vita avventurosa Come ho raccontato in questo post, grazie al carisma di Guillaume Rondelet e alla politica di porte aperte verso i protestanti, nella seconda metà del Cinquecento la facoltà di medicina dell'Università di Montpellier richiama un gran numero di studenti dalla Francia settentrionale, dalle Fiandre, dalla Svizzera e dalla Germania. Tra le matricole del 1560 troviamo due tedeschi di Augusta: Jeremias März o Mertz, che alla latina si fa chiamare Martius (ca. 1535 - ca. 1585) e Leonhard Rauwolf (1535-1596). Martius, figlio di un tessitore, ha potuto studiare grazie al suo ingegno e alla protezione dei Fugger, che hanno finanziato i suoi studi prima a Ingolstadt e ora in Francia; presumibilmente è cattolico. Rauwolf invece è figlio di un facoltoso mercante, ha studiato prima a Tubinga, poi a Wittenberg ed è luterano. Le diverse fedi religiose non sono un ostacolo all'amicizia, cementata dagli interessi comuni, dall'ammirazione per il maestro Rondelet e dall'entusiasmo per la lussureggiante natura meridionale. Da Rondelet imparano come preparare un erbario e battono assiduamente la regione, "per monti e per valli", come scriverà lo stesso Rauwolf ricordando il sodalizio botanico con "il sapientissimo Jeremias Martius, mio eccellente amico". Meta preferita la montagna di Cette, dove raccolgono diverse centinaia di "semplici". L'anno dopo da Basilea arriva un ventenne che è giù un botanico esperto e si unisce immediatamente alle loro scorribande erborizzatrici: è il grande Jean Bauhin (1541-1613). Nel 1562 Rauwolf si laurea in medicina a Valence (dove la licenza era più a buon mercato rispetto a Montpellier). Nel 1563 entrambi gli amici sono in Italia: Martius studia a Padova, poi viene inviato dai Fugger a Firenze, quindi rientra ad Augusta dove si laurea nel 1565; divenuto medico cittadino, si fa un nome come traduttore dal latino, dall'italiano e dal francese. La sua traduzione più nota è probabilmente quella del ricettario di Nostradamus Excellent & moult utile Opuscule (Michaelis Nostradami, ... zwey Bücher, 1572). Rauwolf se la prende più comoda. In Italia visita Padova, Verona, Mantova, Ferrara, Bologna, Firenze, Modena, Piacenza, Parma, Milano e Como, senza mai trascurare di incrementare le sue raccolte. Approfitta del viaggio di ritorno per erborizzare sul san Gottardo e nella Foresta Nera e fare una capatina a Zurigo dove incontra Gessner e a Tubinga per un saluto a Fuchs. Così, quando rientra ad Augusta nel 1565, ai due volumi d'erbario raccolti nel Midi se n'è aggiunto un terzo, per un totale di circa 600 specie. Gli "anni di apprendistato" sono finiti e il trentenne Rauwolf deve mettersi al lavoro. Si sposa con la figlia di un patrizio della città, crea forse un piccolo hortus medicus dove riceve la visita di Clusius, esercita la professione prima a Aichach, quindi a Kempten, infine dal 1570 a Augusta dove è medico cittadino come l'amico Martius. E' in contatto epistolare con altri botanici e ama firmarsi con lo scherzoso pseudonimo Dasylychus, dal gr. dasùs "peloso, irsuto, selvaggio" e lukos "lupo", calco del cognome Rauwolf. Dopo qualche anno tranquillo, si presenta l’occasione di un viaggio molto più avventuroso. Ad offrirgliela è suo cognato Melchior Manlich, un mercante di alterne fortune che intorno al 1570 era attivo nel commercio con il Levante; aveva agenzie a Marsiglia, Costantinopoli, Famagosta, Tripoli in Libano, Aleppo e Alessandria d’Egitto, da cui importava merci di vario tipo: spezie, telerie, metalli, uvetta, tappeti, perle e pietre preziose. Nel 1573, quando i ribelli delle Fiandre si impadroniscono di una delle sue navi con un carico di pepe, si trova sull’orlo del fallimento; per risollevare le sue sorti pensa di mandare in Oriente il suo agente di Marsiglia, Hans Ulrich Krafft, e Rauwolf decide di accompagnarlo. Manlich spera di potersi giovare della sua competenza di medico e botanico per individuare piante medicinali da vendere con profitto sul mercato europeo. Partiti da Augusta nel maggio 1573, Rauwolf e Krafft si imbarcano a Marsiglia e a settembre raggiungono Tripoli; successivamente Rauwolf visita Aleppo, la Siria e l’Armenia turca, quindi raggiunge Costantinopoli. Nel 1574 è a Bagdad, da dove, percorrendo una strada aperta da poco, discende il corso dell’Eufrate per poi risalire il Tigri fino a Mosul. Sogna di proseguire alla volta dell’India, ma deve rassegnarsi a tornare indietro. Nel 1575 è a Gerusalemme e a novembre di nuovo a Tripoli, dove si imbarca per l’Europa, rientrando ad Augusta nel febbraio 1576. A parte Guilandino (che, però, perse tutte le sue raccolte in un naufragio) è il primo botanico europeo a esplorare la flora del vicino Oriente. Ad Augusta Rauwolf riprende l’attività di medico, tuttavia nel 1588, quando le autorità cittadine tornano al cattolicesimo, come luterano è costretto a trasferirsi a Linz, dove lavora per otto anni. Nel 1596 si arruola come medico militare delle truppe impegnate in Ungheria contro i Turchi, ma l’anno successivo muore di dissenteria. Una sintesi della sua vita avventurosa nella sezione biografie. Viaggi di botanici, viaggi di erbari Di questo inquieto botanico viaggiatore rimangono il resoconto del suo viaggio in Levante, Aigentliche beschreibung der Raisz [...] inn die Morgenländer ("Descrizione veritiera del viaggio in Levante", 1582) e un importante erbario. Scritto poco dopo il rientro in patria, in uno stile vivace e con accurate descrizioni dei popoli, dei costumi e dei pericoli del Levante, il libro di Rauwolf divenne un bestseller e fu più volte ristampato e tradotto tra l'altro in olandese e inglese, nell'ambito di una raccolta di resoconti di viaggio curata da Ray. L'autore pretende di riferire solo ciò che ha visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani, anche se in realtà si appoggiò anche su numerose fonti, inclusa la Bibbia. Le pagine più celebri sono quelle dedicate alla preparazione e al consumo del caffè, una bevanda all'epoca del tutto sconosciuta in Occidente. Un intero capitolo è dedicato alla descrizione di 364 specie di piante con i nomi locali e dettagliate informazioni sul loro uso; è accompagnato da 42 xilografie che furono sicuramente eseguite a partire da piante dell'erbario di Rauwolf, che in Levante raccolse circa 200 esemplari, che andarono a formare il quarto volume del suo erbario. Quest'ultimo conobbe vicende avventurose quasi come quelle del suo creatore. I quattro volumi, notevolissimi anche per l'eccellente preparazione e il montaggio degli esemplari, dopo la morte di Rauwolf furono acquistati dall'imperatore Rodolfo II e custoditi nella sua "camera del tesoro" a Praga. Nel 1620, all'inizio della guerra dei Trent'anni, furono però rubati da soldati dell'elettore di Baviera Massimiliano I e portati a Monaco, dove trovarono un provvisorio rifugio nella sua Wunderkammer. Provvisorio perché pochi anni dopo anche la camera delle meraviglie di Massimiliano fu saccheggiata, questa volta dagli svedesi di Gustavo Adolfo. Insieme a molti preziosi libri preda di guerra, l'erbario di Rauwulf finì nella biblioteca reale di Stoccolma, finché, intorno al 1655, la regina Cristina, che aveva appena abdicato e non aveva denaro per pagare il salario arretrato al suo bibliotecario, il famoso bibliofilo Isaac Vossius, liquidò le sue spettanze in libri, incluso l'erbario di Rauwolf. Vossius lo portò con sé a Londra, dove visse fino alla morte, nel 1689. E finalmente, il prezioso erbario trovò la sua casa definitiva: la biblioteca e le collezioni di Vossius furono acquistate dall'Università di Leida. Custodito nel sancta sanctorum degli esemplari più preziosi, è oggi uno dei tesori dell'Erbario nazionale olandese. Il direttore della biblioteca dell'Università di Leida era il celebre filologo Johann Friederich Gronovius (1611-1671), ovvero il nonno dell'omonimo botanico Jan Frederik che si basò sull'erbario di Rauwolf per scrivere la sua Flora orientalis. L'opera era ovviamente ben nota al suo amico Linneo che, riprendendo un genere già creato da Plumier, dedicò al nostro botanico viaggiatore il genere Rauvolfia. Appartenente alla famiglia Apocynaceae e distribuito nella fascia tropicale di America, Africa, Asia e in diverse isole del Pacifico, comprende una settantina di specie di alberi o arbusti sempreverdi, con foglie verticillate in gruppi di 3-6 e infiorescenze di piccoli fiori per lo più bianchi, anche se talvolta con calice o tubo rosso; i rami spezzati secernono un lattice biancastro. Molte specie hanno proprietà medicinali. La più nota da questo punto di vista è probabilmente R. serpentina, nativa del subcontinente indiano e dell'Asia orientale: è una delle cinquanta essenze fondamentali della medicina cinese; la medicina ayurvedica, dove è chiamata sarpagandha, oltre a utilizzarla come anti ipertensivo, ritiene purifichi la mente e favorisca la meditazione, tanto che l'infuso della sua radice fu usato anche da Gandhi. Negli anni '50 ne fu estratto l'alcaloide reserpina, che in passato trovò ampio impiego nella terapia farmacologica dell'ipertensione e di alcune psicosi; a causa dei gravi effetti collaterali in molti paesi è stato ritirato dal commercio. Anche la centro e sud americana R. tetraphylla occupava una posizione importante nella medicina tradizionale degli indios. D'altra parte, gli estratti di altre specie, come l'africana R. mannii e la malgascia R. media, sono utilizzati come veleni, topicidi e insetticidi. La duplice natura è evidente in R. vomitoria, di origine africana ma naturalizzata in Cina e altri paesi: tossica in tutte le sue parti, viene usata per avvelenare le frecce o preparare veleno per i topi, ma allo stesso tempo la decozione o estratti delle radici, o talvolta la polpa dei frutti, trovano impiego come emetici, purganti e nella cura di una varietà di affezioni. Insomma, un'arma a doppio taglio che è meglio evitare. Altre informazioni nella scheda. A partire dalla fine degli anni '30 del Settecento, a San Pietroburgo c'erano ben due orti botanici: uno dipendeva dalla Cancelleria medica e ospitava soprattutto specie medicinali; l'altro era annesso all'Accademia delle scienze ed era essenzialmente un giardino didattico e di acclimatazione. A volere fortemente il secondo fu il professore di botanica Johann Amman che, educato a Leida, pensava che il "vecchio" giardino (vecchio per modo di dire: aveva poco più di vent'anni) fosse ormai obsoleto, oltre che troppo lontano dall'Accademia. Ben presto i due giardini furono diretti dalla stessa persona e la bipartizione perse via via significato, finche nel 1823 vennero fusi a formare il nuovo Imperiale orto botanico. Amman, morto giovanissimo, fu ricordato dall'amico William Houstoun con il genere Ammania; Linneo lo fece proprio, ma lo ribattezzò Ammannia (con due enne) e lo dedicò a un omonimo: Paul Amman, direttore secentesco dell'orto botanico di Lipsia e precursore della classificazione naturale. Un giardino, anzi due... A studiare la storia russa, si ha sempre l'impressione che tutto sia complicato, non lineare, contraddittorio. E così capita che nell'arco di meno di mezzo secolo, l'autorità imperiale prenda l'iniziativa di fondare tre orti botanici, che poi continuano la loro vita parallela in una gran confusione di funzioni, conflitti personali, sperpero di denaro. Si comincia a Mosca nel 1706, quando Pietro il Grande ordina di creare un orto dei farmacisti (Aptekarskij ogorod) destinato alla coltivazione di piante officinali per le farmacie cittadine. Lo zar ci tiene tanto che, si racconta, vi piantò di sua mano tre conifere (l'ho raccontato qui). Il giardino è gestito dalla Cancelleria delle farmacie, un organismo tradizionale controllato da membri dell'alta aristocrazia. Ma intanto Pietro ha deciso di creare ex novo, facendola sorgere letteralmente dal mare e dalle paludi, la sua nuova capitale, San Pietroburgo, dove trasferisce a forza la corte e tutte le strutture amministrative. Mette mano anche alla riforma della medicina, affidandola al suo medico personale, lo scozzese Robert Erskine, che crea un nuovo organismo, la Cancelleria medica, che d'ora in avanti controllerà l'attività dei medici civili e militari e dei farmacisti. E' in un certo senso un doppione della Cancelleria dei farmacisti, che però per non creare un conflitto immediato con l'aristocrazia moscovita non viene abolita, ma svuotato dall'interno. Erskine dirige un gigantesco trasferimento di documenti, materiali e piante. La centrale operativa della Cancelleria medica viene stabilita in una delle isole settentrionali del delta della Neva, piuttosto distante dal nucleo centrale, dove vengono costruiti la sede degli uffici, un laboratorio per la preparazione dei medicamenti e un vasto orto botanico, la cui fondazione è decretata verso la fine del 1713. Si chiamerà Aptekarskij sad (giardino dei farmacisti) e l'isola stessa prenderà il nome Aptekarskij ostrog, Isola dei farmacisti. I due giardini hanno la stessa funzione, ma vista la distanza è sensato avere due giardini medici che coltivano piante officinali per le farmacie delle rispettive aree; un po' meno che uno dipenda dalla Cancelleria dei farmacisti (dunque da un organismo semi autonomo), l'altro dalla Cancelleria medica (dunque direttamente dal sovrano, attraverso il suo archiatra). Le cose si complicano quando, sull'esempio degli orti botanici di Parigi e Leida, si decide di farne anche dei giardini di acclimatazione delle piante esotiche ottenute con lo scambio semi da orti botanici europei e delle specie raccolte in natura nel vastissimo e variegato impero russo dalle numerose spedizioni naturalistiche che si succedono nel corso del secolo. Finisce per imporsi una certa specializzazione "geografica": fatto salvo che il centro è San Pietroburgo, le spedizioni che esplorano la Russia europea, le rive del mar Nero, il Caucaso tendono a far capo a Mosca, e il giardino moscovita si arricchisce soprattutto di piante delle steppe. I materiali raccolti dalle spedizioni che operano al di là degli Urali ed esplorano la Siberia fino alle rive del Pacifico, i confini con la Cina, l'Asia centrale tendono ad affluire all'Isola dei farmacisti. Le prime spedizioni, come quella di Messerschmidt in Siberia (1719-1727) o di Buxbaum (1724-1727) a Costantinopoli, sono organizzate dalla Cancelleria medica, ma nel 1724 viene fondato un terzo organismo, con compiti scientifici e didattici: l'Accademia russa delle Scienze, con sede nell'isola Vasil'ekskij, accanto all'edificio dove è conservata la Kunstkamera, la camera delle meraviglie imperiali. L'imperatore e il suo archiatra considerano tutto ciò che viene riportato dalle spedizioni russe un tesoro nazionale che va ad arricchire la Kunstkamera e deve essere studiato e pubblicato esclusivamente dai professori dell'Accademia. E così succede che le piante vive e i semi raccolti da Gmelin durante la Grande spedizione del Nord (salvo quelli che egli coltiva nel suo giardino privato) finiscono nelle aiuole dell'isola dei farmacisti, mentre gli esemplari d'erbario sono custoditi nell'isola Vasil'evskij. Qui il professore di botanica del ginnasio e dell'Università accademica tiene le lezioni teoriche, mentre lezioni pratiche, le "dimostrazioni", toccano al dimostratore del Giardino dei farmacisti. Meglio ancora, tre! All'inizio del 1733, mentre i professori dell'Accademia si preparano a partire per la Grande spedizione del Nord, da Londra arriva il giovane medico svizzero Johann Amman (1707-1741). Ha appena venticinque anni, ma ha ottime referenze: in primo luogo si è laureato a Leida con Boerhaave, il più grande professore di medicina e botanica dell'epoca; in secondo luogo, ha lavorato per tre anni come curatore della collezione naturalistica di Hans Sloane, il presidente della Royal Society, alla quale egli stesso è stato ammesso nel 1731. Viene immediatamente nominato professore di botanica e scienze naturali in sostituzione di Gmelin in partenza per la Siberia e gli viene affidata la pubblicazione delle raccolte di Buxbaum e Messerschmidt. Nel 1735, dopo anni senza un direttore, al Giardino dei farmacisti viene nominato direttore e dimostratore il tedesco Johann Georg Siegesbeck, celebre per la sua polemica con Linneo e il suo pessimo carattere. La convivenza con Amman non è facile; Siegesbeck è frustrato perché briga inutilmente per essere ammesso all'Accademia e al rango di professore, Amman - la cui salute è purtroppo precaria - considera uno spreco di tempo e un disagio sempre più gravoso dover fare la spola tra le due isole, specie d'inverno, nel clima proverbialmente pessimo della capitale petrina. Incomincia così a fare pressioni perché l'Accademia si doti di un proprio orto botanico, dove studiare le piante dal vivo e impartire le lezioni pratiche. Educato a Leida, pensa che sia ora che anche San Pietroburgo abbandoni la vecchia concezione strumentale dell'hortus medicus, e si doti di un vero orto botanico moderno per la didattica e l'acclimatazione di piante esotiche e novità botaniche. Come ci informano le sue lettere a Sloane, l'idea fa breccia lentamente nell'amministrazione: all'inizio ha a disposizione solo un giardinetto, e come serra la sua stessa stanza. I finanziamenti per fare le cose in grande arrivano solo nel 1738 o nel 1739, quando la grande massa di piante giunte dalla Siberia e dalla Kamčatka grazie a Gmelin, Krašeninnikov e Steller rende urgente trovare loro una sede adeguata. E così, a San Pietroburgo, a pochi km di distanza, ci saranno due orti botanici: quello dell'Isola dei farmacisti, dipendente dalla cancelleria medica e principalmente orientato alle piante medicinali, e quello dell'isola Vasilev'skij, dipendente dall'Accademia, orientato alla didattica e alla coltivazione delle piante esotiche. Nel 1741 Amman, afflitto da ricorrenti problemi di salute fin dal suo arrivo a San Pietroburgo, morì a soli 34 anni. Siegesbeck ottenne finalmente la sospirata ammissione all'Accademia e gli succedette sia come professore sia come direttore del neonato orto accademico, mantenendo la direzione anche del Giardino dei farmacisti. Pochi anni dopo sarebbe stato scacciato con ignominia per il suo pessimo carattere e per la sua discutibile preparazione. Dopo di lui, i due giardini furono quasi sempre diretti dalla stessa persona, rendendo via via più assurdo il doppione, tanto più se si considerano gli angusti spazi dell'isola Vasil'evsij e il progressivo miglioramento dei trasporti urbani. Bisognò però attendere il 1823 perché i due orti botanici pietroburghesi fossero fusi in uno solo (denominato Imperiale orto botanico di san Pietroburgo), anche se il giardino dell'Accademia continuò ad esistere fino all'inizio del Novecento come sezione staccata. Un'Ammannia per due (forse) Prima di concludere, ancora due parole su Ammann. Testimonianze contemporanee lo descrivono come un uomo di grande cultura e insieme di grande umanità, che parlava molte lingue ed era profondamente dedito allo studio. La salute gli impedì di partecipare a raccolte sul campo, a parte brevi escursioni nei dintorni della capitale, ma fu un attivissimo "botanico da scrivania". Oltre a completare la pubblicazione dell'opera di Buxbaum, seminò nel giardino dell'Accademia i semi inviati dai suoi numerosi corrispondenti europei e raccolti dalle spedizioni di Orenburg, in Siberia e in Kamčatka e trasse un notevole erbario dagli esemplari adulti. Descrisse le specie nuove raccolte soprattutto da Heinzelmenn durante la spedizione di Orenburg, da Messerscmidt e da Gmelin in Siberia in Stirpium Rariorum in Imperio Rutheno Sponte Provenientium Icones et Descriptiones (1739) in cui descrisse 285 piante. Quest'opera illustrata, di grande impegno editoriale, fu una una delle prime a fare conoscere piante precedentemente inedite del Caucaso, dell'Asia centrale e della Siberia centro-meridionale. Oltre che con Sloane, era in corrispondenza con Collinson, Dillenius e Miller in Gran Bretagna cui inviò molte piante e ne ottenne i semi di molte piante nordamericane che fu il primo a introdurre in Russia. Fu uno dei primi corrispondenti di Linneo, neo professore a Uppsala, e molto contribuì al suo "giadino siberiano". Si ritiene che attraverso di lui abbiano fatto il loro ingresso nei giardini europei Lonicera tatarica, Gypsophila paniculata e Delphinium grandiflorum. Quando studiava a Leida, Amman aveva stretto amicizia con William Houstoun, che fu proprio la persona che lo presentò a Sloane. L'amico volle ricordarlo con uno dei nuovi generi da lui scoperti in Messico e nelle Antille, Ammania; egli non motivò la dedica, che però è confermata dalla testimonianza dell'amico comune Philip Miller. Linneo riprese il genere da Houstoun e lo ufficializzò in Species plantarum come Ammannia. In Critica botanica (1737) dichiara però di averlo dedicato al medico e botanico tedesco Paul Amman (1631-1694). Se pensiamo che all'epoca Johann Amman era ancora vivo, non aveva scritto nulla e la sua stessa corrispondenza con Linneo era ancora al di là da venire, non è strano che egli abbia cambiato il dedicatario. Inoltre, dal punto di vista di Linneo, Paul Amman (Paulus Ammannus) era certamente meritevole di essere ricordato. Direttore dell'hortus medicus di Lipsia nella seconda metà del Seicento ne fece il più importante della Germania; famoso per il suo sarcasmo e le sue critiche corrosive, oltre al primo catalogo del giardino, che comprende anche le piante della flora locale, scrisse Character plantarum naturalis (1676) in cui diede una prima diagnosi dei generi, basandosi principalmente sul frutto, e tentò una classificazione delle piante che riprende il sistema di Robert Morrison. Era dunque uno dei quei "sistematici" che Linneo considerava suoi predecessori. Per non fare torto né a Houstoun né a Linneo, ricordiamo dunque entrambi gli Amman, sia Johann sia Paul, delle cui vite troverete una sintesi nella sezione biografie. Il genere Ammannia L. (famiglia Lythraceae) - in seguito alla confluenza dell'affine genere Nesaea -comprende un centinaio di specie di piante erbacee acquatiche o di palude provenienti da varie zone temperate o tropicali; per lo più annuali, hanno fusti eretti o decombenti, che possono crescere sulle rive o fluttuare semisommersi, foglie da arrotondate a lanceolate o lineari, fiori minuti con 4-5 petali (ma talvolta apetali), in genere rosa, seguiti da capsule che contengono un grandissimo numero di semi. Questi ultimi, concavo-convessi, sono atti a fluttuare sulle acque e si mantengono vitali relativamente a lungo. Alcune specie (solitamente in precedenza classificate come Nesaea) sono utilizzate come piante da acquario. Tra di esse A. pedicellata, originaria di ambienti acquatici dell'Africa sudorientale, con folti ciuffi semisommersi di foglie lunghe e strette, che nella cultivar 'Golden' sono giallo dorato; A. gracilis ha invece foglie verdi nella parte inferiore e rosso vivo in quella superiore o emersa. Alcune specie sono presenti come avventizie nella nostra flora, soprattutto come occasionali infestanti delle risaie: A. coccinea (il nome deriva dal fatto che i fusti sono spesso rossastri) cresce in ambienti umidi della pianura padana, come fossi e arginelli delle risaie; A. robusta è segnalata in Lombardia e in Veneto; A. verticillata è naturalizzata in Sardegna e sporadicamente ritrovata altrove. Qualche approfondimento nella scheda. L'Università di Oxford vanta il più antico orto botanico della Gran Bretagna, fondato nel 1621, uno dei primissimi al mondo, nato addirittura prima di quello di Parigi. Ma per essere operativo ci mise vent'anni e per diventare un vero orto botanico universitario quasi mezzo secolo. A coltivarlo e custodirlo, due eccentrici personaggi: Jacob Bobart il vecchio e il giovane. Forse quasi tutto quello che si racconta su di loro appartiene più alla leggenda che alla realtà, ma sarebbe un peccato. In ogni caso, Linneo ne aveva abbastanza stima da onorarli con l'interessante genere Bobartia. Bobart padre e figlio: due eccentrici? Nel 1621 un gentiluomo della corte di Carlo I Stuart, Henry Danvers, primo conte di Danby, fece dono all'Università di Oxford di 250 sterline per affittare un terreno dove allestire un «vivaio dei semplici, dove un professore di botanica passa leggere le piante e mostrare i loro usi e virtù agli uditori». Sicuramente guardava ai modelli italiani; sappiamo che suo fratello minore John era un grande appassionato di giardini e ne aveva creato uno raffinatissimo a Chelsea, appunto sul modello italiano. Tuttavia la benemerita impresa partì con il piede sbagliato: fu scelto un terreno appartenente al Magdalene College situato sulla riva del fiume Cherquell soggetto a periodiche inondazioni; fu necessario bonificarlo con centinaia e centinaia di carrettate di buona terra e proteggerlo con un muro. Prima che fosse pronto, erano passati dodici anni. Di pianta quadrata, era un hortus conclusus al quale si accedeva da una porta monumentale, diviso in quattro quadranti da due viali perpendicolari. Era costato 5000 sterline, e ormai il generoso donatore era a corto di quattrini. Fu così che solo nel 1641 poté ingaggiare un abile giardiniere per prendersi cura del giardino, Aveva pensato addirittura a John Tradescant, che però mori prima di assumere l'incarico. Ripiegò allora sul tedesco Jacob Bobart. Le fonti lo dicono nativo di Brunswick, un ex soldato arrivato in Inghilterra per sfuggire alla guerra dei Trent'anni. Il contratto stipulato con Danby gli concedeva il diritto di usare e vendere i frutti del giardino. Ma già nel 1644 il nobiluomo morì, mentre ormai imperversava la guerra civile. Le sue proprietà furono poste sotto sequestro dai seguaci del Parlamento, e Bobart si trovò senza stipendio. A permettergli di mantenere se stesso e la numerosa famiglia (sposato due volte, ebbe due figli e una nidiata di sei figlie) più ancora dei prodotti dell'hortus medicus, o Physic garden, erano il commercio di piante medicinali e esotiche e la locanda The Greyound Inn, situata proprio di fonte al giardino. Era un giardiniere appassionato e di talento, ma anche alquanto bizzarro: ostentava una lunga barba, che nei giorni di festa ornava con tasselli d'argento, e come animale da compagnia, anziché un cane, teneva un caprone. Per venticinque anni, fu il signore e padrone del giardino, che trasformò in un paradiso terrestre: ai lati della porta monumentale, dispose una coppia di tassi a mo’ di guardiani, creò mirabili sculture verdi in topiaria, piantò tutte le piante esotiche che poté procurarsi nonostante il periodo difficile. Nel 1648 ne pubblicò il primo catalogo, anonimo: le specie e varietà, menzionate con il nome comune e una frase descrittiva in latino, sono 1639. Circa seicento sono native, ma ci sono anche numerose specie nordamericane. Poi la guerra finì, e così l'effimera Repubblica inglese. Nel 1660 Carlo II recuperò il trono e tornò in Inghilterra accompagnato dal medico personale e botanico reale Robert Morison. Proprio lui nel 1669 (48 anni dopo la fondazione) divenne il primo professore di botanica di Oxford e il primo direttore dell'orto botanico (praefectus horti). Bobart il vecchio era già sulla settantina e non sappiamo come prese la convivenza. Forse, a collaborare con il neo professore, più che lui, fu suo figlio Jacob il giovane, che già nel 1658 aveva aiutato il padre a scrivere una seconda edizione del catalogo. Morison era un grande botanico, ma era anche celebre per la sua alterigia: come Ray, era alla ricerca di un metodo naturale per classificare le piante e riteneva che tutti i botanici del presente e del passato che si erano imbarcati nella stessa impresa avessero scritto solo fregnacce (allucinazioni, Hallucinationes, diceva lui). Riuscì a convincere l'Università di Oxford a pubblicare la sua ambiziosissima Historia Plantarum Universalis Oxoniensis, in cui intendeva presentare tutte le piante note, catalogandole in gruppi naturali sulla base dei frutti e dei semi. Il compito dei Bobart era procurargli le piante e allestire l'erbario. Probabilmente Jacob il giovane (non risulta invece che lo avesse fatto il padre) lo assisteva durante le dimostrazioni delle piante (anche a Parigi le lezioni pratiche erano impartite dal capo giardiniere). Nel 1680 succedette al padre come curatore del giardino e nel 1683, alla morte improvvisa di Morison in seguito a un incidente stradale, ne divenne praefectus; fu nominato professore assistente e l'Università gli affidò il completamento di Historia Plantarum Universalis. Morison aveva fatto in tempo a pubblicare solo il secondo volume; Bobart riuscì a completare il terzo, mentre il primo non fu mai scritto. Senza essere un botanico di primo piano, se la cavò con scrupolo e onore, aggiungendo anche molte piante nuove, ma ebbe cura di espungere i feroci attacchi di Morison contro gli "allucinati" botanici del passato e del presente. Tuttavia, la costosissima impresa editoriale portò la casa editrice universitaria sull'orlo del fallimento. Vissuto fino in tarda età, poco prima della morte fu costretto alle dimissioni, con grande rincrescimento di William Sherard che era stato suo allievo e ne aveva grande stima. Il suo maggiore merito è la creazione di un grande erbario, che costituisce il primo nucleo dell'Erbario dell'Università di Oxford. Su di lui si racconta un curioso aneddoto: avendo trovato nel giardino un grosso topo morto, ne alterò la testa e la coda e ne distese la pelle per simulare due ali, in modo che assomigliasse all’immagine tipica di un drago. Esaminato dai professori di Oxford, l’artefatto fu creduto autentico e celebrato in versi nelle società erudite; qualcuno ne spedì persino una descrizione a Antonio Magliabechi, bibliotecario del granduca di Toscana. Solo a questo punto Bobart confessò l’inganno. Un visitatore lamentò che, con la mani e la faccia sporche di terra, più che un grande botanico, sembrava un qualsiasi giardiniere. Leggenda e realtà Fin qui l'immagine tradizionale dei due Bobart: due eccentrici dai modi anticonvenzionali, due figure pittoresche. Ma come capita spesso, quando una storia è troppo bella per essere vera, probabilmente non lo è. La studiosa tedesca Karin Seber, che ha attentamente studiato le poche fonti disponibili su Jacob il vecchio, è giunta alla conclusione che quasi tutto ciò che sappiamo su di lui è falso o va interpretato in modo totalmente diverso. In primo luogo, non era affatto un oscuro soldato tedesco senza né arte né parte giunto in Inghilterra dalla natia Brunswick. Apparteneva a un'eminente famiglia (il nome originale è Bobert) di mercanti di Danzica, e forse era addirittura figlio del borgomastro della città; uno dei suoi parenti - forse un fratello - commerciava con l'Olanda; come dimostrano i libri che lasciò al figlio e furono poi da questi donati all'Univeristà, già in patria aveva studiato botanica medica. Seber ipotizza che si sia trasferito in Inghilterra come mercante, forse già specializzato nel commercio di piante medicinali e altri semplici. Difficile pensare che lord Danby, che avrebbe voluto ingaggiare John Tradescant, giardiniere del re e massimo esperto di giardinaggio del tempo, abbia assunto al suo posto un signor nessuno. Forse già prima di entrare al suo servizio, Bobart aveva affittato (o acquistato) la locanda, utilizzandone i terreni per coltivare piante medicinali e i locali come base del suo commercio, facendosi notare per la sua grande competenza di giardiniere e esperto di piante officinali. Secondo Seber, anche le sue abitudini bizzarre vanno rilette; nel frontespizio di Vertumnus, un poema di Abel Evans in onore di Jacob il giovane, alla sinistra della porta monumentale del giardino è stato rappresentato il suo primo custode con una chioma fluente e una lunga barba; nella mano sinistra impugna il bastone di Asclepio, simbolo della medicina. Accanto a lui, una capra (simbolo della voracità naturale domata dalle arti del giardiniere?); più oltre un cane addormentato. Dunque, quei tratti eccentrici fanno parte di una voluta autorappresentazione come depositario e custode dei segreti delle erbe medicinali. Ovviamente, anche la storia del drago di Oxford è stata rimessa in discussione dagli scettici, che fanno notare che la prima attestazione scritta (nella Biographical history of England di Granger e Walpole) è del 1774, più di mezzo secolo dopo la morte del suo protagonista; inoltre non è mai stato trovato neppure uno degli scritti che gli sarebbero stati dedicati dalle società erudite. Forse dunque l'aneddoto è altrettanto posticcio quanto il topo-dragone. D'altra parte, sta a testimoniare la fama di eccentricità che circondava i Bobart, padre e figlio. I fiori effimeri di Bobartia Linneo in persona li stimava abbastanza da dedicare loro il genere Bobartia, della famiglia Iridaceae. Con una quindicina di specie, tutte sudafricane, anzi ristrette alle Provincia del Capo, questo piccolo genere è caratterizzato da sottili rizomi orizzontali o eretti, ciuffi di foglie sottili che in alcune specie ricordano il giunco, lunghi scapi fiorali con infiorescenze terminali di fiori lievemente asimmetrici con sei tepali solitamente gialli (ad eccezione di B. lilacina, che li ha lilla chiaro). Sono graziosi, ma di breve durata (meno di una giornata). Forse questo spiega perché le specie di questo genere sono raramente coltivate. Vivono per lo più in ambienti montani, con terreni sabbiosi e poveri di nutrienti, e tendono a fiorire più copiosamente dopo gli incendi. Qualche informazione in più nella scheda. Che la Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) non fosse un ente di beneficenza è chiaro: il suo fine era il guadagno, a qualsiasi prezzo, compresi la deportazione e il genocidio degli indigeni, la distruzione delle piante della concorrenza, la difesa del proprio monopolio a cannonate. Chi si arruolava come mercenario nel suo esercito privato sapeva di dover essere pronto a tutto. Se poi, venuto dal nulla, riusciva pure a fare fortuna, certo non doveva mancare di pelo sullo stomaco. Sicuramente non ne difettava il (sedicente?) medico Andreas Cleyer: arrivato a Batavia come soldato da una Germania ancora segnata dalla Guerra dei Trent'anni, riuscì in breve tempo a diventare il direttore e il fornitore ufficiale della farmacia della VOC, a scalare i vertici locali della Compagnia e ad essere l'unico non olandese a dirigere l'emporio di Dejima (dove fece soldi in modo per lo meno disinvolto). Il suo interesse per le piante però non era solo strumentale e, insieme al suo capo giardiniere Georg Meister, ha lasciato uno dei primi contributi sulla flora giapponese, precedendo anche Kaempfer (che probabilmente convinse ad accettare il posto di chirurgo a Dejima). Tutto sommato meritato l'omaggio tributatogli da Thunberg, che gli dedicò una pianta molto importante nella cultura giapponese, la sacra Cleyera japonica. Da faccendiere a naturalista Al contrario dell'eroe di Thomas Mann, il cavaliere d'industria Andreas Cleyer (1634-1698) non ci ha lasciato le sue confessioni; altrimenti forse sapremmo qualcosa di più (o a ben pensarci ancora di meno) sui punti oscuri della sua vita. Due certezze: la nascita a Kassel, in Assia, nel 1634, quando ancora imperversava la Guerra dei Trent'anni, e l'arrivo nelle Indie orientali olandesi nel 1662, come adelborst, ovvero soldato mercenario al servizio della VOC. In mezzo, il vuoto. La sua versione è che si fosse laureato in medicina (forse a Marburg), ma non risulta immatricolato in nessuna università. Certo qualche studio l'aveva fatto: sapeva il latino e si intendeva davvero di anatomia e piante medicinali; almeno abbastanza da essere assunto all'ospedale della VOC di Batavia come assistente. Da quel momento, incominciò a fare carriera. Nel 1665, i registri della Compagnia indicano che era stato assegnato alla farmacia del forte con il compito di preparare e consegnare i medicinali. L'anno successivo fu coinvolto nella fondazione della scuola latina, di cui per qualche tempo fu anche rettore. Ma ad assicurargli la ricchezza e una posizione sociale eminente furono le piante officinali: nel 1667, alla morte del farmacista della fortezza, ne prese il posto e l'anno successivo assunse anche la gestione della farmacia cittadina; più tardi aprì un proprio negozio. I semplici, gli ingredienti dei medicinali, che arrivavano dall'Europa, oltre ad essere molto costosi, a causa del lunghissimo viaggio per mare spesso perdevano tutte le loro virtù. L'idea geniale di Cleyer fu di produrli lui stesso sul posto. Allestì uno o più orti dei semplici (sappiamo che li lavoravano ben cinquanta schiavi) dove fu in grado di far coltivare le erbe medicinali che poi utilizzava per creare medicamenti a basso costo. A basso costo per lui, s'intende: riuscì a strappare un lucrativo contratto alla VOC, che pagava le sue medicine al prezzo corrente sul mercato europeo maggiorato di una commissione del 50% (un prezzo così sospetto che ad Amsterdam fiutarono l'inganno e rescissero il contratto). Il suo interesse per le piante medicinali però era genuino, e non solo come fonte di guadagno, al punto di creare attorno a sé una piccola rete di collaboratori, in genere altri tedeschi giunti come lui a Batavia in cerca di fortuna. Per qualche tempo quello principale fu Georg Meister (1653-1713), anche lui arruolatosi come soldato mercenario; in patria però era stato giardiniere, e a partire dal 1677 Cleyer ne fece il suo capo giardiniere. Ufficialmente, era un dipendente della VOC, e a guardare per il sottile che lavorasse per Cleyer era illegale, dettaglio che certo non impensieriva il nostro disinvolto affarista, che ormai era uno dei membri più ricchi, stava scalando i vertici locali della Compagnia e dal 1680 faceva parte del Consiglio di giustizia. Incominciò anche a farsi conoscere in Europa come naturalista; nel 1678 fu ammesso all’Academia naturae curiosorum (la futura Accademia leopoldina di Berlino) ed entrò in contatto con i direttori dell'Orto botanico di Amsterdam, cui inviò diverse piante e con vari accademici tedeschi, tra cui Christian Mentzel. Nel 1681 capitò a Batavia un altro tedesco, Heinrich Claudius (il nome è più noto nella forma olandese Hendrik, circa 1665-97): era un farmacista e anche un dotato pittore. Clayer lo assunse e decise di approfittare dei suoi talenti per spedirlo a Mauritius e al Capo di Buona Speranza a fare incetta di piante medicinali. Tuttavia in Sud Africa Claudius passò direttamente al servizio della VOC e il suo rapporto con Cleyer si interruppe. L'anno dopo l'intraprendente farmacista fu nominato opperhoofd (mercante-capo o governatore) di Dejima, benché non fosse olandese e in teoria solo questi ultimi vi fossero ammessi. Da una parte era un incarico redditizio, perché (in modo più o meno tollerato) i mercanti olandesi, oltre che per conto della VOC, trafficavano in proprio; dall'altra parte Cleyer contava di approfittarne per studiare la flora giapponese, tanto che si fece accompagnare da Georg Meister (interesse privato in atto d'ufficio, ma violazione più violazione meno...). Cleyer fu governatore di Dejima per due mandati, nel 1682-83 e nuovamente nel 1685-86, quando fu espulso dalle autorità giapponesi con l’accusa di non tenere abbastanza sotto controllo il contrabbando. Visto che i giapponesi coinvolti furono giustiziati e al suo rientro a Giava egli era abbastanza ricco da acquistare la più bella casa di Batavia, è molto probabile che uno di quei contrabbandieri fosse proprio lui. In Giappone acquistò uno splendido manoscritto con centinaia di disegni di piante e uccelli; inviato a Berlino a Mentzel, ora è uno dei gioielli della Biblioteca di stato; inoltre mise a frutto l'anno e mezzo trascorso a Dejima (compresi i due viaggi a Edo per rendere omaggio allo shogun) per raccogliere i materiali e informazioni grazie ai quali, dopo il ritiro a vita privata, si costruì una reputazione di naturalista e esperto di cose giapponesi. Infatti, l'espulsione dal Giappone, che sicuramente creò non pochi problemi alla VOC, lo costrinse a lasciare la Compagnia; da quel momento dedicò il suo tempo alla ricerca e alla scrittura. Già nel 1682 aveva esordito in questa attività pubblicando Specimen medicinae sinicae, il primo testo illustrato di medicina cinese uscito in Europa; anche se il suo nome compare sul frontespizio, ne era solo il curatore; si tratta infatti della traduzione di trattati di medicina cinese a opera di vari padri gesuiti missionari in Cina; uno di loro era il polacco Michael Boym, di cui nel 1686 Cleyer pubblicò un trattato sull'esame del polso, Clavis medica ad Chinarum de pulsibus. A partire dal 1683, incominciò a contribuire alle Miscellanee dell’Academia Naturae Curiosorum di Berlino con una serie di Observationes (in tutto 46, alcune postume) che riguardano argomenti diversi, tra cui la pratica della moxa, ma il nucleo più consistente è costituito dalla descrizione di una cinquantina di piante giapponesi, comprese Camellia japonica e Wisteria japonica. Eccetto alcune specie coltivate di larga diffusione, sono basate, più che sull'osservazione delle piante vive, sulle informazioni raccolte dagli interpreti e su campioni di medicinali; non di rado le descrizioni sono dunque assai parziali e vertono in gran parte sulle proprietà officinali. Bastano però a farne il pioniere dello studio della flora nipponica; inoltre gli va riconosciuto il merito di aver incoraggiato Kaempfer ad accettare l'incarico di chirurgo a Dejima, dove egli poté riprendere la sua indagine con ben altra competenza e profondità. Cleyer non tornò mai in Europa e rimase a Giava, dove morì nel 1698. Invece il giardiniere Meister, che come abbiamo visto lo accompagnò nei due soggiorni giapponesi, nel 1686 tornò in Germania, divenne giardiniere capo dell'elettore di Sassonia a Dresda e nel 1692 pubblicò il curioso Der Orientalische-Indianische Kunst-und Lust-Gärtner, «Il giardiniere d’arte e di piacere delle Indie orientali», il primo libro esplicitamente dedicato ai giardini dell’Estremo oriente. Nel capitolo dieci Japponische Baumschule "Vivaio giapponese" si parla dell'arte del bonsai e si descrive un'ottantina di piante giapponesi. Le descrizioni di Meister sono considerate ancora più approssimative di quelle del suo datore di lavoro. Del resto, a parte qualche breve escursione, non lasciò mai Dejima, e anche per descrivere i giardini giapponesi di Nagasaki dovette affidarsi totalmente a quanto gliene riferirono gli interpreti. Cleyera ovvero il sacro sakaki Carl Peter Thunberg, anche lui medico della VOC quasi un secolo dopo queste vicende, quando le condizioni di semi prigionia in cui operavano gli olandesi si erano fatte ancora più aspre, riconobbe i meriti di precursore del nostro naturalista-faccendiere dedicandogli in genere Cleyera; e scelse opportunamente una pianta estremamente significativa per la cultura giapponese, il sakaki (Cleyera japonica): considerata sacra nella religione shintoista, i suoi rametti intrecciati con strisce di carta, seta e cotone formano il tamagushi, offerto ritualmente in occasione di matrimoni, funerali e altre cerimonie. Inoltre boschetti di sakaki delimitano lo spazio sacro attorno ai templi. Si tratta della più nota delle circa venti specie del genere Cleyera (famiglia Pentaphylacaceae), caratterizzato da una distribuzione disgiunta: due terzi delle specie vivono nell'Estremo oriente temperato (dall'Himalaya al Giappone), il resto in Messico e America centrale. C. japonica è un grande arbusto o un alberello sempreverde con foglie ovali, coriacee, lucide, verde scuro nella pagina superiore, verde giallastro in quella inferiore, profondamente solcate in corrispondenza del picciolo. All'inizio dell'estate produce piccoli fiori profumati bianchi simili a quelli della camelia (un tempo le Pentaphylacaceae facevano parte della famiglia Theaceae). I frutti sono bacche dapprima rosse quindi nere, anch'esse rese attraenti dal contrasto con i sepali persistenti. E' l'unica specie del genere talvolta disponibile nei nostri vivai, anche nella forma 'Variegata' o 'Tricolor', con foglie dai margini crema. Per circa due secoli, l'isolotto artificiale di Dejima fu l'unico punto d'incontro tra il Giappone e l'Occidente; tra mille limitazioni, fu soprattutto grazie ai medici della VOC, la Compagnia olandese delle Indie orientali (e ai loro interpreti giapponesi), se da una parte il Giappone scoprì qualcosa della scienza e della tecnologia europee, dall'altra filtrarono in Europa le prime notizie sulla cultura e la natura giapponesi. Il pioniere di questo incontro difficile fu Engelbert Kaempfer, che alla fine del Seicento lavorò come medico e chirurgo a Dejima per due anni e mezzo, osservando, annotando, disegnando tutto il possibile con occhio di curioso e rigore di scienziato. Del Giappone del suo tempo gli interessava tutto, ma riservò uno spazio particolare alla flora, scrivendo la primissima Flora japonica, con circa 200 specie. Tra tutte, la più famosa è Ginkgo biloba; e si deve proprio a Kaempfer il piccolo errore di trascrizione che ha trasformato il giapponese ginkio in ginkgo, traendo in inganno Linneo, grande ammiratore del pioniere degli studi nipponici, cui dedicò il genere Kaempferia. La strada per il Giappone passa dalla Persia Quando il medico tedesco Engelbert Kaempfer arrivò in Giappone per prendere servizio nella minuscola stazione commerciale di Dejima, situata in un isolotto artificiale nella baia di Nagasaki (ne ho parlato qui) era un già un viaggiatore di lungo corso. Il suo vero cognome era Kemper, ma più tardi lo cambiò in Kaempffer o Kempfer, che significa «guerriero, combattente», quasi un emblema del suo carattere. Nato nella contea di Lippe, un piccolo stato periferico della Germania settentrionale, incominciò i suoi vagabondaggi da studente, passando da un'università all'altra finché su laureò in filosofia a Danzica; continuò poi gli studi in medicina a Cracovia e Köningsberg. Nel 1681 si trasferì a Stoccolma; entrato in contatto con politici influenti, fu assunto come medico e segretario di legazione della seconda ambasciata svedese in Persia, guidata da Ludvig Fabritius, un militare e diplomatico di origine olandese. Il lungo viaggio tra Stoccolma e Isfahan, la capitale della Persia safavide, durò quasi esattamente un anno, da marzo 1683 a marzo 1684. Lungo il cammino, che portò la delegazione ad attraversare la Finlandia, la Livonia, l'impero russo, per poi navigare sul mar Caspio e percorrere l'Iran settentrionale, animato da una forte curiosità intellettuale e probabilmente già intenzionato a trasformare le sue avventure in un libro di viaggi, Kaempfer raccolse ogni possibile informazione, visitò siti storici e curiosità naturali (tra cui i campi petroliferi di Badkubeh, oggi Baku), prese misure e tracciò mappe, disegnò oggetti, intervistò ogni sorta di informatori. Kaempfer rimase a Isfahan circa venti mesi (marzo 1684-novembre 1685), imparò il persiano e il turco, e visitò sistematicamente la città, compresi diversi giardini, facendo molti disegni. Come membro della legazione svedese, ebbe accesso alla corte, dove poté osservare edifici, costumi, rituali, comportamenti. Al termine della missione decise di non rientrare in Svezia, ma di cercare un ingaggio nella VOC, che aveva una base commerciale anche a Gamron (oggi Bandar Abbas) sul golfo Persico. Per raggiungerla si aggregò a una carovana; durante il viaggio visitò Shiraz, il monte Benna e Persepoli. Qui abbandonò i compagni di viaggio per studiare le antiche rovine: misurò meticolosamente gli edifici, trascrisse alcune iscrizioni e fu il primo a notare che i caratteri avevano forma di cuneo. Giunto a Bandar Abbas negli ultimi giorni del 1685, vi rimase bloccato per due anni e mezzo, anche se la detestava con tutto il cuore: «È la città più infertile, arida, calda, pestilenziale del mondo, quella che più assomiglia all’inferno di tutto il globo» . In quel clima infernale Kaempfer si ammalò gravemente; per riprendersi, andò a passare i mesi estivi in montagna; quindi visitò le piantagioni di palma da dattero, raccogliendo informazioni sulle caratteristiche botaniche, la coltivazione, l’importanza commerciale. Solo dopo vari mesi, fu assunto come medico della base della VOC. Per circa un anno, dal giugno 1688, lavorò come medico di bordo sulla Copelle, una nave della VOC che commerciava nei porti indiani; nell’agosto 1689, era a Batavia, dove presentò domanda senza successo per essere assegnato all’ospedale della Compagna. Pensava di rimanere a Giava, di cui conosceva la ricchezza floristica, ma quando gli venne offerto il posto di chirurgo a Dejima, accettò. Sarebbe rimasto in Giappone due anni, dal settembre 1690 all’ottobre 1692. A caccia di piante giapponesi La condizione degli olandesi a Dejima era di semiprigionia: non potevano uscire liberamente dall'isola, ogni loro movimento era sorvegliato (per ogni olandese c'erano almeno dieci sorveglianti, tutti a carico della VOC), non avevano contatti al di fuori della stazione, era loro negato l'accesso a qualsiasi oggetto considerato sensibile dalle autorità (vietatissime le mappe). Nonostante tutti questi limiti, Kaempfer seppe sfruttare ogni occasione per raccogliere una grande messe di informazioni sulla vita quotidiana, i costumi, la religione, la storia naturale. Conquistò l’amicizia (e le confidenze) di varie persone con cure gratuite, medicine, lezioni di medicina e matematica. Di grande aiuto fu l'assistenza del giovane Imamura Iensei, che gli fu affiancato come interprete e allo stesso tempo come apprendista di medicina e chirurgia occidentali; il ragazzo, colto, abile e intelligente, imparò rapidamente l’olandese, e rimase a fianco di Kaempfer, cui era legato da grande venerazione, fino alla fine del suo soggiorno a Dejima, accompagnandolo anche nei due viaggi a Edo. Grazie a lui, altri interpreti, pazienti, medici che praticavano la medicina occidentale, Kaempfer poté procurarsi libri (compresa un’enciclopedia illustrata), mappe, disegni, oggetti di varia natura, sebbene in teoria fosse vietato. Anche il suo amore per le piante, molto ammirato dai giapponesi, funzionò come una sorta di passaporto, che gli permetteva di dedicarsi a indagini su oggetti sensibili in tutta tranquillità: «Sistemavo apertamente erbe, fiori e rami verdi accanto ai miei strumenti, e mentre li misuravo, li esaminavo, li descrivevo e li disegnavo, ne approfittavo per descrivere e disegnare tutto quello che volevo». Nella primavera del 1691 e del 1692, i due viaggi a Edo, durante i quali la delegazione olandese attraversò il Kyushu per imbarcarsi alla volta di Osaka e quindi percorse il Tokaido, la più celebre e affollata strada dell’antico Giappone, gli permisero di conoscere di persona alcune delle regioni più importanti del paese e di raccogliere campioni di animali e piante: attività non proibita, anzi apprezzata dai giapponesi, tanto che i suoi accompagnatori (e sorveglianti), incluso il governatore, spesso gli portavano qualche pianta. Per rendersi indipendente dagli interpreti, con il suo talento per le lingue imparò le frasi necessarie per informarsi su dati come il periodo di fioritura o la fruttificazione. Kaempfer lasciò Dejima il 30 ottobre 1692 e rientrò in Olanda via Giava circa un anno dopo. Non avendo completato gli studi di medicina, per poter esercitare la professione in Europa si iscrisse all’Università di Leida, dove ottenne la laurea magistrale. Forse sperava di inserirsi nell’ambiente accademico olandese o tedesco, ma non gli fu possibile. Nel 1694, dopo un’assenza di ventitré anni, ritornò in patria e dovette rassegnarsi a vivere in una realtà provinciale, prima nella cittadina di Lemgo, poi al servizio del conte di Lippe. Gli impegni professionali gli lasciarono poco tempo per rivedere i suoi scritti, senza contare un matrimonio infelice sfociato in una causa legale; riuscì solo a completare e a veder pubblicata Amoenitates exoticae, una raccolta di saggi in cinque parti, le prime quattro dedicate alla Persia, la quinta al Giappone. Quest’ultima comprende saggi su argomenti come l’agopuntura, l’uso della moxa, il tè, il sakoku (termine introdotto proprio da Kaempfer), e una Flora japonica con la descrizione di circa 200 piante; i limiti delle sue finanze gli permisero però di far stampare solo 28 dei suoi numerosissimi disegni. A ricordarci l’importanza del suo contributo alla conoscenza della flora nipponica, le venti specie giapponesi che portano l'epiteto kaempferi; tra di esse Larix kaempferi, Rhododendron kaempferi, Broussonetia kaempferi. Fu il primo a descrivere e disegnare piante oggi notissime come Ginkgo biloba, Pittosporum tobira, Ophiopogon japonicum. Talvolta gli si attribuisce l’introduzione del primo ginkgo in Europa, ma in realtà i due esemplari più antichi, che si trovano rispettivamente a Utrecht e Geetbets, furono piantati almeno trent’anni dopo . Si deve invece a lui (o al tipografo che compose Amoenitates exoticae) l’errore di trascrizione a causa del quale il giapponese ginkio divenne ginkgo. Rimasero manoscritti i due progetti più ambiziosi di Kaempfer: la relazione completa dei suoi viaggi e il libro sul Giappone Huetiges Japan («Il Giappone di oggi»). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1716, gli erbari e i manoscritti furono acquistati dal medico e collezionista inglese Hans Sloane, che finanziò la pubblicazione dell'edizione inglese curata dal naturalista svizzero Johann Caspar Scheuchzer, History of Japan (1727). Quasi trent’anni dopo il viaggio giapponese e undici anni dopo la morte di Kaempfer, l’opera ebbe un successo sensazionale e presto fu tradotta in altre lingue europee, forgiando per almeno un secolo l'immagine del Giappone in Occidente. Non meno profondo e permanente fu l’impatto sulla cultura europea delle pagine dedicate alla corte persiana e alle antichità di Persepoli. Una sintesi della vita di questo grande viaggiatore nella sezione biografie. Kaempferia, profumi tropicali La Flora japonica contenuta in Amoenitates exoticae costituisce la fonte principale di Linneo per le piante giapponesi; morto nel 1778 e già malato da tempo, egli infatti non poté giovarsi delle ricerche dell’allievo Carl Peter Thunberg. Non stupisce dunque la sua dedica del genere Kaempferia a quel pioniere dello studio della flora nipponica, così motivata in Hortus Cliffortianus: «Ho dedicato questo genere al curiosissimo viaggiatore Kaempfer, al quale dobbiamo la conoscenza delle piante giapponesi e la loro accurata descrizione». Il genere Kaempferia L. (famiglia Zingiberaceae) comprende una quarantina di specie di piante erbacee originarie dell’Asia tropicale e subtropicale (India, Indocina, Cina meridionale, Malaysia, arcipelago indonesiano), con centro di diversità nel bacino del Mekong. Di piccole dimensioni, hanno radici rizomatose aromatiche che producono da una o poche foglie ovoidali o tondeggianti raccolte a rosetta, che in alcune specie sono marcate d’argento o porpora; i fiori, che in genere spuntano al livello del terreno, in alcune specie prima delle foglie, sono profumati e relativamente vistosi. Diverse specie fanno parte della farmacopea tradizionale o sono usate come spezie: ad esempio, le foglie di K. galanga (il cui aroma ricorda quello di Alpinia galanga, del resto appartenente alla stessa famiglia) sono un ingrediente comune della cucina di Giava e Bali, mentre le radici hanno proprietà antibatteriche, digestive e diuretiche. Alcune specie sono coltivate come piante d’appartamento; una delle più notevoli è K. elegans, una piccola erbacea non più alta di 20 cm, apprezzata, più che per i piccoli fiori lilla, per le foglie vistosamente marcate d’argento. K. pulchra è simile, ma con marcature scure. Qualche informazione in più nella scheda. Nel Seicento, l'Olanda vive il suo secolo d'oro. E' il paese più prospero d'Europa, all’avanguardia nei commerci, nelle scienze, nella cultura, nell’arte. E nei giardini: gli olandesi, sfruttando la loro secolare esperienza nel sottrarre terra al mare, ridisegnano la natura e creano un nuovo modello di giardino, in cui le siepi sagomate dalle forbici dei giardinieri disegnano stanze, padiglioni, teatri di verzura. A differenza del giardino all’italiana, in cui il verde domina, il giardino barocco olandese è colmo di fiori, con parterre multicolori simili ai tappeti persiani tanto amati da Vermeer o Rembrandt. Molti mercanti che si sono arricchiti con i traffici o le industrie investono il loro denaro in tenute di campagna che spesso ospitano vasti giardini, uno status symbol del loro potere e della loro ricchezza. Non possono mancare collezioni di piante esotiche: sono alla base della prosperità dell'Olanda e sono anche il simbolo del suo dominio sul mondo, il segno tangibile di quel nuovo Eden, paradiso in terra ricostruito, che per qualche decennio i Paesi Bassi si illudono di essere. E così non è un caso se Paul Hermann, il più importante botanico olandese del secolo, battezza Paradisus batavus, "Paradiso olandese", il suo libro dedicato alle rarità coltivate in quei giardini. Rarità che molto ha contribuito a introdurre in Europa, prima come esploratore del Capo di Buona Speranza e dell'isola di Ceylon, poi come direttore dell'Orto botanico di Leida. Linneo lo stimava tanto da proclamarlo "principe dei botanici" e da dedicargli, complice Pitton de Tournefort, il genere Hermannia. Sud Africa, Ceylon... Leida Nel 1658, dopo una lunga guerra in cui intervenne a fianco dei sovrani locali (che ancora non sapevano che stavano per sostituire un occupante con l'altro), la VOC (Verenigde Oost-Indische Compagnie, Compagnia olandese delle Indie orientali) espulse definitivamente il Portogallo da Ceylon (oggi Sri Lanka). Da quel momento, esercitò il monopolio del commercio della cannella dell'isola, la migliore in assoluto. Ma impiegati e ufficiali si ammalavano con allarmante frequenza di malattie sconosciute in Europa che i farmacisti e i chirurghi al servizio della Compagnia non sapevano come curare; le medicine portate dall'Europa nel clima tropicale non sempre servivano e perdevano presto la loro efficacia; era urgente studiare la flora locale alla ricerca di piante medicinali alternative. Un influente uomo politico, Hieronymus van Beverningh, che era anche un accanito collezionista di piante esotiche, e il prefetto dell'orto botanico di Leida Arnold Seyen raccomandarono il giovane medico tedesco Paul Hermann (1646-1695), da poco laureato alla prestigiosa università di Padova; si dice fosse interessato alle piante fin da bambino, quando, a dieci anni, rischiò di annegare per esaminare delle piante acquatiche. I suoi sponsor speravano che, oltre a soddisfare gli obiettivi della Compagnia, potesse anche arricchire le loro collezioni. Dunque, in un certo senso Hermann è il primo cacciatore di piante al servizio di un orto botanico. Partito per Ceylon all'inizio del 1672, ad aprile approfittò dello scalo al Capo di Buona Speranza per raccogliere piante sudafricane; e altrettanto fece durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1680. A parte il precedente della piccola raccolta di Justus Heurnius (che però era un teologo, non un botanico), si tratta del primo contatto di un botanico europeo con la flora del Capo. Con gli esemplari raccolti (circa 800, secondo la testimonianza di Linneo) formò un erbario; spedì semi e bulbi in Olanda, e altri li affidò al chirurgo di bordo Hieremias Stolle, di ritorno in Europa. Questi a sua volta li passò all'anatomista danese Thomas Bartholin che nel 1775 pubblicò la breve nota "Plantae novae Africanae", la prima pubblicazione a stampa dedicata esclusivamente a piante sudafricane. A Ceylon, come "medico ordinario e medico capo" della VOC, Hermann si stabilì a Colombo, sede del quartier generale della Compagnia; creò e diresse un ospedale, esplorò assiduamente la flora dei dintorni, annotando i nomi locali e le proprietà medicinali delle piante. Con questi materiali mise insieme diversi libri di erbari e almeno un volume di illustrazioni (non è certo se di sua mano o di altri anonimi disegnatori); inoltre inviò più volte bulbi e semi in Olanda. Sebbene siano limitate alla zona intorno a Colombo (gli olandesi controllavano solo alcune aree costiere) e includano anche diverse specie coltivate introdotte, le sue raccolte sono impressionanti per quantità e per la qualità delle annotazioni, senza contare l'eccezionale valore storico, trattandosi del primo studioso europeo a esplorare la flora dell'isola, ai suoi occhi un vero Eden. Intorno al 1674 visitò anche brevemente il Malabar dove forse incontrò van Rheede, che potrebbe averlo consultato per il progetto che poi divenne Hortus malabaricus. L'esplorazione della flora singalese diede grande fama a Hermann, tanto che nel 1678, alla morte di Arnold Seyen, i rettori dell'Università di Leida decisero di chiamarlo a succedergli come professore di botanica e prefetto dell'Orto. Hermann accettò e tra la fine del 1679 e l'inizio del 1680 lasciò Ceylon per tornare in Olanda. Nelle sue lezioni, fu il primo botanico olandese a prestare attenzione alla tassonomia; creò anche un proprio sistema, basato sui frutti, che univa e modificava quelli di Ray e Morison. Oltre che a Leida, fu adottato in altri orti botanici, tra cui Uppsala ai tempi di Rudbeck il vecchio. Deciso a fare dell'Orto di Leida il migliore d'Europa, solitamente dedicava le pause accademiche a viaggi in altri paesi europei per consultare colleghi e appassionati e procurarsi piante; nel 1682 fu in l'Inghilterra, dove visitò tra l'altro gli orti botanici di Oxford e Chelsea, e ne riportò più di 200 piante vive (soprattutto nord americane); nel 1688 andò a Parigi ad incontrare Tournefort; qui strinse amicizia con l’inglese William Sherard, che decise di seguirlo a Leida. Dal 1686, assunse anche l'insegnamento di medicina pratica. Durante la sua gestione, l'orto botanico di Leida divenne il principale centro europeo di acclimatazione e diffusione delle piante provenienti dalle colonie americane, africane e asiatiche. Oltre alle sue introduzioni dirette dall'India e dal Sud Africa, poté sfruttare i suoi contatti con la VOC e con i principali collezionisti olandesi, nonché con l'Inghilterra e la Francia, per triplicare le collezioni (il suo catalogo del 1687 registra tremila specie, contro le circa 800 di inizio secolo); molte erano subtropicali o tropicali. Nel 1681, fu tra i primi a sperimentare una serra riscaldata. Olanda, un secondo Eden? Hermann morì nel 1695 a soli 49 anni (qui una sintesi biografica), lasciando incomplete e inedite diverse opere; l’unico suo libro pubblicato in vita fu infatti il catalogo dell’orto botanico di Leida (1687). Quella a cui teneva di più, e a cui lavorava da diversi anni, era Paradisus batavus, un catalogo illustrato delle piante di recente introduzione nei giardini olandesi. Già nel 1689 l'affezionato Sherard ne aveva pubblicato l’indice, e alla morte inaspettata del maestro e amico si assunse il compito (ingrato, visto lo stato del manoscritto) di curarne la pubblicazione; a spese della vedova di Hermann, l’opera uscì in una prima edizione relativamente economica in ottavo nel 1695, e in una seconda più pregevole edizione in quarto nel 1705 . Entrambe comprendono un centinaio di calcografie, su disegni in gran parte di mano dello stesso Hermann; per numerose specie, si tratta della prima immagine a stampa. Nonostante sia un lavoro diseguale (a causa della morte dell’autore, le piante sono trattate in modo variamente esteso e in alcuni casi l'illustrazione è priva di note d'accompagnamento) è di estremo interesse per la storia dell’introduzione delle piante orticole; tra di esse, come ho raccontato in questo post, le prime due orchidee tropicali coltivate in Europa. Ma è anche un documento in presa diretta della civiltà olandese del giardino nel secolo d’oro. Tra i giardini citati, oltre agli orti botanici di Leida e Amsterdam e a quelli principeschi di William e Mary (divenuti sovrani d’Inghilterra nel 1689, in seguito alla gloriosa rivoluzione), quelli di importanti uomini politici: il suo protettore Hieronymus van Beverningh, il segretario degli stati d’Olanda Simon van Beaumont, il pensionario di Haarlem Gaspar Fagel, il ciambellano Willem Bentinck (poi primo duca di Portland). Per questi uomini di potere, i giardini e il collezionismo di piante esotiche e rare avevano un preciso significato ideologico: come leggiamo in Den Nederlandtsen Hovenier , il popolare manuale di giardinaggio scritto da Jan van der Groen (circa 1635-1672), capo giardiniere dello statolder, la caduta di Adamo aveva reso imperfetta la natura, ma l’arte, la domesticazione e l’ordine potevano restituire la perfezione perduta e i giardini erano la prova materiale della riuscita dell’impresa. Il titolo del libro di Hermann, Paradisus batavus «paradiso olandese», si rifà esplicitamente a questa ideologia. Nel 1717, le note di campo scritte da Hermann a Ceylon furono pubblicate, sempre da Sherard, sotto il titolo Musaeum Zeylanicum. Ma per la storia della botanica sono molti più importanti gli erbari. Hermann aveva raccolto centinaia di esemplari sia per sé, sia per i suoi sponsor; al rientro da Ceylon, consegnò almeno un libro d’erbario a Beverningh e un altro a Jan Commelin, direttore dell'orto botanico di Amsterdan. Dopo la sua morte, la vedova, probabilmente per finanziare la stampa di Paradisus batavus, vendette il resto all’asta. Per cinquant’anni, se ne perse ogni traccia, finché nel 1744 giunsero nelle mani del farmacista reale danese August Günther cinque volumi, quattro d’erbario e uno di disegni. Günther li prestò a Linneo, che se ne servì sia per la sua unica pubblicazione sulla flora asiatica, Flora Zeylanica, sia per le piante singalesi di Species plantarum. Dopo diversi altri passaggi, il prezioso erbario fu acquistato da Joseph Banks e fa oggi parte delle collezioni del Natural History Museum di Londra. Il volume appartenuto a Commelin fu invece studiato dal botanico olandese Johannes Burman per il suo Thesaurus Zeylanicus. Deliziose (e misconoscite) Hermanniae Hermann era stimatissimo dai botanici della generazione immediatamente successiva: Boerhaave lo definì «incomparabile per la conoscenza delle piante», Johannes Burman lo chiamò «sommo lume dell’Università di Leida». Quanto a Linneo, che premise a Flora Zeylanica una biografia di Hermann così elogiativa da sconfinare nella agiografia, lo salutò «principe dei botanici», un titolo che di solito riservava a se stesso, e scrisse: «Non c’era al mondo un botanico pari a Hermann per i meriti e le scoperte» . Grande stima ne aveva anche Tournefort che gli dedicò il genere Hermannia , sulla base dell’unica specie allora nota (nome attuale Hermannia hyssopifolia), una delle acquisizioni sudafricane di Hermann; il genere fu poi fatto proprio da Linneo . Hermannia L. della famiglia Malvaceae è un grande genere soprattutto sudafricano, dunque perfetto per celebrare il primo esploratore della flora del Capo. A parte una specie australiana e pochissime specie distribuite tra Messico e zone adiacenti degli Stati Uniti, buona parte delle circa 160 specie sono africane, 81 delle quali endemiche del Sud Africa, soprattutto delle province del Capo occidentale e settentrionale. Il genere è molto vario, e si è adattato a un’altrettanto grande varietà di ambienti. Sono piante erbacee o piccoli arbusti, spesso striscianti. Le specie che vivono nel veld tendono a lignificare alla base e a formare un fusto legnoso sotterraneo, in grado di superare i periodi di siccità o anche gli incendi. Anche se sono poco utilizzate nei giardini, molte specie sono assai decorative grazie alle masse di fiori penduli a campana, spesso in delicati colori pastello. Ne troverete una piccola selezione nella scheda. Dopo Euricius e Valerius Cordus, un'altra coppia padre-figlio della Germania del Cinquecento: quella costituita dai due Joachim Camerarius, il Vecchio e il Giovane. Il primo in gioventù fu amico di Euricius, poi divenne una colonna dell'intellighenzia luterana e un notissimo filologo; il secondo studiò in Italia, divenne un medico conteso da principi e sovrani, il riformatore della medicina della sua città, l'autore di un noto testo sugli emblemi, a metà tra erudizione, filosofia morale e naturalismo. Per noi è soprattutto un creatore di giardini: il suo, ricchissimo di piante esotiche, e quelli che aiutò a realizzare o progettò per il langravio d'Assia e il vescovo di Eichstätt. Proprio come quest'ultimo esiste ormai solo nelle magnifiche figure di Hortus Eystettensis, così anche il giardino di Camerarius sopravvive nelle pagine di un libro e di un manoscritto. Auspice Plumier, Linneo gli dedicò il piccolo genere Cameraria. Un emblematico figlio d'arte Abbiamo incontrato Joachim Camerarius il Vecchio (1500-1574) a Erfurt nel 1520, quando, ventenne, aprì una sfortunata scuola latina insieme a Euricius Cordus. Dopo quell'infelice esordio, divenne un intellettuale di punta del Luteranesimo. Professore a Wittenberg, fu a fianco di Melantone che aiutò a scrivere la Confessione augustana; più tardi ne fu anche il primo biografo. Ebbe un ruolo importante nella riforma in senso protestante delle università di Tubinga (insieme a Fuchs) e di Lipsia, dove visse dal 1539 alla morte. Fu uno dei maggiori umanisti della sua generazione, autore di opere di vario argomento e di numerose traduzioni, nonché curatore di fondamentali edizioni critiche, la più importante delle quale è la prima edizione a stampa del testo greco del Tetrabiblos di Tolomeo. Suo figlio Joachim, che per distinguerlo dal padre è noto come Camerarius il Giovane (1534-1598), cresciuto in questa atmosfera intellettuale, poté giovarsi della fitta rete di contatti del padre, che includeva importanti umanisti e le maggiori personalità del mondo riformato. Dopo aver ricevuto un'ottima formazione classica a Wittenberg con Melantone e a Lipsia con il padre, si orientò verso la medicina. Il suo primo maestro fu Johann Crato von Krafftheim, medico cittadino a Breslavia, che si era laureato a Padova e gli consigliò di fare lo stesso; fu così che nel 1559 Joachim il Giovane partì per l’Italia. Per due anni seguì i corsi a Padova, poi si spostò a Bologna dove si laureò con Ulisse Aldrovandi, con il quale sarebbe rimasto in corrispondenza per tutta la vita. In Italia strinse preziosi legami con molti altri naturalisti, che gli sarebbero stati molto utili al suo ritorno in Germania. Infatti Camerarius il Giovane, oltre che un medico di notevole talento, era anche un umanista e un collezionista che non avrebbe potuto né scrivere le sue opere né arricchire le sue collezioni e il suo giardino senza il contributo di tanti amici e corrispondenti. Dopo la laurea nel 1562, viaggiò ancora per qualche mese in Italia quindi rientrò a Norimberga che sarebbe rimasta la sua residenza fino alla morte. Divenne medico cittadino; la sua competenza era tale che spesso veniva consultato da principi e sovrani. Fu anche molto impegnato nella riforma della medicina della sua città; nel 1571 propose al Consiglio cittadino di istituire un Collegium Medicum che ne regolasse la pratica: solo i medici laureati dovevano essere autorizzati a fare diagnosi e i farmacisti dovevano essere posti sotto il controllo dei medici. Il Collegium venne infine istituito nel 1592 e Camerarius ne fu il decano fino alla morte. Oltre a scrivere di argomenti medici, Camerarius era un intellettuale di vasti interessi, un appassionato collezionista di immagini, piante, minerali, fossili, oggetti naturali in genere. Alla morte di Gessner, di cui era amico, fu lui ad acquistarne i manoscritti e i disegni. Gli studi naturalistici, la competenza di filologo, il moralismo di matrice luterana e il fascino per le immagini si conciliano in Symbola et emblemata, un'opera in quattro libri (o centurie), ciascuno dei quali contiene cento emblemi. Essa si inquadra in un filone che ebbe ampio successo tra tardo Cinquecento e Seicento, quello dei libri di emblemi, ma se ne distingue perché Camerarius sceglie i suoi emblemi esclusivamente dal mondo naturale: le piante (I libro), i quadrupedi (II libro), gli uccelli e i volatili (III libro), gli animali acquatici (IV libro). Ognuno dei quattrocento emblemi ha una struttura quadripartita: sulla pagina di sinistra, l’emblema vero e proprio, un’immagine posta in una cornice circolare, simile a una medaglia; lo sormonta il motto, una frase sentenziosa contenente un insegnamento morale; al piede un epigramma in versi; sulla pagina di destra, un commento con riferimenti sia ad autori classici o alla Bibbia, sia alla letteratura naturalistica. Le immagini, dovute al pittore e incisore Hans Siebmacher e realizzate con la tecnica allora nuova della calcografia, sono assai attraenti e furono riutilizzate per secoli. Giardini veri (e filosofici), giardini dipinti Come molti naturalisti del tempo, Camerarius aveva vasti interessi, ma la botanica era il suo campo d'elezione: è stato notato che in Symbola et emblemata, i testi delle centurie sugli animali sono per lo più un collage della letteratura di riferimento, mentre nella centuria sulle piante si nota una profonda conoscenza diretta e sono frequenti le osservazioni di prima mano. Infatti, a partire dal 1569 Camerarius poteva studiarle nel suo giardino, dove accanto ai semplici c'erano moltissime piante esotiche; era considerato il più raffinato della Germania meridionale. A farci sapere che cosa vi coltivasse, provvide lo stesso Camerarius con la sua maggiore opera di botanica, Hortus Medicus et Philosophicus , che di quel giardino è almeno in parte il catalogo. Seguito da un opuscolo di Johann Thal sulla flora della regione dello Harz e illustrato da xilografie di Jost Amman e altri artisti, tra cui Joachim Jungermann (nipote di Camerarius), contiene una lista in ordine alfabetico di piante adatte alla coltivazione nei giardini tedeschi di cui vengono forniti i nomi, i sinonimi, la provenienza e note di coltivazione; lo stile è sintetico e le note erudite sono sporadiche, così come le eventuali proprietà officinali. Dalla medicina farmaceutica, l’interesse si va spostando verso le piante in sé, come sottolinea il titolo: hortus medicus sì, ma anche philosophicus, ovvero scientifico: è ora che le piante, da ingrediente delle ricette dei medici, diventino oggetto di studio dei naturalisti. Ci sono piante native, magari alpine, il cui interesse estetico è emerso dai viaggi dei primi esploratori della flora locale, come Valerius Cordus e Gessner, ma moltissime sono esotiche, soprattutto provenienti dall’Italia e dal Mediterraneo orientale. Alcune delle specie che Camerarius coltivava nel suo giardino erano souvenir dei suoi viaggi in Italia come il “bellissimo Antirrhinum dai fiori gialli che cresce spontaneo tra Savona e Genova" . Molte le acquistava dai mercanti di Norimberga che si rifornivano soprattutto ad Anversa, la porta europea delle piante provenienti dalle Indie orientali e occidentali. Ma moltissime le aveva avute da altri botanici e appassionati: il fornitore più assiduo probabilmente era Carolus Clusius, che in quegli anni era a Vienna ed aveva accesso alle specie provenienti dall’Impero ottomano; ma le piante del Levante gli arrivavano anche dai contatti italiani: Aldrovandi, i prefetti di Padova Guilandino e Cortuso, il farmacista Calzolari, i botanici viaggiatori Prospero Alpini e Giuseppe Casabona, prefetto dell'orto di Firenze. Nel 1568 il langravio Gugliemo IV di Assia-Kassel fece allestire uno spettacolare giardino nell'isola di Fulda, ai piedi del suo castello di Kassel. Per selezionare le piante più adatte, si avvalse della consulenza di Camerarius, che gli mise a disposizione i suoi contatti e aiutò il giardiniere capo, che faceva continuamente la spola tra Kassel e Norimberga, a procurarsi piante e elementi decorativi presso i mercanti della città. Era considerato il massimo esperto di giardinaggio della Germania, era un uomo colto e raffinato abituato a frequentare principi e corti; è dunque logico che il vescovo Johann Konrad von Gemmingen abbia pensato a lui quando decise di creare un giardino senza pari a Eichstätt. Il fatto che fosse luterano, evidentemente, non era un ostacolo. Tuttavia Camerarius morì quasi subito e il compito, come ho raccontato in questo post, passò al meno colto ma molto intraprendente Basilius Besler. Ci sono però legami molto forti tra l'Hortus Eystettensis (inteso sia come giardino sia come libro) e il giardino dello stesso Camerarius, Non solo talee, bulbi, barbatelle e semi passarono da un giardino all'altro, ma il vecchio medico e botanico anticipò il progetto del vescovo di far ritrarre dal vero le piante di Eichstätt facendo eseguire uno splendido florilegio manoscritto che documenta le più belle e rare specie del suo giardino. Mai pubblicato, il Camerarius Florilegium si credeva perduto finché venne riscoperto all'inizio del secolo e messo all'asta da Christie nel 2002. Ad aggiudicarselo è stata la biblioteca di Erlangen. È una spettacolare opera d’arte che ritrae 473 specie coltivate, indigene o esotiche, per lo più a grandezza naturale, disposte secondo la successione delle stagioni. Alcune sono collocate in vasi, altre affiancate sulla stessa pagina in una composizione armonica, che anticipa, appunto, lo stile di Hortus Eystattensis. I disegni, allo stesso tempo accurati e di grande qualità estetica, non sono firmati; è stato fatto il nome di Joachim Jungermann, il nipote di Camerarius, che aveva eseguito alcuni dei disegni di Hortus medicus et philosphicus. L'esotica (e poco nota) Cameraria Riprendendo un suggerimento di Plumier, in Species Plantarum Linneo ha voluto ricordare Camerarius con il genere Cameraria. Appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, è un piccolo genere di appena sette specie, quattro delle quali endemiche di Cuba, due di Haiti e una sola presente anche nell'America continentale, in una stretta fascia tra Messico meridionale e Guatemala. Come molte rappresentanti di questa famiglia, sono piante attraenti, ma tossiche. Sono piccoli alberi o arbusti con foglie intere, lucide, e fiori di piccole dimensioni, bianchi, con tubo corollino a imbuto e cinque lobi a stella. La specie più nota e diffusa è C. latifolia, un elegante alberello con fiori bianchi, che secerne un lattice bianco tossico utilizzato dagli indigeni per avvelenare le frecce. Tuttavia la radice e la corteccia hanno diversi usi officinali. Un elenco delle specie con la distribuzione nella scheda. A Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca a Roma, un tempo si poteva leggere la commovente epigrafe funebre di un giovane rapito agli amici da una febbre crudele; era di carattere gentile ed amabile; pieno di talento, conosceva le erbe e sapeva svelare i segreti della natura a quelli più vecchi di lui; non contento di aver esplorato la Germania, era venuto in Italia spinto dalla sete di conoscenza. Ma la natura matrigna, che non ammette che si carpiscano i suoi segreti, lo spazzò via, a soli ventinove anni. Quel "giovane meraviglioso" era il botanico tedesco Valerius Cordus, morto a Roma l'ultima settimana di settembre 1544 martire del suo amore per il sapere, il primo di una lunghissima serie di naturalisti periti per la scienza. Cresciuto tra le erbe fin dalla culla, come ricorda Plumier dedicandogli il genere Cordia, se il destino gli avesse concesso ancora qualche anno forse avrebbe cambiato la storia della botanica. Talis pater, talis filius Intorno al 1515, Heinrich Ritze (1485-1535) viveva nel villaggio di Simsthausen dove lavorava come cancelliere della vedova del langravio; fare lo scrivano non era ciò che sognava da ragazzo, quando frequentava la scuola latina di Marburg e i circoli umanistici dell'Assia. Poi si era iscritto all'università e aveva cominciato a farsi conoscere per i suoi versi in latino; aveva persino trovato uno splendido pseudonimo: Euricius Cordus, il bravo Enrichetto nato tardi (era l'ultimo di tredici figli). Ma mancavano i soldi per continuare gli studi; era stato costretto a tornare al paesello, si era trovato un lavoro, e a poco più di vent'anni si era sposato. Forse si sarebbe rassegnato, ma non voleva questo destino per i suoi figli, che intanto si stavano moltiplicando (ne ebbe in tutto otto). A loro voleva dare altre opportunità, e seguire di persona la loro educazione. Fu così che a quasi trent'anni Euricius Cordus tornò sui banchi dell'università di Erfurt e si laureò in lingue antiche e filologia. Insieme a due amici, il poeta Eobanus Hessus (che in realtà si chiamava Koch) e Joachim Camerarius il vecchio (che invece si chiamava Kammermeister) nel 1520 aprì una scuola latina a Erfurt. Non potevano scegliere un momento peggiore, con il paese scosso dalla Riforma luterana, alla quale tra l'altro tutti e tre avevano aderito con entusiasmo. La scuola chiuse presto i battenti e Euricius, per mantenere la famiglia, decise di diventare medico. Grazie a uno sponsor, partì per l'Italia e si laureò nella prestigiosa università di Ferrara, dove fece in tempo ad essere uno degli ultimi allievi del medico umanista Niccolò Leoniceno, all'epoca ultranovantenne. Dal suo maestro imparò soprattutto due cose: leggere gli antichi con spirito critico e studiare le piante dal vivo, non solo sui libri. Dopo aver lavorato per qualche tempo come medico cittadino a Braunschweig, nel 1527 il langravio Filippo di Assia lo chiamò a insegnare medicina a Marburg, nella prima università riformata. Qui Euricius divenne l'idolo degli studenti e lo zimbello dei suoi colleghi: che razza di professore era, uno che invece di spiegare Dioscoride e Galeno portava i suoi allievi a scarpinare in campagna a cercare piante nei boschi e nei fossi? Cordus, che era famoso per la ferocia dei suoi epigrammi, rispondeva letteralmente per le rime, finché i suoi nemici la ebbero vinta e lo espulsero dal Senato accademico. Dopo sette anni di insegnamento, fu costretto a lasciare l'università e trasferirsi a Brema, di nuovo come medico cittadino; qui morì un anno dopo, ad appena 49 anni. Una testimonianza diretta del suo metodo di insegnamento e del suo approccio alla botanica è la sua unica opera sulle piante, Botanologicon (ovvero "Dialogo sulle erbe"), sotto forma di dialogo tra lo stesso Cordus e quattro suoi ex allievi dei tempi di Erfurt. Insieme ai suoi ospiti visitiamo il piccolo orto dei semplici che il medico aveva creato accanto alla sua casa, e poi partecipiamo a un'escursione botanica per raggiungere il più ricco giardino che egli aveva allestito fuori città, una specie di orto botanico ante litteram. Per identificare le piante, uno degli ospiti ha portato due libri: Materia medica di Dioscoride e l'ultima novità editoriale, le prime due parti di Herbarum novae eicones di Brunfels. Prima a casa, dove fanno colazione, poi in giardino, quindi lungo il cammino, i cinque discutono dell'argomento preferito dei botanici del Rinascimento: la corretta identificazione delle piante di Dioscoride. Cordus è un grande filologo (e il più importante poeta satirico del Rinascimento tedesco), ma la sua conoscenza delle piante non è libresca: deriva dalla consuetudine quotidiana e amorevole. E' stato in Italia, e, a differenza di Brunfels, gli è chiaro che le piante che crescono in Germania non sono le stesse dei paesi mediterranei e non ha senso cercare di identificarle a forza con le piante di Dioscoride. Tanto meno bisogna fidarsi delle etichette dei vasi dei farmacisti, che spacciano tutt'altro sotto i nomi delle piante degli antichi. Purtroppo il suo libro, un dialogo dotto in latino, senza figure, non è mai diventato un bestseller come gli erbari illustrati di Brunfels e Fuchs; Cordus non è mai entrato nel canone dei "padri tedeschi della botanica"; ma oltre a questo piccolo libro, ha dato alla botanica un altro lascito: suo figlio Valerius, che fa capolino in qualche riga del Botanologicon. All'epoca ha quindici o sedici anni e suo padre lo descrive come «un ragazzo diligente e uno studioso osservatore». Fin da piccolissimo, ha dimostrato un ingegno precoce e, come dirà Plumier, è stato allevato tra le erbe fin dalla culla. E' il migliore allievo di Euricius che gli ha insegnato a padroneggiare perfettamente il latino e il greco (tanto che consegue il baccalaureato a sedici anni) ma soprattutto ad amare, studiare, osservare le piante. Un giovane geniale e una morte tragica Quando il padre muore, Valerius ha diciannove anni. Va a vivere a Lipsia da suo zio Johannes Ralla (uno degli interlocutori del Botanologicon); studia all'università, ma contemporaneamente lavora nella farmacia di famiglia, e impara tutto quello che c'è da imparare sulla preparazione dei farmaci e anche sulla chimica. Su suggerimento dello zio, scrive un prontuario delle ricette in uso nelle farmacie: per Valerius, è solo un passatempo, un'esercitazione, senza nulla di originale, ma suo zio lo stima tanto che attraverso alcuni amici lo fa pervenire a Norimberga, dove avrà l'onore di essere adottato come farmacopea ufficiale della città, la prima al di là delle Alpi. Nel 1539 Valerius si trasferisce a Witteberg, per completare gli studi e laurearsi in medicina. Tra i suoi insegnanti, c'è anche Filippo Melantone. Contemporaneamente, tiene lezioni in cui commenta Dioscoride; sono molto brillanti e attirano numerosi studenti, anche dall'estero. Uno di loro è il francese Pierre Belon (1517-1564), che ha appena due anni in meno e diventa un amico. Molti anni dopo la morte di Cordus, sulla base degli appunti di qualche allievo, Gessner pubblicherà questi Commentari insieme alla Historia stirpium. Il giovane è assetato di sapere e non tralascia la chimica, tanto che nel 1540 è il primo a sintetizzare l'etere. Si interessa di mineralogia e geologia, ma la sua vera passione sono le piante. Nei momenti di sospensione dell'attività didattica, da solo o in compagnia di amici-allievi come Belon, perlustra la Germania centrale e meridionale, per raccogliere campioni di minerali ma soprattutto per studiare le piante dal vivo, nel loro ambiente naturale. Abbiamo visto che lo faceva anche Bock, ma il suo era un approccio da autodidatta, per così dire d'istinto. Invece Valerius ha una conoscenza perfetta delle lingue classiche, conosce a memoria i testi di Dioscoride e soci, ed è dotato di una strabiliante memoria fotografica: gli basta aver letto la descrizione di una pianta per riconoscerla la prima volta che la vede. Ha una mente filosofica e fin da bambino è abituato a osservare, confrontare, dedurre. Non è interessato solo alle virtù medicinali delle erbe, ma alle piante di per sé e, come avrebbe detto Teofrasto, è alla ricerca di un metodo "proprio" per studiarle. Entro il 1542, ha messo insieme un manoscritto in quattro libri, suddivisi in 446 capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a una specie. Nel 1544 si laurea in medicina e parte per l'Italia (dove era già stato due anni prima per seguire corsi a Padova e Ferrara), deciso ad estendere le sue ricerche alla penisola, per verificare se le piante descritte da Dioscoride trovano una più stretta corrispondenza nella flora mediterranea. Vuole anche incontrare i botanici italiani e imparare dalle loro esperienze all'avanguardia. Viaggia con uno dei suoi professori di Wittenberg, il medico e astronomo Hyeronimus Schreiber, e due allievi francesi, uno dei quali molto probabilmente va identificato in Pierre Belon. Visitano molte città, tra cui Padova, Venezia, Bologna e Firenze; a Bologna si trattengono a lungo, per fare visita a Luca Ghini. Verso la metà di settembre sono a Siena, da dove intendono raggiungere Roma attraversando la Maremma. E' una zona notoriamente insalubre, infestata dalla malaria, ma anche ricca di piante particolari, dunque irresistibile per Valerius che si addentra dove non dovrebbe. E' così che molto probabilmente contrae la malaria; forse è già ammalato quando viene ferito a una gamba dal calcio di un cavallo. E' una brutta ferita e la febbre sale rapidamente; i suoi compagni con grande fatica riescono a trasportarlo a Roma, dove sono accolti da altri amici della comunità tedesca. Valerius sembra riprendersi, tanto che Schreiber e i due francesi decidono di proseguire per Napoli; ma quando rientrano a Roma, scoprono che il loro amico è morto. Dopo una battaglia con le autorità pontificie (come luterano eretico il suo cadavere rischia di essere gettato nel Tevere) possono infine farlo seppellire a Santa Maria dell'Anima, la chiesa della nazione tedesca. Il loro strazio e la consapevolezza di quanto sua irreparabile per la scienza la perdita di quella giovane vita traspare dalla lapide funeraria, che purtroppo non esiste più ma ci è stata tramandata da un viaggiatore secentesco: "Per Valerius Cordus di Simsthausen in Assia, figlio di Euricio, medico e poeta. Con il suo carattere innocente, il suo talento e la sua straordinaria gentilezza si guadagnò l'ammirazione di tutti i medici. Lui giovane spiegava a quelli più vecchi i misteri della natura e le virtù delle piante. Dopo aver vagato per la Germania, poiché la sua sete di conoscenza non poteva essere soddisfatta, venne in Italia dove fu tenuto in molto onore, ma era appena arrivato a Roma quando fu spazzato via da una febbre crudele al culmine dei 29 anni, mentre le lacrime degli amici scorrevano per l'insostituibile perdita per la scienza". Seguono alcuni distici che chiamano in causa la natura matrigna gelosa dei suoi segreti e il crudele dio Apollo. Una sintesi della breve vita di colui che possiamo considerare il primo martire della botanica nella sezione biografie. Un'opera pionieristica e la nascita della fitografia Che la perdita per la scienza fosse gravissima è innegabile. Per fortuna, benché giovanissimo, Valerius aveva già scritto molto, ma le sue opere (ad eccezione di Dispensatorium pharmacorum omnium, la farmacopea scritta per Norimberga) vennero pubblicate più di vent'anni dopo la sua morte. Il manoscritto di Historia stirpium venne inviato a Gessner, che ne capì immediatamente il valore e si diede da fare perché fosse stampato; ma purtroppo accettò la proposta dell'editore Rihelius, che deteneva le tavole dell'erbario di Bock, di accompagnare il testo con circa 250 illustrazioni; dato che molte piante non erano mai state descritte in precedenze e Gessner non le conosceva, egli commise molti errori nell'associare le figure al testo; errori che più tardi vennero ingiustamente attributi all'autore anziché al curatore. Nonostante ciò, l'importanza dell'opera di Cordus non sfuggì a grandi botanici come Tournefort e Haller: per il primo egli fu "il primo a eccellere nella descrizione delle piante"; per il secondo fu "il primo a rompere con la dipendenza dalle povere descrizioni degli antichi e a descrivere nuovamente le piante dal vero". Secondo il botanico statunitense Spargue, che ne fu in un certo senso lo scopritore dopo secoli di oblio, "supera di gran lunga Bock per l'esattezza e la natura dettagliata delle sue descrizioni, che ne fanno il vero padre della fitografia". In effetti Cordus, invece di prendere a modello le descrizioni di Dioscoride, come avevano fatto tutti i botanici prima di lui, inventò un metodo del tutto innovativo, che non teorizzò in modo esplicito, ma che è possibile ricavare dalle sue descrizioni. In primo luogo, egli presenta ciascuna pianta dal punto di vista di un osservatore che abbia davanti a sé non un campione di erbario, ma una pianta viva, un esemplare maturo, o almeno nel momento della fioritura; e torna ad osservarla nel momento della fruttificazione, non trascurando mai frutti e semi. La descrizione inizia con la parte più cospicua, più evidente per l'osservatore: per le piante erbacee, prima le foglie, poi il fusto; per le piante con fusto significativo, prima il fusto poi le foglie. Il terzo elemento è il fiore, di cui indica la stagione di fioritura e descrive con precisione analitica calice e corolla. Passa poi al frutto e ai semi, descritti sempre in modo molto preciso, annotando ad esempio il numero di celle, le linee di deiscenza, il numero e la forma dei semi. L'ultimo elemento è quasi sempre la radice, che l'osservatore non vede senza estrarre la pianta dal terreno; è il contrario di quanto facevano gli antichi che partivano proprio da quella, di solito la parte della pianta più importante dal punto di vista erboristico. Per le piante erbacee, se gli è noto, non manca di indicare se sono perenni, biennali o annuali; inoltre aggiunge elementi come il colore, il gusto, l'odore (secondo suo padre, una caratteristica essenziale per il riconoscimento). Benché Valerius avesse lavorato per anni in una farmacia e fosse un esperto di farmaci, le informazioni sulle proprietà officinali sono ridotte al minimo: è chiara la sua intenzione di emancipare la botanica descrittiva dagli usi pratici. Lo schema è applicato sia alle piante nuove (in tutto 66) sia a quelle descritte dagli antichi, di cui non copia mai le descrizioni, come aveva fatto invece lo stesso Bock. Cordus dedicò particolare cura all'osservazione e alla descrizione delle infiorescenze; fu il primo dopo Teofrasto a distinguere le infiorescenze centrifughe (con fioritura dal centro verso l'esterno) e centripete (con fioritura dall'esterno verso il centro), fornendo una descrizione molto precisa delle complesse infiorescenze delle umbellifere. Fu il primo a chiamare corimbo l'infiorescenza di diverse comuni composite, e descrisse con precisione le brattee (anche se il nome non esisteva ancora). Esaminò e descrisse una dozzina di felci (tra l'altro, è il primo a descrivere Matteuccia struthiopteris). A proposito della felce maschio Dryopteris filix-mas scrive: "Cresce copiosamente sulle rocce umide, anche se non produce né fusti, né fiori, né semi. Ma si riproduce da sola per mezzo della polvere che si sviluppa sulla pagina inferiore delle foglie, come tutte le felci". Egli è infatti il primo a capire a grandi linee il meccanismo di riproduzione delle felci e che quella "polvere" è qualcosa di diverso dai semi. In Historia stirpium le piante sono distinte in erbacee (I e II libro), arbustive e arboree (III e IV libro. Dato che nel primo libro sono esaminate "Diverse erbe" e nel secondo "Piante la cui storia è stata trasmessa in modo inesatto dagli antichi, o sono state omesse del tutto", ne consegue che specie, che oggi assegneremmo alla stessa famiglia, o anche allo stesso genere, si trovano separate. Ciò nonostante Greene, che ha studiato molto attentamente i raggruppamenti interni dell'opera di Cordus, dimostra che egli aveva individuato, anche se non esposto in modo esplicito, diversi gruppi naturali, basati fondamentalmente sulle strutture del fiore. E' una grande novità che anticipa di oltre un secolo gli sviluppi della botanica; Cesalpino, che scrive parecchi decenni dopo ed è l'autore del primo tentativo di classificazione delle piante, ignorerà quasi del tutto i fiori, e si baserà invece sui frutti e sui semi (il cui legame con i fiori di cui sono la trasformazione gli era molto meno chiaro che a Cordus); e infatti Greene conclude il suo esame della "tassonomia implicita" di Cordus con queste parole: "Cesalpino, della fine del XVI secolo, è considerato il fondatore della Botanica sistematica. Ma se Valerius Cordus avesse potuto vivere altri ventinove anni, è facile pensare che il grande italiano avrebbe perso i suoi allori". Cordia, un genere mille usi Come molti botanici del Rinascimento, anche Valerius Cordus deve il suo ingresso nella nomenclatura botanica a padre Plumier, che come sempre sa trovare le parole giuste: "Valerius Cordus di Simsthausen in Assia nacque dal medico e famosissimo poeta Euricius Cordus. Fu sommo commentatore di Dioscoride e felicissimo indagatore di piante precedentemente sconosciute. Fu infiammato dall'esempio di tanto padre, che fin dalla culla volle educarlo tra erbe e fiori". Poi validato da Linneo, il genere Cordia, della famiglia Boraginaceae, comprende circa 250 specie di alberi e arbusti distribuiti nella fascia tropicale e subtropicale di America, Africa, Asia e Oceania. E' presente in vari ambienti, con molte specie notevoli per diverse ragioni. Alcune specie arboree trovano impiego come alberi da legname; quello più pregiato, detto bocote, ricavato da diverse specie messicane e centro americane, è caratterizzato da una piacevole trama zebrata e da proprietà acustiche che lo fanno apprezzare per la costruzione di strumenti musicali; impieghi simili ha il legname di C. dodecandra, noto come ziricote. Molte specie producono frutti eduli, consumati crudi, cotti o come sottaceti, come è il caso di C. dichotoma, una specie asiatica e australiana di ampia diffusione i cui frutti immaturi sottaceto sono una specialità di Taiwan. Il loro nocciolo ha proprietà medicinali, come varie parti di altre specie di questo versatile genere. Non mancano neppure gli usi ornamentali: sono piante dal bel portamento ordinato con vistose fioriture, anche se purtroppo adatte solo ai climi più miti. Forse la più bella, o per lo meno quella che più si fa notare, è C. sebestena, un alberello originario di un'area che va dalla Florida al Centro America, caratterizzato da rutilanti fiori rosso aranciato. Di grande impatto estetico anche due arbusti con fiori bianchi provenienti dagli Stati Uniti meridionali, C. boissieri e C. parviflora, notevoli per la resistenza alla siccità e la prolungata fioritura. Qualche approfondimento nella scheda. |
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CimbalariaAppassionata da sempre di piante e giardini, mi incuriosiscono gli strani nomi delle piante. Un numero non piccolo di nomi generici sono stati creati in onore dei personaggi più diversi. Vorrei condividere qui le loro storie e quelle delle piante cui sono legati. Archivi
March 2024
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